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Per Inventario privato di Elio Pagliarani. Parte prima

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di Andrea Donaera

[Pubblico qui la prima di due parti di un estratto della tesi di laurea di Andrea Donaera dedicata ad un libro di Elio Pagliarani, Inventario privato del 1959. E’ un testo relativamente poco frequentato dalla critica e che merita maggiore attenzione. B.C.]

«Su una tovaglia lisa». Inventario privato di Elio Pagliarani

  1. Inventario privato: una raccolta all’altezza dei tempi

Inventario privato, seconda opera di Elio Pagliarani, scritta tra marzo e novembre del 1957, viene pubblicata nel 1959. È importante prendere in considerazione la data di pubblicazione di questa raccolta. Il 1959 è infatti un anno particolare per la storia della poesia italiana, un anno in cui si stabilisce la fine di un periodo di transizione che vedeva scemare l’esperienza dell’ermetismo e che sarebbe sfociato in un decennio ricco di cambiamenti, nuove proposte, nuovi modi di intendere la lingua, la letteratura e la poesia. Inventario privato va collocato nello «spazio letterario» che va dal 1956 al 1959 intendendo lo «spazio letterario» nell’accezione proposta da Guido Mazzoni, cioè «l’insieme delle opere che gli autori di una certa epoca giudicano ragionevole scrivere e […] ritengono all’altezza dei tempi» (Mazzoni, 2005).

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli Sessanta, infatti, avvengono mutamenti paradigmatici nella poesia italiana. La conclusione dell’esperienza neorealista e postermetica realizza uno stato della poesia in cui si verifica un rapporto più complesso e problematico tra «autori, linguaggio e oggetti» (Raboni, 2005).

Molte antologie e critici fanno coincidere gli anni Sessanta con l’inizio di una sorta di nuova era, una scissione netta con la letteratura precedente; questo è dato dall’avvento delle avanguardie e, specialmente, dai capovolgimenti tematici e stilistici – tra cui la concezione del soggetto, l’abiura della tradizione lirica, il rifiuto ormai totale della condizione del poeta laureato, la formulazione di alternative linguistiche e addirittura alternative all’idea stessa di poesia (proprio Pagliarani sarà protagonista di questo tipo di cambio di assetto, con la scrittura di un romanzo in versi come La ragazza Carla).

Altri studi, per poter tracciare un percorso più esaustivo dei mutamenti della poesia nel Novecento, propongono l’analisi di un spazio temporale più ampio, che parta da prima, perché i cambiamenti che si verificheranno negli anni Sessanta «avvengono sia in continuità con il passato, sia in reazione e esso» (Crocco, 2015). Non dunque gli anni Sessanta come giro di boa netto e improvviso. È possibile provare a considerare quel decennio, invece, come conseguenza di un percorso iniziato già durante la seconda metà degli anni Cinquanta: anni che vedono susseguirsi una serie di pubblicazioni, tra la nascita di riviste che saranno determinanti nello svolgersi dei processi poetici successivi, esordi di grande rilievo o nuove opere di autori già affermati, che muovono la loro scrittura verso riflessioni diverse.

Il 1956, in particolare, viene considerato un anno topico che in qualche modo sancisce l’inizio di una svolta e di numerosi cambiamenti in atto nella cultura poetica italiana. Si tratta di una posizione proposta da studi autorevoli e oramai classici, tra cui Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo (1978), Il neorealismo nella poesia italiana di Walter Siti (1980), Il Novecento di Romano Luperini (1981), ma anche nelle «riflessioni in tempo reale di Montale e Pasolini»1 (Crocco, 2015) e in lavori più recenti come il saggio Posture dell’io di Damiano Frasca (2011).

Nonostante sia spesso accantonata, questa seconda proposta di periodizzazione può essere un’alternativa al canone non ancora unitario della poesia italiana del Novecento, e acquisisce forza e interesse se si considerano i testi di poesia che vengono pubblicati tra il 1956 e il 1959. Del 1956 sono Il passaggio d’Enea di Giorgio Caproni; l’esordio di Antonio Porta, Calendario; La bufera e altro di Eugenio Montale, con cui si inaugura la sua svolta stilistica e l’inizio del silenzio che precederà la pubblicazione di Satura; l’esordio di Edoardo Sanguineti, Laborintus, «che, nella sua radicalità, rappresenta probabilmente il gesto polemico più forte, compiuto in tutto il Novecento italiano, contro il genere e il soggetto lirico» (Frasca, 2011); Dopo la luna di Vittorio Bodini, raccolta tutt’altro che secondaria, tra le produzioni poetiche di quel periodo. Nel 1957 prosegue il percorso al di fuori dell’ermetismo di Mario Luzi, con Onore del vero; appaiono Vocativo di Andrea Zanzotto e Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini, testi che contribuiranno alla inedita considerazione del soggetto in poesia, spingendo verso «una risposta alla “deflazione del soggetto”2» (ivi): è in questo momento che va formandosi una questione complessa, centrale e ancora dibattuta, cioè lo statuto del soggetto all’interno della nuova poesia italiana, che a partire dalla fine degli anni Cinquanta vede trasversalmente presenti – da Sereni a Caproni, da Sanguineti a Pagliarani – non più rappresentazioni di un io pacificamente biografiche, ma «autoraffigurazioni dell’io condotte all’insegna dei motivi della perdita e dello sbandamento» (Testa, 1999). Nel 1959, inoltre, viene pubblicato Il seme del piangere di Giorgio Caproni, e Vittorio Sereni sta lavorando a Gli strumenti umani, che verrà pubblicato nel 1965. In questa sede, si vuole proporre la pubblicazione di Inventario privato come un testo da prendere in considerazione per una mappatura delle raccolte più importanti tra il 1956 e il 1959.

Sono gli anni in cui «qualcosa in Italia è successo, e non soltanto in ambito letterario» (Frasca, 2011); anni che, come spiega Cesare Segre introducendo il periodo storico che porterà alla nascita del Gruppo ’63, «iniziano col boom economico (e solo economico). […] Restavano intatte la bipolarità Stati Uniti–Unione Sovietica, con nostra dipendenza dai primi, e la questione meridionale3; il potere della mafia aumentava4; era sempre in piedi un regime senza ricambio, data la conventio ad excludendum verso i comunisti, rappresentanti quasi un terzo dei cittadini. Forte dunque la spinta, per alcuni, a uscire da questa situazione stagnante» (Segre, 1998). E Inventario privato, come tutta l’opera successiva di Elio Pagliarani, ha in sé questo senso di coinvolgimento nei processi di trasformazione, una sorta di latente cambiamento costante, che guarda ai mutamenti della poesia, della società, del linguaggio. Questo tipo di contributo dato da Pagliarani viene considerato unanimemente da tutta la critica, ma soltanto a partire dalla pubblicazione de La ragazza Carla.5

Inventario privato viene infatti quasi saltato a piè pari, sia in antologie che in studi critici, spesso liquidato come opera di passaggio tra l’interessante esordio Cronache e il capolavoro La ragazza Carla. Ma proprio questa collocazione dell’opera in un momento di transizione della scrittura dell’autore necessiterebbe una revisione della raccolta: in un’ottica del genere, Inventario privato può acquisire connotati interessanti. Come si vedrà nello specifico in seguito, si tratta di un’opera quantomeno di rilievo in un periodo complesso per la poesia italiana, perché in grado di mantenere un legame (non strettissimo, rimaneggiato) con la tradizione lirica, ma al contempo capace di introdurre aspetti linguistici e tematici nuovi, coerenti con la visione critica di quell’epoca storica, con «la necessità di toccare le cose attraverso il linguaggio, di collocarsi entro i linguaggi correnti e insieme di spostarne i rapporti consueti» (Ferroni, 1991). Tutti aspetti che vedranno la loro apoteosi nelle sperimentazioni de La ragazza Carla, ma che già in Inventario privato vedono una precisa delineazione. Pagliarani in quest’opera prova a fare i conti con le contraddizioni storiche in cui si dibattevano gli autori a lui contemporanei: «alienazione e vitalità, industria capitalistica e mondo premoderno, contadino, o sfera semplicemente biologica: sono contraddizioni che in modi diversissimi sono presenti o centrali nel lavoro di Volponi, di Di Ruscio, secondo altre declinazioni di Pasolini, o anche di Majorino» (Cepollaro, 2015).

Pagliarani agisce utilizzando un espediente spiazzante, cioè una storia d’amore raccontata in un breve canzoniere, ma proprio per questo ancora più voluminoso potrebbe essere lo spazio dedicato a quest’opera all’interno del canone. Inventario privato si profila come un lavoro prezioso, perché vicino alle drammatiche questioni antropologiche e sociali scaturite da un secolo pieno di ambivalenze come il Novecento, ma con un approccio differente, inusuale: «In Pagliarani queste contraddizioni storiche sono chiamate a dar conto della condizione umana, a definire una specie di cognizione del dolore» (ivi). La proposta di un libro inusuale come può essere Inventario privato, considerato nella prospettiva storica e sociale nel quale è stato scritto e pubblicato, inserisce Pagliarani come uno di quei poeti nati tra gli anni Dieci e Venti del Novecento, caratterizzato dall’impossibilità di «credere, evidentemente, alla portata automaticamente universale della sua biografia nel senso della “bella biografia” di ungarettiana memoria; ma, per quanto non lo esibisca mai, crede ancora […], problematicamente, alla poesia» (Mengaldo, 2003).

 

  1. «Quella lampada fulminata nell’atrio alla stazione». Oggetti e luoghi di un canzoniere moderno

Inventario privato si presenta come un volume esile, composto da sole ventuno poesie, divise in tre sezioni: “Il primo foglio”, “A riporto”, “Totale S.E. & O.”. Ogni sezione contiene sette componimenti, i quali vanno a comporre un breve canzoniere. Si tratta infatti di poesie d’amore, poesie scritte per una donna, una «milanese signorina», e che sviluppano lo svolgimento di una relazione, durata il tempo di una primavera, e in cui l’amore del poeta non è corrisposto.

Un canzoniere, dunque, ma atipico, perché in linea con la poesia che si andava a profilare tra anni Cinquanta e anni Sessanta; siamo di fronte non solo a un tentativo di superamento dell’ermetismo, ma anche a un esempio di testo teso alla reinvenzione di un genere classico, calandolo in un asse spazio–temporale nuovo, moderno. Un «canzoniere moderno», infatti, come lo definisce Biagio Cepollaro, spiegando che «del canzoniere ha il soggetto amoroso, l’introspezione, il chiodo fisso, la coazione, il dissidio, la variazione sul tema […]. Di moderno ha l’ambientazione metropolitana, la collocazione sociale del mondo impiegatizio, la toponomastica precisa, l’ideologia della guerra fredda e della bomba, […] la sperimentazione formale per tenere dentro un registro basso-colloquiale una pluralità di piani e di allegorie» (Cepollaro, 2015).

La vicenda sostanzialmente tipica di un amore infelice si nutre di oggetti “moderni”, si svolge in ambienti urbani, tutt’altro che idilliaci, creando un contrasto suggestivo, in cui sono spesso le “cose” a caratterizzare il pathos dei versi.

Un esempio nella prima strofa della lirica che apre il libro:

 

Se facessimo un conto delle cose

che non tornano, come quella lampada

fulminata nell’atrio alla stazione

e il commiato allo scuro, avremmo allora

già perso, e il secolo altra luce esplode

che può porsi per noi definitiva. (Pagliarani, 1959)

 

Le «cose che non tornano», catalogate, accumulate, sono espediente per creare uno scenario metropolitano e angusto, l’atrio buio di una stazione nel quale i due amanti si salutano. Ed è espediente anche per lanciare la storia d’amore in quel contesto troppo più grande in cui gli amanti vivono e contro il quale contrastano: il secolo in cui «altra luce esplode», la luce «definitiva» del progresso.

Quella che compie Pagliarani è una riflessione densa, in cui storia ed esperienza privata convergono, essere e cultura si scontrano. In tutto Inventario privato la cultura “moderna” non solo incornicia o include, «la cultura […] interviene dall’esterno, socialmente, a colmare il vuoto, le lacune e manchevolezze che contrassegnano la natura umana» (Remotti, 2013): determina, antropologicamente, la natura di chi vive tra i versi del libro e non solo – «l’essere dell’uomo si realizza attraverso i costumi e le consuetudini che lo attorniano socialmente» (ivi).

Il contrasto tra contesto storico e privato è reso in modo eclatante nella lirica che segue, dove spicca un’alternanza di immagini, netta e nitida, riguardanti il momento storico (la bomba atomica, la guerra fredda, la grande «angoscia collettiva» di un’altra guerra, profilando programmaticamente il piglio etico tipico della poesia di Pagliarani) e il momento privato che i protagonisti vivono, fino però a intrecciarsi – tanto che il poeta arriva a chiedersi se, in un mondo come quello in cui vive, il suo amore ha senso di essere:

 

È difficile amare in primavere

come questa che a Brera i contatori

Geiger denunciano carica di pioggia

radioattiva perché le hacca esplodono

nel Nevada in Siberia sul Pacifico

e angoscia collettiva sulla terra

non esplode in giustizia.6

Potrò amarti

dell’amore virile che mi tocca, e riempirti

se minaccia l’uomo

sé nel suo genere?

 

O trasferisco in pubblico stridore

che è solo nostro, anzi tuo e mio? (ivi)

 

Oggetti e dinamiche della modernità non solo incorniciano la storia d’amore, ma ne determinano anche il procedere, come nella poesia seguente, in cui a dare senso e unione alla situazione amorosa è il telefono, oggetto che in quegli anni diventava consuetudine:

 

Ti dicevo al telefono (di cui

più mi prendono e pause, gl’imbarazzi

docili, e se ci udiamo respirare)

ti dicevo al telefono un amore

che urge, e perché. (ivi).

 

Ma questo discorso si rivela ancora più incisivo nella strofa seguente, in cui è proprio la vorticosa vita cittadina a definire l’agire dei protagonisti:

 

Ripensavo la gioia, il tuo alimento,

ti guardavo i capelli, il viso chiuso

e intento sul giornale dove ho finto

anch’io di leggere, rimanendo escluso,

a te seduto accanto sul tuo filobus. (ivi).

 

Si noti come la schermaglia d’amore si svolge in un esperirsi quasi classico, con il poeta timido che, seduto accanto alla donna amata, le guarda i capelli, fingendo di leggere ciò che lei legge, in una posa che quasi richiama i Paolo e Francesca danteschi.7 È il contrasto scenico a dare impatto ai versi: i due non leggono un libro, ma un giornale, e sono su un filobus – «sul tuo filobus»: l’oggetto, moderno, che diventa elemento di caratterizzazione della donna amata, quasi inventando una nuova forma di panismo tecno–morfo, un allaccio totale alle “cose” della modernità, anticipando la programmatica posizione di Giuliani nella prefazione al volume I Novissimi, secondo cui la poesia «deve essere mimesi critica della schizofrenia universale» (Giuliani, 2003).

Oltre agli oggetti, ai mezzi di trasporto e alle nuove “cose” della modernità, il tema amoroso di Inventario privato varia vagando per luoghi che si riferiscono a una toponomastica precisa, come specificato da Cepollaro. In Pagliarani (in tutta la sua opera, dagli esordi8 alle ultime pubblicazioni9) i luoghi non sono soltanto sfondo per i personaggi che popolano i testi: i luoghi, le strade, la città, «“entrano” nei personaggi e li “determinano”» (Asor Rosa, 2004). Una puntuale collocazione delle vicende (amorose, nel caso di Inventario privato) non funge solo da orpello, non ha funzione di pura connotazione (come ad esempio avviene in certa poesia della Linea Lombarda o in certi poeti dialettali romagnoli, entrambe esperienze letterarie avvicinabili a quella di Pagliarani10), «non pura cornice né semplice individuazione di circostanze, ma neanche proiezione verso l’esterno dei “sentimenti” dei personaggi, […] bensì dotazione oggettiva di realtà psichiche» (ivi). Si ha l’impressione «che “l’ambiente” pur determinandosi come ambiente, e cioè situazione storico–sociale e dimensione antropologica complessiva, sia l’equivalente al tempo stesso di un inconscio, o sottofondo, o terza dimensione, che nei personaggi in quanto tali mancano» (ivi).

