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L’oscurità e il godimento: una lettura di “Il Galateo in Bosco”

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di Andrea Inglese

 

Ho letto Il Galateo in Bosco molto giovane e ovviamente poco ne capivo. Non ricordo neppure se fosse il primo libro che mi trovassi a leggere di Zanzotto, ma ancora oggi, passati molti anni, e sedimentate molte letture, Il Galateo è come se rimanesse, per me, il libro di Zanzotto, il libro riassuntivo ed esemplare, quello che, alla fine, ho letto più spesso, e quello che ho sempre nuovamente voglia di leggere. È senza dubbio un libro legato al percorso auto-iniziatico della poesia, e custodisce, quindi, quelli che, molto presto, considerai dei valori fondamentali del testo poetico moderno e contemporaneo: oscurità e godimento.

La condizione estiva ( una bagatella per le vacanze)

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di Giorgio Mascitelli

 

Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso accendono l’aria condizionata. Un intero anno trascorso trastullandosi nella nostalgia del tepore e un’intera primavera per avvezzarsi poco a poco al suo arrivo e subito bisogna armarsi di golfino e di sciarpina e di calze con i trenta gradi centigradi fuori dall’abitacolo o dal negozio o dall’ufficio. Se vi fosse almeno tolleranza, si potrebbe a ragion veduta affermare ‘almeno c’è tolleranza’, ma di essa non c’è traccia in questo mondo estivo globale. Per esempio quando in ufficio scoprirono che Guido della Veloira portava la maglietta della salute in pieno luglio scattò subito la convocazione dal direttore del personale che voleva scoprire cosa ci fosse sotto ( ma sotto c’erano solo le fragili membra infreddolite di un uomo, Guido della Veloira per l’appunto). Guido della Veloira, invece di dirgli, come sarebbe stato giusto, di non essere disponibile a prendersi i torcicolli, le febbricole, i mal di schiena e i cagotti perché l’azienda nella sua disperata caccia di profitti possa continuare a fingere che le stagioni non ci sono più ( d’altronde se tutti dicessimo ciò che è giusto al momento giusto, tutti saremmo o morti o disoccupati o finiti come il povero Ursino), si limitò a ricordare che il modo più naturale e al contempo più nobile per difendersi dagli eccessi di calura è passare la giornata sotto i portici ombrosi di un patio che racchiude un verde cortile al cui centro zampilla una fontanella d’acqua bevendo bibite fresche alla menta o al limone. Il direttore del personale lo osservò in modo insolito come sotto una luce nuova. Il direttore del personale è un tipo anfetaminico e si sa che i tipi anfetaminici sono collerici e si sa che i tipi collerici sono impulsivi e si sa che i tipi impulsivi sono ridondanti nell’espressione e si sa che i tipi ridondanti sono sgrammaticati sicché è possibile non capirci nulla. In ogni caso non fu mai pronunciato un tassativo divieto di portare la maglietta della salute, ma piuttosto c’era l’interesse di scoprire se sotto questo atteggiamento passatista e sconveniente covassero le braci della rivolta, ma sotto, come si è visto, non covava nessuna brace quanto un gelo improvviso fuori stagione come l’annuncio di un messo infernale che tornava nel mondo.

Se Guido della Veloira era sfuggito ai rigori di una sanzione diretta, non poteva d’altra parte non aspettarsi che l’ombra del sospetto, ossia di essere annoverabile tra i nemici del progresso, aleggiasse su di lui. ‘L’aria condizionata è uno standard della vita moderna’ gli venne ricordato. Essere contro gli standard significa oggettivamente essere nemici del progresso. Un collega gli batté una mano sulla spalla dicendo che in fondo si trattava solo di abituarsi, visto che erano pochi anni che c’è l’aria condizionata, neanche un battito di ciglia nella prospettiva dell’evoluzione, e forse se le avessero cambiato nome, che so ‘moderatore climatico’ o ancora meglio qualcosa in inglese, anche Guido della Veloira l’avrebbe accolta più serenamente.

Uscito dall’ufficio e scampato al gelo del metro, Guido della Veloira ebbe la dabbenaggine di pensare di trovare solidarietà nella sua maglieria di fiducia, dove faceva incetta di magliette della salute, sperando che l’elogio dell’uso parsimonioso dell’aria condizionata in quell’esercizio e il principio della ragione del cliente gli avrebbero guadagnato il sostegno del titolare. Tali aspettative furono frustrate: il titolare alla cassa abbassò lo sguardo senza spalleggiarlo, mentre i numerosi clienti accorsi ad acquistare freschi completini estivi lo guardavano muti e interrogativi.

La principale tendenza morale del nostro tempo è quello di una gran massa di servi, persuasi non solo di essere liberi, ma, nei casi più disperati, di essere dei padroni. Basti pensare a un’intera generazione fermamente convinta che essere liberi significhi fare il cameriere a Londra. Di fronte a questo sfacelo l’unica reazione possibile è quella dell’ironia, che, incomprensibile ai più, è una reazione estetica, mentre ce ne vorrebbe una politica, ma non si può costruire un discorso politico sull’ironia. Che le cose stiano così è perfettamente dimostrato dal fatto che oggi è un gran casino usare parole tipo ‘libertà’ o ‘libero’ e io stesso, quando devo prenotare al ristorante, preferisco chiedere se c’è un tavolo disponibile per non generare malintesi ( d’altronde non vado quasi mai fuori a cena). Comunque di queste cose è meglio non parlare troppo a lungo pena il rischio di finire come il povero Ursino.

Il momento più grave restava però quello della spesa a causa delle temperature polari che si raggiungevano nel supermercato e della necessità della sua visita per procurarsi del cibo. Non diversamente si saranno sentiti i soldati di Annibale alle prese con la traversata delle Alpi in cerca di preda; non diversamente si sarà sentito il povero Ursino di fronte al suo fato. Oggettivamente il supermercato anteponeva il mantenimento dello stato solido di una tavoletta di cioccolato alla salute dell’uomo, anche se Guido della Veloira per fortuna non si rendeva pienamente conto del significato di questo dato di fatto.

Così per caso, esternando la sua amarezza ad Amadeo Boni, un vecchio conoscente, questi gli suggerì di sfruttare i vantaggi dell’ipermodernità e, visto che davanti al supermercato stazionavano sbandati di vari continenti, avrebbe pur sempre potuto incaricarne uno in cambio di una congrua mancia di fare la spesa al suo posto aspettando tranquillamente fuori, finché il suo uomo non fosse arrivato alle casse, dove gli sarebbe subentrato per pagare con il bancomat.

L’organizzazione del mondo è però ideata in tal modo che è impossibile che in un supermercato con un certo tipo di climatizzazione all’avanguardia come quello facessero fare la spesa con tanto di carrello a uno sbandato di qualsiasi continente, giacché lì non si era razzisti, e veramente Guido della Veloira rischiò di finire come il povero Ursino. Quando gli addetti ebbero attorniato il suo incaricato e gli ebbero chiesto conto della sua presenza e lui ebbe spiattellato questa storia incredibile di uno che non sopportava l’aria condizionata e gli aveva chiesto di far la spesa al sui posto e già essi cominciavano a dargli sulla voce chiedendogli se pensava che erano scemi, l’uomo di uno dei continenti indicò la figura di Guido della Veloira ferma oltre le porte a vetro scorrevoli.

Le autorità supermercatorie sospettarono Guido di ricettazione e quelle submercatorie di essere un cinico trafficante di essere umani che voleva riempire di delinquenti il quartiere. A nulla valsero le sue spiegazioni: esse accusavano. Capì allora che la sua strada si faceva stretta, che tante porte si chiudevano, che diventava pericoloso e complesso volere ciò che fino a una generazione prima sarebbe stato ovvio avere. E si sentì esattamente come mi sento io che anelo e sogno sempre un’estate al mare, neanche troppo eccitante, con qualcosa di rinfrescante senza esagerare però, come viene viene, ma di stile balneare.

 

L’ultimo arrivato

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LUltimoArrivato_Balzano di Gianni Biondillo

Marco Balzano, L’ultimo arrivato2015, Sellerio editore, 205 pagine

Un uomo, sdraiato sul letto della sua cella, in attesa di scontare gli ultimi giorni della sua lunga pena, ricorda. Si rivede bambino, in una Sicilia antica e immobile, ricorda la curiosità che scaturiva ascoltando le storie del suo maestro elementare, ricorda la fame disperata, il lavoro nei campi, la madre malata, il padre anafettivo, l’abbandono forzato della scuola. Ninetto, si chiama. Pelleossa, per chi lo conosce. A nove anni, senza famiglia, emigrerà verso la speranza di una vita migliore, al Nord. Sembra una storia d’altri tempi, eppure ci sono ancora uomini e donne che potrebbero raccontarci, oggi, la loro vita di bambini lavoratori senza famiglia. Marco Balzano, col suo L’ultimo arrivato, ne ha fatto un romanzo di quelle storie.

Il protagonista si muove fra un oggi grigio e disilluso e una Milano del boom dura con gli immigrati dal Sud ma latrice di un illusoria emancipazione collettiva. Le fabbriche, oggi tutte dismesse, erano il sogno di una vita normale per chi ha conosciuto solo fame e disperazione. Finito quel mondo che dava allo stesso tempo tranquillità e alienazione, cosa abbiamo avuto in cambio?

L’ultimo arrivato è sostanzialmente un lungo monologo che parla una lingua che non è più innervata sul dialetto dell’infanzia di Ninetto e non è ancora un italiano coerente e condiviso. Una specie di lingua di mezzo, irrisolta. Come è irrisolta l’esistenza del protagonista, il suo carattere chiuso, scontroso, ma anche curioso e limpido. Ninetto uscirà dal carcere, ma continuerà a rinchiudersi nei ricordi, personale prigione consolatoria. Per tutto il romanzo ci chiediamo quale sia la ragione materiale della sua condanna, anche se sappiamo, forse già dalle prime pagine, che la vera pena è stata la sua stessa esistenza. Una vita senza infanzia. Una condanna che nessuno merita.

(pubblicato su Cooperazione n° 43 del 20 ottobre 2015)

Miti Moderni/19: ritorni

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di Francesca Fiorletta

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Il mare era calmissimo, agitato.
Le nuvole alte nel cielo, pesanti, si aprivano su un pomeriggio assolato di fine estate.
Nelle orecchie il mugolio delle cicale, l’abbaiare dei gatti in calore dentro i vicoli deserti del centro storico, le terrazze di vetro, abbandonate, coi panni stesi ad asciugare, le tovaglie del giorno prima. Fare l’amore sotto le stelle, la via lattea in lontananza, l’abat-jour ben salda, appoggiata sul tavolino del salotto. Una villa in stile umbertino, il tetto basso, la fila rossa di mattoncini ordinati per cancello, un pozzo riarso da cui abbeverarsi, preparare il caffè con l’acqua piovana.

Da Cuneo a Venezia. Perché sono le storie a scegliere i narratori, e non viceversa. Breve ritratto di Andrea Tarabbia.

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di Michele Cocchi

Circa sei anni fa sedevo dietro a un lungo tavolo in compagnia di alcuni giovani scrittori italiani. Di fronte a noi, in platea, un pubblico numeroso. Allora non lo sapevo, ma in mezzo a quel pubblico sedevano alcune delle personalità del mondo editoriale italiano, venute ad ascoltare quelli che – in teoria – sarebbero dovuti diventare gli scrittori italiani del futuro. Si trattava dell’edizione del 2010 di Esor-dire, organizzata, tra gli altri, dalla scuola Holden di Torino. Una manifestazione dedicata ai giovani, e promettenti, scrittori esordienti. Con me, Elisa Ruotolo, Paolo Piccirillo, Irene Chias, Paolo Zanotti, Andrea Tarabbia. Per accedere alla tre giorni finale di Esor-dire era però necessario vincere prima una “sfida” a due con altri scrittori esordienti: la sfida consisteva nel leggere un racconto inedito che sarebbe stato votato dal pubblico presente in sala. Nel mio caso eravamo a Venezia, il pubblico era composto di nove persone, e io superai l’altro concorrente con lo schiacciante risultato di 5 a 4. Uno strano modo per decidere quali scrittori meritassero di arrivare a Cuneo.

Non ricordo niente di ciò che risposi all’intervistatore, quando fu il mio turno, ma ricordo invece molto bene l’intervento sul concetto di distopia di uno dei miei “compagni”. Allora non sapevo il suo nome, non ero riuscito, durante le presentazioni, ad associare i nomi ai volti. Ricordo che mi colpì il suo modo diretto e sicuro di rispondere. Un modo potente, non soltanto per il tono della voce, o per le qualità verbali, bensì per una speciale energia che, oggi, oserei dire aggressiva, nel senso buono del termine: l’aggressività che ci permette di difenderci e, quando serve, di far arrivare all’altro il nostro pensiero. Quello era Andrea Tarabbia. Pantaloni di stoffa, camicia ampia, barba e occhiali. Un bel sorriso franco. L’immagine che, negli anni a venire, avrei imparato ad avere di lui. La sera, durante la cena post-premiazione, avrei desiderato aggregarmi agli altri scrittori, ma rimasi intrappolato – dall’altra parte del tavolo – in una lunga discussione con il mio editore. Persi quell’occasione ma non mancai di avvicinarmi al gruppetto nel dopo cena, scambiare con loro alcune battute, fissare per la mattina successiva.

La mattina si presentò soltanto Andrea. Con le nostre compagne, oggi mogli, facemmo colazione insieme, poi guardammo, per alcuni minuti, uno spettacolo destinato a rimanere a lungo nel mio immaginario: gli editor di alcune case editrici dibattevano sui testi di giovani aspiranti scrittori. Ne dibattevano in loro presenza, ovviamente. Stesso lungo tavolo del giorno prima, protagonisti diversi, pubblico simile. Una sorta di talent show, ante-litteram, dove ogni editor difendeva strenuamente il lavoro o l’impegno del narratore affidatogli ma non mancava – non in tutti i casi, si intende – di attaccare, più o meno ferocemente, il lavoro o l’impegno di uno, o più, degli altri. Pensai che noi – quelli del giorno prima, quelli della sfida a colpi di racconti – eravamo stati decisamente più fortunati. Provai, empaticamente, un profondo malessere e fantasticai che uno di quegli aspiranti scrittori si alzasse dalla sedia, afferrasse con risentimento il proprio manoscritto e con voce potente dicesse, prima di andarsene: – Questa storia è mia! – Non riuscivo cioè a smettere di pensare a quanta fatica emotiva, e a quanto sforzo creativo, quei giovani avessero investito, e che sarebbe stato necessario avere maggior rispetto del loro lavoro, indipendentemente dalla qualità del testo.

A Cuneo ho stretto molte amicizie, alcune sono tutt’ora molto forti. Le più intense, tra queste, sono state quelle con Paolo (Zanotti) e Andrea. Nei mesi a seguire hanno presentato il mio libro, e io il loro. Sono stati ospiti a casa mia. Hanno partecipato al mio matrimonio. Erano l’esatto opposto: forte e deciso Andrea, mite e insicuro – almeno apparentemente – Paolo. L’amicizia con Paolo, purtroppo, è finita troppo presto. Mi ritengo, però, un privilegiato, per avere conosciuto, di lui, almeno quel suo sorriso leggero, la sua voce quasi sussurrata, la sua intelligenza acuta, la sua generosità e la sua delicatezza. La prima volta che lui e Andrea hanno trascorso una notte da me, ho trovato Paolo, la mattina successiva, sovrastato dai miei due gatti perché lui non aveva avuto il cuore – per non ferirli – di scacciarli via dal materasso gonfiabile sul quale dormiva. Sonnecchiava sul bordo del materasso, accecato dalla luce che entrava dal lucernario che lui aveva preferito – per non cambiare l’assetto della casa – non tentare di coprire. Paolo era fatto così.

Nessuno di quei giovani scrittori, seduti insieme a me, ha – per fortuna – smesso di scrivere e oggi, Andrea, ha l’opportunità di vincere il Campiello. Lui, forse più degli altri, in questi anni, ha reso un servigio importante alla narrativa italiana: ha formulato, attraverso i suoi libri, un pensiero coeso e compatto sulla violenza; la violenza declinata in alcune delle sue forme più orribili. Lo ha fatto soprattutto attraverso tre romanzi: La calligrafia come arte della guerra, Il demone a Beslan, Il giardino delle mosche. Andrea non dovrebbe vincere il Campiello unicamente per la sua abilità di scrittore, per il suo stile, per la sua lingua, per aver dato voce, nel Giardino – romanzo per il quale è candidato al premio – a Čikatilo; dovrebbe vincere il Campiello perché in Italia, oggi, è tra i narratori che sa dire la violenza e sa come dirla: nelle sue forme più estreme, più feroci, più complesse. Ma, e soprattutto, riesce a raccontarla senza pregiudizi. La contestualizza, per comprenderla meglio. La sonda, per conoscerla. La restituisce alla sfera delle azioni umane, senza demonizzarla, analizzandola come un geologo analizza un terreno, studiandone la costituzione e l’evoluzione. La violenza, attraverso la penna di Andrea, diventa un organismo vivo, con una sua storia, col suo esser-ci, coi suoi possibili sviluppi e questo, a mio avviso, è il suo merito maggiore.

Credo che ciò che ho percepito a Cuneo, quando per la prima volta l’ho sentito parlare, abbia a che fare con questo. Credo, cioè, che se nei suoi libri è riuscito a rappresentare l’universo della violenza così bene, è anche grazie a quell’energia, a quella forza, a quella potenza verbale che mi colpirono nel sentirlo rispondere alla domande dell’intervistatore.

Durante la presentazione del suo ultimo libro – Il giardino delle mosche – a Pistoia, affiancato da Roberto Gerace, mi ha colpito molto una sua risposta a una domanda che gli avevo rivolto sul rapporto fiction non-fiction: scegliere la non-fiction, dice Andrea, ti permette di ovviare al problema della trama, perché questa esiste già, sta scritta sui documenti, è sufficiente consultarli. Era, ovviamente, una battuta, ironica e provocatoria, perché se esistono già i fili di una tessitura, comunque la tessitura va organizzata, embricata, sarà forse un compito più semplice, ma comunque un compito arduo. Il problema, a mio avviso, non è tanto questo, ma il fatto che lo scrittore che sceglie la non-fiction, che si appassiona a una storia di cronaca, per esempio, o a un fatto storico, non sceglie una storia, ma dalla storia viene scelto. Questo direi, oggi, ad Andrea, per ribattere alla sua battuta: ti sei illuso di scegliere la storia di Čikatilo, ma è la storia di Čikatilo che ha scelto te. Non è il tuo interesse per la letteratura russa, il tuo interesse per la storia dell’Unione Sovietica, il tuo amore per Mosca che ti hanno portato a Čikatilo. È stato qualcos’altro. È il fatto che qualcosa di noi si presta bene a calamitare certe storie e non altre. È la nostra capacità di captare dei segnali e di sintonizzarci su questi. La capacità innata, oppure maturata con l’esperienza ma, comunque, nostra, che sposterà la nostra attenzione in una direzione anziché in un’altra, che lascerà sullo sfondo delle storie, per portarne in superficie altre. Quella capacità, in Andrea, ha a che fare col magnetismo di quel pomeriggio a Cuneo, con qualcosa che è della sua natura e forza mentale, con la sua sicurezza e potenza verbale. Čikatilo ha scelto Andrea perché ha sentito in Andrea la persona giusta per raccontare la sua storia, per molti di noi, altrimenti, assolutamente indicibile.

Dopo la presentazione, durante la cena, ho rivelato ad Andrea quanto ancora sia affezionato al suo primo libro La calligrafia  come arte della guerra – il libro che ha portato Andrea a Esor-dire – e lui si è preso gioco di me, dicendo che era un libro, per certi versi, immaturo, oramai lontano. Io credo che invece, idealmente, il primo libro potrebbe chiudere, così come ha aperto, questa sorta di trilogia – come un anello immaginario -. Perché con la Calligrafia si torna alla fiction, alla narrazione di pura invenzione, alla pura creatività, si esprime qualcosa – più esplicitamente di quando presumiamo di aver scelto una storia d’altri – della nostra trama interna, della nostra personale natura. All’epoca, per la presentazione della Calligrafia, scrissi nei miei appunti: – Per la storia di Andrea, ambientata nel futuro e distopica, non è necessario pensare a uno dei molti mondi possibili. Potrebbe essere una storia nostra, dei nostri tempi. Il fatto è che Andrea è arrivato al nocciolo della questione, alla faccenda reale, ha scarnificato il concetto di guerra fino a toccarne l’osso e intorno a quest’osso ha costruito una storia, apparentemente lontana dalla realtà, ma utile a comprendere gli aspetti profondi dell’uomo -. Il lavoro che Andrea ha svolto nel Demone a Beslan, e ne Il giardino delle mosche, è il medesimo, sebbene declinato diversamente: si va al cuore del problema, alla struttura ossea della questione.

Non è importante che sia fiction, o non fiction, noi leggiamo il mondo attraverso una speciale lente, unica e irripetibile, che ci permette di vedere delle cose, e non altre. Qualcuno – come Andrea – le cose che vede le sa anche raccontare. La lente di Andrea ci ha permesso di riflettere su un tema, quello della violenza, oggi, forse più che in passato, centrale per la futura evoluzione dell’essere umano. Mi auguro che Andrea vinca questo premio, ma soprattutto mi auguro che Andrea continui a scrivere, a scorrere la sua lente sulle cose dell’uomo, a prestare la sua lingua a ciò che lui, e solo lui, potrà vedere. Mi auguro che ci ha portato a Cuneo nel 2010, continui a investire su quegli scrittori e su quelli che verranno, non perché gli scrittori siano animali da palcoscenico, ma perché ognuno di loro, se favoriamo l’incontro tra la loro speciale lente e la realtà del mondo, può raccontarci storie irripetibili.

Educazione sentimentale dell’indiano: Memorie di una maitresse americana

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memorie di una maitresse americanadi Mariasole Ariot

Tutto si svolgeva alla luce del sole
N. Kimball

Nella casa senza tetto non c’erano libri. Solo una vecchia enciclopedia tagliata al centro da mio padre per nasconderci monete preziose arrivate dall’America : era il nostro tesoro , un tesoro come un porcile, uno scavo tra le parole per riporci i soldi : raccapricciante e allo stesso tempo meraviglioso. Mi agitavo con le mani e le braccia quando aprivo la pagina duecentotrentasette del terzo volume : c’era un buco scavato a taglierino da mio padre, un buco meticoloso, e nel buco una manciata di metallo racchiuso in singole confezioni circolari. Protetto, perché niente laggiù era protetto. Si potevano leggere gli anni : la più vecchia moneta era la più grande. Poi lui le ha cedute fondendole tutte lontano da casa per farci su qualche soldo vero. Spendibile, come tutto doveva essere nella casa senza libri e senza mura.

Ma questo era un affare per adulti e per bambini con la pelle d’oca. Io avevo già la mia, la tenevo nascosta per i momenti in cui la casa si svuotava : era un libro proibito. Nella casa grande e gonfia di silenzi c’era solo quello e un vecchio manuale femminista per capire il proprio corpo : erano i regali di una cugina combattente, che cercava di acchiappare una parola da quel tombale, da quegli inutili faldoni di Quattroruote e riviste di casa. Nei tempi brevi, quando uscivano per la spesa, io mi arrampicavo sulle parole enciclopediche e lo prendevo. Fuggivo inseguita dal mio ladro privato, quello che mi stava sempre alle costole anche quando non combinavo niente, quello degli sguardi assassini e benevoli, delle grandi risate nel muro dei pupazzi e dei giocattoli. Percorrevo le scale al contrario per non essere presa dal mio senza-testa e chiudevo la porta senza serratura come si chiudono gli scaffali morti o le orecchie per non sentire le urla. Avevo il mio libro proibito, e le mie ore di libertà. Ero la storia di una puttana americana, una storia di sesso, di pagliai, di bordelli, di spazzole usate come giocattolo, di sorelle, di fughe dalla finestra, di stalloni in amore, di quindicenni, di esplorazioni, di corpi, di vita bollente, di piccole menzogne, di verità spalancate come cosce mature e come la cosa più naturale da fare. Forse a nove anni non sapevo nemmeno cosa significasse maitresse, ma dalla copertina intuivo che qualcosa là dentro bruciava- e infatti bruciava.

Nell scopriva il suo corpo e io scoprivo il mio, ritagliavo lembi di tempo per scappare con lei nel grande pagliaio pieno di stelle, di aghi che s’intrecciano ai vestiti, di povere cose. La mia soffitta alta in cui mi nascondevo era la sua stanza da cui lei voleva scappare.

Quell’aprile Charlie disse che ce ne saremo andati, saremmo scappati non appena fosse riuscito a mettere le mani sui soldi che gli spettavano.

“E dove andremo, Charlie?”

“Scenderemo il fiume, e poi prenderemo una nave per il Brasile”. Aveva questo tarlo del Brasile che gli trapanava il cervello, ma a me non importava niente, fosse Cina o Brasile, fintanto che avevo qualcuno che pensava a me. Non avevo nessun’idea di nessuna parte del mondo, tranne North Pike, Indian Crossing, e quella cascina lì attorno. Per il mondo che conoscevo, avrei quasi potuto arrivare ai suoi confini con uno sputo.

Il ricordo è sensoriale. Sento l’odore del fieno, gli umori della pelle, l’acre dello sperma dimenticato nel bordello del mattino, gli zoccoli dei cavalli, il rumore della monta, le grida, il fiato trattenuto della prima volta, il suono bello e grave dell’attributo “garzone”. Lei apriva le gambe e io spalancavo la bocca e gli occhi, lei aveva il petto gonfio e una leggera peluria rossa sul corpo tornito, io ero come miniaturizzata, la sorella minore che ha tutto da imparare, che crede ancora alle bambole. Ma non ci credevo più. Memorie di una Maitresse americana è stato questo : il mio salto generazionale senza corpo. Con la testa mi precipitavo fuori casa, tra i bordelli e le strade americane battute dal vento, mi spingevo più in là per capire come avrei fatto io, a mia volta, a fuggire dalla mia prigione, dagli sguardi senza testa che popolavano i miei incubi da sveglia, ma il corpo non cresceva, restava bambino, e con questa scusa potevo farla franca. Gli adulti avevano la loro enciclopedia monumentale per ricercare l’ultimo re, io avevo il mio libro mondo per cercarmi quando non mi trovavo.

[ madre, tu che sai sempre tutto : mi mai hai scoperta? No, non mi hai mai scoperta : sono scoperta da sempre ]

Appena un rumore varcava la soglia di casa io correvo giù a precipizio, scivolavo le scale sbattendo le ginocchia sull’ultimo gradino, mi arrampicavo, riponevo la copia di Adelphi che allora mi sembrava grande e pesante sul ripiano più alto, nascosto dietro il nascondiglio dei nascondigli, e fingevo indifferenza, con il viso rosso di vergogna e di eccitazione per la mia scoperta sensibile. Ero adulta anche quando non avevo che un piano liscio al posto del petto, mentre la sorella americana si dimenava ancora tra le radici della testa, prendeva una carrozza e scappava verso Saint Louis – e io la seguivo ammattita, col desiderio rosso di ricominciare quelle pagine.

A volte ne saltavo, volevo percorrere la storia al contrario : tornare sempre al principio, alle prime pagine in cui con una penna dorata scalfiva i dolori adolescenziali per farne materia di studio. Studiava i movimenti degli animali con una passione tremolante eppure stretta come stringeva le gambe per sperimentare nuove modalità di rumore. Io la seguivo, seguitavo a non parlarne con nessuno : erano i miei nove anni, i miei novembri frebbrili che dovevano essere scaldati dalla monta dei calori. E precipitavano stelle, magma infuocati dai calcagni alla punta più alta della testa, sul suo naso che immaginavo all’insù. Lei si descriveva con una tenacia da prima donna, ma era anche l’ultima, e questo mi piaceva : essere con lei tra gli ultimi, ultima arrivata nel bordello, a fare le fusa con uomini maturi e gonfi di vino e di liquido bianco negli occhi. Da allora vedo sempre quei corpuscoli come piccoli spermatoozoi che viaggiano in cerca di un ovulo da fecondare : strizzavo le palpebre per oscurarle alla grande bugia di casa, le premevo forte con le dita piantellate sulla parte molle e vedevo il bulbo colorarsi di arancione intenso, un fuoco denso e vivo in cui vivevano le microparticelle con la testa più grande del corpo. Immaginavo facesse così anche lei, la piccola prostituta di campagna che prima di partire voleva provare il dolore delle cose, la rugosità delle giornate assolate e assetate. Poi mi hanno spiegato che si trattava solo di polvere.

[ padre, perché non hai tagliato la testa anziché tagliare un libro? perché non hai la testa?]

Volevo i suoi capelli rossi, la sua posizione supina, i suoi fianchi coperti di stracci e di lustrini sporchi : la sporcizia mi piaceva, vendicava gli atti di pulizia che venivano compiuti ripetutamente in casa. Mangiavo la terra, e i sassi, e le ossa lasciate sui piatti, e con lei mangiavo tutto, mi rotolavo sugli spazi vivi di quelle noie da sabato pomeriggio, quando i libri di scuola non bastavano e io non bastavo a me stessa. La piccola ragazzina cresceva e io mi fermavo appena prima, tornavo indietro, volevo di nuovo il pagliericcio e la sua prima volta, descritta con una punta di ferro infiammata, incisa sulla lapide della sua età adulta.

“A sedici anni ero piena di quelle che seppi si chiamavano illusioni; nella mia testa c’era una gran confusione, su che cosa era il mondo, su ciò che la vita offriva, quali effetti aveva su una persona, e come sarebbe stato il futuro. M’informavo ascoltando e osservando. Avevo un corpo molto bello e robusto, seni meravigliosi, pieni ma non fuori misura, coi capezzoli di un rosso fragola, non scuri o macchiati come hanno certe donne. Avevo una pelle di un rosa perlaceo, i capelli e la peluria alle ascelle e in mezzo alle gambe di un oro rossastro. Ero prudente per natura, spesso però anche troppo fiduciosa. Non mi ero ancora resa conto che la società fuori dalla nostra portata aveva soltanto una sottile vernice di moralità e di valori sociali – come la crosta di una torta. Frasi convenzionali e cortesia formale.”

Era la sua scrittura di carne a catturarmi, come se ci fossero zampate animali e pagine sporche di sangue mestruale sulla curvatura della copertina consumata : l’ammiravo per questo. Per il suo saperci fare con la crudeltà e le stellate. Per questo forse ho cominciato a dire il nero del nero, a lottare per l’indicibile : perché tutto quello che non si poteva dire né sussurrare andava scritto, trafitto sulla tela, macchiato dell’irresponsabile e di tutto l’opposto : la responsabilità del vero. Con cui lei parlava, con cui io ascoltavo. E così l’amore – inciso sul foglio al suo grado zero.

“Avrei dovuto accorgermi che mi ero innamorata. Ma non avevo mai avuto un’esperienza simile, non sapevo come un atto potesse diventare un sentimento e una follia che sconvolgeva e annullava tutto il mio vivere, tutte le mie difese per proteggermi. Tutto era liquefatto, come fossi fatta di zucchero e mi stessi sciogliendo dentro una vasca da bagno. Ero una giovane puttana piena di confusione che in quel momento desiderava l’amore come avrebbe desiderato un’altra testa.”

Eravamo l’indice dei libri proibiti, eravamo proibite, eravamo due donne sul pagliaio, eravamo sporche di fango, spalancate, addormentate sul letto del bordello, eravamo arrampicate allo scaffale della libreria fasulla, eravamo di pietra e di foglia, eravamo ammuffite, eravamo fresche, eravamo indici, radici di parole mescolate all’aria, tuoni di fine stagione, sempre fuori stagione, inopportune, verità con la testa alzata, capogiri del reale, piccole minacce per gli sconosciuti : eravamo proibite. Restiamo proibite anche in questo scriverci a distanza da secolo a secolo, in questo ricostruire i passi, fare memoria delle cose perdute, delle case senza tetto, dei seni maturi, di quelli buoni al latte, delle carcasse, del pagliericcio che ho incontrato più adulta, della sua irriconoscenza.

La coda di Ferragosto

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di Luca Ricci

Friedrich-Viandante_mare_nebbiaL’uomo, mettendosi in macchina a Ferragosto- benché avesse programmato con largo anticipo una partenza a un orario cosiddetto “intelligente”-, sapeva che sarebbe stato vittima di un evento ineluttabile: la coda per raggiungere il mare. Gli era già capitato un migliaio di volte di restare imbottigliato, eppure sul suo volto si dipinse uno stupore infantile mentre scalava le marce dalla quarta alla prima. Subito dette la colpa a tutta una serie di circostanze nefaste: la seconda colazione al bar, il rifornimento superfluo di giornali all’edicola, il lavavetri che si era avventato sul parabrezza con il semaforo verde… 

les nouveaux réalistes: Giuseppe Checchia

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Claude Lazar – dipinto

Anatomia di un interno

di

Giuseppe Checchia

 

Quello che sta dormendo sul letto con la voglia a forma di isola sulla guancia è mio zio. Si chiama Vincenzo, ma tutti lo chiamiamo col suo secondo nome Gino. Quell’altro in piedi con il coltello in mano invece sono io.

Nella ricostruzione mentale che mi faccio degli eventi che hanno portato a questa situazione, le cose sono andate così:

1) un giorno di molti anni fa la mosca si è semplicemente poggiata sopra la voglia a forma di isola di zio Gino, che in quel momento dormiva perché altrimenti non si spiegherebbe come mai non l’abbia scacciata.

2) la mosca è rimasta immobile sulla voglia a forma di isola per un tempo abbastanza lungo che automaticamente la stessa voglia ha finito per inglobarla. Un po’ come è successo quella volta che mi sono sbucciato il ginocchio cadendo dalla bici e il giorno dopo c’era una crosta del tutto simile alla voglia dello zio che aveva ricoperto la ferita.

3) sono anni che la mosca è sepolta sotto quella voglia dalla forma incredibilmente simile a un’isola. E questa volta sono qui per liberarla.

Mi sono dimenticato di dire che siamo a casa del nonno.

Adesso lui è di là che fuma una delle sue sigarette Stop. Di sottofondo, a volume molto basso ma perfettamente percettibile si sente la musica che esce dal giradischi Pioneer di sua proprietà. Un operetta che ho sentito mille volte, di cui però non conosco il nome.

 

Già la luna è in mezzo al mare,

mamma mia, si salterà.

L’ora è bella per danzare,

chi è in amor non mancherà.

Già la luna è in mezzo al mare,

mamma mia, si salterà…

 

La camera è quella di zio Gino, illuminata da una lampada poggiata sul pavimento. Gli scuri della finestra sono tirati anche se sono le quattro del pomeriggio.

La voglia a zio Gino gli occupa gran parte della guancia destra, ma c’è una specie di rigonfiamento nerastro. Qualcosa sottopelle, proprio al centro della voglia.

È lì che è sepolta la mosca.

La voglia a forma di isola l’ha fagocitata, come la pianta carnivora dell’Amazzonia che la maestra Lea ci ha fatto vedere a scuola. Mi chiedo solo come mai nessuno l’abbia notata. Voglio dire, il nonno e la nonna. O forse anche loro l’hanno notata, in fondo vivono sotto lo stesso tetto da sempre, solo che non vogliono dirlo allo zio per non sembrare indiscreti. Oppure è lo stesso zio Gino a essere al corrente di avere una mosca impiantata nella guancia, ma è come se la cosa non lo interessasse.

La nonna dice che da quando è andato in pensione il nonno non fa altro che fumare le sue sigarette Stop e ascoltare quei vecchi dischi.

 

Presto in danza a tondo, a tondo,

donne mie venite qua,

un garzon bello e giocondo

a ciascuna toccherà,

 

Mentre cerco la posizione giusta per praticare l’incisione della voglia a forma di isola, a zio Gino dormiente viene una specie di sussulto e io istintivamente rimango pietrificato. Ma alla fine lo zio semplicemente si rigira sul cuscino e torna a russare fuori tempo.

 

finché in ciel brilla una stella

e la luna splenderà.

Il più bel con la più bella

tutta notte danzerà.

 

Poco fa ero a pranzo col nonno, la nonna e zio Gino che però non ha mangiato perché deve fare certe analisi e deve saltare i pasti. Che è anche il motivo per cui deve sempre riposare. In effetti ora che ci penso neanche il nonno ha mangiato, però a differenza della nonna non mi ha nemmeno rivolto la parola. L’unico momento in cui l’ha fatto è stato quando ha detto: – Mangia, -. Ha spento una sigaretta Stop nel posacenere e subito dopo ne ha accesa un’altra.

A un certo punto, la nonna si è alzata per prendermi una banana. Ma a me la banana non mi è mai piaciuta, così anziché mangiarla ho cominciato automaticamente a giocare con la buccia. È stato allora che il nonno ha detto – Mangia, -. Prima che lo dicesse, però, io avevo già fatto scivolare il coltello nell’incavo del polsino della polo a righe.

Adesso che zio Gino si è risistemato sul letto la grande voglia che gli copre la guancia mi sta proprio davanti e posso finalmente liberare la mosca. La musica di sottofondo del nonno prende una piega più colorata.

 

Salta, salta, gira, gira,

ogni coppia a cerchio va,

già s’avanza, si ritira

e all’assalto tornerà

Già s’avanza, si ritira

e all’assalto tornerà!

 

La nonna dice che da quando è andato in pensione il nonno è diventato una specie di melomane, una parola strana che vuol dire che non può fare a meno di ascoltare i suoi vecchi dischi. Dice che in parte è anche un po’ colpa di zio Gino e dei suoi strani comportamenti. Ma io so che la colpa è solo della mosca. O meglio, che la colpa è:

  • della voglia a forma di isola sulla sua guancia.
  • della mosca che vi si è andata a depositare.

Ma quando provo a dirlo, ogni volta che provo a spiegargli che zio Gino non è malato ma ha solo una mosca sotto la pelle della voglia a forma di isola, che dunque una spiegazione c’è, ed è per giunta lì, sotto gli occhi di tutti, la nonna fa sempre la stessa cosa:

1) mi accarezza la testa guardando accuratamente altrove.

2) sorride distratta, mentre il nonno invece non mi ascolta proprio, e anzi solitamente in quel momento spegne un’altra sigaretta Stop nel posacenere di cristallo.

 

Serra, serra, colla bionda,

colla bruna va qua –

 

La musica si ferma all’improvviso. E io mi immobilizzo per la seconda volta. Un crepitio di passi strascinati. Lo scalpiccio delle pantofole contro il pavimento e la porta che si apre. L’odore delle sigarette Stop del nonno che si fa sempre più inteso.

E tu che ci fai qua?

Nascondo il coltello della nonna sotto il polsino della polo a righe senza farmi vedere. A quanto pare, anche questa volta non riuscirò a liberare la mosca.

Il nonno aspira una boccata, si sfiata un rutto in gola e mi prende in braccio. – Avanti, alzati.

Il nonno cerca di parlare sottovoce per non svegliare lo zio, – Usciamo-.

Uh… Che succede?

Zio Gino si tira su con la schiena.

Ma quanto ho dormito?– sbadiglia, si strofina gli occhi, alla fine si accorge anche di me – E tu che ci fai, qua?-.

Il bambino è venuto che voleva giocare, ora usciamo.

Volevi giocare, eh? – e comincia a farmi il solletico sotto le ascelle – volevi giocare, eh? -. Ma per fortuna si ferma subito. Zio Gino stringe gli occhi e si tocca la fronte con un’espressione di dolore come se sentisse un sibilo fortissimo nei canali delle orecchie.

Adesso vai a giocare insieme col nonno.

Il nonno mi prende la mano. Dopo il fallimento della missione sabato scorso, l’ennesima buca nell’acqua. Perché questa è una cosa che posso fare solo di sabato, il giorno della settimana in cui resto a mangiare a casa del nonno e della nonna. Ma sono convito che un giorno ci riuscirò. Un sabato o l’altro. Sì, dev’essere così. Non so perché ma questa consapevolezza me la sento dentro. Arriverà un sabato che riuscirò ad aprire quella maledetta voglia a forma di isola e liberare finalmente la mosca. E lo zio, e il nonno e la nonna e, indirettamente, anche me stesso. Magari quando cresco, l’anno prossimo magari, quando avrò dieci anni ci riuscirò di sicuro. A dieci anni sei grande abbastanza per prenderti la responsabilità delle tue azioni. Mi procurerò un coltello migliore e il momento giusto arriverà. Ne sono sicuro. Ma adesso, basta. Stringo forte la mano odorosa di sigarette Stop del nonno. L’unghia dell’indice e parte della falange del dito medio sono colorate di colore caramello. Lo guardo. Andiamocene, nonno, e chiudiamoci questa storia alle spalle.

La prossima volta andrà meglio. Il prossimo sabato.

Il nonno mi guarda, sorride, poi guarda lo zio. Anche lui sorride. Il nonno si gira, intravedo la testolina della nonna fare capolino sullo stipite della porta della camera di zio Gino. – Dai un bacio allo zio e andiamo, – dice il nonno.

Cosa?

Avanti, un bacetto allo zio.

Mi autoconvinco che non può essere. Spingo la testa contro le gambe del nonno. Ti prego, non farmi questo. Questo, no.

Avanti.

Zio Gino si sporge in qua con il viso butterato dall’abuso di antibiotici, continuando a indicare la voglia a forma di isola: – Dammelo qua, proprio qua-. Chiudo gli occhi.

Li riapro e vedo il nonno che sorride e fa un cenno di approvazione con la testa da una distanza che mi sembra lontanissima.

Allora mi ricordo di quello che ha detto la maestra Lea sulle cose difficili che non capisco e faccio una lista.

Una lista per fare chiarezza.

Avanti, un bacio allo zio Gino.        

1)

1)

Non sarai mica già un ometto?

1)

Non riesco a fare nessuna lista.

Zio Gino alza e abbassa le sopracciglia ritmicamente mentre il dito indice della sua mano destra continua a indicare la voglia a forma di isola. La testolina della nonna non si stacca dallo stipite della porta. Il giradischi Pioneer. Il nonno fa un movimento al rallentatore e spegne la sigaretta Stop contro il tacco della scarpa.

– Proprio qui. Sulla guancia.

Fosca Massucco,Per distratta sottrazione

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copMASUCCO

di  Clizia E. Guerrini

Il secondo libro di Fosca Massucco, dopo L’occhio e il mirino del 2013, si presenta con una grande apertura verso il territorio abitato dall’autrice: il Monferrato di Beppe Fenoglio, da sempre letto e riletto con incondizionato trasporto. Le impostazioni metriche da lei usate hanno l’andamento lirico di certe pagine di Una questione privata, quando nell’uno e nell’altro caso la poesia si spalanca alla luce perfetta di quelle colline. Ci sono segni del territorio natìo e precisioni scientifiche che fanno pensare a folte letture zanzottiane, anche se non sono particolarmente d’accordo con Elio Grasso, in sede di prefazione, quando avverte che l’opera del poeta di Pieve di Soligo potrebbe condurre Massucco a prove future ancora più profonde e salde. A me pare che possano essere differenti, e altrettanto importanti, i percorsi da affrontare e fare propri. Senza escludere, come suggerimento non casuale, il Sereni del Posto di vacanza. Non fosse altro che per le avvedute attenzioni verso la realtà, dei luoghi e dell’anima, e per le robuste abilità prosodiche. Le tre poesie, successive al libro, e recentemente pubblicate nel terzo Almanacco della poesia edito da Raffaelli sembrano confermare, nella loro tempestiva luminosità, questo mio pensiero. Forte delle sue competenze tecniche e scientifiche (l’autrice ha una laurea in Fisica e lavora come Tecnico del suono) i temi della raccolta vengono sviluppati secondo linee di conoscenza religiosa, uno spartiacque tra la visione per così dire esteriore del paesaggio e quella interiore dell’anima. La scansione delle sezioni rivela chiaramente come a Massucco interessi prima di tutto lo studio dei particolari nei testi sacri, e il metodo più conveniente a trasportare nella propria visione quotidiana il ricco fiume ideologico e devozionale. Immergendoci nelle pagine di Per distratta sottrazione si avverte una responsabile e autonoma volontà di ricerca, ogni premessa viene portata a compimento sia sotto forma di luce diretta sulle personali visioni sia sulle corrispondenze trovate nei prediletti autori. Questi non vengono mai citati, ma la sintonia del libro vale per la raffinata annessione che si avverte e di cui, mi sembra, si possa godere. Da un capo all’altro dell’opera, sorvolando la fin troppo estesa Prefazione, annidamenti e svelamenti conducono alla nobilitazione di quanto oggi cerchiamo nel vasto e controverso mondo della nuova poesia.

Bisogna avere grande prudenza,
è tutto un universo di avvisi.

       “Lavori in corso” – “Caduta pietre da sinistra”

Prestare attenzione ai messaggi
ritardi annullamenti partenze
non attraversare i binari, non mangiare
con le mani, nessuna mano
nelle mutande, i congiuntivi.

        Nessuna leggerezza, pericolo!

Si potrebbe perdere un’acca o l’ombrello,
un ricordo doloroso, la testa per un critico,
la garanzia che per un paio d’anni
qualcuno aggiusti gratis tutti i cocci
sostituisca i fusibili, speli i fili e le vene.

       Cautela,
       un dosso (o una cunetta)

la doppia croce di Sant’Andrea avverte:
passaggio a livello, reazione chimica
in colonna a sinistra
due concentrazioni di liquidi al centro
e in mezzo quella da raggiungere.
Concentrazione, sforzo sublime!
Ma ci vorrebbe pace, e quel fruscio
invariante delle foglie d’aprile.

     “Animali selvatici vaganti”

li intravedo nei cespugli di erba sparta,
nascosti dagli steli fino a notte.
Poi stelle – e buona condotta.

      (pericolo, onde elastiche!)

Meglio, ottima conduzione
che rende tenero il mio focolare –
su cui appendo stelle di porporina
con la perfezione del buio.

Fosca Massucco, Per distratta sottrazione, Raffaelli Editore, Rimini 2015, pp. 64, € 12,00

Messico invisibile

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Pubblichiamo il prologo al libro di Fabrizio Lorusso, Messico Invisibile, voci e pensieri dall’ombelico della luna, Edizioni Arcoiris, Salerno, 2016

di Alessandra Riccio

Il Messico è un grande paese dell’America del Nord che, secondo un detto popolare, è troppo lontano da Dio e troppo vicino agli Stati Uniti. Come spesso succede, la saggezza popolare scaturisce da profonde verità: il lunghissimo confine che separa il Messico dagli USA –la frontera– è stato sempre un luogo di conflitto, di guerre lunghe e sanguinose che hanno spostato il limite sempre più a sud con la perdita di circa un terzo dei territori della ex colonia spagnola a favore della giovane, aggressiva e indipendente Confederazione di Stati del Nord. California, Texas, Arizona, Colorado, Nuovo Messico, come indicano i loro nomi, erano gioielli del Vicereame della Nueva España prima che, nelle alterne, drammatiche e discontinue vicende dell’indipendenza messicana, andassero ad aumentare il numero delle stelle nel vessillo della Confederazione.

Un evento segna significativamente l’entrata del Messico nel XX secolo. Nel 1910 esplode una rivoluzione popolare e contadina le cui vicende sono ormai diventate leggenda come lo sono le due figure più emblematiche di quegli anni, di quelle rivendicazioni e di quegli esiti drammatici: Pancho Villa ed Emiliano Zapata.

Da quegli eventi maieutici scaturisce, nella prima metà del novecento, un rinascimento artistico straordinario, una rivoluzione sociale importante, un protagonismo statale capace di grandi gesti come l’accoglienza agli esiliati della Guerra di Spagna o dell’esule Trotsky, l’affermazione di uno stato laico quando non addirittura anticlericale, il riconoscimento e il supporto alle lingue, alle culture e alle attività artigianali delle popolazioni originarie, un’alfabetizzazione diffusa e popolare. Il francese Jean-Marie G. Le Clézio, premio Nobel per la letteratura, descrive così quella Città del Messico: “Una città in cui si agitano la creazione, l’invenzione, la novità. Indubbiamente, nessun’altra città fu mai così rivoluzionaria, faro per i popoli oppressi d’America. Un luogo così importante, durante il decennio 1920-1930, così fertile per l’arte e per le idee come lo furono Londra ai tempi di Dikens o Parigi durante la belle époque di Montparnasse.” (Jean.Marie G. Le Clézio, Diego e Frida, Il Saggiatore, 1997, p. 16)

Prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, il Messico è stato terreno di generosa solidarietà, ospitale, pieno di creatività, eccessivo a tratti, ma portatore di una cultura non solo identitaria ma anche densa di novità, suggerimenti, integrazioni, contributi originali alla cultura universale. Ricordare i nomi dei grandi pittori del muralismo, dei fotografi pronti a rivelare nuovi mondi, l’ardimento di donne straordinarie, è doveroso. Frida Kahlo e Diego Rivera, Tina Modotti e Julio Antonio Mella, Rosario Castellanos, José Guadalupe Posada, il brillante ministro Vasconcelos, il vero animatore e protettore di quest’epoca d’oro, il Presidente Lázaro Cárdenas, poi anche ministro, a cui si deve la riforma agraria e la nazionalizzazione del petrolio e delle ferrovie, e tanti altri ancora che hanno configurato un mondo politico culturale nel pieno della corrente mondiale ma con punte di avanguardia e originalità che lo hanno reso unico.

Fra le caratteristiche di quel mondo vi è stato –e continua ad esserci- un impegno politico dichiarato ed esercitato anche a costo di prezzi da pagare molto alti mentre il paese si trasformava inesorabilmente in un narcostato, nella terra dell’impunità, della mafiosità diffusa, del militarismo e del femminicidio, delle atroci sparizioni come l’ultima e la più terribile, quella dei 43 desaparecidos di Ayotzinapa. Maestri e giornalisti, scrittori e musicisti, pittori e poeti, hanno fatto e fanno sentire la loro voce contro un degrado che sembra inarrestabile e contro gli abusi del potere sia locale che statale che federale. L’ultima, dignitosissima voce che ha denunciato il deplorevole stato del paese, è quella di Fernando del Paso. Il grande scrittore, nel ricevere l’importante Premio Cervantes nell’Università di Alcalà de Henares, davanti ai Re di Spagna, non ha voluto lasciar passare l’occasione senza far sentire la sua autorevole voce di accusa per il pericolo che corre la democrazia messicana a causa dalla Legge Atenco, recentemente varata: “A marzo dell’anno scorso, quando ho avuto l’onore di ricevere nella città messicana di Mérida il Premio José Emilio Pacheco, ho fatto un discorso che ha causato un certo scalpore. So bene che quelle parole hanno risvegliato una grande aspettativa riguardo alle parole che pronuncerò oggi in Spagna: da allora, le cose in Messico sono cambiate in peggio, continuano le rapine, le estorsioni, i sequestri, le sparizioni, i femminicidi, la discriminazione, gli abusi di potere, la corruzione, l’impunità e il cinismo. Criticare il mio paese in un paese straniero mi fa vergognare. Bene, inghiotto questa vergogna e approfitto di questa platea internazionale per denunciare ai quattro venti l’approvazione nello Stato del Messico della Legge Atenco, una legge oppressiva che consente alla polizia di arrestare e perfino di sparare nelle manifestazioni e riunioni pubbliche contro chi, a suo giudizio, attenti contro la sicurezza, l’ordine pubblico, l’integrità, la vita e i beni sia pubblici che privati. Sottolineo: è a criterio dell’autorità, non necessariamente presente, che questa misura estrema viene permessa. Ciò prefigura il principio di uno stato totalitario che non possiamo consentire. Se non lo denunciassi, allora sì, proverei davvero vergogna.” (23.4.2006)

Le nobili parole di Del Paso sono armi spuntate contro una situazione che viene descritta da questo libro di Fabrizio Lorusso in numerosi frammenti della realtà messicana che servono a comporre il terrificante mosaico di quel paese, ridotto oggi a pura violenza e illegalità. Eppure, nel panorama degli straordinari cambiamenti dell’America Latina in questo Terzo Millennio, cambiamenti purtroppo attualmente messi di nuovo a rischio, il Messico continua a mantenere il suo prestigio in quanto “buon vicino” degli Stati Uniti, obbediente al Washington Consensus, fedele alleato in una fallimentare lotta al traffico di droghe, una battaglia che è certamente all’origine dell’attuale degrado del paese. Anche l’Italia mantiene ottime relazioni, e lo conferma il recente viaggio del Primo Ministro Renzi, di cui si parla in questo libro dove, oltre ai rapporti di politica estera fra i nostri due paesi, si dà conto di altre, diverse relazioni, come quelle intrattenute da Libera e da don Ciotti su corruzione e mafie, l’interesse di Roberto Saviano per questo e per altri paesi latinoamericani i cui rapporti con la delinquenza organizzata italiana sono fin troppo evidenti, l’opinione dello scrittore Pino Cacucci, conquistato dal Messico e dalle sue contraddizioni, o le visite di due Papi in un paese ufficialmente anticlericale. Della visita di Bergoglio, Lorusso sottolinea il silenzio sul degrado istituzionale e morale, sull’illegalità eclatante e sulle violazioni dei diritti umani. Papa Francesco ha anche officiato una messa in Chiapas –una periferia delle periferie- che dà conto della resistenza culturale di quelle popolazioni originarie le cui credenze religiose sono molte e differenti e riporta all’attenzione una regione dove una resistenza silenziosa e attiva ha consentito l’esperimento insolito e notevole delle cinque comunità o caracoles –cinque come le dita della mano- impegnate a realizzare forme di autogoverno in un territorio ostile, la Sierra Lacandona, assediata dall’esercito federale fin da quando, il 1° gennaio 1994, l’Esercito Zapatista di liberazione Nazionale, la prima guerriglia postmoderna, ha conquistato con le armi la città di San Cristóbal de las Casas.

Negli ultimi anni, di pari passo con il declino del paese, il culto più particolare sembra essere quello della Santa Muerte, una forma estrema di familiarità con la morte non nuova in Messico, ma adesso pericolosamente sprofondata nella superstizione e nel criptico linguaggio espressivo della delinquenza, praticata prevalentemente nelle città. D’altra parte, la mitologia contemporanea eleva agli altari delinquenti come El Chapo Guzmán, capo indiscusso del narcotraffico, o il suo contrario, il dottor Mireles, un medico esasperato dai ricatti e dalle violenze imposte dal gruppo criminale Caballeros Templarios, che ha guidato le sue pattuglie di autodifesa in vere e proprie operazioni di guerra nello stato del Michoacán.

Su questo caotico panorama di un grande paese sprofondato in una crisi grave e ormai cronica ha speso qualche amara parola, nel contesto di un discorso politico sul discutibile impeachment di Dilma Rousseff, Presidenta del Brasile, Cuauhtémoc Cárdenas, uomo politico e figlio dell’amatissimo Presidente Lázaro Cárdenas:

“Conviene pure gettare uno sguardo al nostro paese, il Messico. Qui il golpe è stato morbido: il neoliberismo ha imposto al nostro paese il modello che soddisfa l’egemonia, gli interessi finanziari e politici che comandano negli Stati Uniti. Si è appropriato dei nostri mercati interni, distruggendo capacità produttive della campagna, smantellando settori industriali e impedendo la creazione di catene produttive, eliminando istituzioni, annullando principi costituzionali basilari per l’esercizio della sovranità nazionale e aprendo ad interessi alieni le aree e le risorse strategiche dello sviluppo economico. D’altra parte, il golpe che è stato realizzato gradualmente in Messico è stato duro: ha provocato un impoverimento crescente della popolazione, un’esorbitante concentrazione della ricchezza, un continuo flusso migratorio che disprezza il valore del lavoro al nord, mentre qui produce una crescita della disoccupazione e del lavoro informale, della violenza e della delinquenza senza controllo, con un alto costo di vite, insieme a corruzione e impunità.”

Questo grande paese ha dentro di sé il veleno e l’antidoto e la battaglia è, inevitabilmente, all’ultimo sangue.

Copertina lorusso-messico-invisibile

Photomaton: dietro ogni foto c’è una storia

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di

Azra Nuhefendić

Per vent’anni ero andata a fare tutte le mie fototessere dal fotografo “Đumišić” che ha tutt’ora un piccolo negozio nel centro di Sarajevo. L’avevo scelto per un motivo ben preciso. Lui modificava parecchio le fotografie, all’epoca si diceva che faceva il retusche, e sulle foto eravamo tutti belli e perfetti. Non si vedevano le rughe, sparivano i brufoli, il viso era liscio come la porcellana.

Ho ancora una di quelle fototessere, per il passaporto, l’immagine è talmente ritoccata che quasi non mi riconosco: sopracciglia sottili, capelli folti, occhi grandi, ciglia lunghe… Boh! Sembro una bambola!

Da noi, negli anni Sessanta, le macchine fotografiche erano ancora rare. Una ce l’aveva mio zio, un ingegnere che lavorava all’estero. Quando veniva a farci visita ci fotografava tutte, una per una, e noi dovevamo considerare questa cosa come un regalo o un evento speciale.

Una di queste mie foto era stata esposta, per un certo periodo, sul vetro della credenza. “Così puoi vedere come sei brutta quando sei accigliata”, aveva detto mio padre. Ero piccola, non mi piacevano questi sistemi di educazione, ma non ci potevo fare nulla. In seguito scelsi il fotografo “Đumišić”, che sulla foto mi rendeva perfetta.

Nel passato le foto personali e di famiglia si facevano raramente, al massimo una volta l’anno, oppure in casi particolari, come la nascita. Nella nostra famiglia questo voleva dire ogni due anni, quando arrivava una di noi sei sorelline. Per l’occasione si chiamava il fotografo locale a immortalare l’evento.

Degli anni Quaranta del secolo scorso mi mancano le foto dei miei genitori quando, durante la Seconda guerra mondiale, facevano i partigiani. Ad eccezione delle medaglie e di qualche ordine di un comandante, scritto a mano su un pezzo di carta sottile e ingiallita, non ci sono altre prove della loro partecipazione alla guerra. Peccato. Mi sarebbe piaciuto vedere ad esempio una foto di mia madre, quando da giovanissima partigiana si metteva nel centro del villaggio e cantava, cercando di far capire ai contadini che i partigiani non erano cattivi. Oppure di avere una foto di mio padre da partigiano che, fantasticavo, doveva essere più o meno come Che Guevara in quella sua famosa foto con il berretto.

Se anche altre famiglie, come la nostra, si facevano fotografare una o due volte all’anno, in casi rari e per occasioni eccezionali, come facevano i fotografi, mi domandavo, a guadagnarsi da vivere?

La risposta la ricevetti quando ormai non la cercavo più, e nel momento meno probabile.

Durante l’ultima guerra in Bosnia Erzegovina.

