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Ulisse tecnologico #3

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di Giuseppe Martella

3. Raggiri e rendiconti

Nell’Odissea, i canti dal VI allo VIII, sono il cuore pulsante del poema. Alla fine del V, Ulisse è scampato all’annegamento grazie al velo della ninfa Ino Leucotea (velo semitrasparente della tradizione orale, in cui le figure si leggono in palinsesto). A questo velo, o drappo misterico, che segna il limite di ciò che può essere tramandato, spuma dell’onda del divenire, aura dell’identità individuale, si aggrappa Ulisse per non annegare nell’indistinta fluidità primordiale.

Mots-clés__Portogallo

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Portogallo
di Marco Viscardi

Amália Rodrigues, Uma Casa Portuguesa -> play

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ph. Giorgio Lotti, “Re Umberto di Savoia” (in esilio a Cascais, ndr) – 1965

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Da Reinhold Schneider, Portogallo. Diario di viaggio, trad. Sarina Reina, Torino, EDT, 1995.

Probabilmente non è il paesaggio ad attirare il viaggiatore in Portogallo, forse nemmeno l’architettura, pure unica nelle grandi opere di questo paese; ciò che davvero incanta è la sua anima; ciò che intimamente ci scuote è la linea spietata, eroica del suo destino. Sono l’anima e il destino che irradiano le montagne scoscese e le valli velate, le campagne deserte, i giardini abbandonati e i grandiosi viali costieri fiancheggiati da palme, riflettendosi persino nel mare, creatore e distruttore a un tempo; l’anima e il destino lambiscono ogni pietra toccata dall’uomo e ogni rudere che il tempo dissolve. Qui è l’uomo che affascina, così come la sua sorte; qui l’uomo si aggrappa ai margini del continente, al principio del mare, e poiché la sua presenza si avverte in ogni pietra che la sua mano ha sollevato e in ogni zolla di terra che egli ha calpestato, l’intero litorale lungo e sottile alla fine appare come un’esperienza irripetibile. Qui non si tratta di comporre un’esperienza rintracciandone il percorso nelle opere storiografiche, di portare a fatica qualcosa di antico in un presente vuoto e al tempo stesso sovraccarico; chiunque abbia mai contemplato Lisbona dall’alto della piccola cappella di Nossa Senhora do Monte o abbia camminato, abbagliato dalla luce, lungo le sue strade sfavillanti e perennemente incompiute, sa che la sventura di questa città è ancora inspiegabilmente vicina, ne vede lampeggiare il segreto nell’azzurro intento del cielo, sa che è come se il grande impero fosse andato perduto in una sola notte – la notte appena trascorsa -, sente ancora l’eco di un crollo colossale risuonare dalle alture al di là del Tago. Il destino è il tempo presente e ne è impregnata l’aria che si respira; l’enigma che ci pone questa vicenda giocata nei continenti si scioglie nella terra in cui il gioco ha avuto origine, nel ritmo di questa vita non europea, un ritmo così sconosciuto che il nostro orecchio deve prima di tutto imparare a coglierlo.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave. Poiché l’agosto è lento, questo mese il post esce nella seconda domenica.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

Francesco Durante (tribute)

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di

Francesco Forlani

Di lui mi ritorna in mente il viaggio fatto in macchina da Napoli al cuore degli Abruzzi, dal Molo Beverello a Torricella Peligna. Quattro parole magiche che se pronunciate una dopo l’altra, articolando bene le sillabe, ti suggeriscono quell’altra che è destino. Quasi un moto d’emigrazione, il nostro, ma di ritorno. Del resto il sogno “sospeso” di Francesco è sempre stato quello: far sorgere poco distante dal luogo del nostro appuntamento, all’Immacolatella vecchia, un museo dell’Emigrazione in grado di raccogliere oggetti, testimonianze scritte e orali, una memoria viva del viaggio non solo fisico ma anche linguistico di intere popolazioni delle nostre regioni catapultate nel mondo. Un luogo in cui raccogliersi. Perché lui era dalla loro parte, da vero aristocratico nutriva una stima profonda per i penultimi, un profondo affetto per quelli che avrebbero potuto “non farcela”. Chi altri, del resto, se non lui,  pioniere delle lettere, rigoroso e sperimentale, poteva far rivivere i destini di un centinaio di esploratori italiani del vasto campo della lingua e della vita americana, attraverso il magnifico progetto di Italoamericana, opera in due volumi dedicata proprio a nostri illustri o per nulla compaesani.

Di quel viaggio agile, danzante, mi ritornano in mente le canzoni ascoltate, evocate e perfino cantate, ma anche la tratta in cui mi ritrovai a fargli da audiolibro. In quell’edizione 2010 del festival John Fante di Torricella Peligna, Francesco avrebbe infatti dialogato con Jonas Hassen Khemiri a proposito del romanzo Una tigre molto speciale e poiché aveva bisogno di rivedere alcuni passaggi del secondo capitolo mi chiese di leggerglielo strada facendo. Cosa che naturalmente feci con piacere adoperandomi, con vocine ed effetti speciali a seconda dei personaggi e delle scene, a che la narrazione fosse quanto più avvincente possibile. Ridemmo molto.

Di lui mi viene in mente la sua arte della conversazione e del cazzeggio, l’idea di letteratura e della vita come una grande recita in cui è appunto il gioco dell’attore a fare la differenza, la purezza del giocatore a rendere ogni partita degna di essere giocata, a prescindere dal risultato. Tante sono state le testimonianze di stima, di vero affetto nei suoi confronti, in questi giorni. Particolarmente toccanti sono state quelle di Giovanna Di Lello, direttrice artistica del Fante, di Titti Marrone sul Mattino e di Antonio D’Orrico sul Corriere. Ho chiesto proprio a Titti, curatrice del bel volume collettivo dedicato a Pino Daniele, Ho sete ancora, di rendere disponibile per i lettori di Nazione Indiana, blog che ha sempre seguito da fiancheggiatore, il racconto e la canzone che Francesco Durante aveva scelto. Ho pensato che questo sentire la sua voce d’autore fosse il modo migliore per ricordarlo, insieme alla nota che Marco Petrillo, suo storico amico friulano, ha redatto per noi. Mi raccomando, leggetelo ad alta voce, fatelo rivivere anche solo per un po’, perché la musica possa farci da compagna per il resto del viaggio. Ciao Fra. On the road again.

 

 

 

Quanno chiove

Ascoltare Pino Daniele sul raccordo autostradale Pordenone-Portogruaro

di Francesco Durante

Alla fine dell’estate 1979 scambiai il mio meraviglioso spider Triumph con una Citroen CX vasta e lunga come un piroscafo. Ne era stato proprietario

il mio amico Claudio detto Piripicchio, bassista del “Tormento Interiore”, il quale s’era evidentemente stancato di avere una macchina troppo grande per una persona sola, esattamente come io non ne potevo più di averne una troppo piccola. Lo scambio era avvenuto alla fine dell’estate perché all’inizio, invece, la Triumph mi era servita per andarmene in vacanza verso Sud, senza una direzione precisa, ma semplicemente recandomi dove si recavano le autostoppiste che incontravo ai caselli dell’autostrada. Era una due posti, una potenziale alcova, e ci poteva salire un’autostoppista alla volta. Erano altri tempi, ci si poteva fidare, e le ragazze – tra le quali spiccavano per salute e simpatia le canadesi dai grossi zaini decorati con la foglia d’acero – sullo spider ci venivano di buon grado. Fu così che quell’anno arrivai fino a Vieste, sul Gargano, a capo di una serie di ghirigori che mi avevano fatto deviare spessissimo, e con grande soddisfazione, dal tracciato dell’Adriatica.

Le ragazze straniere non avevano pregiudizi nei confronti della Triumph. Anzi: si divertivano. Con le italiane era diverso. Il mio statuto di “young professional”, però di sinistra, pareva a loro in aperta contraddizione con un’autovettura dall’aria un po’ troppo fighetta. Ebbi una contrastata relazione con una studentessa di Trento che su quella mia macchina ci saliva soltanto in incognito, e non riuscii a farle accettare l’idea che guidare uno spider non era di necessità un gesto antiproletario, bensì, prima di tutto, una cosa molto divertente. Con la CX era tutto un altro discorso. Era enorme ma a suo modo più sobria. Aveva questa cosa bellissima che, quando la mettevi in moto, dovevi prima aspettare che si sollevasse sulle ruote. Munita di alzacristalli elettrici (una rarità all’epoca), era silenziosissima, spaziosissima, comodissima anche in occasione di utilizzi un po’ più informali. In più, era dotata di un formidabile impianto stereo Pioneer, di quelli che, come si diceva una volta, spaccavano il culo ai passeri.

Lavoravo come cronista al quotidiano “Il Piccolo” di Trieste. Mi avevano incaricato di curarne le pagine friulane, e dunque facevo la spola tra Udine e Pordenone. Erano tempi in cui la giornata di lavoro non finiva praticamente mai: fino a oltre la mezzanotte ci si doveva dar dentro, magari per andare a far le foto di un incendio. Poi, però, c’era per l’appunto la notte, e passarla sostanzialmente in bianco era quasi un dovere.

Piripicchio una sera venne a trovarmi in redazione accompagnato da Kramer, il cantante di blues soprannominato “il negro bianco”. Vennero col Triumph che gli avevo ceduto e ricordo che mi fecero notare un problema di carburazione di cui, al momento dello scambio, non avevo fatto menzione (e del quale, probabilmente, non m’ero mai accorto). Non fu una recriminazione, tutt’altro. Piripicchio si rendeva perfettamente conto della mia totale ignoranza in fatto di motori, dunque non metteva in dubbio la mia buona fede. Gli dissi che nello scambio ero stato certamente io quello che c’era andato meglio, perché lui, invece, di motori ne capiva, e la CX era assolutamente perfetta in ogni dettaglio. Quella notte la usammo per tirar mattina tutti e tre insieme.

“Ho una nuova cassetta che voglio farvi ascoltare”, annunciai. E verso l’una partimmo.

Sul sedile posteriore, Piripicchio rollava canne, Kramer e io parlavamo del più e del meno, lui soprattutto di quella stronza per la quale aveva perso la testa, tanto da inviarle anche sei lettere d’amore al giorno senza che mai lei si fosse degnata di rispondergli. In cinque minuti fummo all’imbocco dell’autostrada Pordenone-Portogruaro, 26 kilometri molto rettilinei e soprattutto (a quell’ora) sostanzialmente deserti. Fu allora che inserii la cassetta nello stereo, alzai il volume al massimo, sigillai i finestrini e feci partire il secondo album di Pino Daniele. Nel silenzio raccolto dell’attesa, esplose Je sto vicino a te. L’auto era arrivata all’altezza di Azzano Decimo quando Piripicchio rilasciò il primo commento. Disse: “Non capisco una minchia, ma il sound è proprio buono. Mi acchiappa. Sembra George Benson”.

(A beneficio di quanti potrebbero ritenere impossibile tanta ignoranza di Pino Daniele a quel tempo, debbo chiarire che noi, in fatto di gusti musicali, si era ancora fieramente anti-italiani. Non ci pareva possibile che in Italia si facesse della musica accettabile, anche se qualche eccezione ormai c’era: la Premiata Forneria, il Banco, poco altro tra cui qualche cantautore, ma in dosi omeopatiche. Sapevamo invece tutto delle band americane o inglesi, e perfino del rock elettronico tedesco.)