L’ambientazione metropolitana si delinea in un modo mai vago, i luoghi vengono quasi sempre citati, descritti, fornendo al lettore, in una dinamica molto vicina alla cinematografia11, delle istantanee nelle quali collocare le scene – sempre del tutto incentrate sul chiodo fisso della storia d’amore. In particolare nel testo seguente (nel quale si noti, inoltre, la coazione del giornale come rifugio alla timidezza del poeta, e dei mezzi pubblici come fondale costante della scena):

 

Sarà ora di chiudere, amore,

che smetta di fare la guardia al cemento

tra piazza Tricolore e via Bellini,

di coprirmi la faccia col giornale

quando ferma la E, di attraversare

obliquo la tua strada, di patire

anche a passarci in treno

in fondo a viale Argonne

vicino alla tua casa. (Pagliarani, 1959)

 

Le movenze del poeta e della «milanese signorina» vengono modellate e collocate, «sembrano distendersi nella toponomastica» (Cepollaro, 2015). Ciò che ottiene Pagliarani è la creazione di due personaggi immessi in una coralità, il fatto d’amore esonda dalla questione privata, «si fa destino comune, collettivo, teatro metropolitano di infinite vicende. È la città che guarda il ridicolo di una speranza che dispera.» (ivi). Sin da Inventario privato «Pagliarani ha colto come pochi altri il rapporto che passa fra una quantità di esistenze individuali ingrigite nel quotidiano e la natura riassuntiva e sintetica, superumana, della grande città12» (Asor Rosa, 2004).

Il tema amoroso che appare in Inventario privato può sembrare una ripresa delle idee crepuscolari, arricchita di sottile ironia. Questo collegamento con la poesia crepuscolare contribuisce a uno scarto notevole con l’ermetismo, scarto evidentissimo in questa raccolta anche dal punto di vista tematico: si recupera un biografismo dal gusto crepuscolare e si propone una poesia d’amore sobria e viva, senza il timore di “cadere” in quel sentimentalismo che si addensava nella letteratura neorealista degli anni precedenti. Quello che, in riferimento a Inventario privato, può essere definito un “realismo sperimentale” prende forma anche e soprattutto dal modo in cui il tema amoroso viene sviscerato: si profila come una vera e propria “strategia”, simile a quelle utilizzate, negli stessi anni, con l’ausilio di tematiche diverse, da poeti come Luigi Di Ruscio e Giancarlo Majorino13.

Pagliarani, in questa raccolta, ingaggia un dialogo tra luoghi e sentimenti, mantenendo un sentimento amaro e dolente come sostrato a partire dal quale verificare tutto il processo poetico. È un’amarezza nel ricordo di qualcosa (qualcuno) di perduto, divenuto “spettro”. Come suggerisce Cepollaro, può ritrovarsi qui qualche segno della «strategia benjamiana dell’allegoria»: per Walter Benjamin, infatti, «gli spettri sono le allegorie più profonde: recisi i legami con il mondo tornano in esso carichi di significati possibili» (Pedretti, 2007).

La vicenda d’amore in Inventario privato si carica, nel susseguirsi dei testi, di questo senso ossessivo di recupero e accumulo di memorie, inventariando dati, luoghi, elencando ricordi14. La donna e tutto ciò che le concerne si agitano nei ricordi e nei versi come degli spettri che vengono riproposti in un processo allegorico. E ancora il sentore di Benjamin è presente nel meccanismo di recupero memoriale che applica Pagliarani sembra rispondere a una soluzione: «Il ricordo può fare dell’incompiuto (la felicità) un compiuto e del compiuto (il dolore) un incompiuto» (Benjamin, 2000).15

Il poeta protagonista di Inventario privato vive un amore inetto e malinconico16 («[…] non so / vivere. Amore, e tu non vieni / ad insegnarmelo»), ma che nella sua stessa narrazione trova in qualche modo una redenzione («E sono vivo, senza rimedio / sono ancora vivo») – «trapassa repentinamente in resurrezione» (Benjamin, 1999).

 

Note

1 Per Montale cfr. Poesia inclusiva, in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, 1996, Mondadori, Milano. Per Pasolini cfr. Dove va la poesia?, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, 1999, Mondadori, Milano.

2 Cfr. Testa, 1999, in cui, a proposito de Gli Strumenti umani di Vittorio Sereni, si parla di «un momento importante nella storia secondo–novecentesca della deflazione del soggetto e del suo rapporto con personaggi e figure diverse».

3 Questo è un tema presente nell’opera di Pagliarani. Cfr. Pagliarani, 2006: nella raccolta del 1968 Lezione di fisica e Fecaloro è incluso un componimento dal titolo Conferenza dibattito sulla questione meridionale, dedicato al deputato socialista Guido Mazzali.

4 Anche questo tema ha coinvolto Pagliarani in prima persona. La casa editrice Cooperativa Scrittori, da lui fondata nel 1972, «iniziò le sue pubblicazioni dando alle stampe in forma integrale (circa 3000 pagine), il rapporto della Commissione parlamentare Antimafia» (Cortellessa, 2014).

5 Cfr. Mengaldo, 2003, dove si parla addirittura di «corrente “milanese”, quella che va grosso modo da Pagliarani a Loi», corrente nutrita da una «autentica passione rivoluzionaria».

6 Si noti come, nella raccolta, Pagliarani arrivi ad assumere un linguaggio non solo vicino alla lingua comune e parlata, ma anche scientifico. Questa tendenza proseguirà nel corso della sua carriera, e su tutte è da sottolineare la raccolta Lezioni di fisica, che sin dal titolo si presenta «traumatizzante – per le abitudini dei lettori di poesia degli anni Sessanta, ma tuttora in grado di spiazzare» (Cortellessa, in Pagliarani, 2006). Su questa strofa di Inventario privato si sofferma anche Andrea Cortellessa, perché utile a considerare il «linguaggio scientifico […] vero marchio di fabbrica di Pagliarani: se è vero che già in Inventario privato veniva applicato a un repertorio per eccellenza “lirico” come quello della schermaglia amorosa» (ivi).

7 Cfr. Alighieri D., 1991, La Commedia. Vol. 1: Inferno, Canto V, 130-131, Mondadori, Milano.

8 Cfr. Pagliarani, 2006. In un testo datato 1952, escluso da Cronache e altre poesie: «abbiamo il monumento a Garibaldi / il ferro lavorato dei cancelli patrizi / e questo muro che imprigiona il sole. // Non c’è tramonto se dopo / andiamo al cinematografo».

9 Cfr. Ivi. L’incipit del poemetto La ballata di Rudi (1995): «Rudi e Aldo l’estate del ’49 fecero lo stesso mestiere l’animatore / di balli sull’Adriatico, Aldo in un Grand Hotel rifatto a mezzo e già sull’orlo / del fallimento, che fallì in agosto sul più bello, lui forse non sa nemmeno ballare / aveva successo il locale di fronte al suo, Miramare».

10 Cfr. Mengaldo, 2003. A proposito del realismo del poeta dialettale di Sant’Arcangelo di Romagna Tonino Guerra: «un realismo fra crepuscolare e populista, tipicamente romagnolo, lo stesso da cui ha preso le mosse un Pagliarani».

11 Scelta stilistica che sarà sempre più forte e caratterizzante in Pagliarani, specialmente a partire da La ragazza Carla, testo in principio teorizzato per il cinema e che, una volta divenuto poesia «assume […] anche il carattere di un copione cinematografico ispirato ai modi del melodramma popolare di stampo neorealista, completo di didascalie, monologhi, dialoghi, cambiamenti di scena, flash back» (Briganti, in Pagliarani, 1985).

12 Sebbene l’intervento di Asor Rosa fin qui citato si riferisca unicamente a La Ragazza Carla: ulteriore dimostrazione della vicinanza strettissima tra le due opere e di cui si dirà più diffusamente nei paragrafi successivi.

13 Dall’intervista che Biagio Cepollaro ha concesso per la tesi di laurea da cui è tratto questo articolo: «Negli stessi anni poeti così diversi uscivano con strategie anche distanti tra loro, dalla retorica e dagli equivoci neorealisti provocando piccoli e grandi terremoti linguistici al fine di scongiurare il mimetismo e il sentimentalismo. Nel caso specifico di Inventario si saltavano di colpo tutte le pastoie dell’ermetismo e dei suoi epigoni in modo molto radicale attraverso la scarnificazione e il biografismo non crepuscolare».

14 Cfr. Testa E., 2011. È possibile cogliere un punto di incontro con quanto Testa scrive a proposito di Stracciafoglio 39 di Edoardo Sanguineti: «Si profila, nei confronti del mondo […], una relazione dai tratti quasi arcaici in cui il soggetto cerca faticosamente di metter ordine allestendo inventari, radunando dati, compilando elenchi (e l’elenco è – al di sotto di ogni sua complessa e raffinata versione stilistica – la forma primaria, come insegna Lévi-Strauss in Tristi tropici, dell’esperienza)».

15 Interessante anche il legame tra questa funzione dell’allegoria proposta da Benjamin e quella proposta da Michel Foucault, che può essere allacciata alle scelte di Pagliarani: «Il poeta […] assolve alla funzione allegorica; sotto il linguaggio dei segni e il gioco delle loro distinzioni ben ritagliate, si pone all’ascolto dell’‘altro linguaggio’, quello, senza parole né discorso, della somiglianza» (Foucault M., 1994). In Inventario privato è infatti molto presente questo richiamo verso una «somiglianza», seppur gettata in uno spazio vivido e colloquiale, fatto quindi di parole e discorsi («anche a te piace / camminare?»); un aprirsi comunque a un altro linguaggio, fatto di contatto e adiacenza con ciò che è fuori di sé e che scaturisce dalla funzione allegorica («lo spirito umano ha più bisogno / di piombo, che di ali»).

16 Anche questa volta da intendersi in un’accezione benjamiana: «Il malinconico è di casa tra le allegorie; passeggia fra di esse come, più tardi, il flaneur andrà a zonzo tra le rovine dei passages» (Pedretti, 2007). «La melanconia rende l’anima da un lato inerte e ottusa, e dall’altro le conferisce il vigore dell’intelligenza e della contemplazione» (Benjamin, 1999).

 

 

Bibliografia

 

Alighieri D., 1991, La Commedia. Vol. 1: Inferno, Mondadori, Milano;

Asor Rosa A., 2004, Novecento primo, secondo e terzo, Sansoni, Milano;

Benjamin W., 1999, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino;

Id., 2000, Opere complete, vol. IX. I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino;

Cortellessa A., 2014, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 81, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma;

Crocco C., 2015, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, Roma;

Ferroni G., 1991, Storia della letteratura italiana, IV, Il Novecento, Einaudi, Torino;

Foucault M., 1994, Le parole e le cose, BUR, Milano;

Frasca D., 2014, Posture dell’io. Luzi, Sereni, Giudici, Caproni, Rosselli, Felici, Pisa;

Giuliani A. (a cura di), 2003, I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, Einaudi, Torino;

Mazzoni G., 2005, Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna;

Mengaldo V., 2003, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano;

Montale E., 1996, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, Mondadori, Milano;

Pagliarani E., 1959, Inventario privato, Veronelli, Milano;

Id., 1962, La ragazza Carla e altre poesie, Mondadori, Milano;

Id., 1985, Poesie da recita, Bulzoni, Roma;

Id., 2006, Tutte le poesie (1946 – 2005), Garzanti, Milano;

Pasolini P. P., 1999, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano;

Pedullà W., 2007, L’Illuminista – La poesia di Elio Pagliarani: numero monografico, n.20–21, Ponte Sisto, Roma;

Raboni G., 2005, La poesia che si fa. Critica e storia del Novecento poetico italiano, Garzanti, Milano;

Remotti F., 2013, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma–Bari;

Segre C., 1998, La letteratura italiana del Novecento, Laterza, Bari;

Siti W., 1980, Il Neorealismo nella poesia italiana, Einaudi, Torino;

Testa E. (a cura di), 2005, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino;

Testa E., 1999, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Bulzoni, Roma;

Id., 2011, Una costanza sfigurata. Lo statuto del soggetto nella poesia di Sanguineti, Interlinea, Novara.

 

Sitografia

 

Cepollaro B., 2015:

https://poesiadafare.wordpress.com/2015/05/14/biagio-cepollaro-su-inventario-privato-1959-di-elio-pagliarani/

Pedretti L., 2007:

http://www.filosofia.unimi.it/itinera/mat/saggi/pedrettil_ursprung.pdf

 

 

Post in translation: William Shakespeare

2

 

 

 

Sette Sonetti

di

William Shakespeare

traduzione di Massimiliano Palmese

 

 

 

15.

When I consider everything that grows
Holds in perfection but a little moment,
That this huge stage presenteth nought but shows
Whereon the stars in secret influence comment;
When I perceive that men as plants increase,
Cheered and cheque’d even by the self-same sky,
Vaunt in their youthful sap, at height decrease,
And wear their brave state out of memory;
Then the conceit of this inconstant stay
Sets you most rich in youth before my sight,
Where wasteful Time debateth with Decay,
To change your day of youth to sullied night;
And all in war with Time for love of you,
As he takes from you, I engraft you new

15.

Se penso che ogni cosa di Natura
resta perfetta solo brevi istanti,
che sulla scena siamo figuranti
a cui le stelle fanno una fattura;
se le creature al pari delle erbe
–  un solo cielo dà e toglie rigoglio –
dimenticando ogni passato orgoglio
si fanno marce, ed erano superbe;
allora so che un’incostante sorte
al primo sguardo ti offre giovinetto
ma che vorrebbe, il Tempo con la Morte,
dare ai tuoi freschi giorni un freddo letto.

Faccio la guerra al Tempo per tuo amore:
più lui ti strappa, io più ripianto il fiore.

 

18.

Shall I compare thee to a summer’s day?
Thou art more lovely and more temperate:
Rough winds do shake the darling buds of May,
And summer’s lease hath all too short a date:
Sometime too hot the eye of heaven shines,
And often is his gold complexion dimm’d;
And every fair from fair sometime declines,
By chance or nature’s changing course untrimm’d;
But thy eternal summer shall not fade
Nor lose possession of that fair thou owest;
Nor shall Death brag thou wander’st in his shade,
When in eternal lines to time thou growest:
So long as men can breathe or eyes can see,
So long lives this and this gives life to thee.

18.

Dovrei dire che sei un giorno d’estate?
Tu sei molto più amabile e più lieve.
Le gemme in maggio al vento van sciupate
e il corso dell’estate è tanto breve,
l’occhio nel cielo a volte scotta alto
che spesso quel suo oro vedi a stento,
e qualsiasi bellezza perde smalto
per caso o naturale mutamento.
Ma la tua eterna estate non sfiorisce
e mai tu perderai la tua armonia:
all’ombra della Morte non svanisce
chi sopravvive nella mia poesia.

E, fin che esisteranno occhi e sospiro,
tu vivo in questi versi avrai respiro.

 

 

 

23.

As an unperfect actor on the stage
Who with his fear is put besides his part,
Or some fierce thing replete with too much rage,
Whose strength’s abundance weakens his own heart.
So I, for fear of trust, forget to say
The perfect ceremony of love’s rite,
And in mine own love’s strength seem to decay,
O’ercharged with burden of mine own love’s might.
O, let my books be then the eloquence
And dumb presagers of my speaking breast,
Who plead for love and look for recompense
More than that tongue that more hath more express’d.
O, learn to read what silent love hath writ:
To hear with eyes belongs to love’s fine wit.

23.

Come a teatro chi è cattivo attore
scorda la parte colto da emozione,
come a una belva piena di furore
viene un collasso al più della tensione,
anch’io, insicuro, non so più affrontare
il bel cerimoniale dell’amore:
come se avessi un sasso sopra al cuore,
al culmine mi sento di mancare.
Saranno i versi miei la mia eloquenza,
i muti messaggeri del mio petto,
preghino maggiore ricompensa
di una bocca che sa parlare a effetto.

È sapere d’amore raffinato
capire un cuore che non ha parlato.

 

39.

O, how thy worth with manners may I sing,
When thou art all the better part of me?
What can mine own praise to mine own self bring?
And what is ‘t but mine own when I praise thee?
Even for this let us divided live,
And our dear love lose name of single one,
That by this separation I may give
That due to thee which thou deservest alone.
O absence, what a torment wouldst thou prove,
Were it not thy sour leisure gave sweet leave
To entertain the time with thoughts of love,
Which time and thoughts so sweetly doth deceive,
And that thou teachest how to make one twain,
By praising him here who doth hence remain!

39.