Uno di questi fotografi, “che non sapevo come facesse a guadagnarsi da vivere”, della città bosniaca di Višegrad, disse al settimanale “Bosna” che, proprio facendo le fototessere e fotografando gli eventi importanti delle famiglie, riusciva ad arrivare alla fine del mese.

Ivo_Andric_largeA dire la verità questo fotografo, Alija Akšamija, non era uno qualunque, era un vero maestro. Il suo sogno di fare una foto che diventasse un simbolo si è avverato. È proprio lui l’autore della famosa foto del premio Nobel Ivo Andrić, ritratto accanto al protagonista del suo romanzo, il ponte di Mehmed Pasha Sokolović a Višegrad.

Per decenni quella fotografia è stata riprodotta in tutto il mondo, è comparsa in antologie, monografie e riviste, ed è diventata l’immagine emblematica dello scrittore. Ciò nonostante, per molto tempo non si era saputo chi fosse l’autore di quell’immagine, finché un giorno non è apparsa la famosa foto con la firma di Alija Akšamija.

Scattata nel 1963, quella foto in bianco e nero è bella ancora oggi. Con il passare del tempo non ha perso nulla della sua forza, della sua vivacità e della sua poesia. Evoca ancora la forte simbiosi tra lo scrittore e il ponte sulla Drina. Anche se Akšamija non avesse fatto nessun’altra foto, sarebbe bastata quella per farlo considerare un artista.

Nei media bosniaci, però, Alija Akšamija è comparso per parlare di un’altra cosa derivata dal suo mestiere, utile ma inattesa.

Durante la guerra, Akšamija scappò da Višegrad e si rifugiò a Sarajevo. Nella sua città migliaia di musulmani bosniaci furono uccisi, violentati, messi al rogo, e sono ancora più di mille le persone scomparse.

I sopravvissuti parlano dei criminali, conoscono i nomi e i soprannomi degli assassini, li descrivono. Ma spesso non si riesce a dare un volto ai colpevoli, agli aguzzini, ai ladri, agli stupratori.

L’archivio fotografico che Akšamija aveva portato in salvo, scappando da Višegrad, si è mostrato utile perché, scrutando attentamente le sue pellicole, le sue foto, i suoi negativi, si è riusciti in certi casi ad abbinare i nomi ai volti dei colpevoli.

Talvolta non occorre cercare, né esaminare gli archivi fotografici o le foto segnaletiche in possesso delle autorità giudiziarie. Spesso i mostri, orgogliosi delle proprie nefandezze, si fanno fotografare accanto alle vittime, mentre stanno per compiere il crimine, nel momento in cui sparano per uccidere, mentre torturano, assaltano, distruggono.

Ne è un esempio la foto, diventata simbolo, che mostra il capo della polizia del Vietnam del Sud, il generale Nguyen Ngoc Loan, mentre giustizia per strada, sommariamente, un prigioniero Vietcong (sospettato), Nguyen Văn Lém, a Saigon, nel febbraio 1968.

Una foto quasi identica fu scattata durante la guerra in Bosnia, nell’aprile 1992. L’autore è il fotoreporter americano Ron Haviv, che documentava l’assalto alla città di Bijeljina da parte dei paramilitari serbi comandati dall’infame Željko Raznatović “Arkan”.

La foto mostra un civile terrorizzato che prega per la propria vita. La sua paura è quasi tangibile, il suo sguardo supplica pietà, le spalle abbassate (per proteggersi dai colpi?) e le mani (che tremavano?) alzate in alto. Guardo la foto e ogni volta mi stupisco e ho paura come se quello che è successo vent’anni fa stesse per succedere adesso. Mi pare di sentire il pianto e la voce della vittima. Guardo la foto e penso a come si sentisse l’uomo, consapevole di stare per essere giustiziato.

Molti infami criminali, quando arriva il momento di fare i conti con l’“eroismo” immortalato sulle foto, cercano di negare, di “spiegare il contesto”, parlano di “equivoco”, accusano i testimoni di aver interpretato male, di non aver visto bene, criticano gli altri per aver falsificato, minacciano…

La parola pronunciata, anche davanti ai testimoni e in pubblico, può essere contraddetta, negata. La fotografia invece è spietata, è un documento imbattibile, una testimonianza solida.

Sono convinta che un tale Jelenko Mićević, alias Filaret, vescovo della Chiesa serbo ortodossa, darebbe tutto se oggi potesse far sparire la foto scattata nel 1991 sul fronte in Croazia, che lo ritrae davanti ad un carro armato con un kalashnikov in spalla. E non solo lui!

Nel 1992, a Belgrado,

ero presente quando un gruppo di lobbisti per la causa serba discuteva se fare dei grandi manifesti di un mujaheddin che si era immortalato esibendo la testa tagliata a un serbo bosniaco durante la guerra in Bosnia.

Contrariamente a quello che si pensa o si crede, le immagini “intrise di sangue” non sono necessariamente anche quelle che ci scuotono di più. Di fronte alle immagini troppo crudeli giriamo lo sguardo dall’altra parte, non resistiamo. Il messaggio è: “Ho pietà di te, ma non posso sopportare di guardare”.

Vedran-Smailbegovic-nella-Vijecnica_largePer esempio le fotografie della strage di 22 persone in fila per il pane a Sarajevo nel 1992, dove tutto è bagnato di sangue, hanno avuto molto meno impatto sull’opinione pubblica della foto del violoncellista di Sarajevo, Vedran Smajlović. Vestito in smoking, noncurante dei bombardamenti e dei cecchini nella Sarajevo assediata, Vedran aveva suonato l’Adagio in sol minore di Tommaso Albinoni per ventidue giorni, un giorno per ogni vittima uccisa in fila per il pane. L’immagine del violoncellista è stata molto più esplicita, e descrittiva di quanto stava succedendo in Bosnia, rispetto a molte fotografie di orrori, morte, distruzione o sofferenze. “Un popolo sotto il fuoco d’artiglieria riesce a mantenere l’umanità”, con queste parole il “New York Times” aveva pubblicato la foto del violoncellista.

La fotografia diventata icona del tradimento di Srebrenica da parte di Europa, Stati Uniti e Nazioni Unite, e che infine ha cambiato la posizione americana nei confronti della guerra in Bosnia, è quella che raffigura la giovane donna bosniaca Ferida Osmanović, impiccatasi nel bosco dopo che la città era stata presa dai serbi. Questa foto fu mostrata durante il dibattito su Srebrenica nel congresso americano, ed ebbe un impatto decisivo sulla politica degli Stati Uniti in Bosnia.

A un primo sguardo non si coglie la tragedia di quell’immagine. Si vede solo una giovane donna in piedi nel verde del bosco, è quasi un’immagine idilliaca. Solo guardando più attentamente si notano i piedi che non poggiano a terra, e la sospensione del corpo.

Un’altra delle fotografie simbolo della guerra in Bosnia raffigura un paramilitare serbo che, nella città di Bijeljina, prende a calci la testa di una donna bosniaca, già morta, stesa a terra accanto ad altre due vittime.

L’autore è il fotoreporter americano Ron Haviv che, con il permesso del criminale Arkan, fotografava i membri dei paramilitari, le così dette “Tigri”, durante l’assalto alla città di Bijeljina.

Uno di loro è giovane, alto, snello, con il lanciarazzi a tracolla, nella mano destra un kalashnikov, nella sinistra una sigaretta accesa, un nero passamontagna sotto la spallina e occhiali da sole in cima alla testa.

Il giovane, a confronto dei rozzi colleghi “assetati di sangue” (giudicando dai loro sguardi), sembra un “cittadino”, una persona più fine. Ma è proprio lui con lo stivale nero destro alzato che sta per colpire la testa della donna morta.

Il contrasto tra quella figura fine e il gesto malvagio è da brividi. Lo fa con scioltezza, come si prende a calci una lattina vuota, un pallone che ci arriva all’improvviso mentre passeggiamo vicino a un parco. Inoltre il giovane “cittadino” lo fa sapendo di essere fotografato, lo testimonia l’autore dell’immagine Ron Haviv.

Dietro ogni foto c’è una storia,

scrive Susan Sontag nel suo famoso libro “Sulla fotografia”.

La testa mozzata con la quale si è fatto fotografare un mujaheddin apparteneva al soldato serbo bosniaco Blagoje Blagojević, che nel 1992 fu catturato in Bosnia centrale e decapitato. Il combattente islamico che si è fatto fotografare con la testa tagliata era un cittadino francese, Christopher Kaze, convertitosi all’islam, e che all’inizio della guerra era arrivato in Bosnia. Fu ucciso in uno scontro con la polizia belga.

La giovane donna di Srebrenica, Ferida Osmanović, si impiccò nei campi circostanti Tuzla l’11 luglio 1995, dopo il sequestro di suo marito da parte dei serbi bosniaci. Solo pochi giorni prima lo aveva convinto a rimanere con lei e i loro due figli invece di fuggire nel bosco. Fu sepolta come sconosciuta, e solo sei mesi dopo la morte fu identificata dai suoi figli dall’unica foto che avevano della madre.

Il civile che pregava per la propria vita si chiamava Hajrus Ziberi. Nell’aprile 1992 aveva ventiquattro anni, era sposato da soli tre mesi. Il giorno in cui fu scattata la foto stava andando a lavorare, fu catturato dalle “Tigri”, buttato giù da un palazzo, sopravvissuto, poi torturato e ucciso. Il suo corpo fu gettato nel fiume Drina, ripescato nella città serba di Sremska Mitrovica, sepolto come uno sconosciuto, esumato e identificato nel 2004, e infine sepolto nel suo paese d’origine in Macedonia.

La donna morta presa a calci si chiamava Tifa Šabanović. Fu uccisa davanti alla propria casa insieme al marito e a un vicino.

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A lungo non si è saputo chi fosse il “fine” paramilitare. Il suo volto era ignoto. Sulla foto è inquadrato di spalle. Dopo un arresto a Belgrado per droga e possesso di armi, si “scoprì” che si trattava di Srđan Golubović.

Dopo Bijeljina, Srđan Golubović non si era nascosto. Anzi, stava proprio sotto i riflettori della scena musicale di Belgrado. Il kalashnikov e il lanciarazzi li aveva sostituiti con il giradischi e il sintetizzatore. Il suo nome d’arte oggi è DJ Max. Negli ultimi vent’anni ha fatto carriera occupandosi di musica Trance e di “after party”. Dicono che le sue feste fossero tra le migliori nella capitale serba.

Srđan Golubović, alias DJ Max “è uno di quelli che ci permettono, dopo ogni grande festa, di continuare a divertirci”. Così veniva reclamizzato il “fine” ragazzo, “il cittadino” che, dopo aver preso a calci la testa della donna morta, aveva continuato a divertirsi.

Vent’anni dopo lo scatto della famosa fotografia, Srđan Golubović è stato arrestato. Non per i crimini di guerra, però, ma per possesso di droga e armi non dichiarate. E poco tempo dopo è stato rilasciato.

articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

Memoriale dell’inganno

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di Gianni Biondillo

Jorge Volpi, Memoriale dell’inganno, Mondadori, 2015, 380 pagine, traduzione di Bruno Arpaia

Chi è J. Volpi? Il finanziere ebreo newyorkese che accusato di frode nel 2008 vive ora in un luogo segreto da dove ha spedito ad un agente letterario un libro, il Memoriale dell’inganno, che racconta la sua storia, in presa diretta? Lo scrittore messicano Jorge Volpi che si è immerso nella mente di un personaggio eticamente orribile fino a fargli assumere il suo nome, inventandosi una genealogia fittizia che lo giustifichi? Il figlio di un pacifista ebreo che ha visto nascere il Fondo Monetario Internazionale e che forse era una spia sovietica? Un narratore borghesiano, raffinatissimo, capace di passare da un registro stilistico ad un altro nel volgere di poche pagine?

Cos’è questo fluviale libro? Una narrazione di pura finzione, un atto di accusa contro la finanza criminale moderna, un regesto di fatti e di cronache documentatissimo, un intimo romanzo di formazione, il racconto epico della nascita di una nazione moderna?

