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Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh #3

 

di R. Umamaheshwari

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima e qui la seconda. Quella che segue è la terza.

23 Marzo 2020.

Tutti noi (intendo dovunque nel mondo il virus ci colpisce) siamo totalmente alla mercé dello Stato? E il virus ci ha sospinti tutti dentro? Da un certo punto di vista, ci si sta forse chiedendo di fare qualche passo indietro rispetto al modello di frenetica competizione, di ingiustizia nell’ordine economico? Ci si sta chiedendo di approfittare del tempo di questo lockdown per immergerci nel silenzio che ci circonda, fermarci, disfare e rifare?

A Shimla, che altrimenti in questo periodo estivo sarebbe invasa dai turisti e immersa nel commercio, adesso vediamo i macachi e le scimmie grey langurs che mangiano soltanto ciò che dovrebbero: i fiori di rododendro, le foglie e la frutta dagli alberi, invece di ingoiare gli hamburger e gli snack che qualche turista dà loro o che loro stesse sgraffignano dalle borse.

Le scimmie sembrano persino un po’ più gentili adesso. Tutto sembra appena lavato, pulito e naturale. Il messaggio che ne deriva, più forte di prima, è che quando l’economia cresce solo in verticale, senza una forte base orizzontale, che sia inclusiva per le diverse popolazioni e anche per le forme di vita non umane, finisce per collassare sotto il peso di qualunque microscopico virus che abbia un potenziale di diffusione. Passando in rassegna le città dell’India che hanno riportato i più gravi casi di contagio da Covid 19, si tratta di quelle che sono cresciute di più verticalmente, con un’espansione esponenziale, e con le politiche ambientali più spregiudicate ed ecologicamente disastrose. È là che noi vediamo oggi aumentare i numeri, nonostante il lockdown. Parlando di Hyderabad, negli ultimi dieci anni la città ha usurpato alcune migliaia di acri di fertile terra coltivabile per diventare “la grande Hyderabad”. La realizzazione di questo progetto è stata la meno pianificata tra tutte, con altissimi edifici che sporgono sul nulla.

Gli spazi verdi sono irrisori, se paragonati a quelli di altre città. Mumbai è un altro di questi esempi. Così sono anche tutte quelle città dove il settore immobiliare è cresciuto senza regole e senza piani regolatori. Qual è la natura dello Stato in questo momento, dovunque, in questo momento in cui il mondo è infettato dal virus? Che effetti, positivi o negativi, ha avuto questa situazione sulla crisi? Stranamente, ogni stato colpito dal virus e che ha fatto ricorso a misure estreme di lockdown totale, ha avuto anche altri problemi specifici da affrontare nell’ultimo anno. In Francia, per esempio, abbiamo visto il movimento dei gilet jaune, cominciato nel 2018. E dal 2017 la Francia è stata attraversata da proteste degli impiegati del pubblico settore (incluse le ferrovie, che hanno messo in atto un lungo sciopero di mesi), contro i tentativi del governo Macron di ridurre il budget del settore pubblico. Ci sono state anche alcune proteste studentesche nel Paese, nel 2017 e nel 2018. Il governo degli Stati Uniti ha continuato la sua politica nei confronti dell’immigrazione (specialmente quella messicana) e ha messo in atto alcune radicali politiche protezionistiche. In India, negli ultimi mesi del 2019, abbiamo avuto movimenti studenteschi di protesta, duramente repressi, allo stesso modo di quelli che protestavano contro il Citizenship Amendment Act e il National Register of Citizens – entrambi oggetto di un duro dibattito, fino alle elezioni e all’arrivo del virus.