I pregi tuoi come potrei cantare,
se altro tu non sei che il meglio in me?
A cosa servirebbe il mio lodare?
Farei un elogio a me lodando te.
È un bene se divisi noi si vive,
che il caro amore in due metà si spezzi,
così che io, nel vuoto che divide,
ti possa offrire quello che ti spetti.
O assenza, saresti un bello strazio,
se un vuoto amaro non mi desse spazio
di oziare ragionando sull’amore,
per Tempo e mente dolce ingannatore.

Tu m’insegnasti a vivere sdoppiato
lodando lui, che invece è già passato.

71.

No longer mourn for me when I am dead
Then you shall hear the surly sullen bell
Give warning to the world that I am fled
From this vile world, with vilest worms to dwell:
Nay, if you read this line, remember not
The hand that writ it; for I love you so
That I in your sweet thoughts would be forgot
If thinking on me then should make you woe.
O, if, I say, you look upon this verse
When I perhaps compounded am with clay,
Do not so much as my poor name rehearse.
But let your love even with my life decay,
Lest the wise world should look into your moan
And mock you with me after I am gone

71.

Non mi piangere quando sarò andato,
non più a lungo del tocco di campana
che tetro annuncerà che ho traslocato
da questo mondo ai vermi, nella tana.
L’uomo che qui ti scrive puoi scordare.
Io t’amo così tanto da sperare
di non restarti affatto nei pensieri
se fossero per te pensieri neri.
E, se cadrai lo sguardo a queste rime,
ascoltami: l’amore tuo sigilla,
non rivangare il povero mio nome
quando sarò tutt’uno con l’argilla.

Io temo il mondo, spiandoti, lui possa
burlare te per me, già nella fossa.

 

 

73.

That time of year thou mayst in me behold
When yellow leaves, or none, or few, do hang
Upon those boughs which shake against the cold,
Bare ruin’d choirs, where late the sweet birds sang.
In me thou seest the twilight of such day
As after sunset fadeth in the west,
Which by and by black night doth take away,
Death’s second self, that seals up all in rest.
In me thou see’st the glowing of such fire
That on the ashes of his youth doth lie,
As the death-bed whereon it must expire
Consumed with that which it was nourish’d by.
This thou perceivest, which makes thy love more strong,
To love that well which thou must leave ere long.

73.

In me tu vedi un mese, uno di quelli
quando resistono poche foglie d’oro
sopra il ramo tremante, un tempo coro
dove prima cantavano gli uccelli.
In me tu vedi il giorno discendente
che al tramonto svanisce ad Occidente
e a poco a poco si fa notte e tace:
un’altra morte che dispensa pace.
In me tu vedi il fuoco che si spezza
sulle ceneri della giovinezza,
come se fosse al capezzale, ucciso
da cose che lo avevano nutrito.

Ma tutto ciò più forte fa il tuo amare
per me, che prima o poi dovrai lasciare.

 

90.

Then hate me when thou wilt; if ever, now;
Now, while the world is bent my deeds to cross,
Join with the spite of fortune, make me bow,
And do not drop in for an after-loss:
Ah, do not, when my heart hath ‘scoped this sorrow,
Come in the rearward of a conquer’d woe;
Give not a windy night a rainy morrow,
To linger out a purposed overthrow.
If thou wilt leave me, do not leave me last,
When other petty griefs have done their spite
But in the onset come; so shall I taste
At first the very worst of fortune’s might,
And other strains of woe, which now seem woe,
Compared with loss of thee will not seem so.

90.

Odiami quando vuoi, perché non ora?
Ora che tutto il mondo mi vuol male
aggiungi il colpo tuo alla mia sventura,
ma prego non sia tu il colpo finale.
Tu, se del cuore poi qualcosa resta,
non rivangare la ferita aperta,
non far seguire pioggia alla tempesta,
non prolungare una disfatta certa,
non lasciarmi alla fine del cammino
quando sofferto avrò tutti i dolori:
vieni per primo, lascia che assapori
il peso che ha la forza del destino.

Ogni altra pena non sarà gran che,
paragonata all’aver perso te.

 

Nota del traduttore

La somma di due lunghi apprendistati, quello poetico e quello drammaturgico, ha reso possibile il mio incontro con la traduzione di Shakespeare. Mi ci sono avvicinato quando mi è stata commissionata una versione del Sogno di una notte di mezza estate, poi una nuova veste per Romeo e Giulietta. Sono state per me esperienze laboriose ma felici. In entrambe le traduzioni ho mantenuto la prosa lì dove Shakespeare usa la prosa, ma un irresistibile istinto mi ha chiesto la fedeltà al ritmo dei versi, lì dove i personaggi parlano in versi. Divinità come Oberon e Titania, spiriti come Puck, amanti come Demetrio, Ermia, Lisandro, Elena, Romeo, Giulietta, eroi tragici come Mercuzio, non parlano in prosa, per Shakespeare la lingua del popolo; parlano la lingua del Libro, ovvero quella della cultura e della poesia. La sfida è stata, dunque, restituire a questi personaggi la musicalità dei versi e delle rime: che non sono solo versi e rime ma indici di cultura, consapevolezza, gioco linguistico.

La stessa cultura e consapevolezza del personaggio che dice Io nei Sonetti, del cui lavoro di traduzione presento qui un’anteprima. I temi dei Sonetti – la tragicità della Sorte, la mutevolezza delle cose al pari delle stagioni, la delicatezza del Bello, la Poesia come guerra al Tempo, l’omoaffettività tra adulto e giovane – sono quelli classici della tradizione poetica occidentale, a partire dai lirici greci; mentre il gioco linguistico – complicato, avventuroso, cerebrale – è tipicamente rinascimentale. Un gioco che tradurre in altra lingua è allo stesso tempo pericoloso ed elettrizzante. Ma è un gioco che Shakespeare sembra ancora invitarci a giocare, lanciando ai poeti il suo guanto di sfida da una distanza di quattrocento anni.

 

Abitare l’Italia fragile

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di Gianni Biondillo

Pochi anni fa, durante una giornata di studi in Triennale, rimasi colpito dal fatto che ben due relatori citarono John Kenneth Galbraith che parlando dell’Italia del dopoguerra dava una spiegazione a modo suo “inoppugnabile” dell’intimo carattere di questo paese.

«L’Italia, partita da un dopoguerra disastroso – scriveva l’economista americano – è diventata una delle principali potenze economiche. Per spiegare questo miracolo, nessuno può citare la superiorità della scienza e dell’ingegneria italiana, né la qualità del management industriale, né tantomeno l’efficacia della gestione amministrativa e politica, né infine la disciplina e la collaboratività dei sindacati e delle organizzazioni industriali. La ragione vera è che l’Italia ha incorporato nei suoi prodotti una componente essenziale di cultura e che città come Milano, Firenze, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, pur avendo infrastrutture molto carenti possono vantare nel loro standard di vita una maggiore quantità di bellezza».

L’auditorio, composto da intellettuali, economisti, tecnici, applaudì in tutti e due i casi con entusiasmo e convinzione. Questo siamo noi, dicevano quegli applausi, questa è l’Italia. Il mio mestiere è raccontare storie, conosco gli inganni della retorica. L’accettazione supina del ritratto fatto da Galbraith mi aveva in qualche modo insospettito. Perché quella narrazione, per quanto emotivamente intrigante, era una narrazione tossica, basata su un paternalistico e buonista pregiudizio etnico. «Per diventare “narrazione tossica” – scrivono i Wu Ming – una storia deve essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità.»

Gli stereotipi sono materiali del narratore, che sa come usarli. Chi li ripropone acriticamente fa solo pessima letteratura. Lo stereotipo immobilizza una figura, la eterna, la mitizza. Non accetta la complessità, la mutevolezza. Rifugiarsi negli stereotipi è quel che Giulio Bollati chiamava «l’abdicazione a pensare». Ascoltando la citazione di Galbraith, quel giorno in Triennale, mi chiedevo: com’era, davvero, l’Italia del dopoguerra?

Era una nazione che aveva espresso una scuola di fisica teorica di altissimo livello, al punto che oggi il 50% degli scienziati del CERN è italiano. Che in economia aveva, a detta del Financial Times, la moneta più stabile del mondo. Che per costruire la linea metropolitana milanese attuò tali e tante innovazioni che il sistema di costruzione, denominato Milan Method, fu successivamente utilizzato in Canada e in Brasile. Che esprimeva chimici come Giulio Natta insigniti del Nobel per la scoperta del propilene e con un Ente Nazionale Idrocarburiche che si giocava la partita energetica con le “sette sorelle” del petrolio mondiale, o con il reparto ricerche dell’Olivetti che nel 1964 aveva prodotto il primo personal computer al mondo.

Questa storia dell’Italia non viene mai raccontata. Perché? Sicuramente per l’influenza crociana, che mette in secondo piano la cultura tecnico-scientifica rispetto a quella umanistica. Ma questa risposta non basta. La verità è che il racconto di una Italia dedita al “bello” e all’arte è innanzitutto consolatoria per noi. Ci crogioliamo del nostro patrimonio storico, artistico, paesaggistico, in quel patrimonio, retoricamente, ci riconosciamo. Ce la suoniamo e ce la cantiamo, per farla breve. Ci crediamo esperti di musica in quanto cittadini del paese del belcanto, ma in realtà, spocchiosamente ignoranti, confondiamo il melodramma verdiano con le prestazioni trash de Il Volo. Ci fregiamo del nostro passato, come un onoficienza da appuntarci al petto. Ma questo patrimonio, è ora di capirlo, non è un onore. È un onere. E oggi, sempre più, il territorio sfinito dove viviamo, fra dissesti idrogeologici e terremoti, sembra definitivamente chiederci il conto.

Occorre una contro narrazione. Occorre raccontare l’Italia nella sua complessità, fuori dagli slogan d’occasione. Cosa significa, dopo le immani tragedie dei terremoti del 2016, insistere con lo slogan “dov’era e com’era”? Ma per farne che? Davvero crediamo che il nostro patrimonio artistico sia un “giacimento culturale” da sfruttare, il “petrolio” che ci renderà ricchi solo perché ne abbiamo a disposizione più delle altre nazioni? Cosa significa: “con la cultura si mangia”? Quale cultura? Quella che immagina le piazze storiche come scenografie dove accogliere i turisti, vestiti da centurioni? Il turismo da solo non serve, come d’incanto, per far funzionare il Paese, ma è semmai un Paese che funziona che stimola le attività produttive del turismo.

Un’Italia che funziona è innanzitutto un paese che decide di puntare su innovazione, tecnologia, ricerca, cultura. Che non separa le conoscenze ma le meticcia. Come ha sempre fatto, in realtà. Brunelleschi era un matematico oltre che un architetto, Alberti un politico oltre che un teorico, Leonardo uno scienziato, prima che artista. E non è solo storia del Rinascimento. Il paesaggio amato da Goethe è il risultato di innovazioni agricole, di economie di costa, di tecnologie fluviali. Così fino a tutto il novecento. L’artista Alberto Burri era medico di formazione, lo scrittore Carlo Emilio Gadda ingegnere, l’economista Carlo Azeglio Ciampi un filologo classico.

Per suturare le ferite del territorio il governo italiano deve partire dalla ricerca. Ricostruire per ricostruire, nell’emozione dell’emergenza, senza una visione, una pianificazione che copra l’arco di almeno due generazioni, non serve a niente. Che me ne faccio di un borgo riedificato dov’era e com’era se non so garantire l’economia che lo tiene in vita? Immaginiamo davvero che basti ridurre tutto l’Appennino a un immenso bed and breakfast diffuso? Il paesaggio è un sistema complesso, non una cartolina immobile nel tempo. Il territorio è dove insistono, spesso frizionano, tradizione e novità.

Una nazione fragile, con questa eredità gravosa, deve fare di quest’onere un’opportunità. Non mancano gli scienziati, i progettisti, le intelligenze. Dobbiamo permettere loro di interagire, di immaginare nuovi scenari d’innovazione senza lacci politico-burocratici. Sviluppare nuove tecnologie antisismiche, consci di intervenire in un panorama unico al mondo, quindi non importando protocolli a noi culturalmente estranei ma inventandone di nuovi, che contemplino la conservazione dei materiali della tradizione e la completa sicurezza dei manufatti. Geologi e sociologi, chimici e archeologi, economisti e scienziati della terra, sismologi e architetti, vulcanologi e filmaker, storici e informatici. Tutti, a modo loro, narratori di una nuova idea di nazione.

Il lavoro è enorme: riqualificare le coste, dalla Liguria alla Calabria, demolendo chilometri di inutile edilizia di scarsa qualità, ridefinire e consolidare gli argini e i letti dei nostri fiumi, riforestare i crinali contenendo i dissesti idrogeologici, liberare la Brianza dallo sprawl indifferenziato, bonificare la Terra di Lavoro dalle discariche abusive tossiche. Lavoro enorme e, per i tempi asfittici della politica, poco redditizio in termine di voti. Ma è l’unica opportunità che abbiamo, in un mercato globale sempre più interconnesso, di fare innovazione competitiva. Purtroppo non solo in Italia ci sono problemi di dissesti o di terremoti. Avere università e laboratori di ricerca all’avanguardia su questi temi cogenti significa diventare depositari di conoscenze che poi possono essere esportate ovunque.

Un paese innovativo è un paese che fa della conoscenza il suo capitale. Fa economia. Stimola l’industria agroalimentare conservando la sua peculiare biodiversità qualificando così il paesaggio storico e riuscendo a creare i presupposti economici per presidiare i borghi da ricostruire; rende le sue metropoli autosufficienti, sia dal punto di vista energetico che da quello alimentare (orti urbani, tetti coltivati, etc.); allaccia rapporti fra artigianato manifatturiero, l’industria 4.0 e l’internet delle cose; punta sulla mobilità pubblica, condivisa e dolce; ricrea condizioni di socialità diffusa. Chiama cioè all’appello le migliori menti a disposizione e le lascia sperimentare.

Salvare l’Italia fragile è salvare l’Italia tout court. Altro che Mose, Tav, Ponte sullo Stretto. Altro che tronfie cattedrali nel deserto. La più grande, unica, e davvero necessaria infrastruttura su cui lavorare per i prossimi decenni sarà capillare e diffusa su ogni centimetro quadrato della Nazione. O non sarà.

(pubblicato su Abitare numero 571, gennaio/febbraio 2017)

Prove d’ascolto #10 – Mariangela Guatteri

2

La grammatica*

 

 

 

* è la quarta parte di un libro di Mariangela Guatteri, di prossima pubblicazione

 

///

 

Una nota su “La grammatica”

di Andrea Leonessa

 

Una poetica, quella di Mariangela Guatteri, che setaccia il superfluo ed ammette, come solo possibile materiale di scrittura, quanto resta d’un (s)oggetto che si sottrae. Un materiale residuale che si libera, si sottrae per l’appunto alla forma, e dunque allo stile, per consegnarsi ad un indifferenziato che lo neutralizza, convertendolo in puro pensiero: “pensiero che è questo oggetto” come si legge nei testi, contraddistinti da un radicale minimalismo. Intuire la realtà, per l’autrice, sembra allora corrispondere all’intuizione della “realtà della parola”, quest’ultima rivelatasi come congiunzione, relazione o ancora processo sul quale poggia l’illusione stessa dell’identità, dell’io. Scrittura didascalica, spersonalizzata, che fa attrito con l’idea stessa dell’autore, etimologicamente “colui che fa aumentare”: autore, o meglio autrice, che compie qui un’operazione inversa, atta invece a sottrarre al verso una parola ancora, un verbo di più.

 

///

 

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

 

Il festivaliero

1

di Luca Ricci

L’uomo aveva pianificato quella gita fuori porta già da parecchie settimane: gli piaceva di tanto in tanto prendere un treno e passare il tempo in un’altra città, meglio se di provincia, lontana dal caos. Quella volta a Mantova però qualcosa andò storto. Appena varcate le mura della cittadina un gruppetto di giovani gli si parò d’innanzi con aria entusiasticamente minacciosa: sarà che la sua calvizie da chierico gli dava un aspetto saggio, o che per quell’occasione aveva scelto una giacca di lino al contempo elegante e stropicciata da intellettuale, o che per caso o per sbaglio teneva sotto braccio un paio di supplementi culturali di quelli che in genere compulsano ossessivamente gli scrittori per sapere: chi-ha-scritto-stavolta-al-posto-mio?

José Carlos Rosales, Se volessi potresti alzarti e volare

1

José Carlos Rosales (Granada, 1952) ha pubblicato otto libri di poesie, di cui l’ultimo intitolato Si quisieras podrías levantarte y volar (Madrid, Bartleby Editores, 2017; in italiano: Se volessi potresti alzarti e volare). Il libro è composto da venticinque sequenze che raccontano la storia di un uomo in fuga. Presentiamo la prima, la quarta e la quinta, a cura di Damiano Sinfonico.

