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Nudi come siamo stati – Ivano Porpora

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Capitolo I

 

Questa è una storia vera. È l’ultimo tentativo che faccio per venire a capo dei miei pensieri: per catalogarli, farli rientrare come un gregge che mi è scappato di notte.

Non so il numero dei capi, né il nome; non so quali strade possano aver preso, e se ci sono burroni, buche, strettoie, scorciatoie. La notte preme, sembra una coperta, non piove mai. Ci sono nuvole ma non piove, fuori. Il cielo è nero, duro, forte, il vento a volte soffia ed è capace di tirare giù rami; tutto fuori. Qui dentro devo cercare di sfrondare fatti minimi che allora, al tempo in cui tutto successe, mi apparivano fondamentali; cercare il filo che collega me, Anita, Arsène. Il filo che collega un territorio, perfino, fatto di campi coltivati e casotti piantati a forza in mezzo al nulla, finestre che sembrano ogive e imposte di alluminio, ringhiere, parcheggi vuoti e riflettori dello stadio sfondati da una pallonata, macchine sciolte in mezzo all’asfalto, rimane quasi solo una pozza bruna, spighe bruciate dal sole, mosche che son morte cercando di bucare una zanzariera; e questo cazzo di caldo che non esce mai di casa, mai, nemmeno se fa notte.

Questa è la storia di noi tre: i protagonisti di questo mondo, posso dirlo con certezza, siamo noi tre, io grosso e largo e moro, lui magro e bianco di capelli che pare quasi albino, lei, oh, quasi tutto; ma c’è stato un momento in cui avrei giurato saremmo diventati quattro, o cinque; forse anche sei. Devo cercare di capire quale sia stata la realtà, quali le triangolazioni che se ne sono create; quali le linee di fuga. Il nesso delle cose, ecco cosa manca: perché a parlare di quanto accaduto mi sono accorto che decine di incongruenze saltavano agli occhi. Il nesso delle cose non è l’amore, né l’odio, non sono le emozioni né le tragedie, né tutte le volte che mi son dovuto tenere la pancia perché ridevo che sembrava esplodessi; sono i fatti, bum bum bum.

Ho dovuto prendere un calendario del 2005 che Anita aveva appeso all’ingresso, tutto sporco di appunti e disegnini, e scritte, e buchi perché c’erano state attaccate puntine.

Accanto a diverse date, a tratti con la sua grafia, a tratti con la mia, numerose A. Credevo significassero solo Arsène, pensa te.

Sono nato il 12 marzo del 1967 a Viadana, in provincia di Mantova, la potete riconoscere al volo perché è là dove il Po forma la sua conca più bassa; parte di quanto è scritto vi si svolge. Qui ho rotto vetri, preso pugni, dipinto staccionate, dato pugni, dipinto murales all’interno di case abbandonate o in un macello o in una fabbrica che poi andò a fuoco, son rotolato giù da una scala scheggiandomi una vertebra, ho disfatto la cancellata di una ditta di vernici durante un incidente; mi sono rotto ossa, grandi e sottili.

Qui ho sempre vissuto, tranne qualche anno di università; conservo in solaio alcuni libri, a volte è così, come dire, così dolce prenderli in mano con la certezza che li riaprirò domani, tornerò ad aggiornarmi. Ma qui, senza averli più riaperti, morirò: la cappella dei Rovina ha un posto vuoto sulla cui visione mi incantavo, da bambino, quando andavo a trovare mamma. Guardavo le diverse foto, sillabavo i diversi nomi; cercavo di capire perché alcune date fossero cosi lontane, altre ravvicinate, quelle di mamma vicine lo sono state sempre troppo. Questione di densità, mi sarei detto poi; o questione di fortuna. Poi davo un occhio alla cappella vicina, sull’angolo, con qualche lettera caduta giù e visi illeggibili; prendevo un fiore dai nostri, lo mettevo di là.

Dove vivo e son vissuto finora avere nome e cognome non è completamente indicativo: si entra a far parte in modo sistematico e vincolante d’una genealogia e d’un territorio. Il mio stesso nome, Severo, l’ho sempre visto in senso più topografico che altro.

Ma mi disperdo nei dettagli, qui come nel parlare.

Comprendere la morte, e come si sia ficcata nella mia vita, così, a forza, come un parente sgradito che d’un tratto ti trovi a dover accompagnare per un lungo viaggio, o comprendere questa botta assurda che mi ha lasciato le ossa esposte al sole è uno degli obiettivi che devo perseguire.

È un compito arduo, e in questo momento di compiti ardui ne ho troppi – appendere un quadro è un compito arduo, rispondere al telefono è un compito arduo, allacciarmi o slacciarmi le scarpe. Tutto è difficile, ora, tutto nel mondo è difficile, chi mi telefona mi rompe i coglioni: tutto mi riconduce in qualche modo al mio rapporto con la morte e con la vita, troie entrambe, che han deciso di prendersi gioco di me. È come se fossero sempre state tra i miei compagni di giochi, quale delle due fosse la fata buona non so, sorridevano entrambe, vatti a fidare. Solo so che non è il morire fisico che temo, ma quel morire dentro che già più volte mi ha colpito.

Chi la scrisse, Non si puo morire dentro? Tenco? È uno dei pochi ricordi di mia madre che ho assemblato nel tempo – ricordi di prima e seconda e terza mano, ricordi mezzi di lei, parole dette su lei o ascritte a lei: lei che stende le lenzuola sui fili stesi nel terrazzo della casa vecchia e canta; mio padre che sente squillare il telefono, la chiama. Io sono da qualche parte a giocare, forse, o forse a guardare incantato il moto dei riflessi che l’acqua d’una bacinella componeva sul soffitto, una barchetta di carta rolla.

Non si può morire dentro. Chiunque abbia scritto questo verso sapeva di mentire e lo faceva. E allora scrivo, e Dio maledica le mie parole, se serve, ma me le dia.

 


 

Ivano Porpora  è nato nel 1976 a Viadana, in provincia di Mantova. Ha pubblicato il romanzo La conservazione metodica del dolore (Einaudi 2012), le poesie Parole d’amore che moriranno quando morirai (Miraggi 2016), la favola per bambini La vera storia del leone Gedeone (Corrimano 2016), le fiabe per adulti Fiabe così belle che non immaginerete mai (LiberAria 2017). Tiene corsi di scrittura in giro per l’Italia e pubblica una newsletter gratuita di scrittura.
Nudi come siamo stati (Marsilio 2017) è, quindi, il suo secondo romanzo.

Riscrizione di mondo #2 – programma & istruzioni per l’uso (26.5 Milano)

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Qui diamo il programma dettagliato, e le istruzioni per l’uso (19) di una mentalità intraterrestre.

Web

 

Per ognuno di noi ci sono circa 200.000.000 insetti (una biomassa importante). Sediamoci al tavolo con loro, con pazienza e cordialità.

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venerdi 26 maggiodalle 18.00 alle 21.00
VIR VIAFARINI via Carlo Farini 35, 20159 Milano

Un incontro tra pratiche artistiche, poetiche, scientifiche a cura di Gianluca Codeghini e Andrea Inglese

Performances, micro-conferenze, letture, proiezioni, interventi musicali di:

Questo mondo

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smoke_in_the_mountains_by_kayaksailor-d80hb86di Maria Gaia Belli

Questo mondo è molto semplice.
È fatto così:

a sud c’è il mare, e tutto quello che sta intorno al mare. Di fianco, vicino, appoggiato al mare: paesini pieni di piste ciclabili, vuote d’inverno; panifici che profumano di sale; piedi in infradito, facilmente sporchi; pelle scura, spesso secca, bambini che si tirano via le pellicine delle scottature; palloni poco pesanti; molta strada a corsie strette, sempre dritta, che incontra case uguali, con uguali tavolini di plastica da giardino, e qualche rara villetta sola, abitata da gatti.

al centro c’è la Regione. L’unica città è P.

Overbooking: Wanda Marasco

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Copia di La-compagnia-delle-anime-finte-01Nota di lettura

di

Paolo Di Stefano

Non è facile parlare della Compagnia delle anime finte, perché si tratta di un libro che contiene molte cose, strati, personaggi. È la storia di tante vite incatenate che partono dall’inizio del Novecento e percorrono tutto il secolo scorso, probabilmente tracimando nel nuovo, ma si tratta di una narrazione cronologicamente non lineare, caratterizzata com’è da un tempo sussultorio, sismico, terremotato. Usando un aggettivo semplice ma credo abbastanza efficace, dirò subito che raramente, negli ultimi anni, ho letto un romanzo così bello, oserei dire che si spinge un passo più in là rispetto ai precedenti L’arciere d’infanzia e Il genio dell’abbandono, secondo me per una ancora più equilibrata calibratura linguistica o stilistica, che in genere è la sfida lanciata dai grandi scrittori, tra i quali colloco ovviamente anche Wanda Marasco.

La compagnia delle anime finte stupisce innanzitutto perché i diversi livelli, degli stili e delle visioni, si bilanciano in un’armonia, anche strutturale, fuori dal comune. Parlo di stili e di visioni perché si tratta di un romanzo plurale, come suggerisce del resto il titolo, un romanzo plurale dentro la comunità napoletana, dentro il teatro della comunità napoletana. Ed è anche un romanzo di voci contenute in una sola voce, quella di Rosa, la quale conduce il filo della narrazione anche quando lo cede provvisoriamente ad altri, per esempio alla madre Vincenzina: che è con lei (cioè con sua figlia Rosa) la protagonista del libro: più che con lei, direi insieme a lei, al punto che le loro voci finiranno per confondersi facendo crescere il sospetto che i due personaggi, Vincenzina e Rosa, siano in realtà una sola figura che contiene due anime (e due destini) quasi coincidenti. In superficie si può dire che il romanzo si gioca (anche grammaticalmente) sulla sovrapposizione, sulla presa di distanza e poi ancora sull’ambigua identificazione tra madre e figlia. Ma andando più a fondo, si scopre che è la storia di un inabissamento comune e infernale a spirale: «Ti seguii nei giri all’inferno, dentro la spirale di vasci», dice la figlia evocando la madre Vincenzina verso la fine. Ma non dimentichiamo che proprio con l’immagine della chiocciola si apre il romanzo, quasi fosse un senhal per mettere sull’avviso il lettore sulla vertigine che lo attende: «Sta scendendo per le Centoscale, gli occhi puntati a terra. Ci sono le chiocciole incollate alla muraglia e una colonna di nuvole basse sulla sua testa». Il romanzo è in definitiva quella discesa a rottadicollo con le nuvole che incombono minacciose, è uno sprofondamento della voce narrante dentro i propri ipogei individuali e familiari e nel contempo dentro gli ipogei della città stratificati e fatti di tutto: «di tufo con tracce di fango, di petrusino pietrificato, agli e cipolle, frutta di terracotta» è fatto anche il letto di morte della madre con cui si apre il romanzo.

In questi giorni, ripercorrendo il mondo di William Faulkner, ho trovato una efficacissima recensione di Borges, datata 1937, a proposito di Assalonne, Assalonne! C’è un passo che ci dice parecchie cose anche su Wanda Marasco. Eccolo: «Conosco due tipi di scrittore: l’uno la cui prima preoccupazione sono i procedimenti verbali, e l’altro la cui prima preoccupazione sono le passioni e le fatiche dell’uomo. Di solito si denigra il primo tacciandolo di “bizantinismo” o lo si esalta definendolo “artista puro”. L’altro, più fortunato, riceve gli epiteti elogiativi di “profondo”, “umano”, “profondamente umano” o il lusinghiero vituperio di “barbaro”… Tra i grandi romanzieri, Joseph Conrad è stato forse l’ultimo cui interessavano in egual misura le tecniche del romanzo e il destino e il carattere dei personaggi. L’ultimo fino alla straordinaria comparsa di Faulkner. A Faulkner piace esporre il romanzo attraverso i personaggi. Il metodo non è del tutto originale… ma Faulkner vi trasfonde una intensità quasi intollerabile. In questo libro di Faulkner vi è un’infinita decomposizione, un’infinita e nera carnalità. Lo scenario è lo Stato del Mississippi: gli eroi, uomini annientati dall’invidia, dall’alcol, dalla solitudine, dai morsi dell’odio». Ci sono alcuni sintagmi borgesiani che si potrebbero trasferire tranquillamente dai sottosuoli americani di Faulkner a quelli napoletani di Wanda: intanto «esporre il romanzo attraverso i personaggi» ci dice della scoperta teatralità o drammaticità delegata alla presenza della voce (delle voci), ma ci sono altri due tratti fondamentali che avvicinano i due mondi narrativi in maniera quasi stupefacente: «l’intensità quasi intollerabile» della visione e la sua «infinita decomposizione, infinita e nera carnalità».

Non so quanti tipi di carne si incontrano nel romanzo, vero e proprio Leitmotiv quasi ossessivo, a dispetto o a controcanto del titolo: ci sono gli «spigoli della carne usciti dalla guerra», ci sono i «gangli della carne» percepiti da Rafele (il padre di Rosa), c’è la carne ferita di Linuccia (madre di Rafele) e c’è la carne da ricucire con cui ha a che fare suo marito Ennio chirurgo; c’è la carne del sesso, quella di Vincenzina dentro cui si inoltra Rafele; c’è la «carne pericolante» e ci sono le «carni fresche» della giovane amante Adelì; c’è la carne della fidanzata su cui Rafele avrebbe voglia di «scatenarle i pizzichilli»; c’è la «carne piumata», c’è la «carne materna», c’è la carne in brodo che fa schifo a Rafele, c’è la «carne esiliata» della miseria «infettata di povertà nell’orfanotrofio; c’è la carne gialla, in decomposizione del corpo morente; c’è la «carne sepolta viva» (cioè quella lasciata morire dell’usuraio Musca); c’è la carne umiliata e sola, c’è la «carne bestiale degli altri» sfiorata nei vasci, e avanti così, un repertorio infinito di carni in senso metaforico e in senso letterale. Davanti a Vincenzina morta, Rosa dice: «Mia madre ha smesso di essere un corpo immobile e spreme nel cielo di Capodimonte una specie di energia. Sono io a spingerla, a contare i suoi passi sulla discesa del vico e lungo le rampe». «Le storie – aggiunge – usciranno dalla carne perché devono inoltrarsi tra una creatura e l’altra come una restituzione e un agguato».

La carne è insieme la vita e la narrazione, la materia che si fa narrazione, dove tutto confluisce, dono e sottrazione, luce e ombra, generosità e tradimenti, sospetti, scuorni, matrimoni, separazioni, spettri del passato, fantasmi del futuro, anime e corpi, follie, depressioni, deliri e lucidità, fragilità e aberrazioni. La carne è un «enorme ventre materno» che genera racconti all’infinito, la quinta di teatro dentro cui recita La compagnia delle anime finte.

