PIER PAOLO PASOLINI 3. Il tempo della caduta. L’omologazione antropologica degli italiani

di Luca Vidotto

Pasolini, nel 1974, riprende in mano le sue prime poesie friulane e ne scrive una nuova versione, aggiornata in base ai cambiamenti che si sono susseguiti nei trentatré anni che dividono le due raccolte. Il tono cambia radicalmente: l’Italia è, ormai, agli occhi del poeta, stravolta. Il nuovo potere e la moderna tecnica si sono fatti coscienza, causando il genocidio di quei corpi, poveri ma liberi e ricchi, che Pasolini aveva incontrato nella prima parte della sua vita. È stata annientata ogni forma alternativa di cultura, nell’istante stesso in cui risultava in opposizione a quella borghese, la quale, nella sua modernità, è totalmente irreligiosa e non lascia spazio a nessun sentimento che non sia lo sfrenato edonismo legato al consumo, trasformando ogni credenza e ogni culto antico in un insieme di gesti vuoti e parole incapaci di evocare alcunché, lasciando spazio unicamente alla fede nel progresso e nel benessere.
Sotto alla croce di Cristo si riunisce la sola carne vecchia degli anziani, che per fortuna d’anagrafe non riescono a comprendere totalmente il messaggio della modernità. Il sacro si è ridotto da alito vitale a puzzo putrescente, a una maschera di esangue ripetitività, in cui Cristo, la Madonna, Dio e lo spirito da simboli evocativi sono diventati niente più che parole mute e vani pensieri. L’etica cristiana è diventata patetica: la libertà è data dal potere d’acquisto, e si è tanto più liberi quanto maggiore è la possibilità di possedere. Il poter avere e l’aver potere fanno tutt’uno.
Le poesie in dialetto friulano che Pasolini scrisse un anno prima di morire si presentano irriconoscibili rispetto a quelle dei suoi vent’anni, e ciò risulta evidente fin dall’inizio della raccolta, nel confronto tra le due dediche a Casarsa. Così si esprime nel periodo fra il 1941 e il 1943:

 
Fontana di aga dal me país.

A no è aga pí fres-cia che tal me país.

Fontana di rustic amòur.1
 

Così nel 1974:

 

Fontana di aga di un país no me.

A no è aga pí vecia che ta chel país país.

Fontana di amòur par nissún.2

 

Durante la lettura de Le litanie del bel ragazzo restiamo colpiti da come il mondo contadino, che viveva sotto la luce dell’eternità, in cui tutto era chiaro e fermo, e non solo il riso e la serenità del cielo, ma anche la pioggia, le nubi e “un pianto d’inferno”3 erano avvolti in quella luce, non è ora altro che un mondo vecchio, che non ha più niente da dare, come il dialetto che un tempo lo animava. Ma, afferma Pasolini, “non sono vecchio io, è vecchio il mondo, vivendo fino in fondo, io muoio e lui no”4, perché quella terra friulana “non morendo, lascia chi vive senza fondo”5. Il cattolicesimo di cui era permeato si è stemperato, esangue, lasciando che la figura del Cristo, anche lì tra le campagne, si risolvesse completamente nella marca di blue-jeans Jesus: non c’è altro dio se non quello del consumo.
Lo stesso David, il «povero giovane», che avevamo già incontrato e che, «appoggiato al pozzo»6, ci aveva rivolto lo sguardo, ora diventa «un segno dei secoli» finiti per sempre e non più «di un Aprile», destinato ciclicamente a ritornare: nulla più che «una luce nella storia del niente»7.
La stessa gioia che provava Pasolini quando tornava nella sua terra materna, umile e poetica, viene totalmente stravolta e annebbiata da nuovi sentimenti: “Mi sono ingannato giocando al pellegrino che arriva come uno spirito nel mondo contadino. Ma era un gioco nel gioco, e adesso che tutti e due sono finiti nel fuoco spento della storia, maledico la storia che non è in me che non la voglio”8.
Ne Il canto delle campane, Pasolini in un certo senso spiega questo suo sentimento disperato.

 
I no rimplàns ‘na realtàt ma il so valòur.
I no rimplàns un mond ma il so coloùr.

Tornànt sensa cuàrp là che li ciampanis
a ciantavin peràulis di dovèir, sordis coma tons,

i no plans parsè che chel mond a no’l torna pí,
ma i plans parsè che il so tornà al è finít.9
 

Si è conclusa la storia dell’uomo, e ora inizia qualcosa di assolutamente nuovo, che si fa vanto di tale condizione, e che costruisce un mondo non più a misura d’uomo, ma assecondando nuove logiche tecnicizzate, che guardano all’individuo come se fosse un automa. L’atomismo sociale è becero, perché non si prefissa di cancellare ogni intimità fra gli uomini e la natura, ma reinventa il nostro ruolo nel mondo: uomini-massa costruiti sotto la buona stella del consumo.
Che ne è di quei luoghi che avevano generato la vita così come l’aveva conosciuta Pasolini?