*

I (Le ali)

Sarai così stanco che ti sentirai leggero,

così leggero

che anche ora potresti alzarti e volare:

Radio days: Gigi Masin

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Loops and Clouds

di Mirco Salvadori

 

L’entrata dell’edificio si avvicina. Misuro i passi mentre i sensi rimangono avvolti nella lenta vibrazione del subwoofer colpevole di espandere oltremodo i droni danzanti nelle cuffie. Il semplice tragitto lungo un viale in dolce salita si trasforma in passaggio estatico. Il display del mio dispositivo indica che l’attenzione è satura. Deeper Inside recita, premunendosi di informarmi che ora siamo all’ottava stazione d’ascolto: Arriving Here And Now. Informazioni indicizzate, forse. L’infinito viaggio assieme a Florian Becker sembra sia giunto a termine. Il sound artist tedesco mi conduce fin sulla soglia, abituando i miei sensi a vagare lungo invisibili strutture architettoniche create nello spazio indefinito, quasi presagisse ciò che i miei occhi vedranno.

Mi trovo in una Cattedrale che emana fragranza primordiale di legno e suono. È uno spazio nel quale si espone la spontaneità dell’arte musicale immersa nella complessità di una creazione architettonica che incita alla perdita dei punti cardinali a favore del viaggio indefinito. Mi ritrovo innanzi ad un oceano di suono custodito all’interno dello Studio Venezia, nel Padiglione Francia della Biennale 2017. L’inconfondibile timbro del silenzio è la prima delle molteplici percezioni che si avvertono entrando nel padiglione. Al pari di Alice scivolo lungo un tunnel che non ha una forma apparente, avanzo passo dopo passo attraversando le sale di uno dei molteplici Merzbau, il quinto forse, l’opera artistica totale, colei che riesce a riunire e far dialogare, nella sua apparente e visionaria architettura, i linguaggi dell’arte. Se l’eroina del racconto di Carrol intravvedeva appesi al muro scaffali di libri e quadri e carte geografiche, qui il tripudio della visione è dato dal numero elevato di strumenti musicali posizionati a coprir pareti e palchi, esposti come opere multimediali, preziosi oggetti dalle fattezze (s)conosciute, sapienti interpreti da sempre in grado di stupire.

“L’architettura può essere un limite per l’arte, la musica può essere un altro limite ma all’interno di questi limiti qualcosa può esistere, qualcosa di diverso dalla semplice arte visiva. Non si tratta di aggiungere campi diversi ma di moltiplicarli: il suono fornisce una particolare dimensione che non può essere raggiunta solo con la componente visuale”. Così Xavier Veilhan mentre descrive il suo progetto, un padiglione espositivo che vede la curatela del Leone d’oro 2011 Christian Marclay assieme al direttore del Musée d’Art Moderne et Contemporain di Ginevra, Lionel Bovier. Il nomade visitatore che inconsapevole varca l’entrata dell’esposizione, si ritrova in un apparente non-luogo chiamato Studio Venezia, forse un hommage da parte dell’artista francese ad una sua opera del 1993 che si chiamava, per l’appunto, Le Studio. Senz’altro una dichiarazione d’intenti su quanto s’intende fare e creare, immersi in questa virtuale foresta di legno piegato alla volontà del suono e della sua ottimale diffusione acustica.

Lo sguardo ancora indugia, raccoglie informazioni mentre l’anima abituata a nutrirsi di purezza estranea a qualsiasi nozionismo, chiede vibrazioni, vuole nutrirsi di suono. A fatica insisto nei panni del visitatore giunto fin qui spinto dall’estrema curiosità legata alla passione musicale. Con stupore scopro che l’esposizione ospita un vero e proprio studio di registrazione ad altissimo livello e decine sono i nomi degli artisti transitati e che transiteranno nello Studio: Mark Sanders & Elliott Sharp, Darla & Brian Eno, Alessandro Bosetti, Alva Noto, Thurston Moore, Lee Scratch Perry, Nicola Ratti, Sèbastien Tellier, Steve Beresford & Zeena Parkins, Von Tesla, giusto per citarne solo alcuni. Espressioni musicali le più diverse che potranno esser seguite in diretta streaming sul satellite virtuale in rotazione nel world wide web, lo studio-venezia.com.

La fame morde, paziente ha atteso io vagassi terrestre tra i terrestri raccogliendo ulteriori informazioni ma ora urla e si contorce, graffia le corde delle chitarre appese alle pareti, il nero splendore del pianoforte a coda, il vecchio Fender Rhodes e il clavicembalo, con lo sguardo azzanna Moog e sintetizzatori, strumenti a fiato e percussioni, sconosciuti emanatori di onde sonore e gigantesche balalaike capaci di preservare dal freddo anche il più possente dei suonatori. Ma un suono ora giunge, è il nero Yamaha che sorveglia lucido l’entrata dello Studio Venezia.

La tonalità inizia a giungere fluida mentre penso ad una frase letta qualche giorno addietro. A pronunciarla Angus Carlyle, ricercatore e studioso del paesaggio sonoro con una cattedra alla University of the Arts di Londra: “Passeggiate sonore performative con o senza palloncini che scoppiano, una voce che canta o una voce ambientale. L’ascolto dialogo spronato dagli imperativi degli intenti o dal desiderio di triangolare le modalità sonore per conoscere un luogo. La sollecitudine affettiva verso ciò che accade le finestre e i muri, verso le facciate delle architetture, la sensibilità acuita verso i flussi magnetici, verso le vibrazioni interne della materia, verso i cambiamenti nel calore, nell’umidità e nel vento, verso il frastuono della cicala o il respiro del bisonte, verso ciò che è pericoloso (comunque visivamente innocuo) ed il precario (qualsiasi sia il linguaggio che parli)”.

Ecco, penso seduto dentro quella foresta di legno piegato al volere del suono, ecco l’esempio che cercavo per spiegare al meglio quelle parole. Attorno a me il nomade via vai dei visitatori, il suono scaturito dai loro passi, quello dei loro pensieri. Tutto intorno il calore degli spettatori attenti e l’alternarsi dello scatto degli otturatori dei mille devices costantemente agganciati alla Grande Madre Rete che tutto ingloba. Il respiro di un’architettura apparentemente immobile che riceve e restituisce vibrazioni. Il flusso continuo di dati che scorrono lungo i cavi per esser filtrati e trasformati in materia udibile anche dopo il silenzio definitivo della fonte originaria. Siamo tutti parte di un’opera artistica che emette in continuazione suono così come la musica prodotta dai due ospiti oggi in residenza, il veneziano Gigi Masin e lo scozzese Jonny Nash.

Ho conosciuto Gigi nel corso di un programma radiofonico che conducevo negli anni ’80, era un visionario musicista che bruciava di passione e regalava il suo disco a chi lo richiedeva, un vinile autoprodotto intitolato “Wind” ora ricercato dai collezionisti di mezzo mondo. Dopo oltre trent’anni quella passione messa a dura prova dall’ottusità di una realtà musicale italiana priva di contenuti veri e troppo concentrata ad autoincensarsi, è esplosa a livello mondiale portandolo a suonare nella formazione dei Gaussian Curve con Marco Sterck e Jonny Nash che ora ritrovo piegato sulla sei corde elettrica mentre dialoga con il pianoforte usando un linguaggio ad alto potenziale virale che ben conosco. Le barriere vengono abbattute, qualsiasi discorso, sia esso basico o cattedratico, perde valore innanzi all’assoluta potenza immersiva della situazione, slegata da ogni contatto se non quello dell’ascolto.

Entro nel ciclo continuo del loop, degli accordi che si abbattono a ridosso del suo segnale salvifico e volutamente mi perdo. Mi ritrovo all’aperto mentre una silenziosa vettura elettrica conduce gli ultimi visitatori verso l’uscita; il cielo sopra Venezia quest’anno è il palcoscenico di un passaggio di nuvole mai osservate prima, formazioni dal disegno sorprendentemente astratto che continuamente si ripresentano allo sguardo nella loro corsa verso il mare, quasi fossero note imprigionate nel nastro magnetico più azzurro mai concepito.

“Il componimento del 1963, il Solfeggio (…) è scritto seguendo solo sette suoni invece di dodici. Come vede, l’idea era molto semplice e non ero assolutamente sicuro che avrebbe funzionato fin quando non l’ho ascoltato e si, se viene eseguito nel modo giusto funziona benissimo, ma, mi creda, non saprei che altro aggiungere” (da una conversazione di Enzo Restagno con Arvo Part)

 

LINK AL VIDEO: https://www.facebook.com/mirco.salvadori/posts/10155914491768322

 

 

 

come faccio senza te (1/3)

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di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

come faccio

senza te

giorno dopo

dopo giorno

dimmi come

faccio senza

senza te

trova tu

la soluzione

World Wide Wars [ conflitti e narrazione ]

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8 settembre – 9 settembre
Dal 8 settembre alle 14:30
al 9 settembre alle 18:00

Museion Bozen-Bolzano
Piero Siena Platz / Piazza Piero Siena, 1
39100 Bozen / Bolzano, Trentino-Alto Adige

Convegno letterario – Literaturtagung

Venezia 74 – Un caso di Realtà Virtuale

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di Lorenzo Esposito

Quando due anni fa Tsai Ming-liang presentò a Venezia l’inquadratura fissa intitolata Afternoon, dove un regista e il suo attore feticcio (Tsai Ming-liang stesso e Lee Kang-sheng), installati nel quadro bucato di una casa diroccata, consumano una delle ossessioni amorose più sconcertanti e appassionanti della storia del cinema, l’ingenuo accostamento fatto dai più con certa tendenza museale dell’ultim’ora era già di per sé disinnescato dall’ambizione tutta umanistica e apocalitticamente intrecciata all’annuncio del cineasta taiwanese di non voler fare più ‘film’.

Ragazze elettriche in un mondo elettrico

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di Francesca Fiorletta

Quanti miracoli ci vogliono? Non tanti. Uno, due, tre sono già molti. Quattro sono un’enormità, persino troppi. 

Naomi Alderman ha scritto un romanzo violento, brutale, angosciante. Ragazze elettriche, appena pubblicato da Nottetempo Edizioni, è un viaggio senza ritorno – e senza miracoli – nell’intolleranza di genere.

Ispirato dalla lettura de Il racconto dell’ancella, e supportato nella stesura dalla stessa Margaret Atwood [“che ha creduto in questo libro quando era ancora allo stato embrionale”, così scrive Alderman nei Ringraziamenti] Ragazze elettriche è un romanzo che ruota sostanzialmente attorno al pericoloso quanto invitante perno del potere. 

Qualcosa, là fuori

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 di Gianni Biondillo

Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda, 2016, 217 pagine

Quando Livio era giovane ha vissuto il mondo che stiamo vivendo noi oggi. Era uno scienziato di ottima vaglia, impegnato contro una politica ambientale dissennata, ma era anche persona fra le persone, che doveva vivere la sua vita, fatta di piccole soddisfazioni private, oltre che d’inquietudini pubbliche: un lavoro, una moglie, un figlio. La società dove viveva, la nostra, opulenta e indifferente alla gestione dell’ambiente, non si rendeva conto di aver ormai innescato un irreversibile cambiamento climatico dai tragici e inesorabili effetti.

Ma tutto questo ci verrà raccontato strada facendo. Perché è un “on the road” Qualcosa, la fuori. È la storia di un viaggio della speranza di una colonna di clandestini che, da un’Italia ormai ridotta a landa arida, abbandonata, governata da bande criminali, passando per un’Europa disfatta da un clima crudele, dove i fiumi sono alvei vuoti e i laghi pozze di fango, cercherà di trovare rifugio in Scandinavia, Eden mediterraneo circondato da uno sbarramento militare anti rifugiati.

Il problema dei romanzi apocalittici sta, spesso, nelle spiegazioni puerili dello scenario dove muovere i personaggi. Nel romanzo di Bruno Arpaia, invece, le ragioni scientifiche dello scenario sono la storia stessa. La credibilità del mondo descritto è davvero inquietante. Arpaia sa di cosa parla, ce lo spiega con dovizia senza mai essere didascalico. La lingua usata è chiara, non ha bisogno di metafore ardite, perché anche solo la descrizione del futuro mondo catastrofico è, di suo, un’immensa allegoria.

In questo caso non ha senso parlare di fantascienza apocalittica, ma di un autentico romanzo scientifico. E perciò etico. Il futuro ferino verso dove stiamo andando lo stiamo scrivendo noi, con la nostra indifferenza. Resta l’umanità ferita che resiste però, quella di Livio.

 

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 24 del 14 giugno 2016)

Il Padre. Un’ustione

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di Andrea Donaera

 

Che vuoi?

Jacques Lacan

 

 

I.

Ti immagino, ormai: e basta.

Un fumetto, colori,

cartapesta, nel presepio spento,

i miei anni, che non vengono,

tutti noi. Sei la norma,

l’amico, questi mesi.

La mia pazienza di blatta sul tuo cuscino,

che così ci immagino, ormai: e basta:

nei terrori, nei colori.

 

 

II.

Non hai nemmeno un nome, certe volte, sei solo

il Grande Altro, là, fuori, e mi spunto ogni fare,

ogni dire, e dinoccolo ogni andare, attraverso,

attingendo da te, fontana tutta sangue,

sei altro, che preme, e sfonda,

sei lupo, sei fame, sei la mia stanchezza,

sei la mia bambinezza, sei io, solo e triste e altro,

che ho una matita, e un temperino, e buco

un foglio appeso al petto,

e quanto mi pento, quanto mi pento.

 

 

III.

Sapessi che cosa sogno, sapessi,

la mia schiena, come uno scoglio sporto,

un mare marcio, ti ci bagni le mani

(sono spettri scossi, meduse tremule),

mi sveglio sempre spastico, poi, sento

un suono, un fischio spesso, nell’orecchio.

[Padre, non dovrebbe essere questo.

(E non lo è: faccio finta.)]

Ritorno al letto, mi ci seppellisco.

 

 

IV.

La lotta è sempre per non riconoscerti [tra le divise grigie in fila al bar

che mai ti ricordano, mai ci sei (tra i suoni di un disco metal prestatoti

per l’energia al lavoro e mai tornato, per sempre ormai imprigionato nel limbo

del tuo ultimo computer utilizzato)], la lotta sempre per non distorcerti

sfumato in un tiro di sigaretta tra il giallo poroso dei magazzini

[quelli dei pescatori, dove andavi a tirar le somme (lì ti cercammo

banali nel terrore, lì non eri)], una lotta che stanca e mi strattona,

mi annerisce ogni quesito, mi sbarra, mi fa io e me, mi fa prima e dopo te,

e in certi pomeriggi assorti crollo, mi apro una parentesi che socchiudo,

mi scopro essere niente e sgretolato, tu in sogno mi ricomponi, paziente

(pulisci il mio mento sporco di gelato).

 

 

V.

C’è il diluvio e ci penso:

il tuo scrosciare su questo mio tempo.

Comprendo cosa ho fatto

nel passare inutile del mio tempo:

un bagnare incessante

questa nostra terra. Che però secca

e può solo seccare,

al tatto decomporsi,

tra le dita farsi polvere, farsi

te.

 

Trou Stories

2

Il mondo visto da un buco

di

Azra Nuhefendić

 

In prima elementare ero molto amica di Vesna. Era bella, bionda e molto simpatica. All’epoca era l’unica un po’ cicciottella. Ero però affascinata da sua mamma che era diversa dalle altre. Le nostre mamme si assomigliavano tutte: portavano la “schlafrock”, cioè la vestaglia (è così che la chiamavamo, utilizzando la parola tedesca) con sopra il grembiule, erano sempre stanche per via del cucinare, dello stirare, del pulire e dello stare dietro ai figli, avevano le maniche rimboccate e le mani sbiancate dal bucato che facevano ogni giorno, i capelli senza piega.

La mamma di Vesna era bellissima, assomigliava a Rita Hayworth, mora, con i cappelli ondulati, lunghi fino alle spalle, snella, sempre ben vestita anche per stare in casa. Aveva un sorriso bellissimo e la voce che suonava come le campanelle del calesse che, ci dicevano, preannunciavano l’arrivo di Babbo Natale.

Suo marito era un ingegnere. Si erano traferiti da Belgrado a Sarajevo all’inizio degli anni Sessanta quando in Bosnia si sviluppava l’industria militare e c’era tanto lavoro. Per attirare nella Bosnia Erzegovina, arretrata e povera, gli specialisti dalle altre parti della Jugoslavia il governo locale offriva lavoro, una buona paga e anche l’appartamento.

Mi invitavano spesso a casa loro e ci andavo volentieri. Avevo un problema però. Le mie calze erano consumate e bucate (sempre). E mi vergognavo, non davanti a Vesna ma davanti a sua mamma che mi piaceva così tanto.

Da noi, prima di entrare in casa, sulla soglia si tolgono le scarpe. Per non esporre la mia vergogna, cioè le calze bucate, la parte rovinata la piegavo sotto i piedi, tiravo le calze sempre di più, rimboccandole sotto, e talvolta arrivavo al punto che la calza era più sotto che sopra. La parte sotto il piede la tenevo fissa con le dita e così camminavo, ma che dico, saltellavo come le donne cinesi alle quali una volta fasciavano i piedi per impedire che questi crescessero.

Mi capitava anche d’inciampare, ma facevo finta di nulla, e pure i miei ospiti.

In seguito, da ragazza, prima che inventassero i collant, si portavano le calze di nylon con i reggicalze. Sottili, trasparenti, so che ancora oggi sono “l’oggetto del desiderio” più per i maschi, perché per le ragazze di allora rappresentavano un problema e una spesa continua. Si rompevano facilmente, “partiva” magari solo una riga, e per ripararle si portavano dalla sarta specializzata.

Quando ero ragazza, per uscire di casa, tutto doveva essere perfetto. Era l’epoca delle prime serie TV, quelle americane dove tutte le donne erano perfette, anche le casalinghe erano vestite come se fossero a una cena di gala o a teatro. Quello era il nostro modello di vestirsi. Pensandoci oggi mi accorgo che eravamo ridicole perché tutte noi – portinaie, segretarie, studentesse, professoresse, disoccupate – ci vestivamo come Cristobal della serie TV “Dynasty”. E guai se le mie calze erano minimamente rovinate! Anche se non si vedeva, rinunciavo a uscire.

“Che stupida”, penso, ma solo adesso che sono nell’età di poter “fare l’americana”, ossia di fregarmene, perché si sa che le americane non badano a come si vestono, né all’impressione che lasciano sugli altri, purché si sentano comode. Quanti bei divertimenti, balli, appuntamenti ho perso per colpa delle calze bucate!

Negli anni novanta lavoravo con gli inglesi. Per un’intervista con l’ex presidente serbo Slobodan Milošević, arrivò a Belgrado da Londra uno dei più conosciuti e apprezzati giornalisti della BBC. La sera prima dell’intervista nell’albergo “Hayat”, a cena, si parlava degli ultimi dettagli per l’incontro. A un certo punto il giornalista, con disinvoltura, si tolse le scarpe, e io, con orrore, vidi che i suoi calzini erano bucati. Mi sforzavo di non guardare, per non fargli capire che avevo visto i calzini bucati e per risparmiargli la vergogna.

La mia concentrazione diminuì, inutilmente mi sforzavo di seguire la conversazione con attenzione. Ero fissata sulle sue calze bucate. In più mi vergognavo per lui ed ero disturbata dalla possibilità che altri ospiti del ristorante potessero vedere le calze bucate di una persona così importante.

Nessun altro ci fece caso. Il giornalista giocherellava con le scarpe sotto il tavolo, le spostava con i piedi mettendo in evidenza i suoi calzini bucati. A un certo punto il giornalista lanciò la scarpa lontano dal tavolo.

Reagii io per insito e, per risparmiare all’illustre collega l’ulteriore vergogna, mi alzai di scatto, presi la scarpa e poco mancò che lo aiutassi a infilarsela al piede.

Nessuno, giustamente, apprezzò questo mio gesto bizzarro. Il giornalista stesso, con disinvoltura e un po’ seccato, mi disse: “Don’t bother”, non preoccuparti, e la conversazione proseguì come se nulla fosse accaduto. Rimasi profondamente confusa.

Negli anni due mila lavoravo nella bellissima biblioteca del Centro Internazionale di Fisica Teorica “Abdus Salam” (ICTP) a Trieste, posto affollato dai migliori cervelloni di tutto il mondo, dai premi Nobel ai giovani prodigi. La Biblioteca è tra le più grandi specializzate nella letteratura di fisica teorica in Europa. È un posto magico, elegante. Il pavimento è coperto di tappeti, per attutire i rumori. L’atmosfera è quella di un teatro o di una sala da concerto.

E tra gli eminenti scienziati i calzini bucati quasi-quasi erano un emblema. Inoltre molti per stare più comodi giravano per la biblioteca senza scarpe mettendo in bella mostra i calzini bucati. Incuranti di quello che succedeva intorno, capitava spesso che indossassero calzini spaiati, di colore diverso. Nessuno ci faceva caso. Tranne me, ovviamente, “programmata” già dall’infanzia per notare certe cose.

Poi ho lavorato per un professore di fama internazionale che studiava lo spazio e l’origine dei buchi neri. L’illustre professore, novantenne, arrivava in tutta fretta in ufficio nella tarda mattinata per farmi battere al computer le idee che gli venivano in mente durante la notte. Sentivo da lontano i suoi passi, il tipico clap-clap-clap. Il professore portava le scarpe di uno o due numeri più grandi e le calzava come delle ciabatte, i talloni erano sempre fuori e si vedevano bene le calze bucate.

Questo piccolo dettaglio, certamente, non toglieva nulla alla sua importanza e alla stima che godeva, anzi. I calzini bucati del “mio” professore apparivano anche a me come qualcosa di autentico, essenziale.

Dopo ho letto che il suo famoso collega Albert Einstein, autore della teoria della relatività, aveva risolto molto prima, in modo radicale, il problema delle calze bucate: non le portava mai. All’università di Princeton, dove insegnava, Einstein era conosciuto come “sockless”, cioè quello senza le calze.

Di recente sono andata a trovare un’amica a Londra che si è fatta un’importante carriera artistica. Mentre l’aspettavo a casa sua mi sono messa a fare ordine nel suo armadio. Ho trovato due paia di calze, belle, di cachemire, ma bucate e un maglione rovinato dalle tarme.

La mia amica è benestante, lavora tanto, ha poco tempo per fare ordine, penso, probabilmente non si è accorta dello stato di queste cose, e le butto nell’immondizia.

Al suo ritorno a casa le faccio vedere l’armadio, tutto in ordine, e le riferisco di aver buttato quelle cose rovinate. Lei incredula mi urla: “Noooo! Dimmi che non è vero!”. Confusa dalla sua reazione mi spiego meglio: “Sì, ho buttato le calze e il maglione che erano bucati”.

Dopo, quando si è calmata, l’amica mi ha spiegato che in Inghilterra chi ritiene di appartenere alla classe alta non si fa rammendare i maglioni rovinati e porta le calze bucate. Le indossano apposta rovinate e consumate per sottolineare il contrasto con i nuovi ricchi dove tutto, compreso la ricchezza e la posizione sociale, è “nuovo di zecca”.

articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

 

Nelle spire del racconto, o al di fuori di loro – su Racconto di Nadia Agustoni

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di Daniele Barbieri

Avendo lavorato e ragionato, nel corso della mia vita, sostanzialmente da semiologo, di racconto ho sentito parlare, e parlato a mia volta, parecchio. Non ho condiviso la tesi secondo cui qualsiasi testualità possiede, nascosta o palese, una struttura narrativa. Ritengo tuttavia che, anche se ogni tanto se ne può fare a meno, la struttura narrativa sia comunque abbondantemente presente intorno a noi. Di fatto, ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa che possa essere descritto come un’azione (cioè un evento intenzionato da qualcuno) siamo anche di fronte a un racconto. Molte poesie sono quindi narrative, anche quando a prima vista non lo sembrerebbero, ma non tutte lo sono – o magari non lo sono nel loro insieme, pur contenendo elementi che, singolarmente, potrebbero essere considerati narrativi.

Il racconto è uno dei (principali) modi in cui diamo senso al mondo. Quando riteniamo di sapere perché e come qualcuno ha fatto qualcosa, e se alla fine ci è riuscito oppure no, il mondo ci appare più chiaro e affrontabile. Leggete Paul Ricoeur (Tempo e racconto) o Algirdas J. Greimas (Del senso e Del senso 2) e avrete un’idea dell’importanza che la forma-racconto ha per il nostro rapporto con il mondo.

È per questo che già Aristotele poteva parlare di catarsi, come esito per lo spettatore di una tragedia. Non importa che la storia abbia un lieto fine: è sufficiente che la fine ci sia, e che la vicenda (il racconto) si presenti come qualcosa che trasmette un senso complessivo, quello di una parabola (sia in senso matematico che biblico) che ci mostra il mondo (o almeno quel suo frammento) come se esso possedesse un disegno, e di quel disegno abbiamo colto le linee.
La differenza tra il mondo reale e il mondo raccontato (magari anche solo raccontato da noi a noi stessi, nel semplice dare senso a quello che vediamo) è dunque una differenza tra qualcosa di immediato ma non (ancora) compreso, e un mondo in qualche modo compreso ma che ha perso l’immediatezza.
Intitolare Racconto una raccolta di testi poetici, come fa Nadia Agustoni, prepara il suo lettore ad aspettarsi che quello che troverà sarà un qualche tipo di percorso, dove, qualsiasi cosa accada, alla fine ci sarà una risoluzione, se pur non necessariamente positiva (le tragedie infatti, Aristotele insegna, non sono meno confortanti delle commedie). E invece, sin dalle prime pagine e poi andando avanti sempre di più, la sensazione che si ricava è quella di una sorta di radiosa immobilità. Ci sono certo, se vogliamo, tanti microeventi, e quindi altrettanti microracconti, ma nemmeno all’interno di un singolo componimento essi si combinano per costruire quello che potremmo legittimamente definire, nell’insieme, un racconto. La logica con cui si trovano accostati appare diversa, e non facile da cogliere.
Questa immobilità, o radicale non-narratività, è fatta di elementi semplici: ricorrono api, cielo, vento, neve, il padre, gli alberi, l’erba, il cane, i canali, tetti, fiori, mare… Dovremmo dire elementi banali, o banalmente lirici. Eppure, per qualche strana alchimia, l’effetto complessivo non è né banale né banalmente lirico. Data l’accezione più tradizionale di lirico, l’effetto non è nemmeno lirico perché un io che dia unità a tutto questo è difficile da trovare.
Insomma, niente racconto, niente soggetto, perlomeno a livello globale, ma anche a livello di singolo componimento. Tracce di soggetti ce ne sono dappertutto, come ci sono tracce di racconti: però non un soggetto; però non un racconto. Questo non impedisce a Racconto di apparire come un testo fortemente unitario. Lo è, eccome! La radiosa immobilità che percepiamo attraverso tutte le pagine è basata su un fitto ripetersi di elementi, di figure, di relazioni. È come se fossero altrettante variazioni musicali su un tema; e il tema sì, ricorre, sempre uguale e sempre trasformato.
Ma il tema non sono le api, il cielo, il vento… Qua e là entrano in gioco i nomi, le parole; nomi e parole che hanno la stessa dignità degli oggetti, come fossero a loro volta oggetti del mondo, e, anzi, qui lo sono. Tra le parole e le cose ci sono relazioni, rimandi, come anche tra le une e le altre cose, tra le une e le altre parole. Qua e là, ricorrentemente, si parla anche di racconto.
Non sarà allora che questo titolo non vuole dire che quello che il libro contiene è un racconto, bensì che il racconto, o la possibilità di un racconto, è l’oggetto del suo discorso? In altre parole, il titolo forse non vuole comunicarci che stiamo per leggere un racconto, ma che quello che stiamo per leggere parla del racconto, del narrare. O meglio, dovremmo dire, della sua difficoltà, della sua impossibilità, o della sua genesi complicata.
Ho definito radiosa la loro immobilità perché queste poesie trasmettono un senso profondo di felicità. C’è qualcosa di meraviglioso in questa contemplazione di oggetti consueti, organizzata secondo alchimie misteriose. È come immergersi a occhi chiusi nell’acqua fresca del mare: non vedi nulla e le sensazioni sono pervasive e confuse. Ma è un’esperienza che vorremmo sempre poter ripetere.
Fa parte di quell’esperienza, e pure del suo piacere, anche un vago senso di inquietudine, che proviene proprio dal non capire sino in fondo, dal lasciarsi possedere, dal non poter risolvere in racconto quello che percepiamo. Ed è proprio quello che succede pure qui: che il racconto, complessivamente, non ci sia e non ci possa nemmeno essere è qualcosa che non può lasciarci tranquilli. Non ci sarà nessuna catarsi, né alla fine di ogni poesia né alla fine del libro; nessun percorso verso la risoluzione. Siamo condannati a galleggiare in questa luminosa inquietudine.
Certo, dopo un po’ (ma non immediatamente e non facilmente) appare con sufficiente evidenza che questi oggetti magici appartengono a un’infanzia perduta: perduta perché lontana, e perduta perché appartiene a luoghi che non ci sono più. Forse l’autrice sta galleggiando, per così dire, nella memoria. E la memoria è il luogo classico del racconto, è il luogo in cui gli eventi si depositano proprio come racconti, compresi, conchiusi. Rifiutare il racconto alle forme della memoria è allora certamente un atto inquietante, straniante, capace, proprio per questo di scindere quei legami che in tanta lirica esausta rendono banali i campi e gli alberi e il vento e il mare. È come se il racconto, qui, fosse ciò che dobbiamo costruire noi, perché gli elementi che Agustoni ci presenta sono tutti elementi adatti per il racconto, ma nonostante questo il racconto non c’è; eppure ci deve essere, non ne possiamo fare a meno, e questa assenza ci trasmette un filo, sottile e persistente, di angoscia.
E quando ci accorgiamo di questo, magari ci possiamo accorgere anche che ogni singolo componimento è un tentativo tarpato di raggiungere il racconto, o di trovarlo; e qua e là si parla persino di questo, e le parole sono cose tra le altre perché le parole sono gli elementi di questo racconto che manca, e che si desidera, e che si ricerca perché di racconti sono fatti i bambini e gli adulti, così come essi sono anche fatti delle cose del mondo che li circonda.
Se non si può raccontare la tensione verso il racconto (perché sarebbe, evidentemente, già un racconto) la si può forse mettere in scena, provocarla, produrla. La tensione verso il racconto è la tensione verso una versione pacificata, compresa, risolta, delle cose. In questo libro, pur radioso della felicità dell’infanzia, la tensione non può essere risolta: rimane lì, a impedire qualsiasi vera consolazione, qualsiasi vera morale della storia. Tra la meraviglia di un’infanzia ricordata o sognata e l’angoscia di non poterle o volerle dare un senso, rimaniamo sospesi, incantati, colpiti.

 

 

 

 

Nadia Agustoni, da Racconto (Nino Aragno 2016)

 

 

 

nelle parole del mondo i volti cadono
i giorni così tanto e ancora vivere
i mandarini un racconto, non più
dire l’azzurro ma guarda

 

quest’ora l’albero sono terra
la voce piena di voci gli uccelli
fradici di ossa

 

***

 

 

scrivo un frammento la voce ritorna
sulla neve, a un bianco senza destino:
il bambino parla nella nuca e nel cielo
:sta lì con le parole l’aria una soglia:

 

il vento non finisce:da qualche parte
potrebbe riempire le vele:

 

:quell’altrove delle parole o le immagini:

 

 

***

 

 

i tuoi occhi sul cane e dopo a risalire una crepa
a vivere quaggiù tra i canali dritti e l’infinito –
il campo nell’oro di una sera e un grido
sopra le voci e sulla terra l’autunno
un tempo via dagli anni:

 

cercavo lo spazio di parole uscite senza pietra:
(mentre ruotava al sole la morte mancavano
i volti, fermavo parte della luce ed eri di nuovo
luminosa, un fischio cadeva sopra l’erba
o così ti pensavo).

 

Intervista ad Arturo Kurzwell, coscienza simulata di Davide Orecchio

4

di davor

D Ti va di cominciare dall’Oscar?

A.K. Certo, se vuoi.

D E’ un premio importante. L’hai vinto come coscienza simulata di un personaggio minore. Un bel riconoscimento per il tuo lavoro “oscuro” ma prezioso.

Chi parla nel testo? Apriori autobiografico, maschere, iponarrazioni

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[Questo testo è apparso sull’ultimo numero de “l’Ulisse”, e compare qui emendato da alcuni refusi.]

di Andrea Inglese

 

Finché finzione ci separi

Per lo più vi è la finzione, fortunatamente. Possiamo usare la terza persona, e assegnarle un paesaggio, delle azioni da compiere, dei sentimenti da provare, degli oggetti da prendere in mano, possiamo raccontare delle storie, delle storie brevi (racconti) o delle storie lunghe (romanzi). Il termine finzione è qualcosa di enormemente rassicurante. Ci sono film di finzione, finzioni teatrali, e naturalmente le serie TV di finzione. I fumetti. I videogiochi. Uno sterminato mondo di finzioni, dove si possono costruire di slancio personaggi e situazioni, con grande facilità, come modellando una materia docile, plasmabile, e nello stesso tempo trasparente, in grado di ricevere ogni informazione, ogni aspetto, ogni significato.

Il primo giorno di scuola di Vallejo (Paco Yunque)

1

di César Vallejo (traduzione di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi)

. . .

Paco Yunque guardò il maestro che scriveva sulla lavagna. Chi era il maestro? Perché era così serio e metteva tanta paura? Yunque continuava a guardarlo. Il maestro non assomigliava a suo padre o al signor Grieve. Assomigliava più agli altri signori, che venivano in casa a parlare col padrone e avevano la collottola piegata e il naso come un bargiglio di tacchino. E le sue scarpe, quando il maestro camminava molto, facevano riss-riss-riss-riss. Yunque cominciò a stare in pensiero. A che ora sarebbe tornato a casa? Uscendo dalla scuola Humberto l’avrebbe picchiato. E la mamma di Paco Yunque gli avrebbe detto: “No, piccolo, non picchiare Paquito, non fare il cattivo…” Non gli avrebbe detto nient’altro. E Paco, con la gamba tutta rossa per la pedata di Humberto, si sarebbe messo a piangere. Perché a Humberto nessuno lo toccava. Il padrone e la padrona volevanotroppo bene a Humberto, e Paco ci stava male perché Humberto lo picchiava sempre. Tutti, tutti, ma proprio tutti avevano paura di Humberto e dei suoi genitori. Tutti, tutti, tutti. Anche il maestro. La cuoca e sua figlia. La mamma di Paco. Venanzio col suo grembiule. La Maria che lavava gli orinali e proprio ieri ne aveva rotto uno in tre grossi pezzi. Il padrone avrebbe picchiato anche il papà di Paco Yunque? Che brutta cosa avere a che fare col padrone e con Humberto. A Paco Yunque veniva da piangere. E il maestro, quando avrebbe smesso di scrivere sulla lavagna?
“Bene!” disse il maestro terminando di scrivere. “Ecco l’esercizio. Ora prendete i vostri quaderni e copiate ciò che è scritto sulla lavagna. Dovete copiarlo esattamente uguale.”
“Sui nostri quaderni?” domandò timidamente Paco Yunque.
“Sì, sui vostri quaderni” gli rispose il maestro. “Sai scrivere almeno un po’?”
“Sissignore. In campagna me l’ha insegnato mio papà.”
“Molto bene. Allora, tutti a copiare.”
I ragazzi presero i quaderni e si misero a copiare l’esercizio che il maestro aveva scritto sulla lavagna.
“Non fate le cose in fretta” disse il maestro. “Bisogna scrivere piano piano, per non  fare errori.”
. . .

 

NdR: il brano è tratto dalla traduzione di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi del racconto di César Vallejo “Paco Yunque”, con illustrazioni di Federica Orsini, pubblicato da “Lo Studiolo” di Sanremo (2017). Il frammento che segue fa parte all’introduzione di Luigi Marfè:

. . .

Con questo racconto, Paco Yunque (1931), lo scrittore peruviano César Vallejo (1892-1938), tra i più noti poeti del Novecento, narratore avanguardista, autore tra l’altro dei Poemas Humanos (1939) e del romanzo sperimentale El Tungsteno (1931), recentemente tradotto in italiano, si accosta a questa tradizione letteraria, creando uno spazio narrativo perfetto e originale, divenuto subito un modello generativo per altri scrittori d’area iberoamericana. C’è un brano delle Historias de cronopios y de famas (1962) in cui Julio Cortázar immagina delle strampalate “istruzioni per piangere”: chissà che tra i manuali di istruzioni di quell’inventore di istruzioni non si possa annoverare anche questo racconto di Vallejo.
Paco Yunque narra la cronaca di una sconfitta annunciata. Il personaggio che dà il nome al racconto è un bambino di umile estrazione sociale, che non sa come sottrarsi alle angherie e ai tormenti di un compagno di classe, Humberto Grieve, il figlio dei signori da cui sua madre lavora come donna di servizio. Vittima infelice, Paco è troppo introverso e spaventato per sfuggire al proprio destino: non risponde mai, non reagisce mai, non si rivolta mai. Il suo unico modo di ribellarsi è in un pianto silenzioso, ostinato, che ricorda sommessamente, nel suo inestinguibile grigiore, l’“I would prefer not to”  del Bartleby (1853) di Herman Melville.

. . .

 

Anomalie della compassione. Tre epiloghi

3

di Giusi Drago

Epilogo 4

 PAPPAGALLI A BERLINO

non la pioggia né la noia ma una pericolosa destabilizzazione: la scrittrice austriaca a berlino, in uno stato di turbamento, registra la malattia della città, il muro che divide fa ammalare berlino, come la separazione dei genitori fa ammalare i figli, è ben più di una disarmonia, è qualcosa di peggio: solchi nella psiche e nella città – e comunque quelli non si meritavano di avere dei figli, anzi, dovrebbero risponderne ai servizi segreti

è in casi come questi che bisogna chiedere perdono: quando il muro è stato abbattuto, nessuno ha accusato i tedeschi di aver rimosso le pietre confinarie, si è piuttosto celebrata la riunificazione, e il divisorio si è mostrato per quello che era, un effetto collaterale di azioni imperdonabili, dotate di una loro precisa geografia di frontiera che di lì a poco si sarebbe sgretolata, tuttavia nessuna riunificazione capita nelle famiglie in cui si è prodotta – spesso sottraendosi alle intenzioni – la separazione: diagnosticabile è soltanto il capitolare di fronte alla realtà

ma che significa capitolare? le azioni di cui poi sarà necessario scusarsi tornano ad avere i nomi di un tempo: ogni morto tra berlino est e berlino ovest decade a strumento di propaganda, così come oggi in europa ogni migrante propaganda più la nostra miseria che la propria, e d’estate si avvicina a noi, circondati da case e strade, torturati da insetti e offerte, ondeggianti ai ventilatori o in arie condizionate: i nostri luoghi possono essere vuoti o affollati, e solo in apparenza quelli vuoti hanno tempi più brevi di guarigione, di certo però quelli affollati sono sempre in movimento e acuiscono lo spirito di crociata contro l’estraneo, a venezia persino contro il turista

è colpa della politica – la bachmann sarebbe stata d’accordo – se ci sono due pappagalli che si fronteggiano, l’uno chiaro l’altro più scuro, entrambi appollaiati su un carro armato al passaggio di confine, nel silenzio degli uomini in uniforme, è colpa di un abbaglio o della sfortuna  se anche in casa ci sono due pappagalli – marito e moglie – che si combattono nel silenzio dei figli, i quali non lasciano capire da che parte stiano, la confusione è molta e lo spavento grande, ma i figli non si schierano, nella separazione cercano di tenere le distanze, ormai è andata, e se proprio i pappagalli continuano a farsi la guerra, almeno non sono più appollaiati sui loro trespoli nella stessa cucina, abitano ognuno a casa propria

Epilogo 2

DALL’INCERTEZZA DELLE NOSTRE POSIZIONI

benevola è la stabilità, magnanima la compassione, però da tempo vacillano e non sapendo dove regnare assumono consistenza di vetro: una tazza di vetro sporca di caffè, a questo è ridotta l’immagine della sostanza e non si tratta solo di mettere un po’ d’ordine, di far scorrere un po’ d’acqua

qualcosa di vitreo hanno anche le linee delle nuvole, oggi, sembrano vetrificarsi da sé in un cielo già di vetro

qualcosa al riguardo ha da dire anche la linea del pensiero: tabù, dice il pensiero, è tabù perché nessun manuale spiega come si sta scomodi nella vergogna, insettitudinari nella vergogna, anomalie della compassione

nel carcere femminile di breslavia la luxemburg osservò un bisonte ferito e lo chiamò fratello: accadrebbe di imparare che la compassione è vasta, si estende anche ai bisonti, non va mai lasciata, peccato tuttavia che la compassione non sia un sito così accogliente, specie se accompagnata da angoscia per la sorte dei compatiti e del compassionevole stesso

l’angoscia che accompagna la compassione, infatti, può essere fortissima: prende in prestito le forze del futuro e ferisce alle spalle, ostacola  il ritmo della carne nelle cose umane

***

e si comportano tutti come se non ci fossero correzioni da fare, modifiche da apportare né opportune né necessarie, così nessuno migliora nulla e molti ritengono ben fatto ciò che palesemente non lo è, e per converso sottovalutano di continuo la buona riuscita

chi ha tempo e pazienza di correggere errori, sviste, imprecisioni – a cascata su documenti calcoli compiti, nelle pietanze come eccesso di sale, nelle risposte come abuso di spiegazione, nelle omissioni come incuria ˗ agita in mano una fune in fiamme, con cui frusta in primo luogo la propria imperfezione e l’altrui: non lo si fa più di buon grado, la cosa pare pedante, il più grande correttore di occhiaie non è forse il tempo? date una penna rossa al tempo e vedrete quanti sbagli estinguerà

dalla parte opposta stanno i paladini dell’ordine e da lì giungono ingiunzioni immediate e alla porta si presentano frotte di donne delle pulizie con detersivi, donne-candeggina dedite all’ipercontrollo, la resistenza consisterebbe nel far qualcosa che la casa non vuole, che anche le madri non vorrebbero: gettare sui pavimenti appena lucidati briciole e ciuffi di peli in precedenza spazzati su, abbandonare resti di cibo negli angoli, spargere sulle lenzuola i fondi del caffè, pisciare sui cuscini ˗ queste pulitrici ridono che è proprio una vergogna, deridono la sporcizia altrui,  accusano di dilettantismo la padrona di casa, è una sposa dilettante e una donna dilettante e una madre dilettante, ascoltarle ha generato apprensione, mormorano di una, una trasgressiva, che vive sola in una casa felicemente disordinata

Epilogo 3

DAL BUIO DEI  NOSTRI LETTI

nella storia del mondo non è mai finita un’epoca della luce e non ne è mai iniziata una nuova

la luce, infatti, è l’informazione essenziale che serve agli storici del nuovo  millennio elettrico e digitale, ma – a ben vedere – la luce è servita in pari misura anche agli storici dei secoli passati: gli anni sono sempre stati misurati in luce

non così per i profeti, costoro hanno potuto formulare le loro previsioni anche al buio: è anzi possibile che l’attendibilità delle previsioni sia diminuita con il diradarsi del buio, grazie alla lampada a incandescenza di Edison – dev’essere questo il prezzo da pagare per chi è vissuto negli ultimi centocinquant’anni

un grande significato ha la luce, specie considerata retrospettivamente, dal buio dei nostri letti, se davvero è lei a formare la più coerente estensione dei giorni, sia pure con picchi di intransigenza e bagliori di superbia

è una gratifica immediata, quella che la luce concede alle cose, è l’anarchia del dettaglio e della ribellione individualistica, e per giunta in assenza di sensi di colpa: uno sfregio all’etica di Calvino

***

è inverno e dal buio dei nostri letti

non è il caso di perdere

questa luce, le sue brevi apparizioni

 

un crinale di chiarore lacera

l’asfalto, il vincolo della superficie

 

in tutto ciò che tocca la luce scava

senza affogare nel gelo

del calcolo egoistico: gli stessi brividi

di esaltazione nel ramo senza foglie

e nei vetri della casa di fronte

***

non veduta, nelle scure profondità delle nostre stanze e della sua ruminazione, ogni ombra è attraversata da tendenze divergenti che la delegittimano

perciò, secondo l’ideale penumbratile del postmoderno, tipico delle età di trapasso, l’ombra è di continuo costretta a censurare tanto la luce quanto se stessa, forse nel tentativo di attenuare la pressione della realtà

tuttavia in una vita già smaterializzata, virtuale, liquefatta, l’ombra quasi sfigura: un tempo era il nemico numero uno, nemico chimerico risorgente da ceneri, cenere che compattava interi paesaggi, inghiottiva intere comunità insinuandosi negli interni (tanto caverno-neanderthaliani quanto borghesi) e nei sonni di una ragione mostrificata, al punto da far perdere ai sognatori – di tutti i tempi e di tutte le latitudini – l’orientamento

 

Quando chiude una scuola

1

(ricevo questo accorato appello, che condivido, allarmato, con tutti voi. G.B.)

Quando chiude una scuola, si perde sempre.

Si perde la possibilità d’imparare a convivere, si perde la possibilità di stare al mondo imparando a conoscere.

Stare al mondo, imparando a conoscere?

In nessuna scuola ti possono offrire, si può apprendere tutto lo scibile, ma il bravo docente è chi t’insegna, cerca di comunicare la volontà d’imparare, sempre.

Queste sono le parole di un insegnante di Milano, che probabilmente a settembre dovrà trovare una nuova scuola, perché la sua potrebbe definitivamente chiudere.

La mia scuola, si trova a Milano, in via Pizzigoni 9, nella periferia nord–ovest della città.

La mia scuola è l’unica scuola in quella parte della città; dico “unica“, non per vanità o per fare il tragico. La sua peculiarità, la sua “mission” è quella dell’insegnamento della lingua italiana agli stranieri (italiano L2). La maggior parte degli studenti proviene dall’intero mondo: questa è la bellezza della mia scuola.

Nel giro di due piani, conosci il mondo, senza frontiere o dogane, se non quella effettiva della nostra segreteria che richiede come da legge un documento regolare per poter accedere ai corsi.

Attenzione, la nostra scuola non è solo per stranieri, ma sono parte significativa anche gli italiani che dopo un percorso di vita o scolastico accidentato, complicato, giungono da noi per frequentare la terza media e accedere all’esame di stato per il diploma. Non è una scuola più facile, né per chi viene come studente, né per chi ci lavora: niente è dovuto. Siamo una scuola statale e ci atteniamo con scrupolo e professionalità alle leggi.

Insegnare l’arte della convivenza, ad un gruppo di studenti eterogeneo per età, nazionalità e pregresso scolastico, non è sempre facile; però, guardando i miei studenti ho potuto sempre riconoscere un possibile modello di convivenza pacifica a Milano.

Così gli dicevo: “noi dobbiamo imparare a stare bene insieme qui, perché se stiamo bene qui, allora anche fuori, nella città staremo bene, in pace. Noi siamo una parte di Milano, e Milano è parte di noi.”

Quando una scuola chiude, si perde una possibilità di crescere e di far crescere in pace Milano.

Si lascia un vuoto, si abbandona uno spazio, il cui senso, il cui significato profondo è quello della vita sociale: s’impara a riconoscersi come cittadini, come attori sociali che portano ricchezza, esperienza, emozioni. Spazio in cui si apprendono gli strumenti, come la lingua italiana, per essere riconosciuti come Persona e non come massa indistinta e spaventosa. Non un numero o una provenienza geografica “ il senegalese, il marocchino, il cino”.

Via Pizzigoni 9, periferia nord–ovest di Milano, un po’ prima di Quarto Oggiaro; il quartiere si chiama Villapizzone.

Nella geografia della città, è una zona strategica: vicina a tutto l’hinterland, vicina a Paolo Sarpi, la Chinatown milanese, vicina al Triboniano (campo rom), vicina alla caserma Monbello, dove sono sistemati i profughi, un quartiere di periferia che quando è inverno, e fa presto buio, avrebbe bisogno di più luce e gente in strada se ne vede poca.

La nostra scuola era presente da almeno trenta anni: prima in una via poco distante, via De Rossi, da cui per motivi logistici ci siamo dovuti spostare e poi ora in via Pizzigoni).

Il trasloco l’abbiamo fatto noi, personale della scuola (insegnanti, segretari, la stessa preside, commessi), abbiamo caricato le nostre macchine e ci siamo trasferiti. Non è facile, ma ce l’avevamo fatta: tra corsi d’italiano e scuola media, quest’anno sono stati accolti almeno 800 studenti.

