Minima ruralia – Conservare la diversità

di Massimo Angelini

Non si conserva il patrimonio varietale se si dissolve il tessuto rurale che lo ha generato, conservato e fatto evolvere: non ha senso recuperare i semi se si estirpano i contadini.

Per conservare la diversità delle piante agricole e il patrimonio di varietà e razze tradizionali, bisogna che nelle aree rurali e montane soggette a spopolamento funzionino le scuole per i figli di chi ci vive. E i servizi sanitari. Bisogna che le botteghe nei paesi possano restare aperte senza essere schiacciate dal peso delle norme fiscali e da norme igieniche astratte. Bisogna che gli agricoltori e gli allevatori possano lavorare in pace, senza l’aggravio di oneri, registri, carte, controlli che generano burocrazia e giustificano l’impiego di funzionari e consulenti, più di quanto serva al bene comune. Bisogna che i diritti comuni sulla terra e le sue risorse siano preservati e che, allora, sia interrotto il processo di liquidazione degli usi civici.

Questi aspetti – e altri ancora – segnano un confine; da una parte c’è la possibilità di continuare a vivere sulla terra, dall’altra c’è il suo abbandono. In Italia quel confine è già stato superato, forse non definitivamente e, forse, si può ancora fare un passo indietro; ma, per farlo, non occorrono nuove norme, al contrario: bisognerebbe cancellare quelle che scoraggiano il lavoro e la vita sulla terra, o, almeno, bisognerebbe escludere le aree rurali e montane dal campo di applicazione delle leggi che impongono norme fiscali e igieniche scoraggianti, se non opprimenti.

È così che si può conservare la diversità delle piante agricole: rispettando il contesto comunitario e locale nel quale la diversità è stata generata (e si rigenera), e i contadini che hanno selezionato le varietà e le razze tradizionali, le hanno fatte circolare, le coltivano e continuano a tramandarle. Sono loro che hanno conservato e ancora conservano il patrimonio comunitario di varietà e razze; nessuna legge può imporlo e le banche dei semi non possono farlo al loro posto: possono, tutt’al più, mantenere in vita materiale genetico senza contesto.

Tutto questo è cosa le leggi regionali approvate negli ultimi anni sulla tutela delle “risorse genetiche” sembrano ignorare: istituiscono banche dei semi, registri, commissioni tecnico-scientifiche, conferiscono incarichi, moltiplicano i moduli e i funzionari; finanziano genetisti e agronomi perché caratterizzino le varietà con descrittori standard o attraverso marcatori molecolari. E così facendo quelle leggi ignorano che conosce e può riconoscere con competenza le specie e le varietà di piante di un luogo chi in quel luogo vive e di quelle varietà sa spiegare l’uso e descrivere l’aspetto, il comportamento e le differenze, con le parole che in quel luogo tutti possono capire in un modo noto e condiviso.

Dall’altra parte, si riconoscono compensi agli agricoltori e li si chiama “custodi”. Custodi di cosa? Del museo della campagna? Di un ospizio grande come questa montagna? La terziarizzazione dei contadini come giardinieri del paesaggio e della biodiversità mi fa impressione. Le varietà tradizionali sono eredità, patrimonio e memoria, così come lo sono le fotografie dei propri vecchi, i saperi di famiglia e la terra di casa: se qualcuno ha bisogno di un compenso per conservare le fotografie dei propri vecchi e per tenere in vita i documenti del proprio costume è meglio che li perda.

Desidero ripeterlo: non si conserva il patrimonio varietale se si dissolve il tessuto rurale che lo ha generato e conservato e fatto evolvere: non ha senso recuperare i semi se si estirpano i contadini.

 

(anche quest’ultimo frammento, come il primo e il secondo, è tratto da “Minima ruralia”, sottotitolo: “Semi, agricoltura e ritorno alla terra”, del filosofo e ruralista Massimo Angelini, pubblicato da “Pentagora”, Savona, 2013)

2 Commenti

  1. questo,come suole dirsi,è territorio apache.Credo infatti che opporsi strenuamente al nuovo urbanesimo cercando di arginare lo spopolamento dei centri rurali sia antistorico,perché i costi alla lunga sarebbero insostenibili(e più intimamente perché quel tipo di conglomerati residenziali temo abbia sempre infoltito le truppe di conservatori e sostenitori del clero.Sono pronto a ricredermi qualora mi venisse fornita qualche prova del contrario).Preferisco coltivare l’idea di città dotate di erbari metropolitani, floridi orti periferici e prensili agrumeti,sviluppando una cultura conviviale che releghi nel dimenticatoio gli sbudellamenti rilevati nelle riunioni di condominio,lasciando che lo spirito competitivo trovi sfogo in partite quasi amichevoli di calcetto o infuocate mani di burraco

  2. Peccato sia un ultimo frammento. Giacomo, sai come posso reperire il tomo? Trovo le cose di Angelini davvero di grande interesse.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Lingue matrigne

di Gabriele Di Luca
Ciò che in generale manca agli italiani è la conoscenza delle varietà medie e basse del tedesco.

Una repulsione per l’origine. Storia e critica di un’eredità in Bärfuss

di Alice Pisu
Con Il cartone di mio padre (trad. Margherita Carbonaro, L’orma), Lukas Bärfuss porta avanti un’indagine sulla demitizzazione dell’esistenza attraverso la solennità della morte iniziata con uno studio storico, filosofico e letterario sul suicidio in Koala.

Vita di Durruti

di Pasquale Vitagliano
Chi ha ucciso Buonaventura Durruti, il capo delle colonne catalane, il più coraggioso e amato dei comandanti della resistenza al franchismo?

La cerimonia del possibile

di Paolo Morelli
Il libro, o la cerimonia, o la danza, è tutto innervato su immagini prensili, allucinogene (“l’allucinazione è una malattia sacra”), serpenti, montagne, il labirinto, fino al rito comune del falò finale. Immagini che producono altre immagini.

Kafka nel Paese delle Meraviglie (Letteratura e diritto #5)

di Pasquale Vitagliano
Può essere che Franz Kafka abbia letto Alice nel Paese delle Meraviglie? La domanda non è oziosa.

Napoli, un ritorno

di Sara Marinelli
Del resto c’è una discrepanza, sempre più accentuata, tra quello che Napoli è per chi ci vive e per chi la visita; tra lo scarafaggio vero e la sua copia, un memento come un altro.
giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: