“A man fell”, dell’eterna diaspora palestinese
di Mariasole Ariot
La prima porzione della Tenebra è la più densa, Cara, Dopodiché, la Luce comincia a tremolare
Emily Dickinson
Un tempo immobile, separato, dove il passato non passa e l’altrove appare solo immaginato attraverso gli interstizi dei muri da cui filtra ciò che non verrà mai visto né inquadrato: Arafat, il bambino che sale e scende le scale di un edificio abbandonato, undici piani di storia, si muove nel buio. Nelle inquadrature fisse di A man fell protagonista è il nero dell’assenza e della staticità, un luogo liminale di tenebra – Yasser Al Ali dice al regista, accompagnandolo al Gaza Hospital: “Benvenuto all’inferno, Gio” – e la tenebra è interrotta solo dalla poca luce che filtra dalle finestre.
Sabra, Libano, un vecchio edificio smantellato alla fine degli anni settanta, prima ospedale dell’OLP, poi luogo di rifugio per i palestinesi dopo il massacro del 1982, la cui maggioranza non ha cittadinanza e non può accedere ai servizi basici per la possibilità di una vita degna, impossibilitata ad una proprietà, ad un lavoro sicuro. Le scalinate su cui indugia la macchina da presa sono mosse solo dai corpi in penombra di poche anime: bambini che saltano, una breve danza, la dimensione del gioco senza oggetto, soggetti sottratti all’esistenza, il riflesso delle loro gambe sulle pozze bagnate dell’edificio, un adulto che vaga cercando tre carte perdute da un mazzo, una bambina dalle cui matite non esce colore: perché tutto è metafora di ciò che è perduto, di ciò che non può darsi né pronunciarsi. E due fili rossi: la curiosità bambina verso i sotterranei, e l’uomo caduto dal palazzo pochi giorni prima del girato, il salto o la caduta di cui non è possibile sapere se non per brevi accenni, ipotesi, poche parole.
Ed è anche la parola/voce ad arrivare solo a tratti, a tratteggiare la mole di silenzio che si intreccia ai neri densi dell’abbandono facendone riverbero.
La prima inquadratura di Arafat è del bambino seduto su una vecchia poltrona abbandonata, il bambino si alza: la poltrona resta vuota, l’occhio della cinepresa si ferma in questo vuoto. Giovanni Lorusso delinea la zona d’ombra della condizione degli abitanti del Gaza Hospital attraverso il metaforico che troveremo anche in una voce francese fuoricampo proveniente forse da una radio o da una televisione: la donna si rivolge a qualcuno, dice ” credi che le sbarre in cui vivi siano mazzi di fiori”.
Ma non c’è fiore perché non c’è terra se non una terra da cui si è rigettati.
Dell’edificio non è mai visibile l’esterno, un esterno che porta in sé una storia sfregiata, e dopo la visita di Arafat e l’amico Muhammed nei sotterranei, quando l’incontro con un bambino che lo abita (laggiù ci sono solo “sesso droga e morti”, dirà un uomo alla compagna) si mostra come l’unico accenno alla storia dell’edificio, raccontando di chi ha venduto il sangue dei padri, la paura di essere trovati, gli scavi dei corridoi che portano a Gerusalemme e in altre città, Arafat dice all’amico Muhammad, seduto tra i ruderi del terrazzo: domani ce ne andiamo da qui.
Un domani a cui gli adulti forse non credono più: perché se il desiderio può prendere forma solo là dove dove c’è oggetto, qui l’oggetto è l’esistenza stessa. Un’esistenza che sanguina da decenni e protesa a un sanguinare infinito, finito solo dal prosciugamento di sé stessa.
@immagini fornite dall’Ufficio stampa Chiara Zanini
Ho visto che il film è stato presentato a Venezia. Speriamo di riuscire a recuperarlo in streaming perché questa recensione, molto più di altre, fa venire una gran voglia di vederlo
Salve A., speriamo anche che possa essere distribuito nelle sale cinematografiche, come sarebbe giusto prima di ogni altra fruizione ;)
Chiara Zanini – ex ufficio stampa del film