La Scouting Night Live di Oblique

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Una serata di scouting dal vivo, per mettere in contatto gli aspiranti autori con editori, editor e altri addetti ai lavori. Riceviamo la segnalazione dell’evento:

«È ora che il tuo manoscritto esca dal cassetto.

Hai cinque minuti per raccontare il tuo progetto a editor, scout e curiosi. Cinque minuti per farti sentire.

Puoi proporre un romanzo, una raccolta di racconti, un saggio.

Giovedì 25 maggio 2017, a Roma, a partire dalle 20,00, per tre ore allo Sparwasser (via del Pigneto, 215) diamo spazio e orecchie alla tua creatività, alle tue pazze idee.

Sottoponici il tuo lavoro scrivendo una mail a redazione@oblique.it.

 

 

 

Regolamento

  1. Per partecipare dovete mandare il vostro progetto a redazione@oblique.it. Oggetto della mail: vostro cognome, scouting night live, 25 maggio. Dovete allegare un unico file pdf che contenga l’opera che volete presentare (o parte di essa), una breve sinossi, una vostra biografia. Il file deve essere nominato così: cognome_snl_25mag17.pdf;
  2. Se verrete selezionati (le comunicazioni verranno date entro il 21 maggio) dovrete presentarvi alle 19,45 allo Sparwasser e attendere il vostro turno;
  3. Avrete 5 minuti a disposizione per raccontare il vostro lavoro. Si consiglia di riservare almeno un minuto o due alla lettura di una porzione del testo. Potete organizzare il pitch come volete ma vi chiediamo il rispetto dei tempi;
  4. Ogni autore può presentare un solo progetto. È possibile presentare progetti a più nomi ma per la presentazione è preferibile un solo relatore, e comunque il tempo massimo a disposizione resta 5 minuti;
  5. Vi consigliamo di portare qualche copia del progetto, qualora ci fosse qualcuno interessato a leggerlo.

Lo scouting dal vivo è un’iniziativa che precorre il concorso 8×8 e nasce sulla scia degli slam poetry americani. Oblique utilizza questa formula di confronto fin dal 2008 quando al proprio stand del Salone di Torino invitò gli autori a presentarsi: la call era “da Oblique ascoltiamo il vostro manoscritto”; e durante la seconda edizione degli incontri di sensibilizzazione all’editoria, seminari e laboratori gratuiti a cui hanno partecipato più di mille persone.

Nel 2011-2013 è stata la volta degli Scouting Night Live di Watt. Tante serate in giro per l’Italia (Roma, Milano, Bologna, Torino) alla caccia di nuovi narratori e illustratori da pubblicare sulla rivista.

L’attuale formula prevede batterie di pitch da 5 minuti senza commento al termine della singola esposizione. I confronti (quando noi di Oblique o gli editor intervenuti sono interessati al progetto) avvengono faccia a faccia tra una sessione e l’altra, o alla fine. Agli autori è richiesto di portare un po’ di copie dell’opera in modo che chi voglia approfondire possa proseguire la lettura direttamente su carta».

http://www.oblique.it/eventi_scouting-night-live.html

La pioggia è un coro di gocce

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copertina Poeta dell ariadi Romano A. Fiocchi

Chicca Gagliardo, Il poeta dell’aria. Romanzo in 33 lezioni di volo, Hacca, 2014.

Ci sono libri che ti fanno smettere di fumare, libri di diete, libri nati per intrattenerti e basta, e libri così, come Il poeta dell’aria, che ti insegnano a volare in trentatré lezioni. Posso garantire che ho iniziato a volare sin dalla prima. Perché il volo che ti insegna Chicca Gagliardo è il volo in un’altra dimensione, una sorta di teoria delle relatività in versione poetica. Non si tratta di invenzioni grottesche o di bizzarrie dal sapore surrealista, ma proprio di istruzioni per l’uso di una visione “altra” della realtà. Ed è un po’ come la curvatura dell’universo: una volta che afferri il concetto, è impossibile tornare a concepire la cosa in modo differente. Ecco perché, scrive Chicca Gagliardo, la visionarietà della poesia e della scienza non sono mai state tanto vicine.

Tutto è iniziato in metrò mentre leggevo la prima pagina del Preludio, Il paesaggio dell’aria. Lì si apprende che all’interno della città visibile c’è un paesaggio fatto di aria che scorre trasparente tra piazze, strade e vicoli. Aria che sale, scende, cambia corrente, ora un soffio ora una raffica, onde di aria che si infrangono sugli edifici, sugli alberi, sui lampioni. Quando sono uscito dal metrò, ho sentito che mi immergevo in cunicoli fatti di aria, che respiravo i respiri degli altri passeggeri, che mi muovevo nel negativo (in senso fotografico) di un mondo di cui avevo visto sempre soltanto il positivo. Da allora, tutte le volte che scendo in una metropolitana o percorro strade attraversate dal vento, mi sento come il Poeta dell’aria. E come lui sento la vertigine della consapevolezza: l’aria è materia consistente, la stessa consistenza di tutto ciò che ha un corpo. È solo più leggera, essenziale come lo è la simbologia dei sogni. Ma l’aria può avere anche uno stato d’animo, che non è altro se non il vento. Ed è addirittura di vari colori a seconda dell’intensità. Insomma, il nulla è cosa palpabile, esiste, e se puoi afferrare questa idea puoi diventare un poeta – questo ti dice il Poeta dell’aria.

Ma Il poeta dell’aria è tante altre cose. Gli appunti che ho preso sulla pagina prima della terza di copertina mi portano a rileggere alcuni brani, come questo: “La musica è fatta d’aria, le note scorrono nell’aria, senza aria non ci sarebbe musica. La musica, che è invisibile, è l’arte più metafisica. E anche la più fisica: ha il potere di trascinare il corpo. Ogni nota appare fino a che l’aria la sostiene, poi la forza di gravità la fa cadere e la nota si dissolve. Ogni nota viene dal nulla e torna nel nulla”. Ci sono qua e là nella prosa della Gagliardo versi di poesia pura, semplice, leggera come il Poeta dell’aria. Sentite anche questo: “La pioggia è un coro di gocce”. Ecco un’altra verità filosofica che una volta appresa non dimentichi più. Quando ti capita di uscire per strada sotto la pioggia, ti rifiuti di aprire l’ombrello, vuoi sentire ancora una volta il coro di gocce. Che si fa musica metafisica, ossia poesia.

Poi ci sono le ombre, quella parte di noi che tutti ci dimentichiamo, che consideriamo estranee a noi e invece non lo sono. Le ombre sono esseri autonomi che ci seguono, nostri alter ego – poetici perché dimenticati – che invece di stare attenti a non sfiorarsi con spalle e gomiti come facciamo noi, si incrociano e si sovrappongono. Sono creature già di per sé straordinarie in quanto gli unici corpi bidimensionali esistenti in natura, esistono come esiste l’aria ma esistono solo per chi le percepisce. E percepirle non è cosa facile perché il cervello ritiene inutile la loro presenza e fa sì che vengano ignorate. Per vederle devi quindi volerlo, devi concentrarti, solo così ti accorgi che questi nostri doppi hanno caratteristiche opposte e complementari alle nostre: le ombre sono ombre nella luce, noi siamo ombre quando non c’è luce.

klein - foto by ShunkMa il Poeta dell’aria non vive da solo, con lui c’è lo Stormo di Volatori. Hanno nomi strani, come Zuzù (che è un equilibrista), Oboe, Malva, Ulu, gente che sa quanto la poesia sia respiro, gente spinta a volare da qualcosa di profondamente intimo, a volte impossibile da scoprire. Se lo chiedi a Ulu, a seconda del suo umore ti senti rispondere che a spingerla al volo è stata la sua voce d’ambra portata dal caos, oppure la sua voce d’ombra portata dal caso. Sono i giochi di parole di Chicca Gagliardo, suoni e significati che si intrecciano, che sfumano in poesia visiva dal sapore quasi futurista: le impressioni di Malva sulla scala diventano parole graficamente collocate in verticale come gradini, le voci nascoste sul fondo dell’aria finiscono in calce a una pagina bianca come schiacciate dal vuoto, un punto – inteso proprio come segno grafico – significa arrivo e partenza, significa un minuscolo segno scuro inciso dalla punta di una penna e sospeso là, nello spazio vuoto tra il titolo del capitolo e le prime parole.

Al di là di tutti questi letterari giochi di prestigio, Chicca Gagliardo ci mostra la prova dell’esistenza del Poeta dell’aria: una fotografia del body-artist Yves Klein che si tuffa da una finestra, immortalato dallo scatto del grande Harry Shunk. Ed è questa immagine ad incarnare lo spirito di tutto il libro.

Una nota sulla veste grafica. Il Poeta dell’aria è anche un piccolo capolavoro editoriale. I cinque elementi cari a Mardersteig – testo, carattere, inchiostro, carta, legatura – sono qui combinati dalle edizioni Hacca con grande raffinatezza. Lo dico da lettore non solo di libri cartacei ma anche di libri digitali: la versione in e-book di un libro così perderebbe tutto il suo fascino.

I moscerini danzanti di Marino Magliani

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di Giacomo Sartori

Cop_ESILIOIn questo ultimo romanzo di Marino Magliani si ritrova una miriade di elementi che popolano i suoi testi precedenti lunghi e brevi, e chi è famigliare con la sua opera incessantemente in divenire e nello stesso tempo impantanata su se stessa ben li conosce. Come succede con gli altri autori che ritornano ancora e ancora sugli stessi avvenimenti non si ricorda con precisione dove si è già letto il tal episodio o si è incontrato il tal personaggio, e non è importante. C’è ovviamente la sua Val Prino, quella di adesso e quella della sua infanzia, i muri che cascano, i rovi, il fiume con i suoi odori e le sue evoluzioni, la Corsica che si fa vedere quando vuole lei, la madre con la sua bontà di Madonna, il padre con i suoi impieghi stagionali in Francia, i collegi freddi e tristi della gioventù, le notti brave giovanili sulla Costa Brava, seguite dagli inverni alle Canarie. E c’è la sua IJmuijden del dispatrio dell’età adulta, con il freddo e i venti implacabili, la sua smania di abbattere e ricostruire, l’inospitalità scontrosa degli abitanti, la solitudine, le passeggiata sulla spiaggia, la palestra, sembiante sudoroso di vita sociale, la chiesa cattolica frequentata da anziani, la vetrata del suo studio, osservatorio sulla pioggia e sull’esistenza. E c’è Tabucchi, c’è Vecchiano senza Tabucchi ormai morto, c’è un fantasmagorico Portogallo.
Certe cose si ha l’impressione di conoscerle meglio di come vengono descritte qui, perché le abbiamo già incontrate con più dettagli, certe altre invece si ha modo di vederle meglio, altre ancora le si scopre per la prima volta. Come i moscerini, non a caso esiliati, presenti nel bellissimo titolo, L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exorma, 2017), osservati con un accanimento cocciuto di animale che osserva, più che di entomologo.
C’è pure il conoscente enigmatico che spesso appare – con sembianze e attributi diversi – nel suo nord desolato, e le conversazioni monche e enigmatiche, apatiche e essenziali che con lui hanno luogo. E qui c’è anche una donna, costeggiata nel corso dell’infanzia, e poi rincontrata dopo, e con la quale sarebbe forse potuto succedere qualcosa di più, ma il rimpianto non attecchisce, si consuma su se stesso nelle ultime pagine.
E’ un va e vieni continuo tra i luoghi e i tempi, con i due poli rappresentati dalla solitudine spettrale del mare del Nord e la solitudine abitata e piena di odori e di contrasti tra luce e ombra della Liguria, tra l’età adulta e l’infanzia del dialetto, della magia ancora delle parole, degli sprazzi di felicità. Prima che arrivi la lingua italiana, la sua tirannia. L’ho vissuta come la violenza di una lingua nemica e la violenza della mia lingua che ora mi è talmente estranea da destabilizzare persino la mia identità.
Si intuiscono un malessere, i cui sintomi sono molto lievi (come l’allusione alle sedute con un terapeuta), e forse anche una paura, nominata solo nella frase che chiude il libro: Per tutto questo e altre cose che non so se succedono, a volte, ancora adesso, ho paura anch’io. Perché certo sotto la superficie di questo divagare incessante e senza piani prestabiliti tra i pensieri e le sensazioni e i ricordi, di questa pacatezza incapace di slanci ma accorata e curiosa, e pronta a stupirsi e a imparare, a tratti quasi divertita, ci sono abissi che non vengono espressi.
Non si sa cosa guidi gli esili, quelli dell’infanzia (È stata l’idea di trovare un antidoto, qualcosa di magico, contro l’oceanica malinconia di una valle azzurra e silenziosa, un desvivere altrove, il diritto di partecipazione a un posto pieno di tuoi simili e di voci. Tutto lì, e non è certo da poco cosa pretende il bambino.) e quelli dell’età adulta (Mi piacerebbe poter dire che è l’esilio perfetto, ma poi mi viene sonno.). L’unica cosa certa è che sono ineluttabili, e che gli entusiasmi non sono più possibili, una volta adulti. L’infanzia è un esercizio di sopportazione, il giacimento segreto di entusiasmo per quando il resto delle stagioni proveranno a sfondare.
Mentre è possibile la malinconia, è anzi il sentimento più familiare: Ma lo sai professoressa che mi sembrava di morire di malinconia. Bisogna imparare a conoscerla e a gestirla. Andandotene volontariamente speri di sbarazzarti della malinconia (ci si nasce con la malinconia), di lasciarla da qualche parte sotto un portico. Ecco, cosa fai, scappi via. Non sai che sarà l’unica cosa che porterai con te. E a un certo punto pensi di averla fatta franca. Miracolo, in collegio la malinconia ti viene meno, molto meno, e questo è pericoloso, il tranello, la malinconia è la stessa di sempre, ma assieme a lei è sopraggiunta la nostalgia, e allora la voglia di tornare a casa ti nasce dentro come una speranza.
La nostalgia appare anche lei, al seguito della malinconia, ma è più selvatica, non si lascia acchiappare. La nostalgia non la senti quando sei lontano, ma quando sei lì, al tuo paese, e sai che fra poco te ne vai. Non si può viverla. Ma sul treno è diverso, ci gioca la nostalgia delle campagne che passano nel finestrino e non scenderemo mai a guardare.
Ma quel che ci inchioda al testo, come sempre con Magliani, è la bellezza delle frasi, la loro semplicità e abissale verità. Le ore odoravano di Piemonte, di bosco e di una pioggia vecchia che durava fin sotto le coperte. La loro opacità concettuale, la loro capacità di cogliere gli ingredienti della vita allo stato bruto, non ancora digeriti dalla razionalità che tutto uccide e normalizza, ancora vivi, ancora attivi. Ora che il Nord è meno rigido vago per le dune, alla ricerca di un chiarore.