 
Diu,
a làssin la ciasa ai usièj,
a làassin il ciamp ai vièrs,
a làassin secià la vas’cia dal ledàn,
a làssin i copsa la tampiesta,
a làssin a l’erba il codolàt,
e a van viae là ch’a a erin
a no resta nencia il so silensi.

Coma il vis’ciu
qualchidún a resta,
‘na fruta cui me vuj,
un fantàt fuàrt e immusàt,
i sint li so vòus.
Ma cui ch’a resta
al è pí lontàn
di chei ch’a son zus.10
 

Pasolini si trova costretto in un’isola solitaria in mezzo al mare della modernità, è il poeta imprigionato in un mondo in cui tutto funziona con una precisione meccanica e l’uomo stesso è diventato un’“arancia ad orologeria”11. In questo mondo è ancora possibile la poesia? Tutto è serio e perbene, e gli occhi sono sempre più ciechi di fronte a quelle presenze del mondo che ci parlano con un linguaggio che scaturisce dalle emozioni e dal turbamento. Sembra persa per sempre la polisemia dei simboli del mondo, tutto ciò di cui si nutre voracemente la contraddittoria poesia e che un tempo si presentava pacificamente nella sua immediatezza e nella sua normalità.
Regna l’ignoranza e la volgarità di chi ha preteso che la cultura di un territorio debba essere una cultura in cui vige una ragione, mortificando lo spirito e la carne degli italiani, imbruttendoli, abolendo il sorriso e l’allegrezza dal loro viso, e dando in cambio il ghigno e la smorfia della presunzione e il tremore della nevrosi.
L’omologazione è una pianta infestante, che non dà, attraverso il proprio modello, nuova vita alla flora preesistente, ma la divora

 
E, in tale coscienza, la realtà si spoglia,
si fa una cosa ripugnante, nuda, come nei sogni.
Solo: io, e la Bava che il mostro lascia passando sul mondo.12
 

Quel mostro di cui parla Pasolini nel finale della poesia, altro non è che il nuovo potere, che ha dato una nuova forma agli oggetti e ai ragazzi che abitano gli antichi luoghi della vita, la quale, ora, si presenta come un ammasso di corpi malaticci e di visi pallidi, completamente immersi nel cemento dei nuovi palazzi che ingombrano e deturpano i profili delle città, le cui vie hanno l’aspetto spettrale dei gironi e delle bolge dantesche, tra il silenzioso frastuono dei centri urbani e l’assordante rumore delle mute periferie. La colpa di questo mondo ce l’hanno infatti i padri, i quali, per una promessa di benessere, hanno venduto al diavolo la propria coscienza e la propria cultura alla società consumistica, dimenticando Cristo e gli antichi valori, per lasciare aperte le porte delle loro case all’Edoné. Ma le tragedie dell’antica Grecia, per bocca del Coro e della sua saggezza, ci insegnano, misteriosamente e quasi in modo per noi (moderni!) inconcepibile, che i figli sono destinati “a pagare le colpe dei padri”13. Quale, allora, la condanna per i figli? “Non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati – in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano – dal fatto che i padri hanno sbagliato”14.
Pasolini non ferma qui la sua critica, e la sua è la voce della disperazione – lui, che nonostante la magrezza e gli spigolosi angoli del viso, aveva sempre avuto degli occhi vivaci e curiosi durante tutti i periodi passati tra i ragazzi che aveva amato, nelle campagne o nelle borgate, ora, durante i suoi ultimi anni di vita – le interviste e i documenti video che ci sono rimasti lo testimoniano – ha lo sguardo coperto da un velo di cupezza spaventosa, ancora più magro di quanto già fosse, ancora più duro e amareggiato nei suoi ragionamenti e nelle sue risposte. Dei sogni e delle palingenesi che avevano segnato la sua giovinezza, resta poco o nulla e la parola speranza viene totalmente abolita dal suo vocabolario, perché, ora, le speranze non sono altro che alibi. Ma Pasolini è ancora più radicale: la sua disperazione ha valore retroattivo e ricopre ogni cosa, distruggendo ogni frammento di passata felicità.
Il 15 giugno 1975, pochi mesi prima del ritrovamento del suo corpo martoriato tra la polvere dell’idroscalo di Ostia, abiurò alla sua Trilogia della vita15, che aveva lo scopo di rappresentare l’ultimo baluardo della realtà da contrapporre alla trionfante “irrealtà della sottocultura dei mass media”16 e che mostravano “gli innocenti corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali”17. L’abiura è dettata dalla constatazione della definitiva fine di quel mondo e dalla “degenerazione dei corpi e dei sessi”18, che getta una lugubre luce anche nel passato:

se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo eran5o già potenzialmente: […] se ora sono immondizia umana, vuol dire che allora […] erano degli imbecilli costretti ad essere adorabili, degli squallidi criminali costretti ad essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.19