A Delhi, la gente ha messo in atto un lunghissimo sit-in di protesta contro il Citizenship Act, nel quartiere di Shaheen Bagh. Gli Italiani, allo stesso modo, hanno protestato contro le politiche sull’immigrazione del loro governo; il Regno Unito ha assistito a un lunghissimo dibattito sulla Brexit, seguito da una crescente protesta contro le misure di austerità, finalizzate specialmente a tagli degli investimenti pubblici nel settore dell’istruzione, della salute, etc. E’ abbastanza strano il fatto che i temi dell’immigrazione, dello “straniero”, della privatizzazione del settore pubblico, sono stati comuni a tutti gli Stati durante il lockdown, ed il dibattito su questi temi è stato fortemente influenzato dalla pandemia di Covid 19. È qualcosa su cui pensare. Oggi è il momento giusto per chiedersi in quale direzione stanno andando questi Paesi. Quale tipo di stato si sta cercando di mettere in piedi? L’accesso per i poveri o per le persone a basso reddito, o anziane all’assistenza sanitaria è una questione che si ripropone ogni volta che c’è una crisi. Ma il virus ha reso questo chiarissimo: in assenza di una sicurezza sociale, economica e politica, una pandemia è quasi come una guerra di armati contro disarmati.

 

25 Marzo. Il permesso prezioso, ovvero il pass per il coprifuoco.

Il 24 marzo il lockdown e il coprifuoco sono stati dichiarati insieme, cogliendo di sorpresa la popolazione, e spingendola a correre a destra e a manca per organizzarsi in vista di questo improvviso sconvolgimento. Ho completato il mio vaccino antirabbico e ho deciso di provare a ottenere un permesso per spostarmi in un paesino vicino Shimla, o nella sua periferia. Avevo deciso che era il posto migliore in cui stare in affitto durante il lockdown, in solitudine. Il fatto che poi io non sia riuscita nel progetto, dopo aver atteso dalle dieci del mattino alle otto e mezza di sera il permesso firmato dal Collector, è un altro discorso. C’erano alcuni che erano arrivati all’ufficio del Collector alle otto del mattino! Tra quelli che aspettavano per il permesso da molte ore c’erano stranamente anche giornalisti della televisione e della carta stampata. Molti di loro non avevano neanche potuto coprire la prima metà del primo giorno del lockdown per stare lì in attesa. L’intero processo evidenziava il potere di una firma che decideva a chi era permesso, e a chi no, fare ciò che aveva richiesto. La firma, o la sua assenza, non è necessariamente basata sull’urgenza o il reale bisogno della persona. Talvolta, nel bel mezzo del lavoro, un parente del ministero o un amico, per una ragione misteriosa, otteneva il permesso, superando le altre persone in coda.

 

Tra quelli che aspettavano in fila c’erano alcune persone con storie pietose, e altri con storie bizzarre. E mentre il processo di concessione dei permessi proseguiva, il Collector all’improvviso se ne andava a causa di un’importante videoconferenza con qualche papavero del ministero.

 

La situazione era allo stesso modo molesta per tutti, per il Collector, per il suo assistente, per l’usciere, e per tutti quelli che aspettavano impazientemente la loro firma. Ogni battito d’ali nell’ufficio del Collector ne produceva uno analogo tra la gente che aspettava che la sua domanda fosse firmata. Fra quelli in attesa c’erano anche migranti analfabeti, che avevano bisogno di qualcuno che li aiutasse a compilare la loro domanda, e che erano totalmente dipendenti dagli altri e inermi.

Come il lavoratore a giornata che veniva da Jammu, il cui contatto se n’era andato a Jammu, lasciandolo per strada, senza alcun riparo e sufficiente denaro.

Ad aspettare per il visto c’era anche un uomo con accanto il cadavere di un parente stretto, che doveva essere trasportato nel Punjab quello stesso giorno. Nel tempo che c’era voluto per ottenere il permesso di partire, il corpo era già stato restituito dall’obitorio e portato a lui in ambulanza. L’attesa per il permesso durò quasi cinque ore.

Un altro lavoratore a giornata accompagnato da un signore diabetico ha sopportato la rabbia dell’usciere più e più volte, cercando di spiegargli l’urgenza di portare il suo amico in ospedale. Finalmente, dopo aver atteso per quasi sei ore, ha ricevuto il permesso. Nel frattempo però l’ambulanza se ne era andata a causa di un’altra emergenza. L’uomo era tornato indietro, implorando che il termine “ambulanza” nella sua richiesta di permesso, potesse essere sostituito con “veicolo” in modo da poter prendere un taxi qualsiasi fino al Punjab. Nessuno ha saputo che cosa ne è stato di lui. I giornalisti, nel frattempo, non erano interessati a storie come questa; fino a quel momento neanche loro avevano il permesso per fare i reporter! O più semplicemente non gliene interessava molto. Io dovevo ottenere il permesso perché mi era stato consentito di stare nella guest house solo fino al 31 Marzo e non un giorno di più. Potevo avvertire la tensione tra tutta quella gente sbandata.

