Carmelo Bene e Luisa Viglietti: una storia estromessa

 

di Alessio Paiano

 

 

Quando si tratta del fenomeno Carmelo Bene ci si trova sempre di fronte a due poli che ruotano uno sull’altro, la vita e l’opera, che si completano e si respingono allo stesso tempo; così diventa necessario, per una ricognizione completa dell’artista, integrare una dimensione con l’altra per colmare spazi vuoti o irrisolti. Non accade raramente di riscontrare tra i superstiti/seguaci del fenomeno CB (o presunti tali) delle appropriazioni indebite, come se l’’artista’ avesse ceduto il passo a una sua comoda riduzione, che fa comodo a molti: il ‘personaggio’ che ne deriva, adattabile sia nel caso in cui lo si voglia trasformare in un prodotto d’élite, sia che lo si investa di connotazioni ideologiche di dubbia valenza (il Bene anti-potere, il Bene anti-casta delle ultime apparizioni televisive), ritaglia sfaccettature forse corrette ma parziali. Carmelo Bene è stato uno dei pochi artisti del Novecento ad aver frequentato ogni forma artistica disponibile, a cui si aggiunge la presenza televisiva nel corso degli anni Novanta, così nei fan più gelosi del mito beniano questa parentesi sarebbe la più irrilevante e addirittura dannosa, avendo portato a un volgarizzamento dell’artista. Ma Bene ha sempre avuto come unico riferimento la demolizione del linguaggio maggioritario e delle sue funzioni moralistiche e retoriche, come già gli riconosceva Deleuze negli anni Settanta in un saggio poi confluito in Sovrapposizioni (1978); per questo appare del tutto naturale come Bene non potesse lasciare insoluto il conflitto col mezzo televisivo dopo essersi abbattuto, negli anni, contro il teatro, il cinema, il romanzo e la poesia (parlo del mal de’ fiori, poema mastodontico pubblicato da Bompiani nel 2000). A ogni riduzione, a ogni confinamento e pretesa di conoscibilità esclusiva e totale di Carmelo Bene segue idealmente la sonora pernacchia che lui stesso dedicò a chi cercava di ingabbiarlo in improbabili affiliazioni politiche.

Verrebbe da dire: al filologo bastano le opere, al seguace bastano le parole del personaggio da cui trarre una sorta di verità rivelata. Eppure entrambe non si bastano a vicenda. Ben venga allora questo libro a firma di Luisa Viglietti, sua compagna di vita e di arte come costumista e assistente dal 1994 fino alla scomparsa, poiché costituisce un tassello importante per comprendere gli aspetti inediti dell’ultima fase dell’artista. Nella sua prefazione a Cominciò che era finita (Edizioni dell’Asino, 2020) Goffredo Fofi descrive il volume alla stregua di un dono, ben consapevole (in quanto stretto collaboratore di Bene) del gioco a cui Carmelo Bene ha sottoposto tutti, spettatori, critica e fedeli, tranne quelli che ne hanno da sempre compreso il meccanismo: uno scivolamento continuo tra realtà e finzione che passa dalla mitizzazione di sé e della propria opera, tanto da rendersi necessaria prima la stesura di un’autobiografia definita «rischiosissima, reale e immaginaria», Sono apparso alla Madonna (1983), poi di una Vita di Carmelo Bene (1998) architettata con Giancarlo Dotto. Architettata, appunto, poiché si tratta di una storia guidata dal suo stesso oggetto di ricerca, come a fare gli ultimi conti con un’esistenza incomprensibile, poiché quello che da sempre interessa non è la Storia, la biografia documentata dei fatti, ma tutto ciò che non è mai avvenuto e non è stato conoscibile poiché estromesso dai suoi stessi artefici. Così Bene ne parla nell’incipit di Lorenzaccio (1986):

«Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei “fatti” accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall’incoscienza dei rispettivi attori (perché si dia un’azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno»[1].

Carmelo Bene, che ben conosceva i cortocircuiti dell’essere-parlante attraverso le lezioni di Freud, Lacan, De Saussure e avendo per questo, alla stregua dei mistici (su tutti San Juan de la Cruz e Teresa d’Avila) connotato la propria esistenza di una nostalgica inconoscibilità, risolve così i conti con la propria storia: quello che si può sapere, che si crede di sapere e che non si può sapere si ritrova contemporaneamente sulla scena, in un paradosso che Deleuze, parlando del suo cinema, aveva raffigurato tramite l’immagine-cristallo («l’eterna fondazione del tempo, il tempo non-cronologico»[2]) mentre Jean-Paul Manganaro, da un punto di vista più sostanziale, nella pratica dello slittamento («Egli propone una forma e intanto la smentisce, produce appunto uno slittamento rispetto al paradigma appena affermato»[3]). Cosa ci fa dunque sapere in più Luisa Viglietti? Nel suo racconto si avvicendano dettagli di vita quotidiana e i retroscena riguardanti le opere del periodo, sia in teatro con l’Hamlet Suite e Pinocchio sia in televisione, lo strumento a cui Carmelo Bene sembra dedicare maggiore attenzione in questa fase; fino all’esordio nel millennio con mal de’ fiori, di cui Viglietti fornisce informazioni filologiche e ricorda il tentativo di dialogo da parte di Bene con gli altri poeti, che a parte qualche complimento privato lo esclusero dai loro circuiti, probabilmente (a nostro avviso) per la distanza assoluta, sotto vari punti di vista, con le opere del suo tempo – di tutta risposta a questo isolamento, Bene non evitò commenti sprezzanti sulla poesia delle «anime belle», «comunicativa, edificante, a volte satura di decadentismo smidollato».