Ho usato il verbo “accogliere” per questo motivo: la scuola per funzionare, per promuovere la socialità, deve riconoscersi come luogo dove non solo si riceve come fosse lettera o pacco, ma si accoglie lo studente come cittadino, con diritti e doveri, una sua storia, una sua situazione che ha una primaria necessità: imparare l’italiano e le regole della vita in Italia.

La nostra scuola in collaborazione con la Prefettura di Milano, organizza corsi di Formazione Civica e test di lingua italiana per il permesso di soggiorno. I cittadini neo arrivati in Italia imparano quali sono i loro diritti e doveri, gli articoli della Costituzione più importanti, come e dove rivolgersi per i bisogni essenziali (medico, lavoro, la casa…). Il test per il permesso di soggiorno è un esame, i cui candidati sono mandati dalla Prefettura per verificare il loro livello di conoscenza della lingua italiana, utile per l’ottenimento o meno del permesso del soggiorno.

La nostra scuola ha dunque una funzione vitale per il tessuto sociale di Milano.

Quando si chiude una scuola, si chiude, si dismette la possibilità di migliorare Milano.

Sono stati realizzati progetti per farla diventare più bella, per comunicare la sicurezza: sono intervenuti scrittori, artisti, la polizia scientifica e mediatori e infermieri, tutti gratis.

Andare a scuola non significa solo recarsi in un posto, andare a scuola è una locuzione che ha molteplici significati: quello fisico di camminare fino a là, imparare, ritrovarsi con amici e docenti con tutto ciò che può nascere e derivare da un incontro.

Ci avevano assegnato uno spazio dietro una scuola abbandonata per amianto, la scuola media Colombo. Spesso entravamo per vedere, seguire i lavori del nostro edificio. Una volta ultimato, abbiamo traslocato e siamo ripartiti, con l’assicurazione delle autorità, che presto la scuola media Colombo, quella con l’amianto, sarebbe stata abbattuta.

L’impatto, la visione con la nostra scuola è quello di un cancello da cui si vede una vecchia bandiera italiana tutta sporca e sbrindellata, appesa da un pennone della presidenza della Colombo : vetri rotti, macerie e abbandono.

Ma se si guarda bene sul cancello, c’è soprattutto un enorme striscione plastificato con tantissime facce di ragazzi e docenti e il nome della nostra scuola, la nostra bandiera colorata.

La nostra scuola non si vede dal cancello, devi camminare e poi la trovi con una bella scritta colorata sul suo muro frontale CPIA MILANO e poi un grande murales con le stesse facce del cartellone, dello striscione.

La Colombo, sempre quella con l’amianto, non è mai stata abbattuta, anzi, durante l’inverno è divenuta, per Emergenza Freddo, organizzata dal Comune di Milano, un dormitorio. L’amianto a loro non nuoceva. La convivenza non è stata facile tra i le due parti sociali, ma abbiamo pazientato.

La mattina, cocci di bottiglie e altra sporcizia; la notte, la sensazione effettiva di poca sicurezza e dunque la paura: le professoresse non venivano mai lasciate uscire da sole.

Poi “Emergenza Freddo” è terminata, ma qualcuno, avendo visto quanto spazio abbandonato potesse essere occupato, l’ha occupato e ancora adesso è così: è stato scritto un articolo sul Corriere della Sera “L’hotel delle ombre”.

Durante questi mesi estivi sono, manca il soggetto, perché non è possibile sapere, non si sa chi, entrati a scuola, rubando e vandalizzando.

Finita la resistenza? Si chiude? Dopo un anno, in cui più volte sono state chiamate le forze dell’ordine per sgomberare la nostra stessa scuola, in cui al piano inferiore, si erano chiuse alcune persone, visibilmente alterate. Dopo un anno il cui commesso, con grande coraggio, apriva la scuola, da solo, rischiando sulla sua pelle, la reazione delle persone da lui svegliate e allontanate, si chiude.

Le numerosi segnalazioni del Preside e della nostra Coordinatrice, a chi di dovere, come si usa dire, non hanno comportato la soluzione dei problemi: altre emergenze più emergenti altre urgenze più urgenti, altri numeri da chiamare e richiamare.

Si chiude? La chiusura, se così fosse, non può e non deve essere una dichiarazione di resa: rimane però forte il senso di un abbandono da parte delle istituzioni, di una politica sociale schizofrenica e quella bandiera italiana sbrindellata, dai colori sbiaditi appesa all’Hotel delle Ombre, fu un tempo scuola media Colombo, luogo di luce, d’incontro dove imparare la convivenza.

Certo che ora vado a prendermi la mia bandiera: quello striscione con tutte le facce dei miei studenti e il nome della nostra scuola : CPIA PIZZIGONI.

Gianluca Gaetano Fazzi

Insegnante d’italiano L2 presso il Cpia Pizzigoni, CPIA 5 MILANO

Les nouveaux réalistes: Anna Giuba

4

 

I contendenti

di

Anna Giuba

Era cominciato con un odore di mentuccia, un odore intenso, che ricordava quello della presenza improvvisa di certi santi. Un odore fresco che sfumava in una nuvola esangue e lieve e che faceva dilatare le narici. Aveva cominciato a volare leggero come l’aria di primavera sulla città, all’ora di cena, quando s’intuiva la vita che si snodava come un gomitolo dietro le finestre accese. I nodi della giornata venivano alla luce dietro le porte chiuse, stanchezze e piatti e rabbie e forchette e amori e bicchieri che tintinnavano sulle tavole. Preoccupazioni quotidiane e sedie in cucine modeste. Televisori accesi che mandavano bagliori di luce fluorescente e livida e spaghetti scodellati in tavola. Era cominciato durante la serenità satura di stanchezza della prima sera.

Daniela era in cucina e aveva appena finito di apparecchiare. I bambini sedevano davanti ai piatti vuoti aspettando il ritorno del padre.

– Hai usato un detersivo nuovo? – ha chiesto Angelo rientrando a casa dal lavoro, sporco di calce che sembrava infarinato.
−  No. – ha risposto Daniela togliendosi il grembiule da cucina – ho usato quello di 
sempre. Perché? –
−  Che ne so, c’è un odore strano. – e si è fermato nell’ingresso annusando 
ferocemente, che quasi sembrava mordesse l’aria con il naso. Si è tolto la giacca di fustagno marrone e l’ha appesa all’appendiabiti. – Boh. – ha sussurrato.

Era la fine di maggio e la luce ancora intensa del giorno invadeva la cucina. La cucina era piccola e stipata di elettrodomestici, la lavatrice ronzava ritmica con uno sciabordare che accompagnava i gesti consueti della sera. Angelo si è seduto a tavola rimboccandosi le maniche della tuta e scoprendo gli avambracci forti di muscoli sodi. – Finalmente – ha detto infilando il tovagliolo al collo e distendendo le gambe sotto la tavola. – Che c’è? Minestrone? Mhhh. E il pollo? Non hai fatto il pollo? Lo sai quanto mi piace il pollo. – Aveva un’aria esausta, l’aria di chi ha lottato tutto il giorno con una forza ignota. 
- Certo che l’ho fatto. Ho fatto il pollo arrosto. – ha detto Daniela con un sorriso incerto. 
Hanno iniziato tutti quanti a mangiare. I bambini sono stati i primi a percepire il malessere. Mangiavano tutti il minestrone compunti, seduti a tavola come sempre, una cucchiaiata alla bocca e gli occhi sgranati al televisore. Il rumore delle stoviglie si mescolava al suono del televisore e a quello delle mandibole. Il programma di quella sera era in fascia protetta ed era un quiz. Un quiz innocuo, per famiglie, il presentatore gesticolava con una cartella blumarin in mano e dieci ragazze in costume da bagno, con grossi seni e l’ombelico scoperto reggevano grandi lampadine verdi. Le lampadine si accendevano ritmicamente alle risposte. Se la risposta era giusta la lampadina si accendeva di luce gialla. Se la risposta era sbagliata si accendeva di luce rossa. In quel momento il concorrente stava per rispondere e le lampadine erano tutte verdi.

Il presentatore, magro e muscoloso, aveva faccia quadrata e lenti quadrate che lo facevano somigliare ad un monoscopio d’altri tempi. – Avete visto come sono belle le mie Domandine? – Le Domandine erano le ragazze che reggevano le lampadine. Il loro viso sembrava una produzione in serie di madrenatura, quasi fossero state clonate nel sorriso luminoso e negli occhi verdi che ammiccavano verso la telecamera.

Angelo mangiava lentamente, si era lavato le mani ma le nocche delle dita erano rimaste biancastre e riflettevano la luce bianca del lampadario a mezzaluna della cucina.
−  Com’è andata oggi? – ha chiesto Daniela ad Angelo mentre metteva in tavola il secondo. Jessica, la bambina più piccola, ha spinto il piatto in avanti e l’ha guardata.
−   Mamma, possiamo girare? Non mi piace il quiz… – la sua vocetta timida s’imponeva proprio per la sua delicatezza, e Jessica aveva parlato quasi in sordina, quasi avesse paura di disturbare la tavola.
−  Perché, non ti piace? – e Angelo l’ha guardata in tralice.
−  Mamma, ho nausea…- ha detto Domenico sbavando un poco il minestrone e 
guardando Daniela con occhi che si lamentavano.
−  Hai male allo stomaco? – gli ha chiesto lei rialzandosi sulla fronte i capelli che 
aveva neri e crespi. Daniela era tutta nera, aveva neri gli occhi e la pelle era scura 
scura e leggermente butterata.
−  No… nausea. – e il bambino l’ha detto storcendo la bocca come davanti a qualcosa 
che non gli piaceva.
- Vieni qui.- gli ha detto Daniela mentre Angelo continuava a mangiare in silenzio. 
Allora Domenico si è alzato e ha teso le braccia e si è aggrappato al collo della madre. Lei gli ha posato una mano sulla fronte. – Febbre, non ne hai. – ha detto Daniela con un senso di sollievo. Poi ha preso a cullarlo in un ritmo che era tutt’uno con il suo respiro, e la testolina del bambino si sollevava ritmicamente sul seno della madre, ora aveva gli occhi chiusi come se la nausea gli stesse dando una tregua. 
Angelo ha guardato improvvisamente la moglie e il figlio con due occhi che sputavano lapilli.

− Cazzate. E’ che non gli piace il pollo, ecco cos’è. – ha commentato mentre scuoiava un’ala con minuzia. Angelo era alto e grosso, con la punta del naso di spugna e i capelli biondicci tagliati a spazzola. Aveva occhi stranamente acquosi, irascibili e insoddisfatti.
−  Non è vero! – ha continuato il bambino piagnucolando e portandosi le mani agli 
occhi. – Mi bruciano anche gli occhi. – ha detto Domenico e si è scosso 
dolorosamente dall’abbraccio materno.
−  Io ho mal di testa! – ha aggiunto Jessica abbandonando la carne nel piatto. Poi ha 
riposto le mani sul grembo ed ha abbassato la testa come stesse aspettando una punizione. Ma la punizione non è arrivata. Invece è arrivata la voce del padre che ha tuonato in un tutt’uno con le lampadine verdi del quiz.
- Shhh! Fatemi sentire! Dovete proprio aspettare il quiz per stare male? – e ha scagliato le pelle del pollo nel piatto con un gesto brusco e le dita unte.
– Insomma, i tuoi figli stanno male e tu pensi al quiz? – ha urlato Daniela di rimando – capirei ci fosse il telegiornale, ma il quiz! – e l’esasperazione l’ha resa triste.
− Lasciatemi mangiare in pace! Jessica, se hai mal di testa vai a dormire, e tu Domenico, mangia e vedrai che la nausea ti passa. –

Angelo era stanco e impaziente.
Non era stata una giornata felice. A ben guardare, giornate felici non ce n’erano mai. Ma quel giorno, in particolare, il capomastro non gli aveva lasciato tregua, lo seguiva attraverso le stanze del cantiere come un cane affamato, controllando ogni interstizio. Angelo doveva riempire gli interstizi di cemento a presa rapida. Quel giorno non c’era con la testa e ne aveva saltati parecchi. Così il capomastro si era infuriato e aveva minacciato di licenziarlo. Angelo sapeva che non poteva permettersi di perdere il lavoro, con due bambini e Daniela sulle spalle. Ci sarebbe mancato soltanto questo, quando già faticavano ad arrivare alla fine del mese. Così Angelo aveva ricominciato a riempire gli interstizi cercando di metterci un po’ più di attenzione, però riempiva gli interstizi chiedendosi perché lo facesse, se ci fosse un senso. Dentro quei muri avrebbe abitato gente che lui non avrebbe mai conosciuto, era un appartamento dei quartieri alti, ci avrebbe abitato gente ricca, gente che non immaginava neppure che potessero esistere cucine modeste e anguste come quella della casa di Angelo. Non era la prima volta che gli veniva un pensiero strano. Li chiamava così, pensieri strani. Erano improvvisi e senza senso apparente e lui non ne parlava mai con nessuno, di questi pensieri. Erano suoi.

Jessica si è avviata a passetti verso la stanza dei bambini, ma prima di aprire la porta ha fissato a lungo Daniela,con la mano appoggiata alla maniglia e gli occhi di bambina consapevole. Poi ha fatto ciao con la manina ed è entrata, scomparendo dalla vista di tutti.
Domenico era ancora in braccio a Daniela, e aveva abbandonato la testa sulla sua spalla. Daniela poteva sentire il suo respiro, mentre gli passava la mano tra i capelli chiari come quelli del padre.
Angelo ha avuto un moto di disgusto e ha guardato male il piatto.
– E’ venuta la nausea anche a me. Forse ho mangiato troppo. Ma che ci prende a tutti? Un virus? L’influenza? Non è mica stagione, questa, d’influenze… E poi, quest’odore, non sentite che è quasi insopportabile? Chissà da dove viene. Sei sicura di non aver usato un deodorante? Qualcosa che non ti ricordi, magari un profumo nuovo. Ah, è insopportabile. –

Si è coperto la faccia con le mani e ha starnutito violentemente.
Angelo si è alzato barcollando e si è accostato alla finestra per aprirla, ma nel momento in cui ha appoggiato la mano sulla maniglia di acciaio, uno sbocco di vomito l’ha fermato proprio accanto al davanzale.
- Angelo! Che hai? – ha chiesto Daniela precipitandosi su di lui e abbandonando il bambino sulla sedia.
Angelo aveva la mano davanti alla bocca. – E’… questa nausea. Cristo, ho sporcato tutto. – sembrava smarrito come di fronte ad un nemico che non si aspettava, un nemico che veniva da dentro di lui. O da fuori, non lo sapeva.
- Non preoccuparti e vai a metterti a letto. – gli ha detto Daniela mentre il televisore continuava a cicalare.
- Non so, non so che cos’è. Dio, come si sta male. – ha detto Angelo abbandonandosi sulla sedia accanto alla tavola.

I resti del pasto sembravano appartenere ad un tempo parallelo, dove ogni cosa andava bene e tutti stavano bene. Anche se c’era il capomastro che lo seguiva come un segugio, questo faceva parte del gioco, mica gliene importava poi molto. È del tutto normale che un capomastro abbia occhi anche dietro la testa ed è del tutto normale che a volte non ti lasci neppure respirare. Ma questo malessere improvviso e insopportabile era diverso, un’aggressione dall’interno di sé. Era un colpo basso, qualcosa che colpiva l’intimità della famiglia e della tavola. Che colpiva un momento di tregua.
 Daniela gli ha preso la mano e gli ha sfiorato la guancia.

– Vuoi che chiami qualcuno? Un dottore? Così vede anche i bambini… – ha detto Daniela in un filo di speranza.
− Chiamalo, continuo a stare male. – ha implorato Angelo pallido di un pallore verdastro. Angelo sudava e sudava, la fronte gli si era tutta imperlata di goccioline calde, e la pelle si era improvvisamente arrossata come in preda ad un calore diabolico.
Domenico, che era in piedi accanto alla sedia e guardava un po’ Daniela ed un po’ Angelo, si è messo a piangere.
- Figlio mio, che c’è? – gli ha chiesto Daniela.
- N… Nausea. –
– Mamma! – hanno sentito chiamare Jessica da dietro la porta della camera dei bambini.
- Oddio, ma c’è da impazzire! – ha esclamato Daniela conficcandosi le unghie nella cute della testa – Ma che cosa sta succedendo? –

E’ stato in quel momento che Daniela l’ha sentita montare come un’onda. Saliva dallo stomaco e dall’intestino. La nausea era violenta e si concentrava nella bocca come l’odore di menta. Come avesse ingoiato una quantità enorme di dentifricio, sentiva la bocca impastata e la nausea saliva alla testa, si impossessava delle braccia e delle gambe, di tutto il corpo. Intanto, un dolore improvviso e feroce le chiudeva la testa in una morsa a tenaglia. Daniela ha portato la mano alla bocca, e si è slanciata verso il lavandino. Ma non aveva mangiato nulla e dalla sua bocca è uscita soltanto un poco di bava bianca.
Il televisore era ancora acceso. Ora c’era il telegiornale ed il telegiornale parlava di una donna che era scomparsa da qualche giorno. La donna era molto giovane e aveva il viso truccato pesantemente e nella foto del video sorrideva con in mano un bicchiere di spumante. Chissà che cosa le era successo, magari l’avevano ammazzata. Anzi, di sicuro l’avevano ammazzata. Angelo era combattuto tra il malessere e la curiosità per la cronaca della sparizione, avrebbe voluto continuare ad ascoltare e a vedere, ma gliene è mancato il tempo.

Nel momento in cui la nausea aveva cominciato a salire alla gola, l’odore di menta si era fatto più intenso. Era un odore quasi crudele nella sua freschezza, potente e permeante, che non lasciava tregua neppure tra un respiro e l’altro. Daniela ha aperto la finestra ma l’odore entrava anche da fuori, sembrava uscisse dalle finestre accese. Da dove viene quest’odore. Che cos’è. Perché dà tutto questo male. Si chiedeva Daniela mentre apriva il rubinetto del lavello e lasciava scorrere l’acqua sulle braccia. – Bambini, la nonna diceva che per la nausea ci vuole l’acqua fresca sui polsi. – ha detto con un filo di speranza.

Poi si è asciugata le mani ed ha afferrato il telefono e composto il numero del dottore. La televisione stava dicendo che probabilmente la donna era scomparsa in seguito al rapimento da parte di un fidanzato cocciuto, e che a quanto pareva per lui la donna era diventata un’ossessione, un’idea fissa di cui non riusciva a liberarsi. Così si era liberato di lei. Stavano intervistando il fidanzato cocciuto, che di fronte alle telecamere aveva un’aria spenta, crollava il capo in segno di diniego all’assedio dei microfoni che si sporgevano verso la sua bocca come volessero pungolarlo. Ogni microfono aveva la forma di un gelato ed era nero e portava la sigla di un’emittente televisiva. Ad un certo punto il fidanzato cocciuto aveva alzato le mani in segno di resa e i microfoni l’avevano incalzato ancora. Il fidanzato cocciuto aveva occhi grandi e neri che sporgevano lievemente dalle orbite.

– Pronto? Sono… sono la signora A. Dottore, in casa stiamo tutti male. Sì, nausea, vomito e uno strano odore. … Ah sì? … Ah. Davvero? Ma lei che cosa pensa che sia? … Che cosa dobbiamo fare? Tutto qui? Grazie, dottore, buonasera. -
Angelo la stava guardando con aria sospesa ed esangue, aveva la testa abbandonata contro il muro, una mano sulla bocca e l’altra mano sulla testa di Domenico. Jessica si era alzata dal lettino ed si era affacciata alla porta, stava appoggiata allo stipite e li guardava con gli occhi lievemente cerchiati nella pelle soffice dei cinque anni. Sembrava malata.

– Cos’ha detto? – ha chiesto Angelo, sfibrato.
- Non siamo i soli. Avrà ricevuto quaranta telefonate. Tutto il quartiere sta male! – Daniela ha allargato le braccia in un gesto rassegnato.
– Ma com’è possibile. E l’odore, l’odore, ti ha detto che cos’è? – ha detto Angelo versandosi un po’ d’acqua nel bicchiere che stava ancora sulla tavola.
- Non si sa niente. – ha detto Daniela sedendosi nuovamente. Era abbattuta e preoccupata.
– E che cosa dobbiamo fare? Insomma, è un dottore! Saprà bene che cosa conviene fare, Cristo! – ha sbraitato Angelo, bestemmiando in un ululato di dolore e d’impotenza. – Cristo, uno sta male da bestia chiama il dottore e il dottore dice “Non preoccupatevi, non siete i soli”. E a me che me ne importa se non siamo i soli? Io sto male! Sto male! – e ha abbandonato il dorso allo schienale della sedia.
– Veramente ha detto di prendere del Prufrock. Se poi il Prufrock non fa niente, di andare all’ospedale. – e Daniela ha preso nuovamente in braccio Domenico che la guardava con aria smarrita. Era molto pallido.
- Bambino mio. I miei bambini – ha detto Daniela allungando un braccio e afferrando la manina di Jessica. Poi d’un tratto, come presa da un’ispirazione improvvisa, – Ti prego, Angelo, spegni il televisore. Fallo per me. –

Allora Angelo ha preso il telecomando e ha spento. In quel momento una telefonata in diretta parlava del ritrovamento del corpo senza vita della donna scomparsa. Il corpo era stato ritrovato in un bosco poco lontano dal luogo della sparizione. La voce dal video era un crescendo di emozione, e la giornalista parlava in modo nervoso e concitato, mettendo l’accento sulle parole sangue e decomposizione e lunga ferita.
La giornalista parlava dal bosco e il suo viso era illuminato di bagliori sinistri, il vento le agitava i capelli lunghi e biondi dietro le spalle.
Un’emozione forte troncata di netto che si era ridotta ad un pallino microscopico sullo schermo nero.
A Daniela è sembrato improvvisamente che l’odore di menta diminuisse. Ma la finestra era rimasta aperta, e dalla finestra l’odore continuava ad entrare, in un flusso costante e leggero che veniva da fuori, che sembrava salire dal cortile e dai tetti che stavano di fronte a loro. Ora l’odore era meno intenso, ma c’era ugualmente. Anche la nausea era diminuita un poco, quel tanto che bastava per permettere loro di muoversi. Daniela ha chiuso la finestra con un gesto rapido.

– Ma cosa fai? – ha detto Angelo che intanto si era alzato in piedi barcollando leggermente. Sembrava molto stanco, come se la nausea l’avesse prosciugato. – Chiudo la finestra. – ha detto Daniela decisa – è da fuori che viene adesso… -
- Da fuori? Ma sei matta? Prima mi fai spegnere il televisore, adesso dici che l’odore viene da fuori.-
– Non senti che è passato? – ha detto Daniela dietro un velo di speranza. – Non c’è più … non c’è più… – ha ripetuto la vocina di Domenico.
Inspiegabilmente, i loro occhi si erano incontrati. Jessica guardava Daniela e suo padre e il fratellino, suo padre guardava lei e Domenico e Daniela, e Daniela guardava tutti. Nessuno di loro parlava.
Sentivano tutti un sollievo grande, quasi potessero respirare di nuovo, quasi che insieme all’odore fosse passata anche una paura strana ed inquieta.
Soltanto Daniela si era seduta a tavola e guardava la bottiglia dell’acqua inebetita, come se la bottiglia dovesse dirle qualcosa.
Angelo ha chiamato Jessica con un gesto e le ha sfiorato il viso con la mano grezza e forte.
– Non aprite la finestra, eh, bambini? Non apritela per nessuna ragione. Tra qualche ora sarà passato tutto e potremo aprirla, ma ora non si può… -
- Papà, ma che cosa c’è nell’aria? – ha chiesto Domenico arrampicandosi sulla sedia del padre. – L’hai sentito anche tu quell’odore? –
- Certo che l’ho sentito. Sarà qualche diavoleria che c’entra con l’inquinamento. Gas, non può essere, il gas non puzza di menta, accidenti. Magari è qualche inquinamento che viene dalla spazzatura. Però, anche la spazzatura non profuma di menta. Oh, Cristo, qualcosa dovrà pur essere! Adesso la mamma ci prepara una bella tazza di caffellatte. Chissà che cos’era… Magari dicono qualche cosa al telegiornale. Chissà a che ora incomincia la partita. – e Angelo ha premuto il tasto rosso del telecomando.

Allora l’odore di menta è tornato lieve e sottile, si insinuava come un serpente d’aria morbido e conquistatore. Dapprima l’hanno percepito come un’eco lontana, poi sempre più forte, come più forte si faceva la luce verdastra del video.
Angelo fissava il video mentre l’odore si diffondeva nella cucina e gli è venuto un altro pensiero strano, il pensiero che la giornalista del telegiornale sembrava un polpo, un bellissimo polpo biondo che muoveva le labbra sensuali e gonfie e coperte di rossetto, nella sua direzione. Forse era l’effetto di quell’odore di menta, ma gli sembrava che l’immagine del polpo biondo emergesse distintamente dallo sfondo del video, quasi staccandosene e ondeggiando in riflessi violacei. Che stesse entrando nella cucina. Poi Angelo si è riscosso dalle sue fantasie mentre Daniela urlava a pieni polmoni.

− Angelo, l’odore viene dalla televisione! E’ la televisione che puzza, spegni! –
Daniela ha puntato l’indice verso il televisore e si è portata la mano alla bocca perché anche la nausea ricominciava a salire, come l’odore. Anzi, era quasi un tutt’uno con l’odore di menta e si materializzava nel corpo appesantendolo, era così forte che quasi Daniela non riusciva a deglutire. E, se avesse deglutito, l’odore le si sarebbe fermato in gola come un anello mostruoso e informe.
– Sìsì! – ha detto Domenico – è vero, papà! E’ la televisione! –
Jessica, invece di parlare, si è portata le manine al viso, come volesse smettere di vedere.
− Ma che, siete matti? Come fa l’odore a venire dal televisore? E da dove esce? – ha detto Angelo allargando le mani. Si è avvicinato al televisore che stava appoggiato sopra il frigorifero. Si è avvicinato con decisione e rapidità, come volesse risolvere davvero il problema in modo risoluto e definitivo. Ha osservato insistentemente tutti gli orefizi dell’apparecchio, e lo voltava, e lo scuoteva, quasi fosse un essere animato. Ma la nausea ha cominciato a riprendere anche lui, e lo ha costretto ad abbandonare le mani lungo in fianchi, sconfitto.

−  Niente da fare. A me non sembra che esca di qui. Proviamo ad accendere di nuovo… – ha detto prendendo in mano il telecomando.
−  No! – hanno detto Daniela e Domenico e Jessica all’unisono.
Angelo si è voltato verso di loro quasi stentasse a riconoscerli.
−  E va bene! – ha detto posando con stizza il telecomando sulla tavola. 
Daniela ha avuto un guizzo e gli ha detto guardandolo negli occhi – Perché non accendi la radio? Il telegiornale c’è anche alla radio, no? Magari dicono qualche cosa… -
Allora Angelo ha spinto il pulsante di un apparecchio bombato e argentato che stava sulla credenza. La radio ha trasmesso una canzonetta antiquata, e il cantante aveva un accento napoletano che acuiva la sensazione di un tempo remoto. Dopo qualche minuto, la musica si è interrotta per lasciare posto a una voce gracchiante che annunciava il radiogiornale.
−  Ma dimmi tu! – ha esclamato Angelo – non lo reggo. Non la reggo la radio. E’ come quando sei in chiesa e non sai dove mettere la mani… Io non so dove mettere gli occhi. Che cos’è? Devo fermarmi a guardare il frigorifero? Ma pensa tu! –
−  Sshh… sentiamo le notizie. – ha replicato Daniela sedendosi e torcendosi le mani. 
Ma le notizie non parlavano dell’odore di mentuccia né tantomeno dell’intossicazione. Si parlava della morte della donna scomparsa e della partita di calcio che avrebbero giocato quella sera.

− Già, così mi perdo anche la partita… Cazzo. – ha inveito Angelo.
- Non dire parolacce davanti ai bambini. – Daniela era decisa e impellente. – Dài, una sera diversa. E’ tanto tempo che non parliamo, potremmo giocare a qualche cosa con i bambini, eh? Magari a carte… Non devi prenderla male. In fondo ogni tanto cambiare fa bene. E tu passi tutte le sere davanti alla televisione… non mi guardi quasi mai. Vero, bambini, che vostro padre guarda sempre la televisione? –
Domenico e Jessica hanno fatto sì con la testa.
- Ma quali giochi? Ma chi se ne frega dei giochi! No, me ne vado a letto. Accidenti alla menta, alla mentuccia e alla nausea. Voi rimanete pure qui a divertirvi con la radio. -
Angelo si è diretto alla camera da letto con aria sconsolata. Sembrava una mosca senza testa. E’ entrato nella stanza e ha richiuso piano la porta, come se non volesse essere disturbato.

−  Mamma, ho fame! – ha detto Domenico tirando una manica della camicetta di Daniela.
−  Oh, ti è tornata la fame? E tu Jessica, hai fame anche tu? –
−  Mh mh. – ha fatto la bambina scuotendo la testa in segno di diniego. – Voglio la televisione… –
−  Quella, bambina mia, questa sera non si può avere. Vuoi intossicarti, eh? Dimmi 
un po’, vuoi che ti venga di nuovo la nausea? Vuoi stare male? Vedrai che domani ci sveglieremo e questo sarà stato soltanto un brutto sogno. Domani potremo aprire tutte le finestre e guardare il telegiornale e papà non sarà più così triste. Volete giocare, eh? Volete che giochiamo un po’? –
−  Ho fame… – ha ripetuto Domenico afferrando il suo piatto sulla tavola. – Minestra… –
Allora Daniela ha preso un mestolo e gli ha versato un po’ di minestrone nel piatto. Il bambino ha cominciato a mangiare a cucchiaiate lente e ampie, a occhi bassi. La tovaglia bianca riverberava sotto il lampadario e i bicchieri scintillavano quasi fossero stati illuminati da candele. Daniela e i bambini tacevano, soltanto la radio, che Angelo aveva dimenticato accesa, gracidava nell’aria immobile e calda. Ora c’era una canzone melodica che parlava di amore e di abbandono, una musica molle, che invadeva l’aria e induceva alla malinconia.

−  Com’è vuota la casa senza televisione! – ha esclamato Daniela mentre raccoglieva le stoviglie nel lavello con un rumore di acciottolato. I bambini erano muti e tristi. Se non fosse stato per la musica malinconica che riempiva l’aria, si sarebbe detto che fossero stati colpiti da un lutto. Un lutto della mente, qualcosa che privava dell’abitudine ad un affetto quotidiano e reiterato che saturava l’anima. E l’anima, sembrava essere volata via con l’odore di mentuccia. Daniela e Jessica e Domenico sembravano sgonfi di se stessi, si guardavano intorno con lo smarrimento di un corpo che si risveglia dopo una febbre. L’odore di mentuccia li aveva lasciati estenuati e senza volontà. 
Mentre Daniela rigovernava, i bambini si erano addormentati con le braccia sulla tavola, cullati dalla musica molle e dal rumore delle stoviglie e dell’acqua che scorreva.
−  Non avete detto le preghiere, prima di addormentarvi… – ha detto Daniela voltando il capo dal lavello. Su, preghiamo tutti insieme. –
−  Mamma, ho sonno! – ha protestato Jessica con la vocina impastata.
−  Non importa se hai sonno, si può dormire senza la televisione ma non senza le 
preghiere. Su! – 
Allora i bambini hanno congiunto le mani, ma tenevano gli occhi chiusi, come se stessero continuando a dormire. Poi hanno cominciato, all’unisono.
− Angelo del cielo, proteggi il nostro sonno.-

Ma alla fine della preghiera, prima di farsi il segno della croce, Domenico ha esclamato – Angelo del cielo, fai passare l’odore e la nausea. -
− …e riportaci la televisione. – ha aggiunto Jessica con un sospiro. – Amen. -
Poi si sono avviati verso la camera dei bambini, e Daniela sembrava un grande angelo nero che vegliava sul passo incerto dei suoi figli.
−  Fate piano, che vostro padre dorme… – ha detto mettendoli a letto e rimboccando loro le coperte. Nella stanza brillava la luce intima e bluastra dell’abatjour sul comodino che univa i due lettini. Daniela si è seduta sull’orlo del letto di Jessica e con un gesto dolce ha sistemato i capelli della bambina sul cuscino. Erano lunghissimi e morbidi, e profumavano di sapone. Poi Daniela si è voltata verso Domenico, che si era addormentato con il viso affondato nel cuscino.
−  Riportaci la televisione. – ha mormorato Daniela quasi in un soffio, mentre gli occhi scorrevano sul corpo abbandonato dei suoi figli. Poi, cercando di non fare rumore, ha spento l’abatjour.