 

Quarta_ESILIO

The Good Intentions

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di Alberto Brodesco

TheGoodIntentions0010Cosa sono le buone intenzioni? Possono giustificare pratiche o condotte sbagliate? La film-maker Beatrice Segolini ha deciso di realizzare un documentario sulla sua storia familiare, in particolare sulla figura del padre, sul tabù che lo circonda. A dirigere The Good Intentions c’è un secondo regista, Maximilian Schlehuber. Il suo ruolo di invitato invisibile è fondamentale: accompagnando lo spettatore fra i panni sporchi che a quanto si dice dovrebbero esser lavati in casa, il co-regista fa da scudo e garantisce la legittimità dell’intrusione di uno sguardo esterno nello spazio domestico della famiglia Segolini. Schlehuber è un ospite che respira piano, non si fa sentire, non disturba. Lo spettatore è indotto a imitarlo.

La vicenda, intima, intimissima, appassiona sia per le intricate dinamiche relazionali fra i diversi componenti del gruppo familiare sia per il rispecchiamento cui spinge ogni spettatore (figlia, figlio, padre, madre), costretto a interrogarsi sull’educazione subita o elargita. Le dramatis personae vengono introdotte dalla voce della regista. Sono pupazzetti in un teatrino: Beatrice è rappresentata da una bambolina, suo fratello Michele da un cavallo, Stefano è un toro. La madre e il padre sono due dinosauri, e il padre è un dinosauro violento. Non siamo pupazzi, dice la voice off della regista in chiusura al prologo. Ma allora che cosa siamo?

Nella prima parte del film assistiamo a una discussione tra la madre e i tre figli a proposito del padre e dei suoi metodi educativi. Beatrice è ancora ferita, Michele ha un carattere più morbido, incline alla comprensione o al perdono, mentre Stefano (che, come affermano, ha ereditato alcuni dei tratti di durezza del padre) considera irrecuperabile il rapporto e non ha voglia o interesse a rivangare il passato. Il padre sembra un fantasma, brilla per la sua assenza, vuoto centrale attorno cui ruota la narrazione. E invece il fantasma appare in un maneggio. Il padre è un ex fantino di fama e continua a lavorare coi cavalli, addestrandoli con polso fermo. Il climax del film sta nel confronto tra figlia e padre, un dialogo notturno nella stalla. Beatrice indossa la giacca di papà. I due fumano, si muovono in una specie di danza nervosa, in cerca di equilibrio. Alle domande seguono i silenzi di entrambi, risposte in contrappunto. Il padre infine afferma: “Mi dispiace per il passato e sono contento di come sei”. “Non volevo niente di più”, risponde Beatrice. Si può ora tornare nella cucina della madre per l’ultima parte del film, a parlare ancora del padre, a vivere tutti insieme il senso di colpa di averlo fatto sentire in colpa.

The Good Intentions riesce a combinare due piani linguistici apparentemente in contraddizione, muovendosi con misura tra un approccio fly-on-the-wall alla Frederick Wiseman (la scena della stalla) e un meta-documentario riflessivo in cui è la presenza della camera a creare narrazione, costringendo i membri della famiglia a mettere in scena se stessi.

TheGoodIntentions0033Al cinema il lavoro di recupero della memoria familiare si basa spesso sui materiali auto-prodotti per rappresentarsi nel corso degli anni – i cosiddetti filmini di famiglia. È ciò che fanno opere importanti quali Un’ora sola ti vorrei (Alina Marazzi, 1996), Georg (Caterina Klusemann, 2007), Must Read After My Death (Morgan Dews, 2007), Tarnation (Jonathan Caouette, 2008) e altri. L’archivio viene interrogato per restituire un livello di realtà al di sotto dell’apparenza, per cogliere elementi del non-verbale, per indagare segni nascosti, per rivedere il passato col senno del presente. La strategia dell’archivio è però in gran parte preclusa agli autori di The Good Intentions dal fatto che molti dei VHS della famiglia Segolini sono stati sovra-incisi dal padre per registrare le partite di basket dei due figli maschi.

Il gesto tecnico della sovra-incisione non può non assumere significati simbolici. Alla stratificazione di ricordi prodotti dalle percosse subite in età infantile o dal loro fantasma (quella descritta nel fondamentale saggio freudiano “Un bambino viene picchiato”) si aggiunge una stratificazione materiale nei nastri, una rimozione/cancellazione/sovrascrittura fisica. L’infanzia dei tre bambini sbuca nelle pause tra un match di pallacanestro e l’altro. Ciò che emerge in questi spazi interstiziali sono squarci che potrebbero essere rivelatori o portare il documentario (e la memoria) in altre direzioni, come quando vediamo la madre che filma la figlia nel corso di un saggio di pattinaggio a rotelle. Le grida “sei brutta” e “…la grazia e la letizia di un elefante”. La reazione della bambina è in uno sguardo che non capisce, due occhi spiazzati tra l’ingenuo e l’incredulo. È forse uno dei passaggi più disturbanti del documentario, rimando a un altrove non-detto, non-indagato.

Il gesto di sovra-incisione attuato dal padre non sembra la conseguenza della volontà di nascondere o cancellare la storia familiare e il proprio ruolo in essa. Ricordare il passato non è per lui così importante, o almeno non importante quanto vorrebbe Beatrice. La perdita è inevitabile, gli errori irreversibili. Non resta che ammetterli e, in caso, gioire nell’averli superati. A Beatrice bastano le ammissioni e il rimorso del padre, e anche la madre afferma di sentirsi “liberata” dalla realizzazione del documentario, riconoscendo il valore terapeutico della parola. La minaccia rappresentata dal padre risulta disinnescata.

Lo spettatore si trova abbandonato in un emozionante reticolo di contraddizioni. La volontà dei registi di comunicare la sensazione di uno strano lieto fine si imprime su pelli che la vicenda familiare ha inciso e la memoria sovra-inciso. Il rifiuto definitivo della violenza e dei suoi metodi cozza con la comprensione per la debolezza della figura genitoriale (“non poteva fare meglio di così”, afferma Michele). L’assunto per cui la storia non si può cambiare sembra smentito dal fatto che affrontare il passato, parlarne, finisce per correggerlo. L’accumulazione silenziosa dell’inconscio è animata da grida, bucata da interstizi che emergono come ferite, lampi di reale in nastri a bassa definizione.

The Good Intentions. Di Beatrice Segolini e Maximilian Schlehuber (2016, 85′). Una produzione ZeLIG (BZ).

Waybackmachine#06 Rovelli il totalitarismo dell’era presente

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11 novembre 2011

MARCO ROVELLI Il totalitarismo dell’era presente

Siamo arrivati al capolinea. Adesso inizia un’altra corsa. A guidare l’aereo più pazzo del mondo c’è Mario Monti. Già international advisor di Goldman Sachs (il cui ruolo nello scatenamento della crisi globale è noto), e membro di Trilateral e Bilderberg, insomma il gotha del capitalismo mondiale. Non sarà che con lui la finanza ha preso il controllo diretto del paese, dopo che il messo Silvio Berlusconi ha fallito per eccesso di amor proprio? Del resto proprio Monti ha affermato: “Berlusconi va ringraziato, nel ’94 ci salvò dalla sinistra di Occhetto e avviò la rivoluzione liberale in Italia”. Ma appunto poi questa rivoluzione liberale non è stata fatta, e allora ci si prendono le chiavi di casa. Consegnate direttamente dai derubati, peraltro, implorando mercé.

Nessuno, sui grandi media, dice una verità essenziale: che il 90% dei derivati – lo strumento principale della speculazione finanziaria internazionale – è controllato da cinque grandi società (Deutsche Bank, Goldman Sachs, Morgan Stanley, UBS, HSBC). Nessuno dice che 10 banche e Sim (società di intermediazione mobiliare) controllano circa il 70% dei flussi finanziari mondiali: un controllo indiretto, nel senso che non ne hanno evidentemente la proprietà, ma li gestiscono e ne determinano il senso. Questo controllo oligopolistico globale determina conseguenze molto concrete sulle vite delle persone. Per questo si parla di biopotere.
Così, adesso, si è deciso di attaccare l’Italia. Come ha ben spiegato Andrea Fumagalli, uno degli economisti più lucidi in circolazione, non c’erano motivi particolarmente drammatici per arrivare al collasso in cui siamo precipitati. Il rapporto debito-pil viaggia al 120%, più o meno come vent’anni fa. Più preoccupante, se mai, la situazione degli Usa, dove il rapporto è del 100%, dove però cinque anni fa era al 60%. I motivi, allora, sono inerenti alla stessa logica interna al finanzcapitalismo.
Dopo che la Goldman Sachs ha fatto a pezzi la Grecia (vedi qui), la Deutsche Bank ha fatto a pezzi l’Italia.
Seguo ancora Fumagalli: da aprile 2011 la Deutsche Bank ha iniziato a vendere 8 miliardi di Btp: non molto, ma nel meccanismo emulativo proprio dei mercati finanziari (dove la determinazione del valore dipende da comportamenti mimetici, basati sull’autorevolezza dell’attore) ciò ha generato aspettative che si sono espanse a macchia d’olio. Di qui, la quotazione dei titoli alla borsa di Londra, che a maggio era ancora 102, a giugno scende a 90. Questa è schock economy. Oppure possiamo anche chiamarlo terrorismo finanziario.
Perché la Deutsche Bank ha fatto questo? Perché se attivi aspettative al ribasso, il valore degli altri titoli che assicurano contro il fallimento – i Cds, credit default swaps – schizzano alle stelle. Il valore di questi Cds infatti è salito di cinque volte. E chi detiene gran parte di questi titoli assicurativi? Cinque società, e più degli altri la Deutsche Bank stessa. La Deutsche Bank ha fatto un doppio guadagno: prima ha venduto i Btp a un prezzo buono (poi appunto si sono deprezzati), dopodiché ha generato enormi plusvalenze grazie al rialzo dei Cds.
A questo occorre aggiungere poi il ruolo che la Germania ha successivamente svolto nello scaricare la crisi sui Btp salvaguardando le sue banche piene di quei titoli tossici che hanno dato origine alla crisi mondiale (vedi qui).
Insomma, tutto sembra dirigersi verso una direzione chiara: sacrificare un intero paese alle logiche delle plusvalenze. Chi è in grado, adesso, di impedire la macelleria sociale che verrà? C’est la lutte finale, verrebbe da cantare.

LYRA GIOVANI

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Lyra Giovani

Diamo il benvenuto alla nuova collana dell’editore Interlinea: LYRA GIOVANI

LYRA GIOVANI si presenta con una proposta articolata e forte. Nella scelta degli autori, Franco Buffoni, che la dirige, si avvale anzitutto della sua ormai quasi trentennale esperienza di curatela dei Quaderni di Poesia Italiana Contemporanea. Maddalena Bergamin e Marco Corsi, i primi due autori in catalogo, rappresentano al meglio quella saldatura tra tradizione e innovazione che da sempre caratterizza le sue scelte.

Tradizione e innovazione: la seconda parte del libro Pronomi personali di Marco Corsi, per esempio, costituisce di per sè, nelle parole di Buffoni, “un’utile riflessione sulla necessità di scrivere in prosa dopata (per usare l’espressione di Magrelli) vent’anni dopo la teorizzazione di Gleize”. Mentre la corrente sotterranea di afflizione che percorre L’ultima volta in Italia di Maddalena Bergamin, residente ormai da diversi anni a Parigi, può essere sì ascritta “al più lancinante sentimento amoroso declinato al femminile per il femminile”, ma in chiave talmente estenuata da renderlo sorprendente. Uno sguardo lucido in occhi che bruciano.

Pronomi personali e L’ultima volta in Italia verranno presentati al Salone del Libro di Torino, stand PordenoneLegge, Padiglione 1,venerdì 19 h 16.30.  Saranno in libreria dal 5 giugno.

 

 

 

Tredicesimo quaderno italiano

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Agostino Cornali

 

È il respiro del drago Tarantasio                                                                                                 Chieve

che fa tremare le persiane

nelle notti di febbraio

“EXPLORE. INVESTIGATIONS LITTÉRAIRES”

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Rencontre signature

LIBRERIA STENDHAL
Librairie française de Rome
Piazza San Luigi dei Francesi 23

Sabato 13 maggio
Samedi 13 mai

18h30

FLORENT COSTE
presenta / présente

«EXPLORE. INVESTIGATIONS LITTÉRAIRES»
Questions Théoriques, 2017

Gli Apocalittici e Integrati di Umberto Eco nell’epoca della democrazia rappresentata

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di Anatole Pierre Fuksas

La concatenazione di accadimenti, per molti versi intricati e casuali, che ha condotto alla vittoria di Macron su Le Pen alle Presidenziali francesi, determina nei fatti la transizione ad una nuova dimensione della politica. Parrebbe infatti compiuto il processo, suggerito da molta elaborazione post-moderna, che conduce alla fine del quadro politico marcato dalla distinzione tra una destra di matrice borghese e una sinistra di matrice proletaria, variamente evolute in termini sociali, economici e culturali attraverso i grandi sconvolgimenti prodottisi dalla caduta del Muro di Berlino fino ad oggi. Al suo posto sembrerebbe emergere una nuova tendenza di conflitto, ormai strutturata al punto da divenire visibile, al centro della quale si situa la contrapposizione tra il fronte degli Integrati e quello degli Apocalittici, secondo la felice formulazione di Umberto Eco, che dà il titolo ad una sua raccolta di articoli brevi e al volume del 1964 che essa conclude.

Questa coppia di concetti contrapposti ripensa nei termini di un cambiamento sostanziale di prospettiva il modo in cui la politica riscrive la realtà che si dispiega attorno a noi, ormai irriducibile alle formule di rito sulla sinistra che avrebbe perso la sua funzione originaria, sulla destra cedevole rispetto alle tentazioni populiste, sui movimenti dell’antipolitica contrapposti alla politica tradizionale e via dicendo. Vari elementi emersi dalla stratificazione del voto presidenziale francese consentono di sostanziare questa chiave di lettura in termini socio-economici piuttosto stringenti. Alcuni dei grafici proposti dall’imprescindibile articolo del Financial Times del 9 di maggio delineano la componente sostanziale del quadro, che certamente consiste nella divisione per educazione, censo e distribuzione geografica.

Come era prevedibile, l’apocalittico è più facilmente identificabile tra gli ignoranti a basso reddito, o comunque tra quelle figure impoverite dalla crisi, mentre l’integrato è con maggiore facilità il borghese più colto con qualcosina da proteggere, che sia la casa di proprietà o un lavoro di soddisfazione. L’apocalittico è concentrato nelle aree più in difficoltà, non trova cittadinanza nella dimensione metropolitana cosmopolita e quasi sparisce nel 10% delle comunità che denotano il maggior livello di educazione. L’integrato rappresenta solo la metà della popolazione nelle aree a minor tasso di educazione, come anche di quelle abitate dalla classe operaia, mentre è assolutamente egemonico nella grande capitale mondiale e in tutte le zone dove i livelli culturali sono più alti.