A Portogruaro uscimmo dall’autostrada per riprenderla in senso inverso mentre partiva Chillo è nu buono guaglione. Il negro bianco si entusiasmò poco dopo all’ascolto di Ue’ man (che a me per la verità ha sempre detto poco), e poi – più o meno all’altezza del casello di Chions – tutti concordammo sul fatto che la canzone che ora stavamo ascoltando, vale a dire Donna Cuncetta, era semplicemente strepitosa. Talmente strepitosa che, giunti a Pordenone, riprendemmo la via per Portogruaro, per poi tornarcene e ripartire e rifare il tragitto ancora un altro paio di volte, tutti e tre ormai preda di una esilarante sensazione di straordinaria lucidità mentale dentro il fumosissimo, musicalissimo, ritmatissimo abitacolo: benandanti felici nel pieno di una magica notte stellata in mezzo alla pianura del Friuli occidentale.

Piripicchio e Kramer venivano da Sacile (“il giardino della Serenissima”) e non avevano la benché minima idea del dialetto napoletano. Così mi misi a spiegargli le parole di Donna Cuncetta.

“C’è questa vecchia che si chiama Concetta, una che rimpiange i bei tempi andati, e dice che il tempo delle ciliegie è già finito.”

“Ti credo: è autunno.”

“Ma no, il tempo delle ciliegie nel senso di un’età benedetta e ormai lontana. Ed è come se nella massa nera dei suoi capelli raccolti fossero racchiuse tutte le paure di un popolo che cammina rasente il muro.”

“I napoletani? Rasente il muro?”

“È una metafora. Come dire che il popolo napoletano – il popolo basso, il popolino – da sempre è stato abituato a sopportare, a tenersi tutto dentro, a dissimulare, dunque a non esporsi. E poi considera che nei vicoli, anche se non vuoi, finisce che cammini sempre rasente il muro, perché altrimenti ti mettono sotto coi motorini. Ma insomma, ecco che poi Pino esorta Donna Concetta. Le dà del voi, come si fa a Napoli, e le dice: tirate fuori tutti i ricordi dal cuore, e mettetevi finalmente a gridare come mai avete avuto il coraggio di fare nella vita.”

“Una cosa rivoluzionaria?”

“Direi di sì. Poi però arriva questo pezzo così dolce, così sognante. Donna Concetta è come se avesse una visione: se volesse Dio, se lui volesse dare una mano a questa mia fantasia, getterei tutto a mare. Però sono vecchia, posso soltanto dormire, mi sento come uno straccio in mano alle gente e posso soltanto stare a guardare. Ma se fossi un ragazzo, se avessi l’energia di un ragazzo, di sicuro sarei un caporione, e quando soffia il vento – il vento della ribellione? ma sì – allora senza paura direi la mia. Ah, se soltanto lo volesse Dio!”

Ci fu un momento di pausa. Poi, e sia pure impastando un poco le parole, Kramer ci consegnò una perla di adamantina acutezza.

“Siam sempre lì che cantiamo in inglese, il più delle volte dopo esserci tirate giù le parole mentre ascoltiamo i dischi, e succede spessissimo che le parole ce le inventiamo perché non le abbiamo veramente capite. Quando canto Living, Loving dei Led Zeppelin non so bene che cosa dico, ma vado avanti con molta convinzione, tanto la gente non si accorge delle bestialità che bercio. Insomma: per tutto questo tempo tutti noi abbiamo schifato la musica italiana, e soprattutto le parole italiane, no? Giustamente, devo dire. Pensate, che ne so?, a Senza luce: se la paragoni a A Whiter Shade of Pale, è a dir poco imbarazzante. Ma ora forse sta succedendo qualcosa. Questo qua, questo Pino Daniele, per esempio, canta in napoletano, e mi sembra che abbia delle cose belle da dire. Insomma, non sono le solite cazzate.”

“Guarda Kramer, sono già un bel po’ di anni che a Napoli si fa una musica nuova piuttosto interessante. Gli Osanna, il Balletto di Bronzo. Per non parlare della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ma che te lo dico a fare? Tu non hai mai avuto la pazienza di ascoltarti tutta la Gatta Cenerentola. A Padova, all’università, abbiamo fatto le notti con Jesus Christ Superstar, ne conosciamo ogni virgola, e invece quel capolavoro piaceva solo a me. Sai che ti dico? Napoli, e non solo per evidenti ragioni geografiche, è la nostra West Coast.”

“Comunque la mia teoria è che noi italiani, per fare qualcosa di buono in campo musicale, dobbiamo cercarci una lingua che sia sì italiana, ma in modo diverso. Meno condizionata dalla tradizione.”

Piripicchio ascoltava nel frattempo, per l’ennesima volta, Je sto vicino a te, e menando fendenti con le braccia e con le mani sottolineava il ritmo delle anticipate nell’inciso “ma che parlammo a ffà”. Siccome era un bassista, gli piaceva particolarmente il ricco corredo ritmico, il complesso e intrecciato lavoro di basso e batteria. “Pompa che è una meraviglia. Ma chi se ne fotte delle parole? Io dico che se non c’è la musica, se non ci sono i musicisti con i controcazzi, il resto non conta niente”.

Parole sante, a modo loro.

***

In quei mesi del 1979 non potevo neanche lontanamente immaginare che di lì a poco la mia vita sarebbe radicalmente cambiata: che dal “Piccolo” sarei passato al “Mattino”, e da Trieste a Napoli. Benché vi transitassi ogni estate per andare a Capri, Napoli era per me soltanto la Stazione Centrale, via Marina ancora coi segni dei bombardamenti, e il Molo Beverello. Poteva starci al massimo una rapida sosta da Pizzicato, in piazza Municipio, e poi era il ponte di un traghetto o il pozzetto di un aliscafo da cui assistere allo squadernarsi della bellezza man mano che si prendeva il largo.

A Napoli ci arrivai nella primavera del 1980 a bordo della mia formidabile CX. Coi miei nuovi colleghi facemmo in tempo a usarla poche volte. Per esempio, un giorno che, al termine di un’assemblea, era stato proclamato uno sciopero dei giornalisti, partimmo issofatto per Positano. Per il resto, tragitti brevi e brevissimi, in città. Scendevamo dal Casale di Posillipo, dove si coabitava in tre, e andavamo al giornale dove, all’epoca, si faceva sempre molto tardi.

Insomma, potevano essere passati quindici o venti giorni da quando ero arrivato, una notte esco dal giornale e la macchina non c’è più. La cerco per un’ora o due, conscio del fatto che non mi ricordavo mai bene dove l’avevo parcheggiata. Poi ritorno su in preda all’agitazione e un collega della nera prova a telefonare a due o tre “scassi” per vedere se per caso qualcuno gliel’aveva portata. Alla fine realizzo che me l’hanno proprio, e definitivamente, rubata. Soprattutto, il giorno dopo, chiamando l’assicuratore in Friuli, apprendo che non l’avevo mai assicurata contro il furto. Entro insomma in una nuova fase più francescana dell’esistenza, caratterizzata da una serie di Maggioloni Volkswagen, tutti rigorosamente usati e provvisti di una deliziosa aria un po’ vintage. I miei cinque anni successivi, da questo punto di vista, sarebbero stati tutti tedeschi, a parte un vespino che credo mi venne trafugato non più di quattro o cinque ore dopo l’acquisto.

Tutto sommato, andava bene così. L’esperienza mi insegnava che una delle più evidenti differenze tra il vivere a Napoli e il vivere nel Friuli-Venezia Giulia consiste nel diverso grado d’importanza del mezzo di trasporto. A Napoli il macchinone non mi serviva proprio, anzi: sarebbe stato una condanna. Vuoi mettere una macchina al di sotto di ogni tentazione, che puoi parcheggiare dove ti pare, con la quale puoi farti largo nei viluppi del traffico senza tema di rigarla, di strisciarla, di esporla a ogni forma di usura? Il mio collega Antonio Fiore, da questo punto di vista, faceva scuola: la sua arcaica 124 coupé era talmente malmessa che nelle commessure del cofano ci cresceva l’erba. Carlo Nicotera, un altro collega, aveva un trabiccolo da cui ogni tanto, soprattutto in salita, si staccava una ruota che rotolava a valle e tutti noi dovevamo precipitarci a rincorrerla. Quanto a Michele Bonuomo, quando fece il gran salto e dalla Vespa passò all’automobile, ne comprò una di color grigio metallizzato con certe inspiegabili venature auree: pacchianissima. L’architetto Giannì, suo storico sodale noto per il rigore un po’ snobistico dei gusti estetici, la liquidò senza pietà: “Pare la macchina di un grossista di mozzarelle di San Sebastiano al Vesuvio”. Al confronto, i miei Maggioloni, per quanto scassati e comunque sempre efficienti come quello del “Dormiglione” di Woody Allen, andavano che era una bellezza.

Ho già raccontato in un libro (Scuorno, Mondadori 2008) come diventai rapidamente napoletano, e non mi ripeterò. Lo diventai il primo giorno. E capii che in quella città, come poi avvenne, avrei trascorso anni tra i più felici della mia vita. Questo anche se pochi mesi dopo il mio arrivo al “Mattino” mi toccò andare incontro a una tremenda e straordinaria esperienza lontano da Napoli. Parlo del terremoto in Irpinia. Ad Avellino, con molti validi colleghi, ci rimasi mesi, girando tutti come trottole nei paesi del cratere e contribuendo a fare un giornale di cui andavamo giustamente orgogliosi. Ogni tanto, ma piuttosto di rado, scendevamo a Napoli, per qualche riunione o per spezzare il ritmo e rifiatare un momento. Fu in una di queste occasioni che, per esempio, vidi per la prima di almeno diciotto volte il film The Blues Brothers, con John Belushi e Dan Aykroyd. E ricordo che quella volta, durante il viaggio, ascoltai per intero il nuovo disco di Pino Daniele, intitolato Nero a metà. È un album in cui ci sono tante tracce interessanti, e anche molto trascinanti. Ma fin da subito fui colpito da quella che, con ‘A pucundria, era senz’altro la più intimista, la meno rock: Quanno chiove. Ricordo che mi fece l’effetto di certe ballate dei Genesis prima maniera, tipo quelle di Nursery Cryme, ma come depurate di tutti gli orpelli barocchi che Peter Gabriel e compagnia erano soliti affastellare. Tant’è che oggi, nonostante la mia adolescenza polemicamente anti-italiana, debbo riconoscere che Quanno chiove è ancora lì, viva e pulsante e meravigliosamente malinconica, mentre quelle cose dei Genesis sono fatalmente invecchiate e quasi non le sopporto più. Pino Daniele era insomma un musicista post-progressivo di straordinaria sensibilità, di una qualità sopraffina, e aveva dentro un calore, una passione che rinviavano direttamente alla vita, senza vani cerebralismi, ma non per questo poteva risultare corrivo, tutt’altro. Io, del resto, poco tempo prima l’avevo conosciuto di persona: “Il Mattino Illustrato” mi aveva mandato a intervistarlo a Formia, in estate, e ci avevo passato insieme una giornata sana. Non mi pare che, mentre mi spiegava che ‘o feeling è un colore, e che la sua unica preoccupazione era quella di mantenersi vero, e che la musica “pe’ mè è tutto”, e che gli piacevano Ella Fitzgerald, Aretha Franklin e i Weather Report mentre non sopportava i cantautori “ca se lamentano”, e che la popolarità “te dà ‘nu poco ’e fastidio pecché nun può ffa’ niente chiù, nun può piglia’ ‘nu pullman”; mentre mi diceva tutto questo non si separò mai, foss’anche per un solo momento, dalla chitarra sulla quale continuava a esercitarsi.

