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“Le paure”. Un racconto di Natalia Meščaninova

ph. Alexander Gronsky – dalla serie “Pastoral: Moscow Suburbs”

 

Introduzione e traduzione collaborativa
a cura di Giulia Marcucci

Natalia Meščaninova è nata nel 1982 in un paesino nei pressi di Krasnodar. La sua infanzia e la sua adolescenza sono segnate da abusi da parte del patrigno, conflitti con la madre, violenze e soprusi dei coetanei. Meščaninova lo racconta nel suo debutto letterario Rasskazy (Racconti), una raccolta uscita nel 2017 per l’editrice pietroburghese Seans; la traduzione inglese a cura di Fiona Bell è finalista del premio Fireckracker Award e il nome del vincitore/vincitrice sarà annunciato alla fine di giugno.

Meščaninova, allieva dеlla scuola di cinema documentario e teatro fondata da Marina Razbežkina e Michail Ugarov, è sceneggiatrice – importante è la sua collaborazione con Boris Chlebnikov, Oksana Byčkova e Aleksej Fedorčenko, alcuni tra i nomi centrali della cinematografia russa contemporanea – e regista anche di serie televisive. Il film Malen’kij nočnoj sekret (One Little Night Secret, 2023), che si ispira a quanto narrato nei suoi racconti, è stato inserito nella sezione Big Screen Competition della cinquantaduesima edizione dell’International Film Festival di Rotterdam.

Per i lettori e le lettrici di Nazione Indiana si propone in anteprima la traduzione italiana del racconto Strachi (Le paure) che apre Racconti e che è il frutto di un lavoro collaborativo all’interno del Laboratorio di traduzione letteraria dal russo (Laurea Magistrale in Scienze linguistiche e comunicazione interculturale dell’Università per Stranieri di Siena) tenuto dalla sottoscritta e al quale hanno partecipato Agata Banella, Leonardo Breschi, Anna Gonnelli, Bruna Grieco, Elisa Martinelli, Martina Rogai e Ester Santori. Ringraziamo Claudia Zonghetti, che è intervenuta nel laboratorio con un prezioso lavoro di revisione finale. Come scrive Tiphaine Samoyault in Traduction et violence, «La traduction est un art collectif; elle permet de réfléchir à des formes de collectivisation du littéraire, à plusieurs niveaux: parce qu’on y est toujours au moins deux, et qu’on peut être aussi plusieurs». Riflettere in modo plurale su un testo come quello di Meščaninova, caratterizzato da una scrittura cinematografica con immagini vive intrise di paura, violenza e trauma, illusioni e delusioni legate alla quotidianità in una cittadina di provincia russa negli anni Ottanta e Novanta, è stato un modo sicuramente stimolante per provare a superare insieme le resistenze – linguistiche, culturali ed emotive – del testo di partenza, restituendo un’unica voce a questa promettente scrittrice e affermata regista, alla quale siamo molto riconoscenti per aver concesso la pubblicazione della traduzione.

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Le paure
di Natalia Meščaninova

Fin da piccolissima quasi tutte le mie paure erano legate a mia madre. Sarà che era una “cardiologica” (difetto congenito al cuore), oppure sarà che da bambina, fino a sei anni o quasi, non l’ho vista felice nemmeno una volta, sempre e soltanto isterica… Comunque, ho ancora i denti da latte e la cosa che più mi terrorizza è che mia madre muoia. La mette sotto una macchina. Tipo: lei rientra dal lavoro e una macchina la mette sotto. Stesa. Io guardo dalla finestra, seduta sul davanzale con le gambe a W: niente, non torna. Ecco l’autobus, ecco la fila di formichine dalla fermata alle case. Mamma non c’è. L’hanno messa sotto. O ancora. Cade dalla finestra. È lì che stende la biancheria o pulisce i vetri e perde l’equilibrio. Difficile sopravvivere, cadendo dal quarto piano. O ancora. Infarto. Uno l’ha già avuto. Al secondo non regge sicuro. Se invece succedesse qualcosa a me? Morirebbe di dolore. O è il dolore che le provocherebbe l’infarto…

Mia madre non bisognava farla preoccupare: questo l’avevo imparato alla svelta. E infatti con ancora i pannolini già mentivo alla grande. La qual cosa non risparmiava a lei le preoccupazioni, ma illudeva me di proteggerla, e la mia paura per la sua vita faceva dietrofront. Per mia madre io non avevo mai problemi: ottimi voti a scuola, frequentavo circoli vari, scrivevo poesie, giocattoli in ordine. La paura di turbarla era più forte della verità, più forte dell’egoismo. La paura di perderla mi paralizzava.

In più avevo molta paura della guerra. Non so spiegarmi da dove mi venisse, nessuno aveva mai usato la guerra come spauracchio, e per quanto in guerra il nonno fosse rimasto ferito, non aveva mai usato i suoi racconti di battaglia per sconvolgere le mie fantasie. Non guardavo neanche i film di guerra: non sopportavo nemmeno l’idea. La paura della guerra mi veniva da un sogno, credo. Si ripeteva, quasi sempre lo stesso: sono un maschio, un soldato, e schizzo da un campo verso un bosco. Un elicottero tedesco mi insegue, sento con la schiena la raffica di mitragliatrice che corre sull’erba bagnata e mi raggiunge. Così è: mi sforacchia con pallottole enormi e il dolore è infernale. Sento i tedeschi: esultano. Poi muoio. Poi mi risveglio, ma non riesco a muovere le gambe e le braccia, e nemmeno riesco a gridare, distesa come un tronco inerme, e penso: ora che mi hanno uccisa in guerra, mia madre di sicuro morirà di crepacuore. I sogni di guerra zampettavano da una notte all’altra con un fruscio da scarafaggi. Alternati a quelli in cui mia madre cadeva da una rupe e si schiantava con un tonfo sordo contro uno scoglio.

Un’amica mi aveva detto: bisogna scrivere la propria paura su un pezzo di carta come se fosse storia vecchia, ma in codice, così la paura passa. Il codice l’avevo trovato: prima scrivevi l’alfabeto dall’alto verso il basso, poi dal basso verso l’alto, al contrario. E ti ritrovavi con: A-Z, B-V, C-U e così via. Io avevo scritto: nz mzmmz s edzdz olboedodz (la mamma è stata investita). E avevo messo il foglio su una mensola. Mia madre l’aveva trovato, aveva pensato che ero di nuovo sonnambula, e l’aveva portato alle colleghe per far vedere che – appunto – camminavo nel sonno e scrivevo chissà quali stronzate. Stupore delle colleghe, il foglio che sparisce. Poi mia madre qualche anno dopo sotto una macchina ci finisce per davvero e si salva per miracolo. Tutti noi che la conosciamo doniamo sangue a litri. Prendetemene di più, di più!, insisto io. Mi presento ogni settimana al centro prelievi: mi mandano via perché il sangue non si può donare spesso. Mia madre rimane a lungo tra la vita e la morte. Io passo le giornate nel suo reparto d’ospedale. Le volte che dorme senza un fiato, fisso terrorizzata la sua pancia. Fiuu, anche se poco, ma si solleva: respira, è viva. Era tutta colpa mia, credevo. Perché avevo scritto quella cosa, e per di più in codice? Di fatto era stata una specie di sortilegio. E quello che scrivi si avvera. La teoria – non si devono scrivere cose brutte perché si avverano – aveva avuto più di una conferma, pur non essendo particolarmente convincente, però nessuno mi credeva.

Ma questo sarebbe successo poi; allora, da piccola, la paura che mia madre morisse era infondata, questa perdita dentro di me esisteva già, e mi bastava pensarci un attimo per sentire un dolore ossessivo. A lei non l’ho mai detto.

Però c’erano anche un sacco di paure fondate! Le cattive compagnie. I gruppetti di adolescenti cattivi e brufolosi davanti a scuola; mani sporche e puzzolenti di fumo che si allungavano verso la mia gonna: vecchia di due anni, ma pulita. Mi toccava aspettare per strada e attaccarmi a un’ insegnante: «Saaaaaaalve, Inna Aleksandrovna! Faccio la strada con lei! Sì, sì! Tutto bene, grazie! Eccome se ho studiato, altroché».

In classe non si salva nessuno: solo cattive compagnie. Una ragazza si masturba durante le ore di letteratura, diventa tutta rossa. Tutti sanno cosa sta facendo tranne l’insegnante. Finita l’ora, nello sgabuzzino le facevano di tutto. Per la vergogna, lei neanche strillava, ansimava soltanto. Che paura, tanta paura: nell’intervallo devo uscire dalla classe, meglio il corridoio, meglio prendersi una botta da uno dei grandi al culo o all’amor proprio pur di non sentire quello che le fanno, quelle risatine soffocate, quegli strani gridolini. Ma perché gli insegnanti non se ne accorgono? Perché dopo la campanella si riversano come automi nell’aula professori? Perché li lasciano godere negli sgabuzzini?