Come suggerisce Alessandro Lanni, «da una parte c’è un blocco sociale perdente e chiuso e una politica che non piace altrove, mentre dall’altra c’è un voto diffuso che attraversa varie fasce della società senza conquistarne nessuna, ma posizionandosi bene in tutte». È anche probabile che da questo punto di vista il quadro possa rimanere piuttosto mobile nel senso di una acuita tendenza alla polarizzazione, qualora la politica cavalchi questa contrapposizione fin dalle prossime legislative francesi, invece di lavorare per smussarla. Molto conterà in questo senso quanto forte sarà la reazione al “Modello Macron”, che appare estremamente popolare ad esempio in Italia, anche a seguito della grande affermazione di Renzi alle Primarie del PD.

La netta sconfitta di Andrea Orlando in Italia, combinata col fatto che ad oggi il socialismo europeo in senso tecnico vale in Francia l’8%, sembrerebbe dar ragione ad Emmanuel Valls (al quale rivolgiamo, per inciso, un sentito #adieuone, a mai più rivederci), quando dichiara apertamente che questa reazione non ci sarà, poiché secondo lui quella cosa che ancora proviamo a chiamare socialismo europeo non esiste più nei fatti. Si potrebbe a questo riguardo osservare che mentre un ex premier, cioè una roba tipo Prodi, Amato, Renzi, viene espulso dal Partito fratello Socialista Francese per aver sostenuto Macron contro il naturale candidato uscito dalle primarie, in Italia si totemizza l’operazione di En Marche, celebrandola come il modello politico da perseguire. Si potrebbe anche aggiungere che il PD è nel PSE da poco e certo si potrebbe quasi parlare di bacio della morte, che ovunque arrivi tu una cosa muore, anche perché, operando nel senso di cui sopra, contribuisci ad ucciderla.

È certo che nessuna di queste argomentazioni avrà la minima capacità di incidere su un processo in corso, quello di ristrutturazione delle categorie dalla politica, che potrebbe forse trovare ancora un argine in Germania, qualora Schulze riuscisse a spuntarla sulla Merkel, ma sarà da vedere. La contrapposizione tra “forze sane” della società, cioè gli integrati a maggior livello di istruzione e censo, e i più poveri e ignoranti sedotti dalle lusinghe del populismo, dalle fake news, dalle medicine alternative e dalle altre leggende metropolitane, in una parola gli apocalittici, è appunto l’effetto di questa transizione dalla dimensione della democrazia rappresentativa a quella della democrazia rappresentata. L’elemento sostanziale e costitutivo di questa seconda dimensione è quello che potremmo chiamare “Effetto Dumbledore”, prendendo come definizione quella che il mentore offre ad Harry Potter nella scena che lancia il finale dell’ultimo episodio della saga: «Of course it is happening inside your head, Harry, but why on earth should that mean that it is not real?»

Cosa sia questo “Effetto Dumbledore” lo ha spiegato con grande onestà Renzi nel suo discorso di incoronazione, dicendo apertamente che certi problemi sono reali anche se soltanto percepiti come tali e quindi in una qualche maniera vanno affrontati. Per parte nostra si è molto argomentato insieme a Lorenzo Declich a proposito delle tante storie uscite attorno al complottismo negli ultimi anni (ad esempio in conclusione di uno degli interventi su Nazione Indiana). Abbiamo provato a far presente che la realtà nella quale abitiamo non è soltanto il prodotto di dati fattuali e trascende la cronaca, dialoga con la verità assoluta, ma anche con un sacco di altre cose, che sono vere solo in senso molto relativo (perché ad esempio qualcuno le pensa) o non lo sono proprio.

A nostro modo di vedere era ed è altamente improbabile che il populismo possa essere sconfitto senza bonificare le fonti dell’angoscia, magari immaginando di riassorbirlo con operazioni demagogiche, ad esempio armando il cittadino angosciato o abolendo i gradi di giudizio per i migranti. In sostanza, non è inseguendo Chi l’ha visto? o direttamente le fiction di Raiuno che si farà meglio di quando invece si costruiva un’agenda sulla base del pastone del Tg1, per citare di nuovo il Renzi del discorso da ari-neo-segretario. Anzi, in questo modo si favorirà lo spostamento definitivo della conflittualità politica nel campo della realtà percepita, secondo modalità che con tutta evidenza Umberto Eco spiegava già nel remoto 1964 meglio di come mai potranno farlo Baricco o Recalcati.

Riletto oggi, Apocalittici e integrati sconcerta per la straordinaria attualità dell’impianto e delle singole argomentazioni che lo sostanziano. Eco tematizza nei vari capitoli del saggio sull’affermazione della cultura di massa i salti di livello comunicativo, la predominanza del cattivo gusto, la mescolanza di cultura mischiata al gossip, l’incoscienza di classe, il pensiero per slogan, l’omologazione e la ricerca del gusto medio, lo schiacciamento sul presente e l’impoverimento delle conoscenze storiche, una conseguente visione passiva e acritica del mondo, l’emergere di un marketing politico e culturale centrati su una ἔνδοξα caratterizzata da paternalismo e conformismo, il divismo delle élites senza potere, arrivando quasi a prefigurare l’automarketing “qualcunista”, come l’abbiamo definito insieme a Lorenzo Declich in varie circostanze (ad esempio in quest’altro articolo su Nazione Indiana). Se in questo libro di Eco ci sono moltissimi degli aspetti che caratterizzano il mondo odierno, è forse perché il mondo di oggi è stato effettivamente costruito a partire da quel libro.

Non sorprende che una così densa descrizione del mondo che ci circonda, formulata con più di cinquant’anni di anticipo, offra nel titolo una efficacissima articolazione categoriale, che delinea il conflitto tra diversi posizionamenti rispetto ad una medesima rappresentazione di realtà percepita, invece che su quello della rappresentanza di istanze collegate alla vita vissuta. Una tradizionale interpretazione nella chiave “destra contro sinistra” porta infatti a pensare agli attori di questo scontro come tutti simili tra loro, se non proprio uguali. Per dire, cosa differenzia la propaganda xenofoba di Salvini sugli immigrati che vengono a stuprare le nostre donne dalle argomentazioni di Serracchiani sulla maggiore gravità dello stupro perpetrato da un profogo iracheno ai danni di una giovane italiana rispetto a quello di un italianissimo marito sulla moglie di origine nigeriana?

Se ci limitiamo ad una lettura “destra contro sinistra” si tratta di due posizioni ugualmente di destra. Ma Serracchiani e Salvini non sono la stessa cosa anche se dicono le stesse cose. Parlano nella stessa maniera della stessa realtà percepita sulla base di paure ancestrali, collegando quella dello stupro e a quella dell’immigrazione, ma si situano, in realtà, ai due poli opposti dello scontro per l’appropriazione di quella realtà, data per intesa indipendentemente dalla verità dei fatti. Da una parte, Serracchiani, chiede che ci sia una normativa che regoli questi casi in maniera diversa da quella che regolamenta la vita dei cittadini italiani, e la legge Minniti in parte già lo fa, dall’altra Salvini chiede di chiudere le frontiere indiscriminatamente.

È ben evidente che a chi scrive, come a tutti coloro che ancora ragionano nella dimensione di conflitto tra destra e sinistra, questa sottile differenza appaia irrilevante. Siamo abituati a vedere il mondo nei termini di uno scontro tra chi è a favore della società cosmopolita e chi è contro, tra chi è a favore dei diritti delle donne e chi è per il ripristino dei tradizionali ruoli di genere. Per questa ragione non ce la possiamo fare a capire come sia possibile che la dichiarazione di una dirigente nazionale del Partito Democratico si trovi sulla stessa linea di Casa Pound, al punto che Di Stefano le dia pubblicamente ragione, stigmatizzando l’ipocrisia dei grillini che la ingiuriano, quando fino a dieci minuti prima avevano incitato al segregazionismo su altri canali.

Ma questa è la realtà e, per capire la politica che da adesso in poi sempre più ci circonderà, si tratta di indossare nuovi occhiali, quelli della paura in base alla quale il marketing politico confeziona oggi la realtà percepita. Appare forse più limpido il caso delle grandi pulizie che Renzi ha ordinato al PD romano, parlando non già in senso figurato di epurazioni tra i capibastone, quanto piuttosto proprio di andare a combattere il populismo in strada con la ramazza. Questa opzione politica, perché come tale ci si richiede di intenderla, se non altro perché è un ordine che il Segretario di un Partito dà ai suoi militanti, è un’offensiva contro il complottismo di Raggi, secondo la quale il PD dissemina Roma di frigoriferi (come si raccontava in quest’altro articolo di Nazione Indiana).

Apocalittici contro integrati, pulito pulito, no pun intended! Ma certo il terreno di conflitto è tale che ad un occhio non addestrato le posizioni che si contrappongono non saranno riconoscibili come davvero antagoniste l’una all’altra nella più parte dei casi. Fortunatamente il terreno di scontro sul quale questo conflitto tra Apocalittici e Integrati si svolge è esplorabile comodamente da casa, rileggendo i cinque articoli che compongono la sezione conclusiva così intitolata dell’omonimo volume di Eco, ognuno dei quali pone questioni nodali, che aiutano ad orientarsi in questa nuova dimensione del politico.

Il primo, dedicato a I Nichilisti Fiammeggianti, elabora uno scenario operativo per l’intellettuale nell’epoca delle comunicazioni di massa sostanzialmente modellato su suggestioni nietzschiane. Di particolare rilievo è la sottolineatura ancora attualissima del fatto che «lo sviluppo tecnologico ha fatto sì che se dialogo e cultura potranno ancora sopravvivere (e c’è chi ne dubita) tutto questo non avverrà che sullo sfondo di una comunicazione intensiva di dati, di notizie, di aggiornamenti circa ciò che sta accadendo». L’elemento della sovrabbondanza di informazione determina un effetto che non faticheremo a riconoscere come attualissimo anch’esso, considerato che «messo in rapporto con una infinità di situazioni delle quali è costretto a prendere atto, se vuole muoversi e progettare, e delle quali nessuna gli appartiene, nessuna gli si presenta in prospettiva privilegiata, l’uomo contemporaneo vive in una permanente insicurezza».

La distanza dal contenuto dell’informazione, della quale bisogna appunto prendere atto, ingenera una insicurezza, a seguito della quale, potremo aggiungere col senno di poi, si pone il problema di posizionarsi pro o contro, in maniera entusiastica o deprecatoria, a fronte di una cosa di cui in realtà non frega niente. Nell’articolo successivo, intitolato Da Pathmos a Salamanca, Eco elabora un nuovo capitolo della bibliografia fittizia di Milo Temesvar ( a proposito del quale si veda ad esempio Ecophilia di Oliverio Diliberto su Insula Europea), autore albanese mai nato del mai scritto saggio «originale, irritante e provocatorio, dal titolo The Pathmos Sellers», mai uscito a Washington (DC) per i tipi della mai esistita SevenTypes Press nel 1964. Il volume concepito dall’immaginazione febbrile di Umberto Eco sarebbe un’inchiesta sociologica che «propone delle succulente ipotesi interpretative, senza offrire alcun elemento di verifica sul campo, ma in tale senso Temesvar si dimostra coerente con le idee che a suo tempo aveva esposte in una memoria all’Accademia Sovietica delle Scienze, dal titolo La verifica come falsificazione dell’ipotesi».

Il riferimento a posteriori, con cinquant’anni di ritardo diciamo, al tema attualissimo delle fake news, implicato fin dalle premesse, cioè dall’invenzione dello studio che falsifica  l’ipotesi grazie alla sua verifica, configura un altro nodale terreno di conflitto tra Apocalittici e Integrati. Il riferimento a Borges che apre l’articolo incornicia senza meno le premesse letterarie del tema in maniera ancora più che valida e l’intero ragionamento sul riciclo della forza lavoro, degli esuberi, degli esodati, che rappresenta l’argomento principale del ragionamento, denota anch’esso una stringente pertinenza rispetto alle attuali dinamiche del conflitto. La conclusione relativa al riciclo dell’intellettuale, che diventato obsoleto trova una nuova missione, ritrae mirabilmente aspetti salienti della propagandistica corrente, quando Eco nota che «si hanno allora i tecnici dell’Apocalisse, specializzati nel dimostrare che il nuovo orizzonte di problemi è radicalmente equivoco, antiumano, e che occorre rifarsi al culto dei valori di un tempo per garantire all’umanità la sopravvivenza».

L’articolo Sulla Fantascienza, il terzo, parla appunto del racconto o romanzo di fantascienza come di «letteratura allegorica a sfondo educativo», dunque dei suoi prodotti come degli «unici manuali di devozione» che la civiltà industriale concede all’occhio distratto di chi si addormenta sul treno o sul bus tornando dal lavoro. L’enfasi sul futuro, nel quale la propagandistica corrente proietta scenari apocalittici o edificanti a seconda del caso, prende certamente la forma di un discorso ideologico, capace in un modo o nell’altro di tamponare l’ansia prodotta dalla sovrabbondanza di informazione. L’argomento proietta direttamente al quarto degli articoli in questione, dedicato alla Strategia del Desiderio, ovvero al volume omonimo di Ernest Dichter, fondatore dell’Institute for Motivational Research, dunque alle tecniche di persuasione già enucleate all’epoca da Vance Packard nel celebre libro sui Persuasori occulti.

L’argomento forse più stringente rispetto alla riconfigurazione del conflitto destra vs sinistra in quello che vede contrapposto un fronte di Apocalittici ad uno degli Integrati è quello che in questo caso prova a sganciare il rapporto tra individuo e autorità, dunque il concetto di ordine e quello di sicurezza, da una dimensione psicologica, proiettandolo in una di carattere storico. Eco osserva che «un atteggiamento verso le autorità può avere radici storiche profonde (instabilità del potere, dittature, malgoverno, eccetera) e che quindi non può essere mutato con una tecnica psicologica, ma solo da una evoluzione delle strutture politiche e sociali». È ben evidente che un approccio alla questione incentrato sull’emergenza percepita tende invece ad enfatizzare il piano della minaccia secondo quello che abbiamo chiamato «Effetto Dumbledore», abolendo ogni dimensione storica, dunque ogni piano conoscitivo utile a bonificare le ragioni dell’ansia che favorisce la polarizzazione.

Eco osserva che la strategia del desiderio non può essere una tecnica neutrale usata per la felicità di tutti, poiché «nella misura in cui i mezzi di produzione non mi appartengono, ed io ne sono o l’oggetto o lo strumento di persuasione – e nella misura in cui non sottopongo questo rapporto a una critica costante – sarà sempre il potere a persuadere me, non io a persuadere il potere». Quindi, «poiché le pagine di Dichter non sono state sfiorate da questo sospetto, il suo libro diventa una sorta di utopia negativa, la descrizione di un agghiacciante paesaggio industriale abitato da automi felici e irresponsabili». Col senno di poi potremmo sopraggiungere che la demagogia corrente ha determinato un paesaggio post-industriale abitato da  automi ugualmente irresponsabili, ma rabbiosi invece che felici, parlando, ad esempio dei social network, popolati da troll agiti da una medesima strategia del desiderio, apocalittici o integrati che siano.