Monologhi alati, dialoghi asciutti, documenti, diari, fotografie, personaggi familiari e personaggi pubblici, morti poetiche e vite squallide. Questo e altro ancora. Conoscerete la passione per musica classica del protagonista, la sua infanzia a Brooklyn, una madre anafettiva, una vita di inganni e di ricerca tardiva della verità. Memoriale dell’inganno è un oggetto narrativo imperscrutabile. Misterioso e affascinante. Non credete a nulla di quello che viene detto qui dentro. Fidatevi di tutto quello che leggerete. La verità dell’inganno, l’unica ammessa dalla letteratura.

(pubblicato su Cooperazione n° 26 del 23 giugno 2015)

Domenica pomeriggio sul ponte (un racconto)

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di Giacomo Sartori

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à Gilles Weinzaepflen

Un poeta con un corpo leggero e come sospeso nell’aria da poeta camminava su un ponte che scavalcava un fiume tranquillo ma anche greve di marrone determinazione, perché nelle settimane precedenti aveva invaso le rive, quasi scavallando nelle vie della cittadina. Con lui c’era una donna leggera e come sospesa nell’aria che scuoteva le anche a ogni passo, ma con una grazia trattenuta di cavalla ben educata, la quale era la sua compagna ormai da tanti anni. E anche un uomo straniero che calcava a ogni passo le scarpe da ginnastica sull’asfalto come per incollarle meglio che poteva, forse proprio perché essendo straniero aveva bisogno di sentirsi attaccato a qualcosa. Camminavano fianco a fianco, visto che il marciapiede era largo, e sembrava voler contribuire alla tranquillità di quella domenica pomeriggio così nervosamente contemporanea ma anche per certi versi ottocentesca. Si dirigevano verso la fermata del treno urbano che li avrebbe riportati nell’aria sporca del cuore della metropoli.

Mentre avanzavano un fruscio violento spostò l’aria accanto alla spalla dello straniero, non lontano anche – sull’altro lato – dalla spalla della donna leggera, facendo lievitare ancora di più il suo corpo sottile, che si staccò quasi da terra, come gli angeli in certi vecchi quadri. Si trattava di una bicicletta che sfrecciava ardita, e non contenta di averli sorpresi disegnò una virtuosa ansa attorno a una donna con una forma di medusa che incedeva davanti a loro, facendola caracollare dall’altra parte, simile a un lenzuolo gonfiato dal vento. Qualche metro dopo la ruota anteriore del rampichino fiero delle proprie prodezze perse però aderenza e scivolò leggera sul marciapiede, o forse meglio un po’ sollevata sopra di esso, disarcionando il conducente, il quale nella caduta si diresse molto lentamente ma con traiettoria determinata verso l’asfalto, come succede nel tempo rallentato degli incidenti, e molto lentamente ma anche con estrema violenza picchiò alla fine della sua corsa la spalla contro di esso. Non era però finita, perché adesso era la testa che si dirigeva lenta ma inarrestabile contro la pietra della base della spalletta del ponte: ormai lo schianto sembrava ineluttabile. Quella testa rallentò invece per qualche ragione la corsa, fermandosi qualche centimetro prima dell’impatto.

I tre camminatori non vecchi ma nemmeno giovani passarono a fianco dello spericolato corridore, e con sorpresa constatarono che non si trattava di un ragazzo, ma di un uomo con basette di uomo ben ancorato all’asfalto. S’era già rialzato, e tenendo gli occhi bassi osservava la ruota anteriore del rampichino, tutta a onde come un mare aperto arrabbiato. Fece qualche tentativo per fare avanzare la bicicletta, ma questa proprio non voleva saperne. Sembrava incredibile che quei moderni materiali che qualche istante prima erano regolarissimi e efficienti, nella cosiddetta realtà era stato un attimo, fossero adesso così malridotti, e la ruota non potesse più girare. Pareva l’unica prova che era davvero successo qualcosa di non banale, quasi un monito sulla fragilità dell’esistenza. Lo straniero alla ricerca di aderenze sul suolo guardò l’uomo, che sembrava anche lui straniero, seppure di territori più soleggiati e indomiti, per chiedergli se aveva male o aveva bisogno di aiuto, ma era evidente che lui era vergognoso di quanto era successo, e voleva solo scapparsene via per conto suo. E quindi continuarono il loro cammino verso la stazione, alla fine di quella domenica per molti versi ottocentesca passata tra ragazzi che erano ormai uomini fatti, ma chi più chi meno avevano difficoltà a aggrapparsi alle cose quotidiane, essendo tutti artisti con inquietudini e infantilismi per certi versi senili di artisti.

A quel punto il poeta rise, seppure in modo un po’ ineffabile, perché anche i poeti più ineffabili sfogano la tensione ridendo, seguito dalla sua compagna così simile a una delle matite longilinee che era abituata a tenere in mano, e dallo straniero avvezzo a stipare tutto quello che aveva capito del mondo in libri non grossi ma nemmeno sottili e leggeri come quelli del poeta tanto simile a un giunco. Allo straniero piaceva infilare quello che aveva capito anche nei discorsi, pur non essendo un abile conversatore, e quindi spiegò che non c’era da stupirsi che lo strano corridore fosse caduto, visto che lo avevano fissato con sguardi intensi e pieni di rimprovero. Il poeta stentava a capire, perché pur essendo un poeta ultracontemporaneo rotto a qualsiasi sperimentalismo era malato di razionalismo, e anche la sua compagna disegnatrice a dispetto dei suoi disegni bizzarri era prigioniera dello stesso scientismo. Lo straniero se lo aspettava, perché conosceva il paese dove viveva e al quale cercava di abbarbicarsi, e quindi mentre si allontanavano dal ponte e dalla sua acqua simile a caffelatte spiegò che non è poi così difficile per la forza del pensiero far cascare una bicicletta, soprattutto quando varie persone ben decise uniscono le forze.

Il poeta e la sua compagna così simili nella loro elegante fragilità androgina resistevano con esitazioni imbarazzate, ma poi capitolarono, e anzi erano felici di fare loro quella spiegazione con il fascino delle cose esotiche: adoravano giocare assieme con la fantasia. Ormai convinti, o fingendo di esserlo, chiesero al loro amico alcune precisazioni, e lui gliele diede. Allora potremmo rovesciare anche un camion delle spazzature?, domandò dopo qualche attimo di silenzio la donna filiforme, con la fronte solcata da una ruga verticale di bambina seria. Lo straniero in realtà già quasi anziano spiegò con un tono allegro ma anche condiscendente che certo loro tre non sarebbero riusciti a ribaltare un camion delle spazzature, ma forse se fossero stati più numerosi, o a loro si fosse unito qualcuno con facoltà molto potenti, ce l’avrebbero fatta, vallo a sapere.

 

(questo racconto è stato pubblicato sul mensile UCT (Uomo-Città-Territorio), numero 486, luglio 2016, Trento; l’immagine è una dea-madre, al Museo Archeologico di Cagliari)

 

 

La strategia del contagio e la corta memoria occidentale

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di Andrea Arrighi

 

Sarà difficile sapere se l’Isis aveva programmato o previsto la creazione di una simile sensazione di incertezza e paura nei paesi occidentali e non solo. Sto parlando del contagio che l’azione di un soggetto suicida esercita, sia esso un singolo cittadino dilaniato da disagio personale o un fiero combattente in nome di qualche religione. E’ ormai patrimonio della psicologia più comune il fatto che è meglio non rivelare pubblicamente l’avvenuto suicidio di qualcuno. Altre persone gravemente disagiate potrebbero infatti pensare che è venuto il momento “giusto” per potare a termine anche la loro vita. Così, nelle metropolitane delle città più popolate non viene mai comunicato esplicitamente che la circolazione dei treni è interrotta per un suicidio portato a termine; talvolta non si parla neppure di “incidente”, ma quasi sempre di “guasto tecnico”.

Ecco che, con clamoroso ritardo, i mezzi di informazione capiscono il pericolo di un contagio al di là di ogni immaginazione, legato proprio alla diffusione della mania di pubblicizzare foto, immagini di ogni tipo e informazioni o commenti su quanto di peggio accade nel nostro quotidiano. E’ proprio grazie alla diffusione di immagini e notizie macabramente dettagliate di soldati fondamentalisti che si  fanno esplodere uccidendo civili,  che è possibile sollecitare suicidi simili in soggetti non necessariamente  ispirati da qualche fanatismo religioso. Il suicida, nel suo isolamento sociale, appare strettamente quanto  letalmente collegato a quella  società che lo ignora, non lo valorizza abbastanza, ma che tuttavia lo circonda e resta importante per lui.

Già gli studi classici di E.  Durkheim ci raccontano di questo collegamento dell’aspirante suicida con gli altri. Il suicidio può apparire egoistico se l’individuo si suicida per una mancata integrazione nel suo contesto; ma può essere altruistico quando l’individuo si suicida, invece, identificandosi con l’ideale del gruppo di appartenenza; così il suicidio è anomico quando l’individuo, in seguito al disgregarsi delle sue relazioni sociali, perde anche la propria identità. Il suicida, nota la psicologia kleiniana, compie sia una vendetta che un’espiazione. Si vedica di torti subiti, portando su di sé la colpa di uccidersi e uccidere e si sente tuttavia anche vittima innocente sempre di quei torti che ritiene gli siano stati indirizzati nelle più svariate maniere. Il suicida, come appare spesso evidente, in molti casi si uccide provocando almeno problemi più o meno gravi alla collettività che lo circonda: blocca i mezzi pubblici, fa saltare in aria la palazzina dove abita con il gas, ecc. L’Isis ha offerto una motivazione in più per un suicidio spettacolare, che danneggia gravemente chi viene coinvolto, senza distinzioni di razza o di appartenenza religiosa (i musulmani risultano tra i più colpiti) e sembra garantire al suicida anche una relativa celebrità post-mortem. Il che si inserisce nelle tematiche di molti suicidi che, nel loro disturbare la quotidianità, esprimono in maniera definitiva e massima il loro odio e rimprovero a tutti quelli che rimangono.

Frustrazione e rabbia albergano in ognuno di noi e come psicoterapeuta spesso mi capita di occuparmene clinicamente. Il classico pensiero distruttivo “vorrei uccidere quasi tutti, cioè genitori, partner, colleghi di lavoro o capiufficio”, legato a motivazioni di vario genere, più o meno consapevoli, se non elaborato, può facilmente sfociare nel  progetto indicibile: “per uccidere gli altri uccido anche me stesso, così –  come si accennava –  divento carnefice e vittima!” L’Isis ha quindi creato uno stato di tensione che probabilmente non immaginava. In Europa, non siamo abituati – e facciamo di tutto per non abituarci – all’idea di essere in una situazione di guerra. In Iraq o in Siria, per citare solo due esempi, la situazione è inequivocabile: nessuno è sicuro di essere vivo nel futuro prossimo. Da noi no: è troppo angosciante immaginare di essere coinvolti in una guerra di un genere nuovo: non c’è un esercito “nemico” che arriva nel nostro paese a cui   arrendersi o coi cui eventualmente collaborare.

Si pensi alla controversa storia italiana nel suo rapporto col nazifascismo, ad esempio. (Si veda il recente saggio di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale. Laterza, Bari, 2013). Qui il “soldato nemico” è un apparentemente innocuo partecipante ad una manifestazione nel nostro tempo libero che improvvisamente ci uccide, uccidendo se stesso. Oppure, aspetto ancora più inquietante, è un nostro concittadino, interessato al fondamentalismo religioso solo per quanto gli può servire a rendere  importante mediaticamente il suo gesto. L’attentato di Nizza o quello di Monaco di Baviera (Luglio 2016) sono infatti compiuti da soggetti ispirati da tematiche razziste e religiose, ma non da convinti soldati di un qualche Dio, come possono essere gli appartenenti alle truppe del califfato che lottano a Sirte, in Libia.