Mamma, oggi a scuola non ci vado. La gamba, mamma. Mi fa malissimo la gamba. No, il dottore non serve, sono i reumatismi (e questa, dove l’avrò sentita?). Mia madre ci cascava sempre. Credeva anche alla più banale, alla più assurda delle mie bugie.

Sera. Mia madre grida dal corridoio: “Nataša! Per te!” Alle sue spalle, nel vano della porta, c’è LUI: il più cattivo tra i più cattivi, sta al primo piano, passo sul suo pianerottolo ogni giorno. Schizzo davanti alla sua porta come una scheggia e mi sembra sempre che mi stia guardando dallo spioncino e sogghigni con il più malefico e marcio dei suoi sorrisini.

MADRE! Come fai a non capirlo: è una cattiva compagnia! Madre! Perché mi hai chiamata! Perché non gli hai detto che non c’ero! Che non c’ero e non ci sarò. Perché non lo prendi per un orecchio e non lo minacci di suonargliele, invece di chiamarmi con quella vocina gentile come se fosse arrivato il mio migliore amico per fare gli origami???

Esco. Mi palpa con gli occhi e chissà perché mi tira un calcio in mezzo alle gambe. Nelle palle, se le avessi avute. «Domani portami i soldi. Tutti quelli che hai. O ti salto addosso dall’albero».

Dall’albero mi saltava addosso regolarmente, dato che i soldi non ce li avevo mai. Sarà una cosa che gli hanno insegnato nelle cattive compagnie, che ne so io…

Prendo le mie cose e della roba da mangiare e mi incammino lungo i binari. Per Mosca. Previo chiarimento che bisognava andare verso nord. Ma siccome mi era scappato detto con un’amica, verso sera mi avevano già beccata. Mia madre: mani nei capelli. Niente, non avevo pensato alla sua tranquillità, Mosca era un lusso improponibile. Dovevo sopravvivere qui. Dovevo esserlo anche io, una cattiva compagnia. Anche perché di compagnie buone da noi non ce n’erano, neanche a mettercisi d’impegno. Le compagnie erano tutte cattive, cattive proprio, pessime e molto pericolose. Pericolosi erano i giochi tra gli alberi lungo la ferrovia. Cosa non succedeva fra quelle piante tutte trilli di usignoli e fiori di acacia.

A cinque anni: bambine legate ai tronchi e picchiate con l’ortica fino alla crisi isterica, finchè il loro corpo non era tutto rosso. Seguivano le bugie alle madri: c’eri caduta da sola, tra l’ortica.

A dieci anni: ti facevano sdraiare sulle traverse fra i binari per aspettare il treno in arrivo, che ti doveva passare sopra senza che tu ti cagassi  addosso. Una volta il branco aveva costretto un ragazzo a farlo, e lui ci era riuscito. Poi sua madre lo aveva spedito in città a vivere dalla nonna, per sempre. Non l’abbiamo più rivisto. Evidentemente, con quella merda addosso, non era stato bravo a mentire. Meritava solo disprezzo, fu dimenticato per sempre.

Io per la vergogna mi sforzavo di non ripensarci, però quel ragazzino pieno di merda non mi dava pace. Volevo una sua lettera. Volevo che mi scrivesse qualcosa del tipo: «non mi sono cagato sotto, sto con la nonna perché sta per morire e ha bisogno di cure. Dopo essermi steso sotto il treno, ho capito molte cose e sono diventato un uomo. Salutami tutti quanti…» etc. Ovviamente non mi ha mai mandato lettere. E lo hanno spedito dalla nonna per tenerlo lontano dalle cattive compagnie. Io una nonna così non ce l’avevo. Nel senso, la nonna ce l’avevo anche, ma mandarmi da lei non era possibile: secondo lei mangiavo come una fogna, e sopportava comunque poco i nipoti.

Chiedere agli adulti di proteggerti era una causa persa. Nemmeno di loro ci si poteva fidare. Io stessa ci ho sbattuto i denti. Scappavo spesso dal doposcuola e, per ammazzare il tempo, girovagavo per il paese. Mia madre era al lavoro, io ero senza chiavi di casa. Da mangiare me lo dava la vicina. Una volta gironzolo intorno a un negozio, quando mi si avvicina un tizio con la bici. Mai visto prima. È gentile. Dice di essere un amico di mio padre. Mio padre da un paio d’anni aveva un’altra famiglia e i suoi amici non li conoscevo. Quindi ci poteva stare che avesse quell’amico simpatico con la bici. Siamo andati a fare un giro. Mi ha un po’ scorazzato per il paese e poi fa: «Andiamo nel bosco nuovo».

Era una bella giornata, aprile se non maggio; il bosco era già verde e profumato. Ci siamo entrati come in una fiaba: l’erba era alta e fitta. L’amico di mio padre mi fa scendere dalla bici, e poi scende anche lui. «Ci stendiamo?» mi chiede, e si sdraia sul prato. E io faccio lo stesso. «Sai una cosa», dice, «è bello starci nudi sull’erba». Io non ne ero mica così sicura, mi ero già sdraiata nuda sull’erba e dopo mi ero grattata per tre giorni. Però l’amico di mio padre ne era convinto e aveva iniziato a togliersi i pantaloni.

Per mia fortuna, l’amico di mio padre non c’era mai stato in quel bosco e non sapeva che spesso ci passava la gente che scendeva dal treno. C’erano sentieri dappertutto. Lui non li aveva notati, nascosti nell’erba alta. Insomma, mentre si toglie i pantaloni, di colpo compaiono delle persone. L’amico di mio padre si agita. Poi la catastrofe: sul sentiero, scesa dal treno, arriva una maestra del tempo pieno. Vede me sdraiata a terra e l’amico di mio padre che si allaccia la cintura con un sorriso forzato. Esclama: «Ah però». Lei dice «ah però», e io sprofondo. Anche l’amico di mio padre sprofonda. Poi la maestra fa: «Lei sarebbe?». Lui balbetta che è un amico di mio padre. Lei chiede: «E suo padre si chiama?». Lui risponde: «Nikolaj… Petrovič?». «No! – esulta lei – Si chiama Viktor Fedorovič». Io l’ho guardato con disprezzo e ho scosso la testa. «Caspita!» ho pensato. «Caspita! Saremmo potuti diventare ottimi amici!».

La tiravano per le lunghe: lei voleva chiamare la polizia, ma i cellulari non c’erano ancora e toccava fare un pezzo di strada per trovare una cabina telefonica. Il falso amico di mio padre non ne voleva sapere di sbattersi. Si sono urlati addosso per altri cinque minuti, poi lui di colpo è sparito. E la maestra è passata a me. Mi ha portato a casa, lungo la strada ha urlato come una pazza e quando abbiamo incrociato mia madre al negozio, ha urlato ancora più forte e le ha raccontato nelle tinte più fosche che mi aveva trovato nell’erba con l’amico di mio padre.

Traditrice, ho pensato. Brutta stronza. Non capisce, non ha cervello! Non capisce che mia madre non bisogna farla agitare, che non reggerebbe un secondo infarto! Mia madre mi ha portata a casa, e incazzata com’era me le ha date con la corda per saltare. Allora mi è stato chiarissimo che nemmeno con i grandi bisognava fare amicizia.

Avrei voluto essere amica dei fantasmi, oppure dell’uomo invisibile o degli extraterrestri. Loro dovevano essere forti e leali, dovevano proteggermi. Tutti avevano paura dei fantasmi, io li cercavo. Niente da fare. Anche se alcune volte ho simulato bene un contatto davanti a mia madre e lei di nuovo mi ha creduta. Infatti dopo diceva alle colleghe che non solo ero sonnambula, ma pure sensitiva. Inebriata dalle mie bugie, raccontavo a mia madre di morti che arrivavano dall’aldilà e di marziani da altri pianeti. I morti veri non li ho mai incontrati, però. Peccato. E manco un fantasma in tutta la vita! Avevo solo amici reali, in carne e ossa.

E crescevamo, io e la mia losca compagnia. Erano arrivati il fumo, l’erba, l’alcol, tutto nel solito boschetto. Poi i primi amplessi precoci.

A quel punto una notizia agghiacciante sconvolse tutto il paese turbando persino i più cattivi. «Sette adolescenti hanno brutalmente violentato e ucciso un dodicenne nel bosco. Gli hanno cucito la bocca perché non gridasse, gli hanno infilato del filo spinato nell’ano, finché non è uscito dalla gola…». Le  descrizioni abbondavano: brividi al solo pensiero. Poi li avevano presi, quegli adolescenti, e li avevano anche messi dentro, ma dopo due anni erano tutti fuori dal primo all’ultimo. E frequentavano le nostre feste nella Casa della Cultura. Sette assassini con la birra in mano che squadravano le ragazze che, per qualche motivo, ballavano contorcendosi ancora di più. Allora andava molto di moda ballare contorcendosi. A sorvegliare l’andazzo c’era un’impiegata della Casa della Cultura, la quarantacinquenne Vera Fedorovna. Che osservava compiaciuta le ragazze contorcersi e succhiarsi la birra degli assassini. Con il mezzo sorrisetto di chi ha tutto sotto controllo, assassini e ragazze.