Potremmo spingerci oltre col parallelo introducendo l’ultimo degli articoli della sezione specificamente intitolata Apocalittici e integrati del libro omonimo, quello dedicato a Il nostro mostro quotidiano. Disaminando il ruolo e il significato profondo della letteratura e del cinema horror nella società delle comunicazioni di massa, Eco fa riferimento allo studio di Siegfrid Krakauer del corpo sociale tedesco prima dell’arrivo di Hitler «e come questo stato d’animo trovi la sua espressione più chiara e inquietante nel film espressionista […] dal Dottor Caligari di Wiene, al Golem di Wegener, Dottor Mabuse di Lang, Nosferatu, il vampiro di Murnau». Si tratta di un racconto della crisi, che sviluppa «un tema ossessivo nel quale si riflette tutta la sindrome nevrotica della società germanica che vede il crollo dell’Impero, la sconfitta bellica, il fallimento dei moti proletari, la crisi di una società borghese che troverà poi in Grosz il suo accusatore spietato, in Brecht il suo anti-vate».

La reazione «all’insorgere di queste inquietudini, di queste angosce, di questi fantasmi» produce da un lato «un conato di distruzione», che potremo senza meno situare nel campo degli Apocalittici, dall’altro ingenera «una sorta di autoritratto a sfondo sadomasochistico», che rappresenta il suo perfetto controcanto sul versante degli Integrati. Istinto di distruzione e rabbia furiosa da una parte, sadomasochismo e atteggiamenti passivo-aggressivi dall’altra: l’unica sintesi possibile, stando alla conclusione di Eco, è tanto sinistra, quanto stringente, di attualità, viene da dire, spaventosa, tecnicamente mostruosa. Anticiparla sarebbe irriverente e banalizzante nei confronti di una descrizione così lucidamente anticipatoria di quello che viviamo, della nostra società e del modo in cui la politica la sta interpretando e per questa ragione la lasciamo all’apologo col quale Eco conclude il suo libro (per i più pigri comincia con D, finisce per A e ha denti molto aguzzi):

in un numero di “Mad” (una rivista goliardica, dell’anticonformismo di maniera, ma che talvolta coglie nel segno) appare una storiella in otto vignette, senza parole: un tipo di uomo medio legge allarmato il giornale che parla di guerra atomica e vede scene inquietanti alla televisione. Corre in giardino e si mette a scavare, raduna mattoni, lavora di calce e cazzuola; costruisce un rifugio, lo copre di terra (ne fuoriesce solo il filtro antiradiazioni per l’aria), lo chiude, lo blinda, gli attacca un cartello “proibito entrare” (ricordate le polemiche sul diritto morale di sparare al vicino di casa se tenta di occupare il vostro shelter?) ansimando dà gli ultimi tocchi mentre cala la notte. Passa di lì un reporter con la macchina fotografica, vede la scena, scatta una foto col flash. L’uomo si volta di colpo, viene investito da un bagliore accecante (i manuali antiatomici danno istruzioni sul come comportarsi se si scorge una luce abbagliante seguita da uno scoppio): tenta di urlare e stramazza. La storia termina mentre un medico ne copre il corpo con un telone e il reporter guarda perplesso chiedendosi come mai. Finisce così l’apologo di una sicurezza inutile. Ma è curioso il volto del cadavere, coi tratti esasperati dal disegno umoristico: pare succhiato da dentro. Dracula quando vede la luce del sole.

Attraverso le vite degli altri – una lettura di La scomparsa di me

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di Vanni Santoni

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Ogni volta che incontro Gianluigi Ricuperati scopro un tassello aggiuntivo della nostra formazione comune, fondamento della sintonia che abbiamo rispetto all’interpretazione della realtà: siano suggestioni antiche, come la comune passione d’infanzia per i giochi di ruolo, o di lungo corso, come l’essere convinti del fatto che uno scrittore deve oggi essere necessariamente entità mediatrice multipla, transmediale, crossdisciplinare (e se vogliamo schizoide), o ancora recenti, come la certezza condivisa che il pallino del romanzo si sia spostato finalmente e di nuovo in Europa per opera di autori come Antoine Volodine, Mircea Cărtărescu e László Krasznahorkai – nonché, in modo e per ragioni diverse, Tom McCarthy. E proprio Tom McCarthy, con romanzi come Reminder (in Italia uscito a suo tempo per ISBN col titolo Déjà vu) o Satin island (giunto in libreria l’anno scorso per Bompiani) è il primo autore che mi è venuto in mente leggendo l’ultimo romanzo di Gianluigi, La scomparsa di me, da poco uscito (e quasi subito ristampato) per Feltrinelli. Sarebbe facile pensare che Ricuperati ricordi McCarthy per il fatto di avere, come il collega inglese, più che un piede nel mondo dell’arte contemporanea, ma i punti in comune sono più profondi. Nel lavoro di entrambi gli scrittori c’è un grande interesse per la questione dell’identità e della coscienza, un rapporto disinvolto con la metafisica, la consapevolezza del fatto che le arti, oggi, non possano prescindere dalle scienze, e la capacità di tenere insieme mainstream e sperimentazione con efficacia. Tutte caratteristiche che vengono fuori con forza nella Scomparsa di me, il quale tuttavia fa pensare – non per l’approccio, del tutto diverso, ma per l’ambientazione – anche a un libro di recente uscita e di enorme pregio, Lincoln in the Bardo, primo romanzo del celebrato autore di racconti americano George Saunders (e che peraltro, in un bel caso di sincronicità, uscirà in Italia proprio per Feltrinelli, dopo che Saunders è stato per anni tra gli autori di punta di minimum fax, editore con cui ha avuto luogo il debutto proprio di Ricuperati). Entrambi i romanzi, infatti, si svolgono, se è ammesso considerarlo un luogo (ma non avrà difficoltà a farlo chi ha confidenza con la psichedelia – e c’è molto di psichedelico in questo romanzo in cui l’anima del protagonista diventa “gas”, “riscaldamento”, “onde radio”, “codici binari dei conti correnti” per poi incarnarsi in molte diverse persone), nel Bardo Thodol, quello che per la tradizione buddista tibetana è lo “spazio intermedio” situato tra la morte e la ruota delle reincarnazioni – o l’accesso a dimensioni più elevate di coscienza.

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Se Saunders sceglie il Bardo del sedicesimo presidente degli Stati Uniti Abramo Lincoln per tracciare quello che è anche un inusuale romanzo storico, Ricuperati preferisce occuparsi del “momento di transizione” di un personaggio dei nostri tempi, un uomo di successo e abituato a far scorrere il denaro, ma non uno squalo: piuttosto qualcuno che, non senza equilibrismi – si sposta del resto in modo, e sarà proprio la moto a porre fine alla sua vita – è riuscito a bilanciare il lavoro, il denaro e il successo personale con gli affetti, salvo poi scoprire che nel momento in cui l’anima si stacca dal corpo, solo gli affetti contano. Gli affetti, e ciò che si lascia loro. Se il protagonista della Scomparsa di me già in vita era ossessionato dalla necessità di lasciare un’eredità – una delle sue fissazioni era quella di acquistare polizze assicurative a tutti coloro che incrociavano il suo percorso –, nel momento in cui realizza di essere morto e di trovarsi in quello spazio istantaneo o eterno del post-mortem, appare animato anzitutto da un’ansia, più che di redenzione, di certezza della redenzione. Attraverso gli occhi di chi lo ha conosciuto – il dispositivo del Bardo ricuperatiano è un continuo trasferimento di coscienza nei corpi e nelle menti di tutte le persone conosciute in vita – il protagonista della Scomparsa di me cerca, sì e anzitutto, di rivedere almeno una volta l’amata figlia Ada (il libro si apre con un ricordo minuscolo eppure straziante, uno spicciolissimo squarcio di vita – uno zainetto che non si chiude bene – che però contiene tutto, dato che, per dirla con Pavese, non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi), ma dall’altro lato ripercorre, valuta e interpreta attraverso gli sguardi altrui quella che è stata la sua vita e la sua identità, ed elabora così uno specifico e nuovo senso di colpa: quello di non esserci più per le persone che ha amato. Se un accolito di Leary o McKenna potrebbe spiegare tutto col rilascio di DMT dalla ghiandola pineale al momento della morte (e da lì giungere al “we are one”, a una coscienza collettiva che si rivela al decadere dei veli di maya) mentre un materialista potrebbe interpretare il percorso visionario del protagonista della Scomparsa di me come una mera forma alternativa della vulgata secondo cui quando muori ti passa tutta la vita davanti, e c’è spazio anche per una lettura cattolica, ancorché non ortodossa – a tratti, come quando, a dispetto del desiderio di rivederla, il nostro continua a reincarnarsi in persone lontane dalla figlia, o quando addirittura “entra” nel nuovo fidanzato della moglie, per il quale si intuisce che la stima non sia eccessiva, l’impressione è che quello che sta esperendo sia una sorta di purgatorio postmoderno – la domanda rimane la stessa: come si fa a vivere e amare quando sappiamo che ogni cosa è destinata a finire?

La ricerca del legname

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quella che segue è l’introduzione di Marino Magliani (intitolata “Il topografico”) alla graphic novel che ha realizzato assieme all’illustratore Marco D’Aponte, pubblicata recentemente da Tunué; seguono, come assaggio, quattro tavole del libro

ricerca_legname_cover_provv_REV2A volte gli oggetti e i personaggi dei libri che traduciamo finiscono per popolare i nostri stessi racconti. Nel 2010 traducevo Bolaño salvaje, la raccolta di saggi sullo scrittore cileno, un lavoro che durava da mesi. Erano quasi tutti scritti di autori che avevano frequentato Bolaño e in qualche caso erano stati suoi amici, come Enrique Vila-Matas e Juan Villoro. A suo tempo mi ero procurato le opere di Bolaño, le parecchie che ancora non conoscevo, come le raccolte dei racconti. E questa fu una cosa sensata, perché solo dopo aver letto Il gaucho insostenibile riuscii a tradurre con una certa soddisfazione Il rifacitore: il gaucho insostenibile e l’ingresso di Bolaño nella tradizione argentina, di Gustavo Faverón Patriau.
Della raccolta gauchesca faceva parte Il poliziotto dei topi, che narra di un roditore detective, nipote di Josephine la cantante. Si tratta dunque di un racconto animale, e caso volle che proprio in quel periodo ricevessi la proposta di scrivere di animali. Accettai, ci pensai un po’ e alla fine mi ritrovai con la scaletta del viaggio di un cane randagio sul molo. Avevo già in testa alcune buone immagini, ma quando ne parlai in casa editrice, Giorgio Vasta, il curatore, disse che la collana era già un mezzo canile. Poi fu la volta di un asino, vecchio e amico come quello che avevamo in campagna, ma stavolta, non ricordo per quale motivo, sull’asino frenai io. Per ultimo spuntò l’indagine di un topo. Forse perché continuavo a pensare a quel topo poliziotto e al fascino dei suoi inquietanti livelli, o semplicemente perché, come dicevo, le traduzioni finiscono per popolare i nostri racconti. Durante la sua carriera, Pepe El Tira, così si chiama il topo di Bolaño, aveva avuto la brillante intuizione di ritenere che il colpevole di certi delitti fosse un serial killer topo, quando secondo le credenze, da che mondo era mondo, nessun topo di laggiù aveva mai ucciso un suo simile. Io provai a immaginare un topo molto meno brillante, una specie di perdedor, del genere malinconico, ma diversamente malinconico da Pepe El Tira, in pratica un detective al quale si rivolgono solo i reietti, gli squattrinati.
Fernando, così ho chiamato il mio topo, doveva essere anche lui un emarginato, e vivere nei ricordi di una gioventù spensierata e trascorsa all’ombra del coetaneo Pepe, che era già popolare fin da allora. Fernando accetta l’incarico che gli offre una madre e si mette sulle tracce del figlio scomparso. Costui si chiama Rudy, di professione fa il wood runner, cercatore di legname, è malato, sta mutando, e probabilmente non fa più parte da tempo della comunità topesca sotterranea, ma è emerso attraverso gli sfiatatoi.
Marco D’Aponte, l’amico disegnatore col quale avevo già collaborato in diverse occasioni, lesse il racconto, gli piacque e cominciò a ragionarci come fanno i disegnatori, con la matita. La storia disegnata si sviluppava dapprima lungo i livelli interni, poi fuoriusciva, e fu a quel punto che mi accorsi di come il paesaggio esterno, confrontato a quello del mondo superiore narrato nel racconto originale, assumesse inevitabilmente connotati ben più precisi. I luoghi possedevano una loro bellezza, senza mai peraltro, merito di Marco, cadere nel tranello della cartolina. C’erano Oneglia, coi suoi portici e la sua piazza che la fa assomigliare a una minuscola Torino, e il suo porto commerciale con le gru altissime e le case così come si vedono nell’incipit del primo Bourne Identity. E c’era Porto Maurizio, con le sue torri, le logge e il santuario in cima al Monte Calvario, e poi si raggiungeva il marsupio dell’entroterra, Prelà e Dolcedo, scollinando ogni tanto in direzione di San Lorenzo e Taggia, fino a Sanremo.
I topi provenienti dai livelli inferiori non sono abituati geneticamente alla luce, Fernando si muove solo di notte, e a volte, all’apparenza senza spiegazione, è come se fosse lui che sta scappando da qualcosa o da qualcuno. Oppure passa sul bordo di una terrazza di campagna e si incanta davanti a un paesaggio rurale o un ponte antico. Ma questo genere di comportamenti dura relativamente poco, e poi, prima dell’alba, da solo o accompagnato da una guida di nome Oli che ha incontrato la notte in cui è uscito dallo sfiatatoio, Fernando si rimette sulle tracce del topo malato che la madre sta cercando.
Ecco cosa può provocare la traduzione di una raccolta di saggi su Bolaño. Dev’essere uno di quegli effetti minerali legati alla sedimentologia. Un serpentello, durante l’infanzia del pianeta, passava sulla sabbia e a noi è giunta la sua controimpronta sulla roccia di arenaria. Il riempimento di una cavità, fossilizzata dalla letteratura. Il rilievo è semplicemente ciò che scopriremo seguendo le rincorse di un topo malinconico ligio al proprio dovere.

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Una lettura di “Albedo”

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di Chiara Donnini

 

Su Albedo di Sergio Nelli, Castelvecchi 2017.