Tornando a Quanno chiove, la prima cosa che mi piacque di quella canzone fu la sua sostanza tendenzialmente infinita, come il celebre assolo di sax di James Senese che la impreziosisce. Mi spiego: è un meccanismo musicale perfetto, con dentro un’armonia complessa e molto varia (un gruppo come gli Oasis, per dire, se si fosse imbattuto in questa sola canzone, ne avrebbe potuto trarre materiale per almeno un paio di album), che nel segno di Pino fonde insieme tutte le settime del blues e tutte le accensioni liriche della tradizione napoletana, facendone una mescola inimitabile. Specialmente l’inciso, che trovo bellissimo, compie il miracolo di staccarsi nettissimamente, eppure con una morbida naturalezza, dalla strofa che lo precede, mutando completamente il piano musicale, e attingendo un ritmo dolcissimo e sognante, la cui aderenza al reale andavo scoprendo proprio in quell’autunno piovoso: “E aspietta che chiove / l’acqua te ‘nfonne e va / tanto l’aria s’adda cagna’”, parole sostenute da una musica così urgente e necessaria da dover essere ribadite sopra una ulteriore costruzione armonica gemmata dalla precedente: “ma po’ quanno chiove / l’acqua te ‘nfonne e va / tanto l’aria s’adda cagna’”.

Ora dovrei dire che cosa mi ritorna in mente quando ascolto quella canzone, giacché si sa che le canzoni hanno questa fondamentale caratteristica, di essere la colonna sonora della nostra vita, dei momenti più memorabili che abbiamo vissuto. Ma il problema è che talora le canzoni – le belle canzoni – scelgono la nostra vita per sottolinearne certi snodi anche a posteriori; e il resto lo fa la nostra memoria selettiva, capace com’è di essere del tutto arbitraria, e di scegliere, poniamo, che mentre Pino cantava Quanno chiove ci eravamo innamorati di quella ragazza lì, di quella e non di un’altra. Ma io non posso sostenere seriamente un’ipotesi del genere. Di fatto, questa canzone non mi rimanda un singolo episodio o una situazione particolare. Col tempo, posso dire di averla eletta al rango di una specie di inno che sa far rivivere per un momento tutta una stagione felice, e che a mano a mano che quella stagione si allontana nel tempo è capace di eccitare ancora la mia commozione, perfino di farmi spuntare una lacrima.

Curioso effetto: perché poi in Quanno chiove vibra anche un notevole dinamismo: c’è qualcuno che scende le scale di corsa “senza guarda’”, e c’è chi ridendo va al lavoro. Ma è come se a ogni fuga vitalistica facesse da correlativo una pausa intimistica e francamente malinconica. Tu corri, ridi, vai al lavoro, ma tutta la tua vita se ne va lontano, tanto che cerchi di conservarla (di “astipartela”) per non morire… E poi per l’appunto quell’inciso che assomiglia a un “adda passa’ ‘a nuttata” rivisitato quarant’anni dopo. C’è del fatalismo, sì, nell’aspettare che piova, e che un’acqua lustrale ci inzuppi, animati da quella piccola fede elementare secondo cui, dopo lo scroscio, l’aria dovrà cambiare e, chissà, qualcos’altro prima o poi succederà.

A differenza di tante canzoni di Pino Daniele, qui non si racconta una storia, anzi: nemmeno una ipotesi elementare di storia, né si descrive un personaggio. È una canzone rarefatta, senza tempo, puramente impressionistica, e debbo dire che fin dall’inizio mi è venuto da pensare che le parole siano state necessitate dalla musica, che la musica le abbia generate con una specie di automatismo. Sì, d’accordo, ci sono lacerti di situazioni, c’è per esempio la difficoltà di confessarsi le cose, aggravata in questo caso da “’o scuorno ‘e te ‘ncuntra’”. Ma il tessuto è labile, quasi astratto. Ci sono, a presidiarlo, solo pochi fantasmi benigni: oltre alla pioggia, all’acqua che “te ‘nfonna”, c’è per esempio la luna, che quando fa scuro si mette a parlare.

Quando stavo ancora in Friuli, un paio d’anni prima di trasferirmi a Napoli, mi capitò di leggere il romanzo di Nicola Pugliese Malacqua. Era una cosa nuova, garantita da Calvino in una collana di scritture sperimentali. In quel periodo leggevo soltanto quella roba lì, oppure classici o semiclassici. Malacqua mi colpì perché ribaltava l’immagine consueta di Napoli. Anni dopo avrei imparato che l’immagine piovorna della città era tutt’altro che abusiva, e, per esempio, m’imbattei in titoli di opere letterarie come Prologo alle tenebre di Carlo Bernari, o Una spirale di nebbia di Michele Prisco, per non dire de La morte della bellezza di Giuseppe Patroni Griffi, le quali rinviavano un’idea radicalmente diversa a proposito di un luogo che tutta Italia è abituata ad associare al sole, alla luce piena, persino impietosa e sferzante, veicolata dalle canzoni, o da molta letteratura di successo (penso a Giuseppe Marotta). Ecco: Quanno chiove – e a Napoli, ormai lo sapevo, chiove spesso e in modo abbondante – mi diceva la stessa cosa, che cioè la luce, il sole, l’esibito e impudico pulsare della vita possono anche essere illusori e nascondere più segreti corrispettivi. Inoltre, mi suggeriva un’altra caratteristica che avrei imparato a cogliere soltanto vivendoci, perché standone fuori se ne ha un’idea del tutto opposta. Che, cioè, Napoli è un luogo di profonde malinconie, e la malinconia – e perfino l’umor nero, l’ipocondria – è il tratto saliente del carattere dei napoletani, e ciò che di molti di loro fa degli artisti.

È per tutti questi motivi che Pino Daniele, fin da quella remota e limpida notte sotto il cielo stellato del Friuli – andando con Pasolini “viers Pordenon e il mont”, verso Pordenone e il mondo: cioè seguendo docili e pazienti l’unico destino possibile per i vecchi contadini di Casarsa, quello dell’emigrazione – mi è rimasto caro sempre, anche quando per alcuni il suo estro s’era ormai piegato a sensi più commerciali e magari un po’ troppo edulcorati. Quell’uomo dalla debordante fisicità, in così palese contrasto con quel filo di voce afona, aveva un modo speciale di dire le cose, e di farle diventare condivise, universali, buone per essere cantate in coro con un’emozione che ancor oggi, dopo tanti anni, appartiene a tutti.

Frank

di

Marco Petrillo

“Onnisciente”, mi piaceva definirlo così, ma quando glielo dicevo, lui glissava sorridendo e scuoteva la testa con un “Ma figurati!” a seguire.

Su argomenti del genere era schivo, non ne voleva proprio sapere.

Eppure è la verità, fidatevi, lo conoscevo ormai da più di cinquant’anni, quando già disegnava mappe geografiche dettagliatissime di paesi e città inesistenti, perché l’atlante ufficiale non gli bastava più.

Ora dopo lo scippo ingiustificabile di chi per me era un fratello, una vigliaccata della vita quando ti viene a scovare a tradimento, aggiungo anche “amatissimo”.

Gli volevamo tutti un grandissimo bene, per quel suo sorriso che gli illuminava gli occhi e che poi si apriva in una gran risata, che fosse con gli amici davanti a un gin tonic o sul palco di un teatro a cantare le sue belle cose intinte nel repertorio napoletano che tanto amava.

Quello stesso sorriso con cui cantava “Reginella” alla sensibile professoressa di lettere del liceo.

Era fatto così, voleva la leggerezza attorno a sé, dispensandola a piene mani, amava giocare con un’eleganza che non tutti hanno, pur preso da mille impegni che sapeva affrontare e controllare con precisione svizzera.

Parlare di tutto quello che è riuscito a fare nel suo campo è superfluo, gli articoli tutti sinceri si sono affollati in questi giorni e chi l’ha conosciuto e ci ha lavorato assieme non è riuscito a nascondere la domanda sottintesa “Ma dove trovava il tempo per fare tutto?”.

Risposta mia: “Non aveva bisogno del tempo indispensabile per gli altri, era un fulmine d’inventiva e di capacità critica con un patrimonio culturale inesauribile e di pronto impiego”. Tutto qua.

Era in grado di affrontare qualsiasi argomento letterario, una traduzione, una lettura con la sua bella voce, un’intervista o una recensione, che fluivano con una naturalezza incantatrice, senza esagerare, senza che trasparisse il minimo autocompiacimento.

In mezzo a tutto questo aveva anche modo di fare lo scrittore.

Ora che non c’è più, mi mancherà quella sua capacità di comparire all’improvviso con un messaggio o una telefonata, facendomi delle offerte che secondo lui non avrei potuto rifiutare, a volte matte e a volte sensate, venate da una goliardia mai sopita, ma comunque sempre sue.

Mi mancheranno i suoi bei modi napoletani che mi parlavano di sogni e di imprese, di musica e storie vere o inventate lì per lì, di voglia di vivere e di ricordi belli.

Mi mancherà il suo abbraccio.

Come scriveva Mauro Marè alla fine della sua poesia “Er cinematofrego”:

…..La luce in sala, s’apreno le porte.

Aspetti er bibitaro

e arriva quella stronza della morte.

 

 

Campo d’onore ( Bagatella delle iniezioni)

2

di Giorgio Mascitelli

 

   Con gesto muzioscevolico Guido della Veloira protende la mano verso quella del dottore che gli consegna la prescrizione di un ciclo di iniezioni. Non c’è da preoccuparsi, non è nulla di grave. Eppure questa prescrizione gli lascia l’amaro in bocca quasi si trattasse di qualcosa d’impensabile nell’oggi, quasi fosse un’improvvisa riapparizione di un passato che non vuole passare; ineffetti c’è da dire che il suo dottore, che a questo punto sarebbe più giusto chiamare sciur dutur, è abbastanza avanti con gli anni, come fosse un fossile congiuntamente conservato al lavoro dalla legge Fornero e dall’estromissione dai vantaggi di Quota Cento in ragione magari di oscuri e infernali trascorsi contabili, e nessuno avrebbe il coraggio di apostrofarlo, come fanno i pazienti aggiornati già più autentici clienti che semplici pazienti, con il più consono appellativo di Doc. Quanto a sé, quanto a quel che s’aspetta per sé, Guido della Veloira vorrebbe non dico una cura più contemporanea, anche se è chiaro che nel futuro qualsiasi malattia ( a parte che le malattie di ognuno le prevederanno già dalla nascita anche esattamente nel giorno in cui iniziano a parte le virali che non si può prevedere) le cureranno con un microchip, due staminali e un calcio nel culo e via, ma s’accontenterebbe di una pastiglia, di un integratore, di una nebulizzazione al limite.

E’ ovvio che per Guido della Veloira le iniezioni sono il suo campo d’onore, tanto più che, non essendosi dichiarato abile alla mansione nessuno tra i suoi cari, ha dovuto rivolgersi all’infermiera Carlotta. Chissà perché anche le infermiere non vengono chiamate Sister dal paziente, ma la spiegazione probabilmente è che esse non vengono chiamate dal paziente, ma dal doc, allora esse vengono, eseguono prontamente e si ritirano senza indugio.

Quando sa della prescrizione ( o punizione?), un vicino di casa un po’ saputello gli spiega che lui mai rischierebbe una  fine del genere e gli mostra orgoglioso sul telefono la sua più recente app. E’ un’app che tiene conto di tutti i parametri della perfetta salute di ogni singolo valore importante, dal colesterolo alla glicemia fino alla pressione, e che provvede a dare consigli sui farmaci giusti per ottenere il raggiungimento e il rispetto dei predetti valori in occasione del controllo trimestrale di routine tramite gli esami del sangue. Questa app è indispensabile al giorno d’oggi, visto che la tendenza nei trials è quello dell’affinamento e del miglioramento, ovvero dell’innalzamento o abbassamento, di ogni parametro e ciò che un dì fu salutare oggi non lo è più, cosicché la farmacopea e i comportamenti virtuosi che da essa nascono devono costantemente tenere il passo di questi progressi. Con questo metodo il vicino sa già con legittimo orgoglio che non incorrerà mai nell’umiliazione della puntura.

C’è da aggiungere che quello di Guido della Veloira è un condominio molto animato e variamente popolato. Così appena due piani sopra a quel vicino abita una giovane madre che invece, sulla via della guarigione, segue i consigli del Maestro Zam Bon. Il Maestro Zam Bon suole spiegare che la presenza di microbi, bacilli e quelle altre robe così nel corpo sono solo il segno di un insufficiente grado di meditazione del soggetto; pertanto le malattie infettive non sono altro che la somatizzazione di questa insufficienza. La giovane madre volle esporre questa teoria con riscontri difficili da decifrare alla vicina ottantenne, allorché costei non riusciva a riprendersi dall’influenza invernale. E’ positivo invece che chi sta percorrendo il proprio cammino di salvezza, solo se si è inoltrato oltre un certo segno però, è perfettamente immune. Questo spiega tra l’altro perché la varicella è molto più fastidiosa e pesante negli adulti che nei bambini, giacché in fondo è fisiologico che un bambino non mediti molto. Sulle vaccinazioni poi il Maestro Zam Bon, che è uomo in cui la fede nella saggezza è contemperata dalla prudenza nelle cose secolari, ha una posizione articolata: egli afferma che chi è avanti nel cammino non ne ha più bisogno, mentre chi non si sente pronto è meglio che le faccia. Quando la vicina, che doveva decidere se vaccinare il figlio, gli ha chiesto se lui la vedeva pronta, ha risposto che questo doveva percepirlo lei stessa sentendo dentro di sé una voce interiore che ne attestava la prontitudine. Siccome a lei sembrava di sentirla ha deciso di non vaccinare il bimbo. Di una cosa è certa la giovane madre ed è che a lei, seguendo la via della meditazione, mai capiterà l’umiliazione della puntura.

Quando attende l’infermiera Carlotta, che giunge per fargli l’iniezione, Guido della Veloira ambirebbe a mostrare a sé e agli altri quell’ammirevole serenità d’animo che il Duca d’Enghien mostrò dormendo profondamente la notte avanti la battaglia di Rocroi, ma sa già che la sua discesa sul campo d’onore sarà forzatamente più travagliata. Su tutto il resto Guido della Veloira sente di avere espresso la propria non definitiva opinione, anche se per la verità nessuno l’ha udita, e quando sente l’infermiera Carlotta suonare al citofono si ridice facendosi coraggio ‘ stretta è la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia’; ma ciò è profondamente impreciso, anzi sbagliato, giacchè non sfuggirebbe neanche all’osservatore più svagato che la via va facendosi sempre più stretta.

Ulisse tecnologico #2

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di Giuseppe Martella

(Qui la prima puntata.)

2. Il gioco delle parti  

E’ solo la costanza delle versioni dell’intreccio a garantire l’identità dell’autore-eroe. Odisseo e Omero che si scambiano le parti del narratore nel mezzo del poema, in quella splendida scena cerimoniale alla reggia dei Feaci, non sono Nessuno senza la fissazione della polytropia, della figuralità vagante del linguaggio orale, nel medium della scrittura incipiente. Essi rimangono dei funtivi narrativi vuoti e liberamente appropriabili ad ogni nuova performance dal rapsodo di turno che, invasato dal Dio, pieno di énthousiasmos e in possesso della mnemo-tecnica formulare, dà loro “a local habitation and a name” (Shakespeare), per un uditorio occasionale.

Undici. I miei anni allora

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di Federica Rigliani

Trascorsi la ricreazione in bagno. Tornata in classe non mi mossi dal posto e non andai alla lavagna quando la maestra me lo chiese, aspettavo la campanella di uscita e ogni tanto scostavo il grembiule per sbirciare tra le gambe. Alla fine suonò, ma non feci la fila con i compagni, temevo di alzarmi. Rimasi sola, strinsi con un nodo le maniche della felpa sui fianchi e guardai la seduta. Era pulita.

– Siamo a pranzo da nonna – disse mia madre fuori dalla scuola.
– Per favore, andiamo a casa – risposi.

Con un cenno brusco mi invitò a chiudere lo sportello della Renault e a non fare la solita. Io, così brava a rovinarle le giornate. Canticchiava fissando la strada, fuori tutto correva e dentro la musica era alta. Quando mi costrinse a tirare su il finestrino perché l’aria non le spettinasse la messa in piega, mi sentii morire. Avrei dovuto raccontarle del fastidio bagnato tra le gambe e di quell’odore che non riconoscevo. Per bisogno, non per confidenza. Ma la nostra normalità non me lo permise.

Non siamo mai state amiche, noi.

Il nostro è un legame obbligato che è così poca cosa…

Indifferente ai miei segreti di bambina, mia madre ha ascoltato la mia vita con distacco tra una faccenda e l’altra. Era interessata solo a mio fratello, il primogenito capace di accenderle lo sguardo senza far niente. A quarant’anni sono ancora nulla rispetto a Sandro, il figlio maschio che ai suoi occhi ha sempre avuto ragione.

Come il giorno che portammo il tavolo della cucina, le sedie e la cassapanca. Di anni ne avevo cinque e non ci eravamo ancora trasferiti; le stanze erano vuote, le pareti fresche di pittura, i pavimenti sporchi di tempera. Quando mia madre mi rimproverò per aver gettato il cappottino a terra, io glielo dissi che era stato lui. Sandro negò. Allora lei mi mise in piedi su una sedia, altezza sguardo, e le rughe di espressione le si strinsero intorno agli occhi come artigli.

– Perché non dici la verità?
– Non sono stata io.

Tante volte me lo chiese. Tante volte risposi la stessa cosa.

Ad ogni risposta uno schiaffo, prima la guancia destra, poi la sinistra.

Non sono stata io, ripetei fin quando mi voltò le spalle dopo l’ultima sberla. Solo allora le mie guance roventi si bagnarono.

Nonna aveva apparecchiato in salone con il servizio bianco dal bordo rosso, nelle scodelle la lasagna era gialla, rossa e fumante. C’erano zia Anita con il marito e la famiglia di zia Adelaide, i suoi due figli adolescenti erano gli unici cugini maschi che avevo.

– Vado a lavarmi le mani – dissi.

Raggiungere il bagno e provare sollievo fu tutt’uno. Dopo aver poggiato felpa e grembiule sul lavandino, cercai l’equilibrio sul bordo vasca con la maglia sollevata. Guardare i miei seni allo specchio non suggeriva cambiamenti, erano piccoli bottoni di carne uguali a sempre. La novità ce l’avevo dentro al naso e tra le gambe: abbassando i pantaloni mi raggiunse un odore di ferro arrugginito, forte da farmi scostare il viso; guardando le mutandine ebbi la certezza che la carta igienica non bastava più. Dovevo chiamare mia madre.

Pensavo a come dirglielo mentre ascoltavo i suoi tacchi avvicinarsi. Quando smisero di picchiettare sul pavimento, la maniglia si abbassò. Trattenni il respiro.

– Mamma… io…
– Che hai ricombinato?

Non ricordo cosa dissi. Ricordo un gridolino, la sua stretta, le mie braccia lungo i fianchi, l’imbarazzo mentre mi tirava giù la cerniera e subito dopo il fastidio dell’ovatta.

– Mi porti a casa?
– Più tardi. Ora dobbiamo festeggiare.

Non feci in tempo a dirle di non parlarne con nessuno, che sentii il cuore battere nel polso stretto intorno alla sua mano mentre mi trascinava in corridoio.

– È diventata signorina! È diventata signorina!

Trovai mio padre e mio fratello in salone. Gli adulti alzarono i bicchieri e nonna mi invitò a sedermi a capotavola. Mi umiliò sentirla dire a mia madre adesso devi controllarla e mi sentii alla gogna quando vidi Sandro e i miei cugini parlarsi all’orecchio, proteggevano la bocca con la mano sotto sguardi beffardi. Fu allora che cominciai a vorticare immobile al centro della stanza mentre le parole arrivavano deformate in echi sovrapposti: è un grande momento, sostenevano tutte, sei una donna ora, potrai diventare mamma, ripetevano tra congratulazioni e abbracci.

Ero terrorizzata dal pensiero che si avvertisse il mio odore estraneo e tenevo i movimenti stretti per non muovere l’aria, mentre loro srotolavano il futuro sul mio presente paralizzato.

Ora grido. Ricordo che lo pensai mentre prendevo posto. Mi trattenni.

Assaggiai il primo, il secondo rimase nel piatto.

Da allora il nostro rapporto obbligato è rimasto ben poca cosa.

Ho provato più volte a raccontarle quanto mi mortificò, non ci sono mai riuscita. Le sedute dallo psicologo mi hanno aiutata a superare criticità, trovare un equilibrio nel mio essere donna e mamma, comprendere qualcosa di lei. Non era l’assenza di bene a muoverla, era l’orgoglio per il maschio. Lo vedo da come tratta i miei figli: indifferente con Francesca, attenta con Giorgio.

Oggi io e Francesca siamo sedute a un tavolo nella veranda di un piccolo ristorante, sulla piazza dietro casa. Le tovaglie sono a scacchi rossi e bianchi e al centro c’è un vasetto con fiori primaverili.

I bicchieri di spumante hanno fatto tic, per lei solo un sorso. È piccola la mia bambina, ma dovevamo brindare. Frequenta la prima media e oggi è tornata a casa con un grande sorriso e la felpa annodata al punto vita. Per il disagio dello spessore, ha detto, pensava si vedesse l’ingombro tra le gambe. Ha stretto la sua mano intorno al mio polso e mi ha trascinata in bagno sussurrandomi:

– Vieni, mamma. Corri…

Era successo tutto come pensava, tutto come le avevo detto, e tenere per tanti mesi un assorbente nella tasca interna dello zaino era stata una genialata. Questo mi ha confidato.

L’ho guardata con gli occhi lucidi, l’ho risentita sulla pancia quando me l’hanno data la prima volta e avevo paura di toccarla. L’ho vista adulta. L’ho vista andar via. E ho pianto.

Ha appena ordinato una lasagna la mia piccola donna. Io pasta con le vongole.

Io la lasagna da allora non l’ho più mangiata.

Un adulterio

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 di Gianni Biondillo

Edoardo Albinati, Un adulterio, Rizzoli, 2017, 126 pagine

Uscito dall’esperienza elefantiaca del romanzo precedente Edoardo Albinati torna in libreria con una piccola storia: Un adulterio. Già dal titolo si respira un’aria inattuale, viene da dire ottocentesca. Si può ancora parlare di adulterio nel XXI secolo? Chi tradisce chi? Clementina ed Erri, i due giovani amanti, sono sposati entrambi. Hanno chi un marito, chi una moglie, ai quali nulla va rimproverato. Hanno entrambi una vita soddisfacente, una buona condizione sociale, Clementina un figlio nato da poco, Erri due figli.

Ma questa vita così piena, così soddisfacente sembra non basti. C’è come una febbre che li attanaglia fin dal loro primo fortuito incontro. Il racconto di come abbiano deciso di tradire i loro cogniugi arriva tardi; Albinati ci presenta i due protagonisti già al culmine del loro adulterio, quando stanno traghettando verso un’isola a un’ora di aliscafo dalla costa e, idealmente, dal mondo intero.

Si sono presi un fine settimana, due giorni fuori dalla quotidianità per amarsi senza sconti, senza remore. Più che la trama, labile per quanto puntuale, compilatoria, ad Albinati sembra interessi raccontare il desiderio, i sentimenti dei due protagonisti. Il suo è un esercizio di stile: come trasmettere l’amore fisico, carnale di due persone sostanzialmente sconosciute, evitando una deriva virilista, una scrittura sessualizzata? Albinati scrive, in questo libro, come ci immaginiamo debba scrivere una donna, non un uomo, ribaltando i pregiudizi di genere letterario. La sua è una scrittura erotica e ben educata.

Il fine settimana dei due amanti, come è ovvio, passa in fretta. L’isola di libertà dai vincoli sociali dev’essere abbandonata. Si torna a casa. Ma chi alla fine, dei due ne soffrirà di più ricordando questo sogno ad occhi aperti che si stanno lasciando alle spalle?

(precedentemente pubblicato su Cooperazione ma non ricordo il numero del 2017)

Storia con gatto

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di Andrea Inglese

 

Vedo un uomo. Corre via. Non è un filosofo. Io stesso corro. Io corro a perdifiato. Vedo un uomo. Corre via di nuovo. Non è lo stesso uomo. Non è neppure lui un filosofo. Io corro. Io corro da un bel pezzo. Vedo anche altre persone, oltre agli uomini. Ci sono persone e ci sono uomini. Sono misti.

Flavio Ermini: Edeniche

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Tre poesie, con una nota critica di Antonio Delogu

 

 

il crinale pietroso

 

nell’attestare con l’inchiostro quanto altrove svanisce

testimonia il mortale l’interminabilità del cadere

incessantemente manifestandosi come verbale presenza

nell’imperfetta sua aderenza al pietroso crinale

per un altissimo grado di estraneità alle tenebre

Violenza, creatrice di diritto

3

 

Gabriel Natale Hjorth bendato nella caserma dei carabinieri

 

«La funzione della violenza nella creazione giuridica» scrive Benjamin «è, infatti, duplice, nel senso che la posizione del diritto, mentre persegue come scopo, con la violenza come mezzo, ciò che viene instaurato come diritto, pure, nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito, non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto e immediatamente violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto col nome di potere non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato ad essa.»

Post in translation: Antonella Anedda/ Jean-Charles Vegliante

3

 

 

 

Esilii
di
Antonella Anedda

 

 

 

 

 

 

Pieno il mare di esuli; gli scogli coperti di sangue
Tacito Historiae

Oggi penso ai due dei tanti morti affogati
a pochi metri da queste coste soleggiate
trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati.
Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo
e cosa ne sarà del sangue dentro il sale,
allora studio – cerco tra i vecchi libri
di medicina legale di mio padre
un manuale dove le vittime
sono fotografate insieme ai criminali
alla rinfusa: suicidi, assassini, organi genitali.
Niente paesaggi solo il cielo d’acciaio delle foto,
raramente una sedia, un torso coperto da un lenzuolo,
i piedi sopra una branda nudi.
Leggo. Scopro che il termine esatto è livor mortis.
Il sangue si raccoglie in basso e si raggruma
prima rosso poi livido infine si fa polvere
e può– sì– sciogliersi nel sale.

Pleine la mer d’exilés, les rochers couverts de sang
Tacite, Historiae

Aujourd’hui je pense aux deux, parmi d’autres, noyés
à quelques mètres de ces côtes ensoleillées
retrouvés sous le bateau, étroitement embrassés.
Je me demande si sur leurs os poussera le corail
et ce qu’il adviendra du sang dedans le sel,
alors j’étudie – je cherche parmi les vieux livres
de médecine légale de mon père
un manuel où les victimes
sont photographiées avec les criminels
pêle-mêle : suicidés, assassins, organes génitaux.
Pas de paysages sous le ciel d’acier des photos, rarement une
chaise
un torse recouvert d’un drap, les pieds sur un brancard nus.
Je lis. Découvre que le terme exact est livor mortis.
Le sang se rassemble en bas et se coagule
d’abord rouge puis livide enfin devient poussière
et peut, oui, se dissoudre dans le sel.

(trad. J.-Ch. V.)

Ulisse tecnologico #1

3

di Giuseppe Martella

  1. Marchingegni

Ulisse, ingegnoso e mendace, è uno dei più noti eroi culturali di ogni tempo. Le sue astuzie proverbiali rimangono impresse nei nostri ricordi e tra esse spicca quella da lui messa in atto nella grotta di Polifemo, dove secondo alcuni si svolge “lo scontro tra chi si muove e chi sta fermo: l’opposizione originaria, il cui esito, favorevole alla mobilità, ha fatto di quest’ultima la condizione fondamentale per tutto quello che chiamiamo cultura.”

Andrea Camilleri – Sud

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Per il numero 1 di Sud, Andrea Camilleri scrisse per noi questo magnifico racconto (effeffe)

Scultore di sé

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di Daniele Muriano

 

Quanto gli piaceva scolpire nel giardino, mentre in estate gli uccelli svolazzavano attorno senza posarsi sul marmo, o mentre in diverse stagioni, se il tempo era calmo, la natura sembrava trattenere il respiro intorno a lui per guardare. Aveva scolpito una volta, d’inverno, con tutta la neve sparsa per i prati e sui tetti: dopo cena, gli era parso davvero che il busto si fosse deformato, ma poi guardando meglio aveva notato i nuovi fiocchi nel vento, di là dalla finestra. La natura era sempre viva, e tutti i giorni il cielo era un testimone ingombrante che reagiva ai colpi di scalpello incurvandosi come un ventre che testimonia il respiro.

Cielo di stelle

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  di Gianni Biondillo

Erminio Ferrari, Cielo di stelle, Casagrande, 147 pagine

Era una notte di febbraio del 1966 quando quindici operai italiani e due pompieri ticinesi trovarono la morte nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico in costruzione fra le valli Bedretto e Bavona. Uccisi in modo subdolo, da un gas tossico ristagnate nel cunicolo.

Cielo di stelle racconta questa storia. Ma, prima ancora, questo libro ci racconta come l’autore, un quarto di secolo dopo la tragedia, sia incappato in questa storia all’apparenza lontana e come l’abbia ossessionato. Cercando testimoni, documenti, riscontri. Il cipiglio di Erminio Ferrari è quello del giornalista d’inchiesta, ma la scrittura è di tutt’altra natura. Ferrari ci racconta il più rovinoso incidente sul lavoro del Ticino senza usare toni scandalistici. A lui, passate ormai due generazioni, interessa l’umanità perduta, interessa la pietas.

Con dovizia, con fermezza, ha parlato con i minatori sopravvissuti, ormai in pensione, con le vedove, con la figlie ormai donne e madri. Non ha cercato il nome di un colpevole – anche se molte sono la pagine dedicate ai processi dell’epoca. Ha, con questa indagine, voluto scrivere la storia di una terra, il Ticino, che a passo forzato voleva modernizzarsi e di un popolo migrante e miserabile, l’italiano, che voleva emanciparsi dalla fame, pronto per questo ogni giorno a rischiare la vita.

Uno dei pochi doveri della letteratura è “fare memoria”. Non perdere le piccole storie dei viventi, quelle macinate dalla Storia con la S maiuscola. Fare memoria significa avere consapevolezza che il paesaggio che si attraversa, oggi all’apparenza idilliaco, è stato scenario di dolori e perdite. Che certe parole d’ordine, certi razzismi quotidiani che oggi riaffiorano, hanno origini lontane. È chiedere di non ricadere negli stessi errori dei nostri padri. Questo fa Ferrari: fa letteratura.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 24, del 13 giugno 2017)

Hate is a special feeling: scene alternative toscane nei Novanta

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di Andrea Betti

La sala prove era alla fine di una strada bianca, in un casolare, fra i canneti che, come la casina di Yoda, emergeva dalla mota millenaria di quelle terre, aggrappato all’argine del canale in mezzo ai campi, dove la figlia zoppa e suo padre, il Martini, camminano eternamente scontrosi. Vanno da Cioni Mario, l’unico marito possibile per questa figlia sciancata; – …tanto son di famiglia moritura – le dice il padre, così che quando il povero Cioni ci rimarrà secco fiammifero durante l’amplesso, potranno riunire i poderi e andare in culo al mondo. Ma lei non ne vuol sapere. Mario è brutto. Il Martini la minaccia: – O chi vòi? Marlon Brando? …Sta’ zitta! Ti do uno schiaffo ti spoglio.

Questa é la Toscana cui hanno asportato il pittoresco senza anestesia, la piana fradicia che si stende fra Prato, Pistoia e Firenze, dove il vino inacidisce nelle cantine, delle campagne incolte segnate dai cantieri dei capannoni e dei centri commerciali che di lì a breve avrebbero riempito il vuoto della civiltà agreste in disarmo; le wasteland dove fu girato “Berlinguer Ti Voglio Bene”.

Il Muro di Berlino e l’idea, seppur controversa, di un mondo non esclusivamente capitalista, erano crollati da appena un anno; ancora teneva quel sistema di Case del Popolo e Festival dell’Unità innestati come elettrodi nel tessuto ancestrale e necrotico dell’impermanenza contadina. Di lì a poco sarebbero tramontati, nel silenzio dei telai delocalizzati, anche i distretti industriali e nei circoli sarebbero comparse le slot-machines. L’America, o per meglio dire, la ricezione precocissima dell’istanza grunge\crossover e ancor prima, del punk e della new-wave, ebbe luogo qui, nell’impensabile di cui il pieraccionesco è farsa edulcorata ed esposizione di macchiette depotenziate, fra vecchi comunisti ruvidi e avvinazzati, nel coro delle pastose bestemmie a briscola.  Nelle balere acchittate a bat-caverna per chicken-goth dance e poghi furiosi, prese in prestito al liscio, si formarono le prime band alternative toscane, che della vivace scena wave fiorentina del decennio precedente ricalcavano i processi insondabili di concrezione in un’inspiegabile affinità elettiva con il nuovo “rock tormentato” di Seattle. Simili gli sguardi increduli di matusalemmi bifolchi e giovani precocemente invecchiati nell’animo, che deridevano le creste, i giubbotti di pelle pieni di spillette, le borchie, i Doc Martens, i primi dreadlocks, le pose dei giovani ribelli… – Bada lì come tu se’ conciato! Ma che se’ buho? – perché non era insolito il make-up anche fra i maschi. L’odio è un sentimento speciale e universale: la reazione chimica era simile a quella di Seattle ma non avrebbe incontrato le infrastrutture e le vastità del mercato statunitense. Il fallimento era assicurato.

Il casolare apparteneva a Marco Ricci, chitarrista e geniale deus ex-machina dei Go Insane, band nella quale ho militato in veste di front man, o per meglio dire sguaiato urlatore, per poco meno di un anno, dal 1990 al ’91, un anno intenso: circa una ventina di concerti e la registrazione di un demo tape. Condividevano con noi quello strapuntino sul fosso anche i più noti Glomming Geek; loro erano riusciti a “fare il disco”, traguardo aureo delle band sotterranee dell’epoca. In quelle notti di prove incessanti nella stanza rivestita di cartone da uova, fra cyloom spezzati in terra e nubi purpuree dal mixer in corto, avevamo, fra i molti eccessi, la sana abitudine di scambiarci cassette attraverso cui chi riusciva a comprare un vinile, condivideva con gli altri la propria esperienza estatica. Tanti gruppi, americani perlopiù, pervenuti a noi tramite i 45 giri della Sub Pop e altre gloriose indipendenti nordamericane, che Marco, Fabio e Fabrizio (rispettivamente chitarra, basso e batteria dei Go Insane) collezionavano, ispirandoci e trascinandoci in un nuovo concetto di “rock”, che poi sarebbe diventato il post-rock, rendendoci all’avanguardia ma inintelligibili all’ascolto dei nostri contemporanei: troppo punk per i metallari, troppo metal per i punk.

Stavamo sul cazzo a tutti, ai vecchi, ai giovani, ai pottini, ai dark, ai tamarri. Ma in quella commistione di stili in cui tutto veniva frullato per esplodere, eravamo fomentati dal demone del Nuovo e poco ci importava del marketing e della comprensione dei nostri simili che odiavamo. Durante uno dei consueti scambi di cassette, Spartaco e Tommy (voce e basso dei Glomming Geek) erano lì appoggiati al cofano della Talbot Solara del Bullman che dicevano:

– Sì, sì, sì, tutto molto bello, Nirvana, Jane’s Addiction… ma il Gruppo Fondamentale erano loro: gli Electric Peace.

E Tommy annuiva:

– Indubbiamente…

Pur assiduo lettore di Rockerilla, sono sempre stato un superficiale e non sono mai stato un fissato o un esegeta di alcunché, ma persino i miei compagni di band che erano musicalmente assai più colti del sottoscritto, drizzarono le orecchie. Chi erano questi Electric Peace? Tenterò una azzardata descrizione di questo fenomeno liminale: immaginate allora di non essere una band, piuttosto un elemento radioattivo, in perenne transizione fra i Doors e i Deep Purple, un picaresco ensemble di bikers che ai vostri contemporanei di metà anni Ottanta, dediti a fonarsi le chiome e sgallettare sul synth pop, risultiate tremendamente datati, ma al termine della vostra parabola vi ritroviate, proprio per le stesse caratteristiche che vi rendevano demodé negli Eighties, fottutamente avant-garde nei Nineties.

Di fatto gli Electric Peace dal 1985 al 1989 avevano anticipato ed esaurito tutto quello che ritroveremo poi smembrato e sviluppato in singole parti nel cross-over. Hard rock psichedelico (Tad? Screaming Trees? I primi Sound Garden?) traviato dalla presenza magniloquente e ben amalgamata dell’organo Hammond, ma senza ammiccamenti à la Fuzztones; ai nostri poco importava di essere dei sex symbols come Rudy Protrudy: loro puntavano ad essere dei death symbols. I’m a snyper on the rooftop, I Think I’ll die, I Will Kill for your Love etc… l’impeto del garage punk veniva lanciato come una maledizione da metalliche montagne della follia, trainato dalla voce stentorea di Brian Kild e dalla chitarra blues di Honey Davis. Stiamo parlando di vero blues da fricchettoni di Venice coi piedi sudici, esuberante ma mai affettato o vanaglorioso, contraffatto da un sound che descrive nel dettaglio la transizione del lisergico nell’alba oscura del narcotico e dell’anfetaminico; cambiano le droghe e le prospettive, di conseguenza la musica popolare. Robba da Hell’s Angels cui abbiano somministrato, alla zitta, datura stramonio mescolato al bourbon, durante beach party notturni fra surfisti dissennati che si trasformano in sabba: non si può non riconoscere agli Electric Peace, il dono di un ammaliante mesmerismo, come nei più celebri neri sabbatici del vecchio zio Oz.

Com’è andata a finire?

Il cantante, il carismatico Brian Kild ora pare venda moto, mentre il chitarrista della prima line-up Jim Hawkinson, in moto ci è morto proprio, in ottemperanza alla loro Drinkin’ and Drivin’ (‘Till The day I Die). Noi giovanotti scapestrati sognavamo di seguire il loro esempio, di essere come quella gentaglia in fuga da sceriffi e paranoie, i cecchini sul tetto che sparano a caso sulla folla, di percorrere le vie per l’Inferno animati da sinceri propositi suicidi. Se i Led Zeppelin cantavano di scale per il paradiso, i nostri miravano dritti dritti alla catabasi (come nel loro anthem “Goin’ to Hell”) ovviamente a bordo di harley tabogate con teschi cromati, indossando occhiali neri anche a notte fonda per attraversare ciechi e forsennati, il lato oscuro della California.

Anche noi ci sentivamo così, di ritorno dal Backdoors, negli abitacoli fumosi dei nostri scassoni; gli amici che mi hanno regalato la prima cassetta da novanta contenente i due album “Medieval Mosquito” e “Insecticide” ci hanno lasciato anch’essi pochi anni fa: Tomaso Azara, artista poliedrico, bassista, dj e in seguito sofisticato producer di musica elettronica e Giovanni Borselli detto Bullman, tastierista dei Glomming Geek, stregone dell’elettronica e costruttore di monumentali rack di effetti, che trasformavano il suo Farfisa in un gutturale athanor per circensi trenodie; la profonda connessione “spirituale” dei Glomming Geek con gli Electric Peace forse nasceva proprio dalla tastiera, che avevano mantenuto in dialogo con le Gibson distorte e i ritmi parossistici che il nuovo gusto imponeva. La tastiera nel corso degli anni Ottanta era diventata, da strumento emblema del non-musicista wave, la chiave di volta del pop commerciale, esaurita ogni psichedelia, si era fatta orpello figo da litorale ibizenco, la stucchevole generatrice di trombette degli Europe, per non parlare degli arpeggi da segaioli della fusion; per tale manifesta incompatibilità veniva giustamente sdegnata dai nuovi rocker esistenzialisti. E poi era veramente difficile armonizzarla in un gruppo hard rock.

I Glomming Geek traghettavano nel nuovo pianeta roccioso il loro retaggio new-wave, creando una miscela originalissima, che li faceva spiccare nel panorama italiano al solito affetto da cronico e insanabile epigonismo. Nonostante questo, per ragioni che non conosco né indago, fatto salvo il consueto tocco trance, sciamanico di Spartaco, nel secondo album abbandonarono il tenebroso Farfisa per farsi robusti e ultraviolenti in chitarre, sacrificando a mio avviso qualcosina sull’Altare dei Muraglioni Marshall con tutti i pitch a dieci, anche se all’epoca io preferii questo album più allineato al precedente, il Caveiano-Lynchano “Dog’s Head”.

I Glomming Geek come gli Electric Peace garantiscono un ascolto emozionante ancora oggi, illuminante per chi aneli sonorità storte e poco inclini ad essere etichettate; una rivelazione per l’ascoltatore onnivoro e insaziabile che ognuno di noi dovrebbe essere. Alla fine della discesa agli inferi, troverete una ninna nanna che non consola né redime dalla consapevolezza del Male che si agita in fondo all’umanità, e nel loro esequiale ultimo sberleffo ad ogni aspettativa e aderenza stilistica, la pace elettrica dei disadattati.

—–

Go Insane

https://myspace.com/goinsaneitaly/music/songs

Glomming Geek

https://it.wikipedia.org/wiki/Glomming_Geek

Discografia:

1990 – Dog’s Head (Vitriol)

1992 – Dig a Hole in the Sky (Wide Records)

 

Electric Peace

Recensioni

https://www.debaser.it/electric-peace/medieval-mosquito/recensione

https://reverendolys.wordpress.com/2017/12/01/electric-peace-lc-1249-53/

 

Discografia:

1985 – Rest in Peace (Enigma Records)

1987 – Medieval Mosquito (Barred Records)

1988 – Insecticide (Barred Records)

1989 – Road to Peace (Barred Records)

Una versione ridotta del pezzo è uscita su MegaHertz, inserto di Metropolis, il 20 maggio 2019.

Presto ultralontano

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di Gregorio Tenti

“Sarà finito il chiasso, domattina, ma io sarò a letto e mi moltiplicherò per non morire.”
B. Brecht, Tamburi nella notte

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Fumavano e formavano lì davanti a tutti, prendevano gli uomini squagliati dai rombi della luce e gli uomini incastrati. Anche il loro gruppo cominciava a spalancarsi dal dolore. Altre figure lavoravano a saldare i ranghi, ma alla fine c’erano sempre loro, che uscivano rapidi e fedeli dall’edificio, che si lavavano i nervi dalla calce, tutti insieme. Ci mostravano la nostra utile grandezza. Si muovevano bene perché figli di carnefici, come la mano senza appetito della specie, cui dicono appartenga il presente. L’evoluzione ha tollerato lunghi sforzi e grandi voli; poiché certo è più facile sperare.

*

Bieiris de Romans o il saffismo nel medioevo

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di Edoardo Angrilli

 

 

Donna angelo, donna schermo, Domna o tiranna, soltanto questi pochi appellativi rendono palpabile l’innegabile centralità della presenza femminile nella lirica cortese. Invocata, supplicata o lodata la donna parebbe avere in questa importante e consistente tradizione una ruolo puramente passivo, tanto da diventare, da topico oggetto poetico, un mero pretesto letterario, uno spunto lirico. Tuttavia, dovremmo dire parziale, se non faziosa, questa visione subordinata e remissiva della donna nel medioevo, basti guardare al corpus delle trobairitz, poetesse a pieno diritto pari alla loro controparte maschile, i trovatori.

Seppur di difficile delimitazione – Schultz-Gora[1] elenca sedici componimenti, Bogin[2] ventitrè, Paden[3] venti, Zufferey[4] ritorna sui sedici… –, a causa delle differente implicazione femminile del testo (testuale o genetica), il Maximalkorpus di questa tradizione viene generalmente fatto coincidere con un numero di quarantasei componimenti assegnati a venti trobairitz. Esso, fonte di incredibile interesse per lo studio della condizione femminile nel medioevo, rivela nella sua varietà la grande libertà espressiva concessa a queste scrittrici, quasi tutte di nobili natali, s’intende. Infatti, ad esse non solo era concesso in piena libertà di intonare languidi vers di desiderio amoroso, ma erano addirittura chiamate ad intervenire, proprio in qualità di donne, sui dibattiti attorno alla natura di Amore e sulla conseguente etichetta da seguire nel rapporto tra l’amante e l’amata.

Si veda ad esempio quest’estratto della poesia Estat ai en greu consirier (BdT 46,4) della Contessa di Dia[5]:

Ben volria mon cavallier

tener un ser en mos bratz nut,

q’el s’en tengra per ereubut

sol qu’a lui fezes cosseillier,

car plus m’en sui abellida

no fetz Floris de Blancheflor :

ieu l’autrei mon cor e m’amor,

mon sen, mos huoills e ma vida. (vv. 9-16)

[Vorrei stringere nudo, una sera, il mio cavaliere tra le mie braccia, e che lui si sentisse felice solo che io gli facessi da cuscino; perché mi piace più di quanto a Florio piaceva Biancofiore: io gli concedo il mio cuore e il mio amore, il mio senno, i miei occhi e la mia vita.]

O ancora, si legga la terza strofa della canso di Azalais de Porcairagues, Ar em al freg temps vengut (BdT 43,1):

 

Dompna met mot mal s’amor

qu’ab trop ric ome plaideia,

ab plus aut de vavassor,

e s’il o fai il folleia;

car so dis om en Veillai

que ges per ricor non vai,

e dompna que n’es chausida

en tenc per envilanida.

[La donna che sospira per un uomo troppo ricco, di rango più alto di un valvassore, rivolge male le attenzioni del suo cuore, e se lo fa, ammattisce; perché, come si dice nel Vellai l’amore non va d’accordo con la ricchezza, e una donna che l’ha scelta io ritengo che si svilisca.[6]]

Un caso particolarmente curioso, per la l’insolita conformazione del suo dettato, è dato dalla canzone Na Maria, pretz e fina valors (BdT 16a,2) attestata unicamente nel foglio 208v del canzoniere T16. In esso, infatti, si può leggere un unicum nel panorama provenzale: non è né un uomo a scrivere tenere parole ad una donna né una donna a scriverle per un uomo, bensì il testo presenta una singolare dichiarazione d’amore tutta al femminile, da donna a donna.

Secondo la grafia del copista, infatti, l’autrice della canso sarebbe una presunta e non meglio identificata nabieiris deroman, autrice di questo solo testo di due coblas unissonans di otto decenari e da due tornadas di quattro, che canta le lodi di una certa Maria.

Sul presunto saffismo del componimento, però, la critica si è divisa e ancora si divide, mossa dalla legittima domanda riguardo alla liceità di questa lettura. Da una parte, infatti, se l’eccezionalità del caso acuisce il dubbio, va soprattutto rimarcato che sarebbe un errore grossolano e naïf proiettare le odierne rivendizioni sessuali, storicamente condizionate, su un secolo altro e diverso, seppur non così moralista e intollerante, come si è cercato di dimostrare.

A conferma dell’autenticità dell’autorialità femminile intervengono, comunque, e Zufferey[7], che conferma l’attestazione nel provenzale antico di Bietris per Beatritz, e la più appassionata Angelica Rieger[8]. Fortemente convinta della mano femminile del testo (perché mai il copista avrebbe dovuto attribuire un nome di donna all’autore del testo?), la studiosa arriva tuttavia a sostenere un’interessante e acuta lettura della canso. Dopo aver analizzato tutti i testi in cui è presente un dialogo fra donne, ella infatti conferma la dimensione esclusivamente femminile della poesia, ma nega fermamente l’implicazione romantica del testo. Anzi, a suo dire, il tono affettuoso e sentimentale sarebbe piuttosto da inserire in un codice di comunicazione convenzionale tra familiari.

Senza nessuna malizia, dunque, ma buon costume.

Una tesi non troppo dissibile viene presentata anche da Alison Ganze[9], sostenitrice della perfetta aderenza del testo al codice linguistico del rapporto vassallatico, in tutto e per tutto speculare ad alcuni poemi dedicati dai trovatori ai loro signori.

Ma le interpretazioni si moltiplicano, tra chi, agnostico, lascia ogni possibile interpretazione al lettore[10], a chi vedrebbe, preda da un parossismo esegetico, nella fantomatica Maria a cui è dedicata la poesia la stessa Santa Vergine.

Più prettamente filologiche sono tuttavia le considerazioni della scuola avversa, quella dei sostenitori della paternità del testo. A conferma di questa tesi, infatti, ci sarebbe la non trascurabile corruzione del manoscritto, che tra le sue stesse carte conta non poche attribuzioni erronee.

D’altronde, lo stesso sopraccitato Zufferey[11], dopo un’analisi comparatistica del componimento in questione e un’altra canso canso del codice, quella di Gui d’Ussel a Maria di Ventadorn[12], giunge a sostenere che il tono della poesia sia innegabilmente maschile, seppur senza azzardarsi a proporre una nome per lo scrittore. Sarà Schultz-Gora[13], piuttosto, a prendere posizione al riguardo, leggendo nel nome di Na Bieiris una più probabile corruzione di N’Alberis, con cui si potrebbe nominare Alberico da Romano.

L’interesse per le lettere di questo signore trevigiano (1196 – 1260), infatti, sarebbe ben attestato e ulteriormente confermato dalla sua amicizia con il poeta Uc de Saint-Circ. Anzi, a maggior ragione la convenzionalità metrica e tematica del componimento preso in esame sarebbe da leggere in un quadro imitativo volto ad apprendere la techne del maestro.

Un esercizio, dunque, un’imitazione.

Impossibile probabilmente giungere a una risposta definitiva su un tale busillis, che, come si è visto, porta con sé numerose implicazioni, filologiche, tematiche, storiche, sessuali. Certa è, tuttavia, l’innegabile fascinazione che un testo simile continua ad avere, ancora oggi, attraverso i secoli, stimolando nella mente del lettore infinite soluzioni alternative, subendo letture e riletture, motivate o tendenziose, piegandosi o aprendosi ad anacronismi e attulizzazioni.

Personalmente, se posso, tra amanti segrete, poetesse di corte, maestri e discepoli e altri evocativi scenari, mi piace indugiare a figurarmi la mano del copista vergare quei caratteri incerti, e lui, inconsapevole o furbesco, ma sicuramente romanzesco, confidare alla storia l’enigmatico nome di Na Bieiris.

 

Na Maria, pretç e fina valors

E·l giois e·l sens e la fina beutatç

E l’ acugliers e·l pretç et las onors

E·l gintL parlars e l’avinens solas

E la doç cara e la gaia acundança

E·l ducç esgartç e l’amoros se[m]blan

Ce son e vos, don non avetç egansa,

Me fan traire vas vos, sis cor truan.

Por ço vos prec, si·us platç, ce fin’amors

E gausimentç et doutç’umilitatç

Me puosca far ab vos tan de socors

Ce mi donetç, bella dopna, si·us platç,

So don plus ai d’ aver gioi esperansa,

Car en vos ai mon cor e mon talan

E per vos ai tut so c’ ai d’ alegransa

E per vos vauc mantas ves sospiran.

E car beutas e valors vos enansa

Sobra tutas, c’ una no·us es denan,

Vos prec, se·us plas, per so ce·us es onransa

Ce non ametç entenditor truan.

Bella dompna, cui pretç e giois enança

E gientç parlars, a vos mas coblas man,

Car e vos es gaessa et alegransa

E tutç lo bens c’ om e dona deman[14].

[Donna Maria, il pregio e l’alto valore e la gioia e il senno e l’alta beltà e la gentilezza e il pregio e il decoro e il bel parlare e il piacevole intrattenimento e il dolce viso e il gaio contegno e il dolce sguardo e il sembiante amoroso che in voi sono, in cui non avete uguale, mi spingono verso di voi, senza intenzione di ingannarvi.

Perciò vi prego, se vi piace, che l’amor fino e la gaiezza e la dolce modestia mi valgano tanto presso di voi che mi doniate, bella donna, se vi piace, quello da cui ho tanta speranza di ottenere gioia, ché in voi ho il mio cuore e il mio desiderio e per voi ho tutta l’allegria che è in me e per voi vado soventre sospirando.

E poiché bellezza e valore vi innalzano sopra a tutte sì che nessuna sta davanti a voi, vi prego, se vi piace, per il vostro onore, che non amiate un corteggiatore falso.

Bella donna, che pregio e gioia e bel parlare innalzano, a voi invio le mie cobbole, perché in voi stanno gaiezza e allegria e tutto il bene che si può cercare in una donna.]

Bibliografia:

Chiara Cappelli, «La canzone Na Maria, pretz e fina valors: problemi di attribuzione e interpretazione», elaborato finale in filologia romanza.

[1] Oscar Schultz-Gora, Die provenzalischen Dichterinnen: Biographien und Texte nebst Anmerkungen und einer Einleitung, Genève, Slatkine Reprints, 1975 (prima edizione 1888).

[2] Magda Bogin, The Women Troubadours, New York, W. W. Norton & Company, 1988.

[3] William D. Paden, «Introduction», The Voice of the Trobairitz. Perspectives on the Women Troubadours, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1989, pp. 8-27.

[4] François Zufferey, «Toward a Délimitation of the Trobairitz Corpus» in William D. Paden, The Voice of the Trobairitz, pp. 30-44.

[5] Testo e traduzione di Costanzo di Girolamo, I trovatori, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p.45.

[6] Traduzione di Edoardo Angrilli

[7] François Zufferey, «Toward a Délimitation of the Trobairitz Corpus» in William D. Paden, The voice of the Trobairitz. Perspectives on the Women Troubadours, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1989, p. 41, n. 4.

[8] Angelica Rieger, «Was Bieiris de Romans Lesbian ? Women’s Relations with Each Other in the World of the Troubadours» in Paden, The voice of the Trobairitz, pp. 73-94.

[9] Alison Ganze, «Na Maria, pretz e fina valors : A New Argument for Female Authorship», Romance Notes, 49, 2009, pp. 23-33.

[10] René Nelli, Ecrivains anticonformistes du moyen-âge occitan, p. 279.

[11] François Zufferey, «Towards a delimitation» p. 32.

[12] En tanta guisa·m men’Amors (BdT 194,6).

[13] Oskar Schultz-Gora, «Nabieiris de roman» in Zeitschrift für romanische Philologie, 15, 1891, pp. 234-235.

[14] Ms. : T 208v.

Testo: Giulio Bertoni, I trovatori d’Italia : biografie, testi, traduzioni, note, Modena, Orlandini, 1915, p. 265.

Traduzione: Gianfranco Folena, Culture e lingue del Veneto medievale, Padova, Editoriale Programma, 1990, p. 87.

Tre poesie dal fare spietato

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Fengjie III (Monument to Progress and Prosperity), Chongqing Municipality.

di Pasquale Vitagliano

Vedo il mare
Sempre dal solito punto
Ogni anno da questo angolo sempre
Dalla stessa posizione
Ho visto addirittura che si scarnifica
Sugli scogli che perdono il muschio marino
Le alghe scompaiono intossicate
E la sabbia lentamente avanza da sotto
Per la gioia dei ragazzi che ho visto neonati

Il volo di Camilleri sulla Storia

1

 

di Marco Viscardi

A un certo punto si fermò e taliò verso terra. Vitti la piazza, le case con la gente supra i tetti che accomenzava ad andarsene e in mezzo alla piazza vitti macari il palco e una cosa, una specie di sacco, che pinnulava dalla forca dunnuliando. Rise. E ripigliò ad acchianare.

È un finale bellissimo quello del Re di Girgenti [2001]. Zosimo guarda da una prospettiva non più umana lo spettacolo della propria impiccagione. I gradini che lo portavano verso la forca sono finiti e con loro si sono spente le voci che l’avevano accompagnato al som de l’escalina ammonendolo con parole sconosciute: sovenha vos a temps de ma dolor… Le stesse di Arnaut Daniel prima di gettarsi nel foco che affina. Il tempo terreno si è chiuso e una nuova, misteriosa dimensione sta per schiudersi. E da quella soglia il mondo è un grande e confuso teatro. Una scena colta a volo d’uccello in cui Zosimo è contemporaneamente ‘una cosa, una specie di sacco’ che penzola da un palco e l’intelligenza liberata dai pesi che quello spettacolo contempla. Nella lotta la morte ha irrigidito il corpo ma l’intelligenza resta fluida e ride, semplice e creaturale, davanti a quella scena dove i vivi sono in realtà morti e il morto è vivissimo e aereo.

Consegnata al lettore, l’ultima pagina è un rilancio, una sfida che va ben oltre la mole del volume del libro, ben oltre l’esistenza terrena del suo protagonista ma entra nelle nostre vite, fa di noi stessi racconto. Nel 1977, Sciascia aveva chiuso il suo Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia con la liberazione del protagonista che, dissipata ogni cupa presenza di padri/padroni, «si sentiva figlio della fortuna; e felice». Zosimo ha convertito la violenza della storia nel volo dell’intelligenza. I suoi persecutori restano invischiati nelle cose, Zosimo plana altissimo al di sopra di tutto.

Se per un attimo facciamo nostro il punto di vista di Zosimo, se guardiamo dall’alto, ci rendiamo conto che il mondo letterario di Camilleri è unico e ogni divisione fra romanzi polizieschi e romanzi duri è – come già avvenuto per Simenon – vana e un po’ snob. La storia è un enigma e il racconto storico è un poliziesco. Ma allo stesso tempo un poliziesco è immerso nelle leggi storiche del suo tempo, è invischiato di inchiesta. Storia e Giallo sono due strumenti con cui si affronta un medesimo problema, radicato nella tradizione narrativa siciliana già prima di Pirandello, fino dalle scaturigini veriste: il conflitto fra le parole e le cose, la lotta fra caos del reale e rigidità fittizie dei discorsi ufficiali. Come se il modello storico manzoniano trapiantato in Sicilia si fosse sbilanciato verso gli Azzeccagarbugli che diventano di volta in volta i cantori di corti, gli storiografi, i verbalizzatori delle versioni ufficiali.

Dietro la bellezza esteriore, si nascondono le vere leggi della storia. Gli inseguimenti di Tancredi e Angelica nell’aereo palazzo di Donnafugata portano alla scoperta – dietro tanta bellezza – di stanze in cui si consuma la violenza. Quella del piacere sadico del boudoir dei perversi settecenteschi e quella abbacinante del Duca santo che si flagellava davanti al suo Dio affinché col proprio sangue potesse fecondare le terre che la provvidenza gli diede in feudo. Dietro la bellezza di scale, sale e salotti, c’è sempre una frusta insanguinata a ricordare che la violenza è il motore della storia. Camilleri approfondisce spesso lo iato che esiste fra la molteplicità del reale e il grigiore accomodante delle versioni ufficiali. Fra questi, il capolavoro è il Birraio di Preston, che fin dalla sua prima edizione del 1995 porta in copertina i compassati visi cinquecenteschi del Gruppo del tiro a segno di Amsterdam ritratti da Dirck Jacobs. Quelle figure ci guardano ferine e sono pronte a inghiottirci, a portarci nella loro società conformista e violenta che nasconde dietro il rigore inappuntabile dell’apparenza la cieca ossessione del particulare e dell’interesse. I fatti raccontati sono immaginari ma in qualche modo ispirati all’inchiesta parlamentare sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-76) di Franchetti e Sonnino e si svolgono nel cuore della cartografia sentimentale di Camilleri: fra il capoluogo Monteleusa e la turbolenta Vigata. Qui Camilleri racconta dell’oltracotanza del regio prefetto che vuole obbligare i vigatesi ad assistere all’inaugurazione del nuovo Teatro Re e dei cittadini offesi della mediocrità del melodramma scelto: il giustamente dimenticato Birraio di Preston, di Luigi Ricci.

Alla fine il teatro va a fuoco e ci sono anche dei morti, ma la verità dei fatti, che il lettore conosce per aver letto il romanzo, viene sviata nelle versioni ufficiali, e la colpa viene fatta ricadere sul pazzo del paese. Camilleri finge che l’ultimo capitolo del romanzo sia l’inizio di uno studio monografico sulla storia di Vigata opera di Gerd Hoffer. Hoffer è il figlio di un ingegnere tedesco impiegato nelle miniere della zona, Gerd era stato il bambino che aveva gridato all’incendio del teatro, di fatto il primo personaggio del romanzo, che qui ritroviamo non da incendiario, ma da pompiere. Dietro la sua falsa oggettività, Hoffer è ossequioso verso i poteri, legittimi e illegittimi, della nuova Italia. La sua è una contro-narrazione della vicenda del romanzo, ma gli abusi e le collusioni del prefetto, le insulse cautele del questore e la viscida ambiguità dei politici locali, si capovolgono in mielosa apologia, panegirico dell’esistente.

Come spesso in Camilleri, il lettore credeva di assistere ad un’opera buffa e finisce raggelato. I cattivi hanno vinto e l’operetta si è congelata nell’allegoria grottesca, anamorfica, dell’interminabile crisi italiana, della serie lunghissima delle nostre doppie e triple verità, dei nostri avvelenamenti pubblici. Di fronte a questa rigidità delle forme, l’inquietudine conoscitiva di Camilleri si manifesta nel rigore etico di una scrittura che sa rifiutare le convenzioni letterarie e l’obbligo della consequenzialità e racconta la storia con un intreccio non sistematico, in cui i capitoli non seguono l’ordine naturale e scartano di lato, anticipando o rallentando gli avvenimenti della trama. E ciascuno di questi capitoli scompaginati inizia con l’incipit di un libro diverso, e l’intero volume con l’incipit più famoso della letteratura, quello che Snoopy ruba a Bulwer-Litton: «Era una notte che faceva spavento, veramente scantosa» (p. 9). Con un lampo dissacrante compare persino, ma stravolta in un orgasmo interregionale, uno dei loci più insigni delle nostre lettere: «“Signora sta vinendo? Sta vinendo signora?”  […] “Sì…Sì Vegni!…Ve..gni…Ghe sont!” la svinturata arrispose» (p. 148).

Il giulebbe del melodramma, avrebbe detto Tomasi di Lampedusa, che tutto ingloba, tutto stordisce, tutto allenta, inzucchera e avvelena. Di fronte alla melassa opprimente della pacificazione, la scrittura tenta la sua battaglia: far riemergere tutto quanto non collima, non tiene, tutto quanto deve essere dimenticato perché, altrimenti, può turbare e increspare l’ipocrita serietà degli uomini della società del tiro a segno.

Alla fine però si torna sempre al commissariato di Vigata, a donne e uomini che conosciamo come i più familiari e di cui sapremmo elencare vizi e virtù: Salvo, Livia, Mimì Augello e Bebba, Fazio, Gallo, Ingrid, il dottor Pasquano e poi i questori, i prefetti, i giornalisti delle tv libere e di quelle asservite, i ristoranti di pesce e la cucina di Angelina. Tutti personaggi di carne e carta che ci vivono in testa e che non ci abbandoneranno, accanto a Renzo, a Edmond Dantès, a Farinata degli Uberti e agli altri che ci empiono di sogni. Fra questi, però, quello che per ultimo dovrebbe abbandonare la scena dell’omaggio all’autore è Agatino Catarella, Catarella il puro, il fuori registro, l’extravagante. Agatos e Cataros – come mi ha fatto notare una lettrice più acuta di me – Buono e puro. L’uomo che rifiuta il linguaggio comune, perché ha capito che è un linguaggio mistificante e ipocrita e ne parla uno suo, fatto di libere associazioni, di assonanze e consonanze, divagazioni fughe e scarti del pensiero. Il mite piantone del commissariato di Vigata, il sorvegliante della soglia, è l’antitesi dei custodi di Kafka che vivono di fronte alla Legge e per la Legge parteggiano. Catarella è un ribelle contro le convenzioni sociali ed è un difensore dell’umano. Sarà triste ora che il maestro è andato via, ma è anche l’unico ad immaginarlo che vola e ride mentre guarda questo nostro sciagurato pianeta. Di cui, se esiste uno spazio oltre questo che conosciamo, forse continuerà a ricordarsi.

 

Considerazioni soggettive sulle prove oggettive

2

di Giorgio Mascitelli

La pubblicazione dei risultati delle prove INVALSI per gli esami di stato di terza media e in particolare quelli di italiano, che evidenziano un 35% di candidati sotto il livello di accettabilità della prova ( quelli che sul Giornale  sono stati chiamati gli ‘analfabeti’) ha prodotto una prevedibile salva di opinioni autorevoli. Di solito la maggior parte dei commenti a dati del genere è riconducibile a due tipologie: la prima, che si può battezzare nostalgica, considera l’attuale scuola come il prodotto di una decadenza continua, perlopiù cominciata con il ’68 e delle quali le riforme recenti non sono che un tardivo e irrilevante epifenomeno e i cattivi risultati un’inequivocabile conferma dello stato di cose. Abbastanza indifferente a quisquilie come il fatto che la scuola vagheggiata si reggeva sull’esclusione dall’istruzione media e superiore di circa tre quarti degli alunni, esclusi pertanto dalla possibilità di conoscere con sicurezza l’italiano, questo tipo di argomentazione risulta di piacevole lettura perché si avvale di un apparato retorico dimostrativo risalente, con i dovuti aggiornamenti, perlomeno al dibattito sulla crisi dell’eloquenza nella cultura romana del I secolo d.c..

L’altra tipologia, che per comodità definirò tecnocratica, abitualmente considera in forma implicita o esplicita responsabili dei cattivi risultati, perché va da sé che i risultati possono solo essere cattivi,  gli insegnanti e i loro metodi didattici proponendo come correttivo tipici obiettivi di politica scolastica main stream ( eliminazione o ridimensionamento delle materie umanistiche, massiccia introduzione nella didattica delle tecnologie informatiche, stretta subordinazione dell’attività scolastica a spesso imprecisate esigenze produttiviste, competitività eletta a principio guida della scuola) che nulla c’entrano o addirittura sono in palese contraddizione con i dati presi in esame. Si tratta anche in questo caso di un’argomentazione retorica, anche se di formazione più recente, che mira alla persuasione grazie a un effetto di scientificità conseguito sovente tramite un non avaro ricorso a tecnicismi anglosassoni e un continuo richiamo ai compiti inderogabili che il Futuro nella sua trasparenza impone alla scuola che ne voglia essere degna.

A mio avviso invece la prima cosa che andrebbe ricordata, quando si commentano i risultati delle prove INVALSI,  è che esse sono presentate come un modello oggettivo di misurazione delle abilità, quando nella comunità scientifica esiste una forte discussione sull’oggettività della misurazione in quanto  ‘Il sistema di valutazione dell’INVALSI è realizzato seguendo il modello di Rasch , un modello di psicometria per il quale, necessariamente, 1/3 delle prove è sotto un valore “soglia”’ ( cfr. https://www.roars.it/online/la-valutazione-della-scuola-e-luso-distorto-del-test-invalsi/). Per chi avesse voglia di una discussione di questo metodo probabilistico più puntuale può leggere https://www.roars.it/online/il-modello-di-rasch/. A queste considerazioni si potrebbe aggiungere che il metodo del test standardizzato non è forse il metodo migliore di verificare il grado di padronanza di una lingua rispetto ad altre forme usate nelle scuole, i cui esiti si prestano meno facilmente a una riduzione numerica adatta a una misurazione.

Lo scarto tra oggettività percepita e oggettività effettiva dei test è in realtà uno dei problemi principali da tenere in considerazione perché le prove INVALSI non si presentano semplicemente come uno strumento d’indagine, cosa che in sé potrebbe essere utile, ma come un sistema scientifico e oggettivo di valutazione dell’efficienza della scuola tramite la misurazione dei risultati degli studenti. In altri termini le prove INVALSI si pongono come un sistema alternativo rispetto al sistema degli esami di stato di fine ciclo che viene contestato come non abbastanza oggettivo, anche se le abilità testate in un esame di stato sono molto più numerose e più significative. Prova ne sia che nell’attestato dell’esame di stato delle scuole superiori di quest’anno accanto al punteggio conseguito nello stesso verrà riportata la valutazione ottenuta nelle prove INVALSI.

A sua volta questo passaggio non è neutrale, ma funzionale a un preciso modello di istruzione in cui i singoli istituti sono in concorrenza tra di loro per attrarre i migliori studenti esaltando le differenze tra scuola e scuola invece di provare a ridurle. In questo sistema l’idea stessa di scuola pubblica sarebbe sorpassata perché anche gli istituti pubblici sarebbero incentivati a comportarsi come soggetti privati. E di una cosa sono sicuro e cioè che in un sistema del genere la padronanza della lingua italiana per la maggioranza degli studenti peggiorerebbe.