L’usciere era il più stressato di tutti, e si abbandonava alla rabbia e all’abuso quando la folla cominciava a pressare. I più poveri avevano più pazienza, benché le loro vite fossero letteralmente appese a quel pezzo di carta e a quella firma, e quindi non protestavano tanto quanto i più istruiti, incluse me, benché non ero la sola a non avere potuto toccare in quella attesa né cibo né acqua, per più di otto ore. Il ruolo del Reader (come viene designato), nell’ufficio del Collector, è il più scrupoloso di tutti. Non solamente deve leggere le domande, in fogli di carta compilati con scritture illeggibili in Hindi, ma anche interpretarle velocemete, tradurle (in inglese – dato che per qualche incomprensibile ragione il permesso deve essere in inglese) e sintetizzare in appena cinque righe tutto il contenuto. Una lunga lettera di candidatura – in cui si forniscono elaborate ragioni – diventa una breve nota con un timbro, una firma e una data, e un periodo di validità, entro il quale il permesso è valido. Che mirabile capacità di sintesi! E ci sono centinaia di domande da leggere, di continuo, senza sosta, dalle nove di mattina alle nove di sera. Giusto una brevissima pausa per un tè o un boccone, talvolta senza neanche staccare dal lavoro. Nel bel mezzo di tutto ciò, trovi anche, tra il personale, per quanto anche loro siano così sotto pressione, qualcuno che dimostri umanità e compassione per quei poveri sofferenti, offrendo tè o acqua, o anche semplicemente scambiando qualche parola. Quando finalmente il permesso arrivò, non prima comunque che un giornalista aiutasse a velocizzare il processo per tutti noi quella notte, avevo perso la voglia di partire, e sono crollata.

Questa fu la mia prima esperienza di richiesta di un permesso per il coprifuoco. Mi sono chiesta allora se non avrei dovuto invece prendere un permesso per poter tornare sul campo e riferire sulla situazione.

Invece, ho scelto di cercare un permesso per andare a vivere da qualche altra parte. Significava ancora qualcosa per me quel permesso, quando è arrivato? Cominciavo a dubitarne. Il cammino di ritorno – circa tre chilometri – dall’ufficio del Collector, fu ugualmente penoso, e per la prima volta, smarrii la strada, e ancora una volta trovai persone compassionevoli – facevano parte dello staff di un albergo a cinque stelle (e qualcuno di loro, tra parentesi, aveva protestato qualche mese prima per i tagli al personale) – che mi indicò la direzione, per non dimenticare i cani randagi che mi mostrarono la strada al backyard dell’hotel.

Il permesso, nel frattempo, andò a vuoto perché il mattino seguente io mi resi conto che c’è gente che sfrutta le persone in difficoltà. Invece di offrire aiuto ad una donna sola bloccata lì, preferiscono ricevere l’affitto nel loro conto in banca. Nel momento in cui ho pensato “solitudine”, avrei dovuto opporre a quel pensiero quello di “famiglia” e accettare l’invito e la generosità della famiglia, nel villaggio che amavo. E il permesso avrebbe avuto un cuore. E una valida ragione. Di certo ha più senso aiutare una famiglia rurale relativamente povera che dare un grosso affitto a proprietari di molteplici case, in molteplici città, e tenerle tutte sfitte. Molte persone che non sono dell’ Himachal, hanno le loro case estive in questo stato, la maggior parte delle quali chiuse per la maggior parte dell’anno, o affittate per prezzi esorbitanti. Non se ne parlava proprio di passare altre otto ore a cambiare il nome del villaggio ed essere di nuovo maltrattata dall’usciere! Mi sono anche reso conto che la gente offre aiuto per pura generosità dello spirito umano, piuttosto che per appartenenza politica, religiosa o altro. Quando questa generosità viene riversata su di noi, a volte è meglio accettarla in quel momento in cui viene elargita. I momenti sono di breve durata. E talora non tornano più. Ho sperimentato sia i cuori grandi che vivono in una stanza, che quelli piccoli che stanno negli appartamenti a tre stanze (stanza da letto, sala, cucina), sia in tempi normali che in tempi di crisi come questo. Quando Malli, il mio amico cane, era vivo, sono state le più piccole case a dare a entrambi i ripari più calorosi. In ogni caso, avendo imparato un’amara lezione da questa prima movimentata giornata, i permessi vengono ora forniti online, e anche le domande possono essere inoltrate online, almeno per quella gente che ha accesso ai computer. Non so per gli altri.

 

31 Marzo 2020. Viaggiatori da altre terre.

 

C’è un’umanità al di là di razza, nazione e cultura? Peter Smith e Sheela Sherwood, una coppia di anziani del Suffolk, Inghilterra, e Sebastian di Parigi, Francia, abitano in una residenza a Varkala, nel Kerala. Sono tutti arrivati in India prima che il virus assumesse le proporzioni di una pandemia. Mentre in tempi normali (e loro dovevano arrivare in Kerala prima), i turisti stranieri sarebbero stati più che benvenuti e sarebbero stati trattati come ospiti di riguardo, loro hanno sperimentato un leggero cambiamento nel comportamento della gente nei confronti degli “stranieri”, specialmente dopo che si è sparsa la voce che erano i turisti a portare il virus in India. Nonostante i pregiudizi, hanno comunque un padrone di casa gentile che li ha ospitati e soggiornano in un posto relativamente tranquillo, e quindi non l’hanno presa male. Peter e Sheela vedono che il loro governo non ha risposto alle loro richieste e non sanno se saranno aiutati a raggiungere casa loro, ora che il lockdown è in atto.

Pare che non abbiano ricevuto alcuna risposta alle loro mail sull’evoluzione dei piani del loro Paese a loro riguardo. Anche se stavano bene nella loro residenza, Peter diceva che era proprio l’assenza di una qualunque risposta a disturbarlo. Sebastian, d’altro canto, è felice di restare in Kerala per tutto il tempo della durata del suo visto (fino alla fine di giugno), perché si sente “a casa”; la Francia sta attraversando una crisi peggiore, a causa del Coronavirus, a suo parere. La pace e la quiete di un villaggio del Kerala sulla spiaggia è di gran lunga più accettabile dell’ondata di panico, benché sia molto preoccupato per i suoi genitori. Mi ha ricordato la mia idea per cui puoi rendere “casa” qualunque posto, se vuoi, se sei in pace con la tua situazione e con te stesso. E se tu accetti le culture e i popoli come fai con i tuoi, ogni posto è veramente casa. Al di là di confini e frontiere. Non c’è panico, né la sensazione di essere bloccati, in questi tre viaggiatori provenienti da differenti età, gruppi e Paesi. Ma c’è in definitiva un senso di preoccupazione per i loro vicini e i loro cari rimasti nei rispettivi Paesi e che si chiedono cosa ci riserverà il futuro. Sheela lavora in un pub mentre Peter è in una compagnia di costruzioni. Sebastian, nei giorni successivi, continuava a ricordarmi di altri turisti, dalla Svizzera e dalla Francia. Proprio come anche Peter e la sua compagna mi avevano detto, ho scoperto che, a quanto pare, il loro governo, quello del Regno Unito, ha messo in atto degli sforzi per riportare indietro dall’India i propri cittadini.

 

Personificazione di un Virus, espressioni culturali, idiomi religiosi.