«Ma non abbiamo ancora risolto l’incantesimo di questa bianchezza né trovato perché abbia un così potente influsso sull’anima; più strano e molto più portentoso, dato che, come abbiamo veduto, essa è il simbolo più significativo di cose spirituali, il velo stesso, anzi, della Divinità Cristiana, e pure è insieme la causa intensificante nelle cose che più atterriscono l’uomo!…». Ismaele si interroga sulla sua ossessione per il mostro bianco, Moby Dick, che intravede e insegue tra i flutti del vasto mare. La balena, la sua bianchezza, è al tempo stesso il sublime e l’orrido che l’abisso dell’inconoscibile e dell’irrazionale ci permette di scorgere attraverso il suo incessante movimento.

I racconti del pastore di Montecuccoli

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di Gregorio H. Meier

I racconti del pastore di Montecuccoli

La storia di un becco che non era buono
per la monta, dei pastori sardi
che è meglio non fidarsi (bevono, quelli
già dalle quattro del mattino), oppure
degli anni, quindici, a girarsi i pollici
in galera (una coltellata per un nonnulla, poi
la latitanza e il gran finale sulla Porrettana
– lo scontro a fuoco con la polizia,
il fumo dei proiettili che svapora su
dalla midolla dei faggi; anche lui beveva,
ai tempi). Ma soprattutto Giovanni –
che tiene un gregge e qualche bestia da macello
dalle parti di Montecuccoli – racconta spesso
dei suoi cani, specie di quelli che il mestiere ce l’hanno
nel sangue e allora meritano nomi: Rambo,
Rocky, Brigantino. A sentirlo

Quel satanasso – quanto mondo,
quanta vita! Certo la poesia
dev’essere balenata fuori
le prime volte dalle ciarle dei pastori.

 

Filius philosophorum

C’è un fanciullo scolpito nel fiume
nell’acqua che mi guarda; sembra quasi, ma non sono
io. Ha i boccoli, ali di colomba
una clessidra: Sono il figlio che muore e risorge, dice
giorno e notte nel ventre che invecchia
di mia madre – l’occhio che si osserva
mentre sbatto le nocche sulla pietra, le ginocchia
sporche d’erba al risciacquo. Sono il bosco, continua

L’autunno che sfilaccia vortici dai rami
sui tetti, questo spogliarsi di spettri rosso-rame
il rimorso che mi divora la faccia – fame.

 

La sete nascosta

Giulia, anche oggi la vita mi ripete

Io sono un pettirosso, qualche nota
che scapriccia dentro una siepe – la sete
di bacche nascosta nel bosco

Poi addosso è tutta una fame che ramifica
il sangue in una tagliola arrugginita, la vita
– denti: i polsi

E gli spettri inchiodati
ogni sera su uno specchio diverso,
al pub

 

Appunto su uno scontrino

Anche oggi mi punge
Scapriccia tra le dita
Come una castagna
Acerba nel suo riccio la vita.

La truffa come una delle belle arti

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truffadi Edoardo Zambelli

Gianluca Barbera, La truffa come una delle belle arti, Compagnia editoriale Aliberti, 2016, 217 pagine

L’intero corso della storia non è che un susseguirsi di scambi di posto. Dal loggione alla platea, dalle gallerie al palco reale. Tutto si riduce a una questione di sedie. La sua cifra stilistica vira sulla commedia piuttosto che sulla tragedia, non crede?

In una stanza d’ospedale a Rio de Janeiro, Carl Lopiccolo racconta la propria storia. Ad ascoltarlo e registrare quello che ha da dire c’è il signor Ricci, incaricato di scrivere un libro su di lui. Ma – ed è lo stesso a Carl a precisarlo – la sua storia non può essere raccontata senza raccontare quella della sua famiglia. Lui, infatti, è solo l’ultimo (forse) di una stirpe di truffatori che si è mossa all’ombra della Storia dalla metà dell’ottocento fino ai nostri giorni.

E così il libro si apre nel 1842, con la storia di Pepè Lopiccolo, bisnonno di Carl, e con il racconto della sua impresa più ambiziosa, quella che prima tra tutte gli ha dato notorietà nazionale e internazionale: la sirena delle Galapagos. Pepè, che fino a quel momento ha gestito un baraccone di freaks, ha deciso di fare il grande salto: unendo il busto di uno scimpanzé alla parte inferiore di un tonno, ha costruito la sua nuova attrazione. Il successo arriva subito, forse ne arriva anche troppo, visto che il re Ferdinando in persona decide di organizzare un viaggio fino in Sicilia per vedere la famosa sirena. La prima parte del libro prosegue con il racconto delle imprese di Pepè – alla sirena ne seguiranno altre – che dalla Sicilia arriverà a stabilirsi nel Galles dove nascerà suo figlio, Jonathan, nonno di Carl.

Il raccontare di Barbera, soprattutto nella parte dedicata a Pepè, ha qualcosa che ricorda quello del Gabriel Garcia Marquez di Cent’anni di solitudine. La storia in fin dei conti per nulla straordinaria di un piccolo truffatore (mi riferisco a Pepè) si trasforma pian piano in leggenda. Tutto è ammantato di un alone quasi fiabesco: si parla di sirene (vere o presunte che siano), di donne cannone, di uomini-rana, di giganti di pietra ritrovati, di un re burbero e imprevedibile, di viaggi, di scienza (ah, di passaggio si racconta anche di come Pepè abbia avuto un ruolo piuttosto determinante nella formazione di un certo Antoni Gaudì e, più avanti nella storia, si avrà il piacere di leggere una lettera di Maria Maddalena che parla di Gesù).

E in tutta questa sarabanda di storie e personaggi l’autore si muove sicuro, divertendo e (almeno, apparentemente) divertendosi, innestando nella narrazione inserti dialettali a metà strada tra napoletano, romano e siciliano; creando l’illusione di un racconto “in presa diretta”, come se il lettore si trovasse anche lui a Rio de Janeiro, seduto accanto al signor Ricci, ad ascoltare la storia di Carl e dei suoi antenati.

Una cosa è certa” non esita a scrivere sul diario. “Il vero ha dei limiti naturali, il falso è senza confini”. Inutile dire a chi andasse la sua predilezione.

Non serve qui continuare a descrivere le avventure/disavventure dei Lopiccolo. Basti dire che a Pepè seguiranno Jonathan prima e Carl poi, come a proseguire la tradizione di famiglia. Una tradizione che troverà la sua formulazione teorica, diciamo così, nel capitolo intitolato Il problema del male.

Ciò che invece mi interessa mettere in luce è il carattere divagante del racconto. Il continuo perdersi e ritrovarsi è, infatti, una delle sue caratteristiche più evidenti. In questo senso è sorprendente vedere quante cose Barbera è riuscito a infilare in un libro poi non tanto lungo. Si va da eventi storici grandi e piccoli, a brevi incursioni nei saperi più disparati (bellissima la parte sulla storia del volo), a divagazioni filosofiche sulla natura del concetto di truffa. Addirittura, l’autore si prende la libertà di fare del viaggio del re Ferdinando (cui ho accennato all’inizio) un intero capitolo a parte, quasi una storia nella storia.

Mi sembra un piano perfetto” ammise Philip. “C’è però un piccolo problema…”

Quale?”

Tu consideri il tuo prossimo alla stregua di un babbeo integrale”.

Non lo è, forse?”

Già, che si poteva rispondere a cotanta sicumera?

Ho parlato di comicità, di divertimento, dando così l’impressione di parlare di un qualcosa di leggero. Ci tengo però a precisare che la bellezza del libro non si esaurisce solo nella sua altissima godibilità. Occultata sotto una narrazione di apparente leggerezza, appunto, c’è tutta una riflessione che riguarda la finzione e il suo rapporto con il nostro tempo.

Il tono del racconto andrà progressivamente perdendo la comicità iniziale per lasciare il passo a una sfumatura decisamente più amara. La storia dei Lopiccolo, intrecciandosi con la Storia, arriverà fino ai nostri giorni (i giorni drammatici della crisi finanziaria che ha messo in ginocchio mezzo mondo), e Carl si ritroverà a guardare il suo (nostro) tempo con amarezza e nostalgia. Sì, perché è vero che ormai la truffa è ovunque, ma è anche vero che è diventata solo un mezzo volgare per far soldi, per ottenere potere: insomma, non ha più arte.

Lei lo chiama male lo corresse Carl, ma per me ha un altro nome. Per quanto mi riguarda, il problema del male si riduce a questo: da una parte c’è chi vive e dall’altra chi sopravvive. Si è onesti per necessità. Se invochiamo la giustizia è solo per invidia, per spirito di vendetta. Si vuole ridurre tutto a un gioco tra guardie e ladri, quando in ballo c’è molto di più. La vera guerra è tra liberi e schiavi.

La truffa come una delle belle arti è un libro ricco, spassoso, colto. Non è un libro d’avventura, ma potrebbe esserlo. Non è una saga familiare, ma ci assomiglia. A mio avviso, semplicemente, è un gran bel romanzo.

I «Sogni» di Mari e Baruchello

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sogni

di Antonella Falco

Humboldt Books è una casa editrice milanese specializzata in narrativa di viaggio il cui nome si ispira alla poliedrica figura di Alexander von Humboldt, esploratore, botanico, geografo ma anche grande narratore delle proprie esperienze di viaggio, vissuto a cavallo fra XVIII e XIX secolo. E proprio di un viaggio, sebbene sui generis, racconta Sogni, partorito dalla penna di Michele Mari e dalla matita di Gianfranco Baruchello: un viaggio fra letteratura, arte e geografia onirica. Il volume nasce da un’idea di Giovanna Silva e Alberto Saibene, fondatori di Humboldt Books e artefici del fortunato incontro artistico tra lo scrittore milanese e il pittore livornese, ormai naturalizzato romano.

Uscito contemporaneamente anche in lingua inglese con il titolo Dreams, nella traduzione di Hugo Doyle, il libro si divide in due parti: nella prima si colloca il testo di Mari, Oniroschediasmi, che assume la forma di un diario; nella seconda, intitolata In store, trovano spazio i disegni di Gianfranco Baruchello, realizzati fra il 1972 e il 1996 e selezionati insieme a Mari durante un incontro avvenuto nella casa-fondazione di Baruchello, alla periferia di Roma, nella località Santa Cornelia: un luogo che fin dalla sua nascita «costruisce la propria azione […] attraverso l’idea che l’arte sia un linguaggio per pensare e immaginare forme diverse di esistenza e coesistenza nel mondo» (come si legge nel sito della Fondazione).

Baruchello riempie le pagine di disegni lillipuziani, pieni di didascalie e scritte di vario genere. Una mappa mentale di difficile decifrazione ma estremamente ricca di fascino. Labirintici microcosmi frutto di un intricato lavorio onirico affiorano alla luce attraverso tratti di matita netti e stilizzati, atti a tradurre in immagini una complessa narrazione dell’assurdo densa di rimandi simbolici, implicazioni culturali di varia ascendenza e derivazioni psicanalitiche. Frammenti prodotti dall’istinto e dall’invenzione.

«Il frammento – sostiene Baruchello in un’intervista rilasciata nel novembre 2016 a Carmelo Cipriani per Exibart – è una porta attraverso cui penetra l’idea, la materia, l’immagine. Attraverso questa penetrazione succede il possibile, che sta tra il reale e l’irreale. Frammentare le cose e metterle in contrasto significa capirne il senso. Questo è uno dei concetti più recenti accettati dall’arte, desunto dalla filosofia. Il frammento è un elemento poetico. Questo aspetto mi ha sempre affascinato e frammentare la realtà è quanto ho cercato di fare nel mio lavoro, non solo nel cinema ma anche in pittura».

Il testo di Mari è invece la trascrizione dei suoi sogni in un diario, sogni ricorrenti, ossessivi, ma è anche un interrogarsi sulla natura del sogno. Protagonista indiscussa e prepotente di questi sogni è la casa; «le case, le incase e concase», come scrive sottolineando il ripresentarsi sotto forme diverse di quella che potrebbe essere un’unica, e tuttavia cangiante, casa:

«In effetti ogni volta che sogno la casa le rievoco tutte (non le case: le visioni della stessa ed unica casa). Nessun sogno è uguale all’altro, però in qualche modo io so che nonostante la novità delle stanze e dei collegamenti mi trovo sempre nello stesso edificio: forse immenso, tanto da contenere sempre nuove combinazioni. Oppure le stanze sono veramente le stesse, e sono io a percepirle di volta in volta diversamente; magari nel sogno è prevista una scossa neuronale che funga da filtro cangiante, come la leggera rotazione di un caleidoscopio».

Questo protagonismo della casa nel mondo onirico di Mari non sorprende più di tanto visto che proprio la casa è da sempre uno dei topoi principali della sua narrativa e le “case Mari” – case-mondo – di Nasca e di Milano sono state immortalate (da Francesco Pernigo) nel libro fotografico, una vera e propria autobiografia per immagini, Asterusher.

A Mari, d’altra parte, interessa fermare su carta solo i sogni relativi alle sue case e edificare su di essi lambiccati ragionamenti, non lo stesso interesse rivestono i sogni d’altro argomento. E’ tipico della natura del Mari scrittore (non meno che del Mari uomo, d’altronde, in lui, dove finisce lo scrittore e dove inizia l’uomo?) sceverare un tema con minuziosità certosina, rivoltarlo, sezionarlo, radiografarlo ossessivamente. E allora ecco partire una raffica di congetture e di quesiti sull’oggetto sogno: si chiede se questi suoi appunti non siano «il prius» invece del «posterius», se i sogni della notte non vengano imbastiti sui sogni ad occhi aperti di quando scrive (più avanti osserverà che i sogni meno puri sono proprio quelli degli artisti perché creando sognano ad occhi aperti), si domanda inoltre se scriverne e «alla scrittura aggiungere qualche piccolo schizzo» o disegnarne e «nei disegni inserire qualche piccola chiosa» non consenta di avvicinarsi maggiormente «al mistero del sogno».

Inserisce una piccola digressione circa l’etimologia della parola “sogno”: “somnus” in latino, ossia “sonnesco”, “dream” in inglese e “Traum” in tedesco, che deriverebbero entrambi dal protogermanico “draugm”, ossia “inganno, illusione”, e si chiede «come evitare di connetterli al greco trauma?» E un’altra sulla provenienza dei sogni: «I sogni vengono dal passato, perché se la loro energia psichica è presente, le forme di cui si rivestono sono memoria: al più tardi del giorno precedente, ma pur sempre memoria. Secondo l’oniromanzia invece i sogni vengono dal futuro. Per i mistici vengono dal trascendente, cioè dall’alto. Per Freud vengono dall’inconscio, cioè dal basso», un chiaro surrogato, scrive l’autore, delle frecce (simbolo fallico secondo una conclamata tradizione psicanalitica) multidirezionali che disegna fin da ragazzo.