Il mondo si è rovesciato e non ha lasciato nemmeno lo spazio per la nostalgia e il rimpianto di un’epoca che, pur nelle sue misere condizioni di vita, era allegra e necessaria Questo calvario è la genesi stessa delle sue ultime opere, tra le quali sarebbe stata emblematica la Trilogia della morte, di cui conosciamo solo il primo, terribile film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, e il titolo del secondo, Porno-Teo-Kolossal.

In Salò è inscenata l’anarchia del potere, il totalitarismo della ragione calcolante, che avvolge la scena – la quale rappresenta allegoricamente la realtà – di una vuotezza sconvolgente, perfettamente resa dallo stile freddo che non lascia spazio né a sentimentalismi né ad alcuna forma di retorica o pietismo, rivelandosi molto fedele al libro del Marchese de Sade. Il sadomasochismo20 – diventato l’ideale di vita dei quattro libertini, che sono i protagonisti e i padroni della scena – è la metafora del rapporto che il potere ha con tutto ciò che gli è sottoposto, siano questi corpi, ridotti a mera merce, o oggetti, svuotati di ogni significato che non si identifichi immediatamente con la loro funzionalità.

Il potere edonistico-consumistico annienta cioè l’individualità dell’altro. È violenza assoluta. Il titolo e l’ambientazione del film hanno una particolarità, infatti inseriscono la storia, immaginata da de Sade in un lontano castello incastonato nella solitudine delle altezza montuose, all’interno della Repubblica di Salò, cioè dell’ultima sopravvivenza del nazi-fascismo.

Facendo ciò, Pasolini vuole sottolineare, ancora una volta, come la manipolazione dei corpi delle persone operata dalla società dei consumi, che ha causato la loro mutazione antropologica, non abbia niente da invidiare all’applicazione scientifica che mirava alla realizzazione di un’eugenetica ariana, nel nazismo, ad opera di Himmler e di Hitler. Inscena, in altri termini, quel genocidio a cui ha dovuto assistere.

Dopo questa caduta, che l’ha lasciato solo, lacerato ed esangue, mi piace pensare che la morte, l’orribile morte che ha incontrato quella notte a Ostia, sia caduta su di lui come una benedizione.


PIER PAOLO PASOLINI 1. Il tempo dell’innocenza. Il Friuli e Roma

PIER PAOLO PASOLINI 2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi

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NOTE
  1. “Fontana d’acqua del mio paese. Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. Fontana di rustico amore” (P.P. Pasolini, La nuova gioventù, cit., p. 7).
  2. «Fontana d’acqua di un paese non mio. Non c’è acqua più vecchia che in quel paese. Fontana di amore per nessuno» (Ivi, p. 167).
  3. Ivi, p. 12.
  4. Ivi, p. 173.
  5. Ibidem.
  6. Ivi, p. 16.
  7. Ivi, p. 178.
  8. Ivi, p. 181.
  9. “Non rimpiango una realtà ma il suo valore. Non rimpiango un mondo ma il suo colore.
    Tornando senza corpo là dove le campane cantavano parole di dovere sorde come tuoni,
    non piango perché quel mondo non torna più, ma piango perché il suo tornare è finito” (Ivi, p. 187).
  10. “Dio, lasciano la casa agli uccelli, lasciano il campo ai vermi, lasciano seccare la vasca del letame, lasciano i tetti alla tempesta, lasciano l’acciottolato all’erba, e vanno via, e là dov’erano, non resta neanche il loro silenzio.
  11. Espressione che A. Burgess, autore dell’opera omonima, sente usare per la prima volta da un cockney ottantenne in un pub londinese: la parola lo “incuriosì per la stravagante mescolanza di linguaggio popolare e surreale” (da una lettera inviata al Los Angeles Time il 21 febbraio 1972 e apparsa su Positif n. 139), che lo indisse ad usarla per indicare il momento in cui una persona si riduce – o meglio, viene ridotta – a essere un mero meccanismo, una mera macchina, pre-impostabile e totalmente controllabile, anziché un essere umano con le proprie contraddizioni e le proprie scelte da prendere.
  12. P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa, cit., p. 85.
  13. P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 17.
  14. Ivi, p. 23.
  15. Composta dai tre film: Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte.
  16. P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., pp. 83-84.
  17. Ibidem.
  18. Ivi, p. 85.
  19. Ivi, pp. 85-86.
  20. Parola che ha come padri D.A.F. de Sade, da cui sadismo, e L. von Sacher-Masoch, da cui masochismo.

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