C’è un messaggio di un dottore trasmesso sulla radio ogni giorno. Il dottore dice: “Questo virus ha un grande ego: non verrà nelle vostre case se non andate fuori e lo invitate. Così non uscire e non invitarlo. Stai a casa”. Poi ci sono messaggi nei quali il virus è chiamato un “demone”. Inizialmente, in gran parte, espressioni idiomatiche della guerra tratte dal Mahabharata (l’antico poema epico indiano di guerra); la conchiglia (in cui usualmente si soffia all’inizio di un rituale di buon auspicio), recitando un particolare verso sanscrito; lo yoga, e cose simili, sono stati costantemente enfatizzati nella “lotta contro il Coronavirus”. Che siano cristiane, buddiste, jaina, islamiche, Sikh o di differenti adivasi (comunità indigene), le preghiere o le espressioni idiomatiche non erano di solito visibili sulle piattaforme social o nella programmazione radiofonica abituale. Ma in ognuno di quei giorni, nel mese di marzo, sono stati diffusi alcuni messaggi di natura religiosa che la gente ha recepito. Uno di questi mirava a formare una “catena” di mille e otto persone per recitare un distico sanscrito (chiamato “Mrityunjaya mantra”, un verso dedicato al dio Hindu Shiva, creduto essere efficace nel custodire dalla morte e dalle malattie mortali); il 25 marzo, ho ricevuto notizie da una conoscente a Hyderabad a proposito di una recitazione comune di preghiere che si teneva in una sala vicino alla sua casa. Questo era successo il giorno in cui il Primo Ministro aveva dichiarato il coprifuoco “Janata” (del popolo). L’evento non era stato riportato, benché un giornalista era stato allertato al proposito. La stessa sera, di molte simili riunioni e processioni

(alcune con finalità religiose) si era data notizia in pochi canali televisivi in inglese e in hindi. Riunioni organizzate da gruppi di destra in piena vista rispetto al governo e all’amministrazione locale, durante il coprifuoco. Non si sa se un qualche provvedimento è stato preso contro queste persone a tale proposito. Il cinque aprile, il Primo Ministro dell’India ha fatto un altro appello pubblico alla popolazione per mostrare la propria gratitudine agli operatori sanitari in prima linea (“guerrieri del coronavirus”, come adesso vengono chiamati), facendo spegnere tutte le luci alle 9 pm per nove minuti (non sappiamo ancora il perché dei nove minuti) e chiedendo di accendere lampade o candele come gesto simbolico. Comunque, la gente non smette di farlo; molti sono usciti e hanno sparato petardi, nonostante il coprifuoco. Può essere osservato come in India la gente, di solito, accende petardi durante una festa della luce chiamata Dipavali; e nel sud dell’India, durante un’altra festa rituale celebrata in inverno. Ma ovviamente fanno questo anche in occasione della vittoria di un partito alle elezioni, o se l’India vince la partita di cricket, ai matrimoni e quando nasce un bambino. Ma sparare petardi quella notte è stato interpretato come assecondare un certo tipo di ritualità religiosa. Un agente immobiliare del Punjab che è anche un attivista sociale e politico (e al momento è impegnato a fornire cibo ai lavoratori migranti di alcuni cantieri del Punjab) mi ha suggerito la seguente interpretazione politica: una sorta di celebrazione del giorno della fondazione del maggiore partito dell’India, il BJP, che sarebbe caduta il giorno successivo, e dato che i petardi erano stati distribuiti per queste celebrazioni (senza Coronavirus, se le cose fossero state normali), i lavoratori e i sostenitori del partito forse li avevano usati per accenderli il giorno della manifestazione delle lampade, dimenticando il gran numero di persone che erano morte e la solennità del gesto nei confronti del personale medico e della sua corsa contro il tempo in tutto il mondo, e non solo in India. Forse questa è una spiegazione: una festa, un’affermazione egemonica e un’affermazione? Forse il virus non ha il potere di alterare troppo il discorso. O forse sì?

 

Come sarà il domani?

Mio nipote in Africa mi ha suggerito le immense possibilità di questa immersione mondiale nel silenzio (in mezzo alla pandemia): forse un giorno o una settimana di ogni mese potrebbe essere dedicata ai silenzi, con un approccio non monetario e con moderazione nei consumi. Liberare la terra, lasciarla respirare, lasciare che gli uccelli e gli animali e tutto ciò che è vita non umana semplicemente siano, in modo da avere spazi più puri di aria, di terra e di oceani. Così ci sarebbe una pausa all’interferenza umana e forse un modo per mitigare il cambiamento climatico. Il virus sembra volerci far comprendere che il momento presente non può continuare per sempre. E lo stato deve necessariamente lavorare a partire da una base più equa se vuole che la terra e tutto ciò che essa contiene continuino ad esistere.

(traduzione di Rosario G. Scalia, foto di R. Umamaheshwari)

 

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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