Dalla discoteca bisognava uscire prima di tutti, ma fingendo che non te ne stavi ancora andando – tipo che uscivi un secondo a prendere una boccata d’aria e poi rientravi. E invece via, schiacciata contro il parapetto, senza farmi vedere, poi l’aiuola, al buio, poi attraverso la strada, sotto gli alberi, e via a casa, a casa! Perché nessuno degli assassini ti si attaccasse addosso, perché fossero sicuri che saresti tornata a contorcerti ancora un po’ davanti a loro, e che poi avrebbero potuto «accompagnarti», cioè molestarti e scoparti nel bosco, se ti andava bene. Insomma era essenziale squagliarsela prima, svicolare inosservata davanti alla porta del primo piano dietro cui si nasconde il “saltaddosso”, e poi, quatta quatta, senza fare rumore, raggiungere il mio quarto piano. Occorreva innanzitutto accertarsi che non ci fosse nessuno sul pianerottolo buio tra il terzo e il quarto. Perché spesso qualcuno c’era: spaccava la lampadina, mi aspettava lì e non mi lasciava tornare a casa da mia madre, che andava a letto presto e dormiva beata senza sapere che su quel pianerottolo alcune bestie – e futuri assassini, poco ma sicuro –  stavano palpeggiando sua figlia ovunque. Dormi mamma, dormi nella tua culla di vimini, che lui ha già il filo spinato in tasca, ora lo prende e domani la gente si spaventerà a morte e tu morta dal dolore lo sarai davvero.

Un giorno, poi, qualcuno ha squarciato la porta imbottita di casa nostra, dell’interno 15. Strrrapp: col coltello da cima a fondo. E sul muro all’ingresso, bestia, ha scritto «Nataša succhiami il cazzo». L’ovatta gialla fuoriusciva dallo sbrego senza ritegno. Che vergogna pazzesca! Poi qualcuno ha coperto la scritta con la vernice. E noi abbiamo ricucito la porta. Altro squarcio in un altro punto. Altra ricucitura.

Altro incubo da aggiungere alla lista: arrivo al quarto piano e il saltaddosso, con il pisello di fuori, squarcia con un coltello la porta, da cui sgorga sangue perché in realtà la porta è mia madre. Il pianerottolo è pieno di sangue, e pieni di sangue sono anche il coltello e il pisello del saltadosso. Quel sogno, che si ripeteva con una puntualità invidiabile, riusciva a oscurare anche i sogni di guerra, i cari, eroici sogni di guerra.

Mamma perché non andiamo via, eh? Perché non ce ne andiamo al sud, a Abrau-Djurso? A Vyselki? In qualsiasi cazzo di posto, mamma! Sì sì, ora ce ne andiamo, diceva mia madre distratta, volevamo andare anche in Kamčatka, giusto? Mamma dico sul serio! Non ce la faccio a vivere qui! Sì, sì, dai che prima o poi ce ne andiamo, stai tranquilla! Adesso mamma, adesso!

Niente. Non se ne è mai andata, vive ancora là, tra assassini e saltaddosso, che hanno fatto in tempo a sposarsi e figliare e strabordano di grasso. Vive ancora nell’appartamento con la porta tagliata, cucita e ricucita. Va al negozio passando vicino agli assassini che sgranocchiano semi coi passeggini accanto. La salutano, è una di loro. Tutto si è placato. E al quarto piano nessuno fa più gli agguati.

Sono andata a trovarla e ho scrutato in ogni spigolo delle mie paure con la bottiglia del cognac pronta e sottobraccio a mio marito. La bottiglia ce la siamo scolata, abbiamo vagato sbronzi per il paese e abbiamo sbeffeggiato quelle paure. Ridevo di gusto, piegata in due. Provavo a nascondere dietro le coliche delle risate il gelo che avevo nello stomaco. Il gelo del piombo tedesco, del filo spinato, della lama d’acciaio del coltello e di un orribile pisello di fuori.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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