Cominciò che era finita contiene una serie di notizie inedite sulle opere e curiosità a tratti sbalorditive per chi custodisce l’immagine del mito, anche se i più semplici gesti di quotidianità domestica venivano portati da lui su un piano differente: così, se Viglietti racconta come in quegli anni Bene fosse rimasto sedotto dalla televisione, il suo non era mai un ruolo da spettatore passivo (un contrappasso impossibile), ma uno studio attento di quei ‘buchi neri del linguaggio’ che dichiarava di aver ritrovato lì, nei talk-show dove ci si parla addosso (Bruno Vespa), spesso con esiti inconcludenti o confusionari (Gigi Marzullo), senza mai perdersi un solo programma sportivo; evitava e disprezzava la TV delle vallette e delle showgirl, anche se nella storia delle apparizioni ‘improbabili’ rimane la partecipazione a Macao (1997) condotto da Alba Parietti, che da questo libro sappiamo essere una gentile prova di stima per Carlo Freccero, il quale da direttore di Rai 2 vorrà alcune messe in onda tra cui il Pinocchio del 1999:

Per la scena dell’arrivo dell’omino di burro con il carro dei ciuchini all’appuntamento con Lucignolo e Pinocchio, Carmelo mi chiese di vestirmi da Lucignolo per pochi secondi.  La scena iniziava con Sonia/Omino di burro che entrava guidando il carro, io/Lucignolo e Carmelo/ Pinocchio, ci avvicinavamo e saltavamo in groppa agli asinelli. Al primo ciak Carmelo anziché appoggiarsi con il fianco alla sella del ciuchino a dondolo, come avevamo fatto alle prove, alzò la gamba destra e ci montò sopra, l’afferrai da dietro per la cintola dei pantaloni per non farlo cadere, nessuno se ne accorse. Buona la prima! Appena finito di girare la sequenza lo accusai di essere un incosciente, lui con un sorriso di soddisfazione mi disse che era da quando li aveva visti la prima volta che desiderava farlo. (p. 143)

Ovviamente, non si parla solo di studio, arte e lavoro: al centro resta la relazione tra i due, l’amore quotidiano delle scelte d’arredo, delle cene esagerate cucinate da Carmelo (di cui Viglietti riporta le ricette, sempre le stesse ripetute ossessivamente, per dosi e ingredienti eccessive come il cuoco), degli screzi per motivi fin troppo comuni nelle coppie, che ne fanno però una storia credibilissima e tangibile. Infatti è proprio questo restituire (finalmente!) la dimensione umana dell’uomo-Carmelo Bene il grande merito del volume: ne fuoriesce, e Viglietti non ha remore nel descriverlo, un uomo solo, separatosi fin dalla giovinezza dai famigliari, di cui restano però le tracce di un’educazione fortemente matriarcale e da qui, probabilmente, il rapporto difficile con le attrici, che l’autrice cerca di comprendere, senza condannare né giustificare. Vengono poi nominati i pochi amici, a cui Bene dava molta importanza, tanto da rimanere vittima di alcune prove di generosità non ricambiata; e poi l’idiosincrasia con le spiagge d’Otranto («vuoi diventare cretina, il sole è micidiale»), l’incontro non esaltante con Umberto Eco, la paura di essere fissato dagli occhi indagatori dei bambini, le incomprensioni con l’Università di Lecce che rifiutò all’ultimo di conferirgli la laurea honoris causa (non «buon esempio per i giovani», secondo il rettore), la scoperta della malattia e la sparizione, che Viglietti racconta in maniera lucida e priva di ogni patetismo, forse anche dall’esempio di quell’uomo così abituato a darsi del tutto in scena ma così rigido nel privato. Eppure, ci racconta l’autrice, la notte prima di uno degli interventi chirurgici a cui dovette sottoporsi, pensava a quel figlio, Alessandro, avuto dalla prima moglie Giuliana Rossi e morto a quattro anni, nel 1965; un lutto inconfessabile, secondo Viglietti:

Mi parlò del dolore più grande della sua vita, la perdita di suo figlio Alessandro. Quella notte Carmelo mi parlò a lungo di quel bambino, e del dolore che nel corso di tutti quegli anni non aveva mai trovato pace. Mai prima di allora ne aveva parlato in quel modo. Quella notte riuscì a raccontarmi quanto aveva rimosso per tutta la sua vita. (p. 180)

Soprattutto il libro dà una risposta a un quesito che si pongono tutti coloro che ne riconoscono il genio: che fine ha fatto la memoria Carmelo Bene? Ma la domanda corretta è un’altra: che fine avrebbe dovuto fare la memoria di Carmelo Bene? Il testamento dell’artista prevedeva difatti la creazione della Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene, naufragata per vicende giudiziarie a dir poco pirandelliane. Le pagine più drammatiche per il lettore sono forse queste, che Viglietti preferisce come al solito ripercorrere in maniera analitica, affidandosi più ai verbali che agli impeti emotivi. Cominciò che era finita è allora il tentativo di scrollarsi di dosso almeno una parte di questa storia dal peso enorme: nel finale, donandosi al lettore con estrema sincerità mediante il racconto della sua storia personale e famigliare, Luisa Viglietti vuole testimoniare l’incontro di due solitudini che si salvano a vicenda. Una storia per anni estromessa e che questo libro finalmente restituisce, per il bene di chi resta. «Abbandonati tutti gli eccessi non gli restava che essere normale. Con un cuore grande come il suo sarebbe stato sì un’eccezione».

 

 

[1] Bene, Lorenzaccio, in Autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995, p. 9.

[2] Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989.

[3] Manganaro, Il pettinatore di comete, in Bene, Otello, o la deficienza della donna, Milano, Feltrinelli, 1981.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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