E da qui, come in un gioco di scatole cinesi, ecco scaturire un’altra digressione sul tempo, sul modo in cui convenzionalmente ce lo figuriamo e lo rappresentiamo: il tempo che scorre da sinistra a destra, il tempo che da Einstein in poi siamo abituati a definire curvo, il tempo che graficamente continua a restare lineare. È un idealista, il sognatore? «così vuole la lingua», e forse più che idealista il sognatore è un illuso, incline alla fantasticheria e munito di scarso senso pratico, «ma se il sogno è impastato con l’acqua della verità psichica, il sognatore è schiavo della realtà».

Una cosa è certa, i sogni di cui Mari racconta in questo testo sono veri e costituiscono un portato della sua vita reale: sono l’ennesima trasposizione narrativa delle sue idiosincrasie, dei suoi demoni interiori, dei suoi pensieri ossessivi, morbosamente e feticisticamente coltivati nel corso degli anni e più volte sublimati e trasfigurati in forma letteraria. Le case che Mari sogna si configurano come perturbanti, sembrano ogni volta far riemergere un elemento rimosso ma da sempre familiare: rimosso proprio perché familiare. Né è nuova la consuetudine di Mari con il suo personale mondo onirico del quale altre volte ha dato testimonianza in racconti (si pensi a Un sogno bruttissimo in Euridice aveva un cane), romanzi ( Ad esempio in Rondini sul filo o nel recentissimo Leggenda privata) e articoli, come questo apparso sul «Corriere della sera» il 9 gennaio del 2000 in occasione del centenario della pubblicazione de L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud:

«Ho sette od otto anni; i miei genitori escono dopo cena lasciandomi a casa da solo: mi salutano, mi dicono di fare il bravo e di dormire. Dopo un po’ che sono usciti, man mano che l’occhio si abitua all’oscurità, mi sembra di intravedere delle sagome grigiastre davanti all’armadio: forse sono riflessi creati dal lucore proveniente dalla finestra, o forse sono loro, che hanno fatto finta di uscire per mettermi alla prova e osservarmi. Trattenendo il respiro, immobile come un cadavere, scruto quelle sagome senza riuscire a stabilire se siano ferme o oscillino leggermente. Certo è che non le chiamo, perché se sono loro il silenzio fa parte della prova, e se non sono loro… Oppure, più grandicello, sono solo in una casa di campagna: si schiude la porta della mia camera e uno dei miei genitori, o un parente, insinua la testa nello spiraglio per darmi la buonanotte; mi sorride benevolo e per un attimo mi convince, poi penso che in quella casa non c’è nessuno oltre a me. Oppure, di nuovo piccolo, sono a letto nella stessa stanza dove in una culla dorme la mia sorellina di due anni. A un certo punto, la vedo uscire dalla culla e strisciare sul pavimento verso di me. Arrivata ai piedi del mio letto, che è molto alto, la perdo per qualche istante di vista: quando vi si arrampicherà sopra (già sento tendersi e appesantirsi la coperta) so che non avrà più la stessa faccia di prima. Tutti questi sogni, che mi hanno visitato per anni e anni, ripetono esattamente, ma con più insopportabile credibilità, le fantasie cui, da piccolo, indulgevo prima di addormentarmi».

Il sogno è da sempre uno strumento che ci concede il privilegio di indagare la nostra psiche e le emozioni che proviamo, quelle stesse emozioni che stanno alla base della nostra vita psichica consapevole. La casa, in ambito onirico, rappresenta secondo una lettura psicanalitica, noi stessi, anche quando si tratta di una casa sconosciuta, e i suoi spazi interni rinviano alla nostra vita intima e familiare, né il testo di Mari sembra lasciare dubbi a una siffatta interpretazione.

Sogni costituisce per i suoi lettori più affezionati un prezioso volume da collezione, ma lungi dall’essere catalogabile come opera minore, è invece da considerarsi come un testo che pur nella sua brevità, ha il merito di aggiungere un altro importante tassello a quel racconto di sé in forma letteraria cui Mari ci ha abituato negli anni ed è anche l’ennesimo inesausto tributo al «congegno insieme esatto ed occulto» che è la letteratura secondo la definizione – una delle tante – che Giorgio Manganelli diede ne Il rumore sottile della prosa.

Tra i quesiti che Mari si pone nel suo diario onirico ve n’è uno particolarmente interessante che lo porta a interrogarsi sul carattere attivo o passivo del sogno:

«Naturalmente quando dico percepisco intendo dire che prendo atto di qualcosa che io stesso vado creando, ma non dal nulla, non dal nulla! Qualcosa che è dentro la mia testa e dentro la mia vita, qualcosa che manipolo essendone manipolato (diciamo: qualcosa che mi manipola imponendomi di manipolarla in un certo modo): dunque qualcosa che c’è, che esiste ontologicamente prima del sogno, ma qualcosa, anche, che non affiora se non nel sogno. Possiamo allora argomentare che il sogno fa esistere ciò che è? Eviterei, se possibile, tanto m’aduggia il linguaggio dei filosofi, l’ente, il transeunte, la cosa-in-sé e la cosa-per-sé, orrore… Meglio metterla così: il sogno è passivo, o è attivo? Restituisce più o meno casualmente-meccanicamente una realtà psichica, o la crea?»

Il passo desta interesse soprattutto perché potrebbe essere applicato anche ai processi mentali che determinano la scrittura: anch’essa, infatti, a volte ci dà l’impressione di essere qualcosa che manipoliamo essendone in realtà manipolati, qualcosa che ci plasma imponendoci di plasmarla in un determinato modo. Sullo stesso argomento sembra riflettere anche J. M. Coetzee in Doppiare il capo, una raccolta di saggi e interviste su temi letterari e non solo, risalente al 1992 e pubblicata per la prima volta in Italia da Einaudi nel 2011:

«Quando scrivi – una forma qualsiasi di scrittura – ti accorgi se ti stai avvicinando alla “cosa” oppure no. Avverti una sorta di meccanismo sensorio, una specie di feedback continuo senza il quale non si potrebbe scrivere. È ingenuo pensare che la scrittura sia un semplice processo in due tempi: prima decidi cosa vuoi dire e poi lo dici. Al contrario, come tutti sanno, scrivi perché non sai cosa vuoi dire. È la scrittura a rivelarti quello che volevi dire, anzi a volte è lei che costruisce quello che vuoi o che volevi dire. Quello che rivela (o asserisce) può essere anche diverso da quanto all’inizio credevi (o immaginavi) di voler dire. È questo il senso in cui si può affermare che la scrittura ci scrive. La scrittura mostra o crea (e non sempre siamo in grado di distinguere una cosa dall’altra) quello che era il nostro desiderio un momento prima».

Sognando non sappiamo dove il sogno ci condurrà, allo stesso modo, iniziando a scrivere, spesso ignoriamo verso quale approdo la parola ci guiderà, ne diventiamo in qualche modo ostaggio, siamo agiti dalla parola come, nel sogno, dagli accadimenti onirici.

D’altra parte per uno scrittore scrivere in questa condizione di apparente passività – o di semi-passività – comporta il privilegio di scoprire la storia man mano che la si scrive, conservando lo sguardo curioso e sorpreso del lettore. Tale modo di relazionarsi con la scrittura, non nuovo in Mari, è riscontrabile anche nei suoi libri più articolati e complessi e raggiunge la sua espressione più alta in Roderick Duddle in cui l’autore ha lasciato che lo spunto di partenza si evolvesse attraverso una sorta di selezione naturale, di darwiniana lotta per la sopravvivenza, ingaggiata dai personaggi, considerati e “vissuti” come persone reali.

Certo non si deve incorrere nell’errore di pensare che questa prepotente vitalità dei personaggi surclassi totalmente l’autorità dello scrittore. Al contrario Mari è narratore visionario e al tempo stesso consapevole, capace di infischiarsene del mondo così come appare realisticamente e di scomporlo, deformarlo, ricostruirlo e inventarlo in funzione di sé e della propria, personalissima, concezione della letteratura come ossessione, come coacervo di «demoni» che si possono esorcizzare solo per via artistica, ricorrendo alla «pasta sfoglia» della forma. Ma questa è un’altra storia e, soprattutto, un altro libro (che il Saggiatore ha da poco ripubblicato in una nuova edizione accresciuta): un altro avventuroso sogno che in virtù della sua natura potrebbe non finire mai.

Waybackmachine#05 Disorientamento Andrea Bajani

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17 settembre 2007

Andrea Bajani “Disorientamento”

Considerazioni sul perdere la bussola

Sono affetto da una forma di inettitudine particolarmente socializzante: non ho il senso dell’orientamento. Non avere il senso dell’orientamento determina un disperante bisogno degli altri, un attaccamento istintivamente morboso nei confronti del prossimo. Soltanto gli altri, quando ci si smarrisce, sono in grado di tirarti fuori dall’impaccio, di fornirti un qualche elemento di concretezza sulla tua posizione nel mondo. Una persona che si perde la si riconosce immediatamente, camminando per strada. Sta ferma in un punto e si volta in tutte le direzioni, passando in rassegna i punti cardinali con un’ accentuata vacuità dello sguardo. Ogni direzione, si legge negli occhi dello smarrito, è ugualmente priva di senso, ma allo stesso tempo ogni direzione indica potenzialmente una via d’uscita, la fine di un incubo. Per una persona smarrita gli altri esseri umani diventano improvvisamente angeli custodi, mentre viceversa tutt’intorno lo spazio si trasforma in una intricatissima e scura foresta di simboli. Chi si smarrisce guarda lo spazio che lo circonda come se quello stesso spazio portasse marchiato su di sé un qualche messaggio. Si guardano i muri come se sui muri ci fosse scritto qualcosa, si guardano i semafori come fossero segnali segreti, le finestre dei palazzi come contenessero messaggi cifrati. Tutto diventa possibile, nel momento in cui lo spazio diventa un mosaico di simboli. Soprattutto, alla fine di ogni frustrante tentativo di decrittazione, lo spazio diventa il peggiore dei nemici, la causa di tutti i mali che rendono l’uomo così poco felice di essere al mondo. È così che, guardando con accentuata vacuità in ogni direzione, si comincia a maledire il giorno in cui si è usciti di casa, in cui si è deciso di venire allo scoperto in un mondo così mostruosamente e inspiegabilmente complesso.

Ma è proprio da quella sensazione di terrore complessivo che chi, come me, non è dotato di senso dell’orientamento comincia a desiderare con foga un contatto qualsiasi con il prossimo suo. Sono quelli i casi in cui, fallito miseramente il tentativo di dare un significato ai luoghi, si prende a puntare con supplichevole determinazione chiunque si sposti nello spazio con una disonvoltura rassicurante. Individuato l’angelo custode, di norma gli si cerca gli occhi con gli occhi e gli si indirizza in faccia un’espressione da piccola fiammiferaia a cui abbiano appena sottratto gli ultimi sette fiammiferi. Il prossimo nostro, bisogna dirlo, non sempre è bendisposto nei confronti delle fiammiferaie scippate. Sovente, anzi, porta la proprio disinvoltura ben oltre il dito alzato, con una faccia che dice di non voler acquistare nulla, di aver già elargito generosità a qualcuno dei vostri amici che come voi se ne stanno col dito alzato a ogni angolo della città. Ma per fortuna ogni tanto c’è qualcuno che di fronte al dito alzato, prima guarda il dito, poi guarda la faccia disperata di chi lo porta, e poi finalmente si ferma. In quei casi prima di tutto si prova un senso di gratitudine profonda, li si vorrebbe abbracciare, quegli angeli, li si vorrebbe portare a casa e soffocare di amore. Solo, e questo è il punto, a casa non ci si saprebbe arrivare.

Io sono uno di quelli che la faccia da fiammiferaia la sa fare benissimo. Grazie a questa mia virtù spiccatamente mimetica i miei tentativi di abbordaggio del prossimo sono meno difficoltosi. Questo di per sé non risolve il problema, ma in qualche modo semplifica il processo. Abbattere la barriera della diffidenza altrui resta comunque un’impresa tra le più ardue, anche per chi sa la faccia da piccola fiammiferia. A questo proposito ricordo ancora con una certa angoscia un’esperienza di un paio di anni fa. Mi avevano rubato il portafoglio, a Milano, e dovevo a tutti i costi raggiungere la stazione per tornare a Torino con l’ultimo treno della sera. Solo, ero troppo lontano dalla stazione per raggiungerla a piedi, e in più non avevo soldi neppure per il biglietto della metropolitana. Così mi ero lanciato in un accattonaggio sbrigativo. Riuscire a recuperare un euro per comprare un biglietto della metropolitana con la mia faccia rassicurante mi sembrava un’operazione tutto sommato praticabile. Eppure ogni volta che facevo il gesto di avvicinarmi a qualcuno, quel qualcuno indietreggiava, tirava dritto, voltava la faccia, diceva Lasciami in pace. Ma ci sono situazioni in cui il prossimo tuo non si fida per niente, e se possibile si fida ancora di meno di chi vuole a tutti i costi ispirare fiducia. Se arriva qualcuno vestito a modino, con la faccia a modino, i capelli a modino e ti chiede qualcosa, la prima domanda che ci si fa è Se questo è tutto così a modino c’è sicuramente sotto qualcosa. Succede a tutti, è successo anche a me. Prima di Natale camminavo per Torino con l’ipod nelle orecchie, quando un ragazzo mi si è avvicinato e mi ha detto qualcosa. Io non l’ho sentito, ma gli ho comunque fatto un cenno liquidatorio. Poi mi sono sentito un mostro, mi son tolto un auricolare, sono tornato indietro e gli ho detto “Scusa, dicevi?” Lui mi ha guardato, e poi mi ha ripetuto quello che probabilmente mi aveva già detto prima: “Tu ci credi al demonio?”

Ma torniamo all’orientamento e agli angeli custodi. Tutte le volte che riesco ad abbattere la barriera della diffidenza altrui e a farmi ascoltare, mi consegno ai miei benefattori con una fiducia infantile. Sorrido come un trovatello, ringrazio come un naufrago salvato per il colletto della giacca. Dopo un po’ che i miei angeli custodi fanno gesti da vigili urbani indicandomi punti lontani, prendendomi per un braccio e trascinandomi poco più in là dove il punto lontano che mi vogliono indicare si vede meglio. Io di norma mi apposto dietro di loro, cercando di mettermi il più possibile in linea col dito che indica il punto lontano. Quindi, prima di abbandonarli chiedo ai miei angeli di ascoltare il riassunto delle indicazioni che mi hanno appena dato, per fare una verifica immediata. Ripeto diligentemente, e mentre ripeto loro annuiscono con un mezzo sorriso. Poi li ringrazio molte volte, gli stringo le mani e mi allontano, calpestando i primi metri con sicurezza e girandomi ogni tanto verso di loro. Finché non hai voltato il primo angolo, un buon angelo custode non ti abbandona, con lo sguardo. Prima di scomparire alla vista dei miei salvatori, io mi sono sempre voltato. E sempre li ho trovati esattamente nel punto in cui li avevo lasciati, girati verso di me. E sempre, prima di infilare l’angolo, ho salutato i miei angeli custodi con la mano. Mi vien sempre fuori uno sguardo umido, pieno di riconoscenza, come una piccola fiammiferaia a cui qualcuno restituisca i sette fiammiferi rubati.

Ma i contatti più commoventi sono quelli che si instaurano quando i salvatori decidono di accompagnarti fino a destinazione. Sono i casi in cui lo smarrimento è talmente visibile sulla faccia dello smarrito da far esplodere in chiunque un irrefrenabile istinto materno. A me capita molto spesso, questa cosa. Dopo un po’ di spiegazioni cadute nel vuoto di due occhi che si perdono a metà del tragitto teorico, spesso le persone che ho fermato mi dicono Guarda, veniamo anche noi. Così mi son trovato molto spesso a girare per città più o meno sconosciute (chi non ha il senso dell’orientamento si perde anche nella propria città) facendo comitiva con gente mai vista prima. All’inizio si tende a parlare dell’orientamento, della difficoltà di spostarsi in città che ogni giorno cambiano. Poi si finisce invece a parlare d’altro, a dirsi il proprio nome, a scambiarsi i mestieri. E così improvvisamente quello spostarsi insieme verso un luogo da raggiungere si trasforma in un passeggiare ozioso, piacevole. Poi quando si arriva a destinazione qualche volta si resta ancora a chiacchierare, fermi sotto un portone o all’ingresso di un museo. Ci si dice delle cose così, come se fosse tutto molto naturale. Qualche volta prima di salutarsi ci si scambia anche i numeri di telefono, a volte ci si sente anche.

Ci sono infine casi in cui insieme al proprio angelo custode si vivono esperienze fondamentali, e quindi in qualche modo si rimane legati per la vita. A me è successo poco tempo fa a Parigi, dentro lo sterminato cimitero di Père Lachaise. All’ingresso del cimitero c’è una piantina, che indica con precisione dove si trovano le tombe dei personaggi famosi che vi sono seppelliti. Oltre a non avere il senso dell’orientamento, io ho poca pazienza. Per cui ho dato un’occhiata rapida alla piantina, ho visto dove si trovava all’incirca la tomba di Balzac (che era il motivo per cui mi trovavo lì) e mi sono incamminato. Dopo una cinquantina di metri ero disperatamente smarrito tra migliaia di tombe. Guardavo le lapidi come fossero cartelli stradali, e a ogni persona che incontravo chiedevo dove fosse seppellito Balzac. Guardavano sulla piantina che io mi ero rifiutato di comprare per via delle coda, e poi mi indicavano una direzione, che io seguivo per un po’ per poi riperdermi di nuovo. Quando incrociavo qualche tomba illustre, in mezzo all’esercito di morti comuni impietosamente snobbati e anche un po’ maledetti da tutti come inutili ostacoli, facevo una foto. (Ho anche fotografato l’ultima dimora di un Rossini che poi si è rivelato essere un anonimo qualunque, un’imitazione dell’originale, un tarocco, in definitiva). A furia di domandare della tomba di Balzac ho incontrato una signora, credo centenaria, minuscola, che conosceva il cimitero a menadito. Ti ci porto io, mi ha detto. E così ci siamo incamminati piano piano per le vie del Père Lachaise, in mezzo alle tombe, parlando dei morti che c’erano dentro e dei vivi che ci venivano a frotte. Poi siamo finalmente arrivati alla tomba di Balzac, e ci siamo fermati, io un metro e novanta e lei piccolina accanto a me. Mi sarebbe piaciuto indossare un cappello per potermelo togliere, in quel momento. Siamo stati zitti, insieme, a guardare il busto di Balzac, senza dirci niente. Poi mi ha guardato e mi ha detto “Era proprio un bel signore, non trova?”.

Rovine al tramonto

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teatro

di Danilo Laccetti

Quando Čechov non sparò. Da Ivanov al Giardino dei ciliegi fa sempre la sua comparsa, autentica primadonna, una rivoltella; quattro volte su cinque spara, incidendo il corpo del racconto, ma, quando spara, non fa mai la sua apparizione in scena prima. L’ultima volta, per l’appunto al secondo atto del Giardino, viene addirittura esibita con ostentazione; il personaggio, Epichodov, dice di portarsela dietro per ogni evenienza (l’evenienza di un suicidio); non la usa e la rivoltella, citata dunque dall’autore con scoperta ironia, s’inabissa.

Proprio come Čechov quando decise di non sparare più, così avrebbero voluto fare anche loro: mostrare la rivoltella, senza usarla.

*

Quasi quarant’anni s’erano succeduti; decenni, dove, perse le tracce altrui, ciascuno aveva seguìto il sentiero che gli eventi, e le proprie azioni, avevano anno dopo anno disegnato. Cercandosi si ritrovarono; ritrovatisi, vollero una frequentazione non sporadica, per lo meno una volta a settimana. Ricordare: le lontane stagioni percorse insieme, brevi ma intense, quando l’impenetrabile non è altro che il futuro nel suo farsi quotidiano, nel suo divenire ancora giovane, vivo.

Rievocano, i tre, gli amici morti da un pezzo, altri persi chissà quando, chissà come, quelli diventati bei nomi del teatro, nomi che oggi contavano, molto; così fu che decisero.

*

L’età dei tre, sommata, passava di slancio i due secoli, eppure conservavano, non intatto, no, perché ferito e logorato dalle piaghe e dal disincanto, ma comunque ancora genuino, l’entusiasmo di una volta. La “volta” in questione dipanava, all’ingrosso, la metà degli anni ’60 e buona parte del decennio successivo; la compagnia degli ebbri salpò a Roma da una cantinaccia muffita e carica di crepe sotto la pancia antica di Testaccio, in mezzo a baraccati, carcasse d’auto, cani a mordere sporcizia; una navicella teatrale sgangherata e tetra, pare uno sconcio budello, l’antro malsano di Polifemo ma dentro, invece, ha un’anima di nido che accoglie e non condanna, nuova famiglia rivelata non dal sangue, ma dalla passione comune, dal medesimo bisogno; da lì, navigando sempre a vista, interrompendo spettacoloni al Valle come i galà del festival di Spoleto (quante sirene di questura, reumatismi, tutto quell’umido che pure calamitava studentelli e madame d’alto ceto sotto braccio a corpulenti, titolati intellettuali), affilando più di un cartellone assieme a gran copia di applausi a scena aperta, strabilìo di recensioni in mezzo al pruriginoso storcere di molti nasi, camminarono “furenti sopra i crepacci”, amavano dirsi; dietro ogni angolo un naufragio, debiti e denunce pane quotidiano. Gli anni, felici e ardimentosi, li spiumarono di molti compagni di viaggio; chi smarrì la strada e il senso, parecchi passarono presto al caldo di migliori banchetti, qualcuno comprese con naturale anticipo d’essere invecchiato. L’ultima estate, l’estate in cui dissiparono, fu senza rumore, come Roma al suo tramonto; rovinarono già alla terza replica. Spegnersi senza strepito: destino di fuoco acerbo ma accesissimo.

Ignorante, sincera giovinezza, tu che senza sapere fai le cose che vecchio saprai senza poter più fare, tutto ciò che c’era da dire, consacrare, maledire, tu l’hai detto, l’hai fatto, consacrato, maledetto.

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Valeriano, Folco, Patrizio. Capo del gregge, ai tempi, il primo; gli occhi e il respiro, la voce e i gesti carichi ancora di fame, mani enormi a fronte di un corpicino sghembo e asciutto, più degli altri aveva opposto resistenza all’empietà del tempo, ai ripetuti suoi crepuscoli; l’Oriuolo, nemmeno cento posti, un palco stretto dalle arcate di fondazione d’un palazzo aristocratico, glielo espropriarono quattro anni prima. Rese ai capricci dello spirito la sua cera istrionica, Folco; fingere, diceva di continuo, che esercizio sfiancante, beffardo; di più: perverso. In Umbria occupò un casale diroccato, per anni vi costituì la sua comunità di cercatori d’anima; quali e quanti gutturali, ossessivi borbottii, in coro certi lamenti la sera nell’anfratto d’una vecchia stalla, fra lezzi di incenso, acri sentori di tè alla menta. Distante dal conforto di una pensione quale che sia, oggi calcinava le mani, i calli facendole di cuoio, come manovale in cantieri di poca pretesa. Patrizio, timoroso una volta, impacciato, al presente balbettante, tempie, guance, mani a cacciare sudore pure di gennaio fierissimo, dopo aver accomodato bozzetti e schizzi scenici in una soffitta di famiglia (dove, pungendolo certe vaghezze, si rinchiudeva, notti intere spesso, morta l’anziana madre da basso), progettava, con buona soddisfazione di chi ne usava, camerette per bambini, seggioloni votati alla migliore confortabilità, culle così poco usuali.

Furono scelte le “vittime”: quei lontani amici, affetti oggi d’amnesia, alquanto sgarbati con il proprio passato: F.C., G.T., S.M.

*

Le lettere andavano, molestavano. Per carità, la minaccia di morte essendo nient’altro che sciocco pretesto, sipario levato per l’acconcia operazione di svelamento: io ricordo, io so, caro ex-amico, e lo dico, lo dico ad alta voce. Già: la medesima lettera finiva per bussare all’uscio di molti conoscenti, colleghi; i più novizi di tanto trascorso; viceversa per comune sodalizio dimentichi.

Rovine al tramonto, la firma che vi apposero.

Chi, allettatosi con l’anziana moglie del suo barone d’università, s’era procacciato un solido feudo da critico teatrale di gran censo ma di scarsa equanimità (per i tamburini giustizia sommaria, senza cuore; alle grancasse cerimonioso, tutto miele); chi, avendo degustato con palato sopraffino contributi elargiti ora dalla generosità democristiana, poi socialista, talvolta puranche comunista, aveva rudemente spintonato amici fraterni, ancora lì a sindacare finanziamenti e progetti, nelle segrete stanze bell’e varati; chi aveva riscontrato come prestare il proprio nome a iniziative mai effettuate, eppure opportunamente dotate di ponderoso vettovagliamento, non fosse poi menzogna così amara (anzi, una volta deglutita, la si poteva di tanto in tanto rimasticare, giacché la verità spesso è più penosa della remissione di un debito assai indigesto).

Con evidente gusto dei tre la cosa procedette; calunnie, le chiamassero pure calunnie, ma quel “veleno” s’era fatto notizia e correva con dignità tale da interpellare la memoria, simulacro assai insidioso se lo si provoca.

Alla fine la sorte; quando si mette a ghignare.

*

Mentre in ciabatte, sul ciglio della strada, si relazionava pensoso con cassoni di varia immondizia, l’improvvida corsa di un’autovettura, il cui timoniere pensò bene di preservare l’anonimato a tale sbadataggine, falciò la vita di F.C. È pur vero che un testimone ebbe a notare come la medesima macchina, alla vista del famoso critico e romanziere nell’atto di accasare avanzi di carote, fondi di caffè, cartame e flaconi allegramente colorati, rombando i motori, avesse deciso di marciargli contro a briglia sciolta.

Una manciata di giorni e la suprema falciatrice si prese cura anche di G.T.: cardiopatico di quelli ostinati, lo spavento, che in casa dovette ricevere quando qualcuno gli fece visita, fu tale che una sciabolata elettrica nel petto glielo slogò, il cuore; e il sangue, sfarfallato che ebbe un poco nell’aorte, nell’arterie e per le vene, tacque; freddo, improvviso marmo. Certo è che misteriosa rimase la visita che gli aveva travasato in corpo una gioia così smodata; smodata al punto che da astemio, quale era diventato per virtù dogmatica dei camici bianchi, l’autopsia scandagliò che di Bacco non aveva fatto alcuna penitenza: un’arditissima bisboccia aveva sconsacrato tutti i bei propositi con cui sotterrò la sua pregressa carriera di devoto bevitore.

S.M. depresso? Non pareva proprio a nessuno; fino a quando lo pescarono nel Tevere, livido, turgidotto, un incartoccio rossissimo, purulento, la lingua a penzoloni fin sul mento; con delle coscette tanto rinsecchite, ma tanto; l’otre del suo ventre ancor più strabordante. Depresso, dunque; e i depressi in quanto a volontà, è noto a tutti, fanno difetto. Forse in ragione di ciò, corroborato il suo proposito, vi si legò, a quella decisione, con l’ausilio di cordicelle ben strette attorno ai polsi, e tra le caviglie.

Alla notizia del primo decesso gioirono, le rovine al tramonto. Sopraggiunta la seconda, il sorriso veniva portato in giro da una tormentosa inarcatura delle labbra; labbra che subito dopo appassivano, chiuse; corolla maltrattata da una luce sinistra. La terza morte li ghiacciò: sudori, notti insonni, per i marciapiedi, nelle piazze certi scantonamenti, così celeri. Con gli occhi cercando di sgusciare l’altro, sempre più cacciavano, nei loro incontri ora furtivi, espressioni preoccupate, velate di tristezza; giorno dopo giorno più torve. Denunciare alla questura la loro corrispondenza con i defunti? Scusa non richiesta, accusa manifesta. Ma se uno dei tre, senza dire nulla agli altri, oppure due d’intesa all’insaputa del terzo, per giunta ciascuno singolarmente, per proprio conto, se avessero potuto, avessero deciso…impossibile, impossibile e basta!

Radi, sempre di più, i loro appuntamenti; telefono silente per settimane; domicilio fatto impenetrabile a qualsiasi scampanellata. Come si erano ritrovati, così si smarrirono nuovamente. Stavolta per sempre.

*

Mesi dopo, le indagini ancora in corso, a un convegno in Campidoglio sulle sorti del teatro, ove si chiamò a raccolta l’intera “chiesa”, ortodossi e eretici, freschi e stagionati, brillanti e logori, latifondisti e braccianti, patrizi e plebei, si iscrisse a parlare Valeriano. Chiamato al microfono nell’immediata ripresa dei lavori dopo il pranzo, in pochi lo riconobbero, travagliati molti da una frettolosa digestione forse; s’erano persuasi, a dire il vero, d’aver letto, anni e anni prima, da qualche parte, non ricordavano più dove, lo sbrigativo annuncio mortuario che lo riguardava.

L’esordio, le parole sospese, quasi stirate come dettava la sofferenza di una battuta assai poco teatrale, fu questo: «La loro morte mi ha rattristato. Mi spiace che siano morti. Per lo scempio del teatro che hanno fatto, loro come molti altri, meritavano l’ergastolo non la pena capitale. Una vita in galera, non la comodità di una rapida uscita di scena».

Per un’ora, un’intera ora, gli occhi inchiodati addosso, Valeriano parlò, e sceso giù in sala, continuò a parlare, parlare fino a sera, mai fermandosi.