Se non c’è allora nessun “nemico riconoscibile” da affrontare e la sicurezza è affidata a soggetti che non solo non sono riusciti a impedire i diversi attentati, ma che, in alcuni casi, come quello nella chiesa di Saint- Etienne du Rouvray, avevano schedato e conoscevano bene gli attentatori e le loro intenzioni, allora la sensazione è quella di essere in periodo simile a quello degli anni ’70 in Italia, caratterizzato da quella che, secondo alcune opinioni, veniva definita come la strategia della tensione. Noi italiani dovremmo almeno conoscere e ricordare alcune stragi compiute non da fondamentalisti islamici ma da terroristi made in Italy, che non si suicidavano ma provocavano stragi ben più gravi di quelle attualmente compiute in Europa o almeno non meno drammatiche: alludo, per citare quelle più importanti, alla strage di Bologna ( 2 agosto 1980, un ordigno esplode alla stazione di Bologna e provoca il crollo dell’ala ovest: 85 morti, 200 feriti.), Piazza Fontana ( 12 dicembre 1969, un ordigno all’interno della Banca nazionale dell’Agricoltura uccide 17 persone e ne ferisce 88). Ovviamente diversi sono i contesti, i periodi storici e le motivazioni e dolorosamente controverse sono tuttora le interpretazioni storiche di quel periodo e di quei fatti: ma l’obiettivo sembra assai simile, cioè creare una situazione di incertezza generale nella popolazione civile. Come anche gli opinionisti di destra notano, neppure le forze di polizia, per quanto potenziate, esaltate e lasciate libere di compiere significative restrizioni nelle comuni libertà civili, come quella di partecipare a manifestazioni, sembrano garantire una sicurezza minima auspicata da ogni posizione politica. Questa strategia della tensione è infatti congruente con gli obiettivi dell’Isis che, contrariamente a quanto propaganda, non sembra mirare ad una conquista dell’Occidente – per ora neanche lontanamente raggiunta, se paragonata all’ascesa rapida della Germania nazista in Europa dal 1939 al 1944 – ma ad un suicidio collettivo in nome di paradisi fantasticati. Oppure l’obiettivo dell’Isis è, in termini sempre corrispondenti alla letteratura sul suicidio accennata, psicoanalitica ma non solo, quello di essere vendicatori e vittime suicidali di torti subiti. Quali possono essere questi torti? Le diseguaglianze planetarie che da secoli vengono confermate da politiche economiche gestite dall’Occidente, soprattutto a suo favore? Identità e integrazione sociale promesse e mai mantenute ai figli di migranti di prima, seconda o terza generazione in stati europei? Probabilmente entrambe queste motivazioni, ma anche altre, scarsamente conosciute dal pubblico italiano. Ricordiamoci che ogni fonte di informazione è solo una delle tante “finestre sul mondo”, non l’unica.

Restando invece sul tema dell’identità, credo interessante ricordare che in nome di ideali e di identità nazionali più o meno solide anche in Occidente non si è certo risparmiato in termini di perdite inutili di vite umane. Si pensi alle operazioni di guerra palesemente suicide gestite dal nostro generale Cadorna che, nel suo “Libretto Rosso sosteneva esplicitamente che negli attacchi “le prime file dei soldati servivano soltanto a fare da scudo alle seconde file”. Quindi alcuni soldati – non pochi – erano inevitabilmente destinati a morire, indipendentemente dalla loro capacità di combattere e dalla fortuna in combattimento. Del resto, lo stesso psicoanalista e polemologo Risè sostiene che “L’uomo è stato disponibile a morire per millenni, per avere un’identità, ed evidentemente lo è ancora”.

Quindi la situazione si fa sempre più drammatica. Non si tratta quindi di blindare ulteriormente le nostre frontiere. Il pericolo può arrivare da giovani, anche di origine europea, in cerca di un’identità “forte” per riscattare una vita anche economicamente agiata, ma priva di senso. Ecco che l’Isis propone proprio questo: chiunque può diventare soldato di Allah, se disposto ad immolarsi. Del resto, l’idea di avere “Dio dalla propria parte” non è per niente originale: l’Occidente quasi in tutte le sue guerre di conquista e civilizzazione passate e recenti  si è  sempre presentato come guidato da Dio; naturalmente, quello a sua immagine e somiglianza.

Che fare dunque? Se polizia ed eserciti vivono nella consapevolezza che non possono neppure agire come nel più totalitario degli stati, dato che se è (forse) possibile incarcerare tutti i possibili sospetti di simpatie fanatico religiose o tutti i possibili soggetti contrari ad un governo (come sta avvenendo in Turchia), è credo impossibile controllare e segregare tutti i soggetti con possibili turbe psichiche (spesso non facili da diagnosticare con certezza), tendenze suicidali o variamente emarginati. Il rischio che corriamo lo possiamo comprendere leggendo tra le righe un altro punto della definizione generale di suicidio:

“Siccome l’isolamento favorisce il suicidio, si è constatata una maggiore incidenza nei grossi centri urbani e tra persone che vivono sole rispetto ai coniugati; più numerosi si sono rivelati i suicidi nelle classi economicamente più agiate rispetto a quelle meno abbienti.” Quindi le persone da “controllare scrupolosamente” diventano davvero troppe per qualunque paese. Ecco che allora il gesto “jihadista”, come nota anche Recalcati, suscitando emulazione “si moltiplica coinvolgendo anche chi non professa quella ideologia”. Verrebbe da commentare, con una certa ironia, che sarebbe meglio indirizzare quei (numerosi) giovani in cerca di un’appartenenza “forte” alle tante altre sette occidentali esistenti certamente meno suicidali rispetto all’Isis. Purtroppo, sempre con amara ironia, appare anche poco credibile, data l’inarrestabile diffusione di mezzi tecnologici e il sempre vivo interesse per il macabro, raccomandare, come hanno  anche fatto recentemente le forze di polizia tedesche, la non trasmissione e diffusione di immagini di attentati, violenza e azioni terroristiche di vario genere. Come possiamo attenerci a questo consiglio, se stampa e (soprattutto) televisione o mezzi audiovisivi in generale prosperano soprattutto mostrando, in modo dettagliatamente morboso, quasi come un macabro mantra ripetuto ad orari regolari, (quasi) solo il peggio di quello che avviene nel pianeta? Forse una volutamente semplice risposta potrebbe essere cominciare a prendere consapevolezza dell’esistenza delle tante contraddizioni sociali, politiche, etiche , economiche per citarne solo alcune, della storia dell’Occidente che di vittime militari e soprattutto civili ne hanno prodotte tante.

Partita doppia

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di Nicola Fanizza

Maurilio Riva Partita doppia, ed. Lettere animate , euro 15

Pochi sanno che il verbo legere in origine indicava l’atto del raccogliere e il termine pagina, a sua volta, designava il tralcio della vite. Allo stesso modo in cui la nostra mano va incontro al tralcio della vite per raccogliere i grappoli d’uva, il nostro sguardo si muove, «passeggia» sulla pagina per raccogliere i caratteri della scrittura. Per di più – per esperienza diretta – so che quando si raccoglie l’uva da vino, l’uva buona e matura, accade spesso che alcuni acini siano già in fermentazione e pertanto una piccola quantità di zucchero sfugge alla misurazione mediante il mostimetro. Quella quantità di zucchero «nascosto», però, ricompare come alcol nel momento in cui il mosto si è trasformato in vino. Pertanto, quando leggiamo i libri, dobbiamo essere attenti non solo a quello che c’è, ma anche e, soprattutto, agli indizi che rimandano a un pensiero che deve essere ancora sviluppato, dobbiamo cogliere quelle situazioni che nel testo sono, per l’appunto, in fermentazione, ossia ciò che è stato nascosto oppure ciò che l’autore ha pensato solo in parte.

Di tutto ciò ne era ben consapevole Remo, il protagonista dell’ultimo romanzo di Maurilo Riva, che ha per titolo Partita doppia. Un bilancio esistenziale. Remo, infatti, era solito sottolineare le righe del testo con la matita, e a volte trasferiva i pezzi in fermentazione in «un quadernetto a righe per memorizzarli e mantenerli in evidenza. Quel quadernetto, quello che ne restava, l’aveva conservato. Era rimasto tra le sue carte, nei suoi cassetti. (…) . Evidenziare a matita era un modo per raccontarsi e per lasciare indizi. Per altri occhi. Attuali e futuri».

A partire dalle prime pagine del romanzo, apprendiamo che Remo sente che la sua vita sta per finire e, pertanto, si rende conto di non avere più tempo per rappresentare con la scrittura il suo vissuto. Da qui il suo invito rivolto al suo amico scrittore di ricostruire, mischiando documenti veri e falsi, gli snodi principali della sua esistenza.

Il titolo del libro è intrinsecamente motivato, poiché la storia si svolge su due piani diversi e, insieme, giustapposti. Attraverso il diario del protagonista, l’autore parla del suo rapporto con le dinamiche della politica, con il suo portato di illusioni e delusioni. E, in modo coestensivo, sempre sulla scorta del filo della sua memoria, ricostruisce il tessuto sfilacciato dei suoi rapporti affettivi col mondo femminile. Il tutto preceduto dai ricordi inerenti alla sua adolescenza, vissuta tra viaggi, sogni e i primi disincanti.

Così veniamo a sapere che Remo appartiene alla generazione del ’68, a una generazione che credeva di poter creare un mondo meno ingiusto e comunque meno opaco di quello in cui viviamo adesso. Il protagonista di Partita doppia è un operaio che, come tanti, allora, per la prima volta nella storia, prendeva la parola. E’ impegnato nel sindacato e sente l’obbligo di aiutare i suoi compagni di lavoro e tutti quelli che vivono in una condizione di sofferenza. E tuttavia non riesce ad affrancarsi dai comandi che gli impone il Grillo parlante. La voce del «Super io» censura i suoi desideri, lo stimola ad adeguarsi a ciò che la società si aspetta da lui e, pertanto, gli preclude a volte la stessa possibilità di essere felice. E quando ciò accade, Remo apre il suo «quadernetto» per parlare dei suoi sogni, delle sue storie in movimento, del non ancora …

Riva ci fa rivivere gli snodi più rilevanti inerenti alla storia degli ultimi sessant’anni e, in particolare, ritengo che sia oltremodo pertinente la sua rievocazione della guerra del 1979 tra la Cina popolare e il Vietnam. Quella guerra colpì al cuore non solo il mito del comunismo terzomondista, bensì anche la convinzione, radicata nella coscienza dei militanti dei movimenti e dei partiti di sinistra, che non fosse possibile in alcun modo una guerra fra paesi socialisti. Venne meno allora l’alone romantico che avvolgeva la rivoluzione culturale e nel contempo cominciò a venir meno la fiducia nell’avvenire.

D’altra parte, Remo ricostruisce le dinamiche che investivano la vita sindacale negli anni settanta/ottanta. Allude alla presenza di esponenti delle Brigate Rosse nelle fabbriche e nelle stesse strutture sindacali. Una presenza inquietante che contribuiva a creare e a mantenere un clima di conflittualità permanente, nel quale trovavano posto gli atti di violenza e di intimidazione nei confronti dei dirigenti e degli stessi esponenti del sindacato. Da qui la rievocazione del sogno in cui Remo viene ucciso dai brigatisti rossi!

Remo ricorda in particolare quando Bruno Trentin fu eletto segretario della CGIL e le speranze che quell’elezione aveva suscitato nei quadri sindacali, maggiormente attenti alle istanze dei lavoratori.

Ricorda, altresì, di aver incontrato Pietro Marcenaro, una singolare figura di sindacalista, che aveva sperimentato volontariamente per alcuni anni il lavoro in fabbrica per rendersi conto, personalmente, della condizione operaia.

Con Partita doppia Riva costruisce un prezioso spaccato della modernità più tragica: ossia di uomini che ne hanno subito le tragedie senza poter lasciare una traccia del loro passaggio.

Non è un caso che Remo ci teneva tanto a non essere dimenticato e, sicuramente, aveva delle buone ragioni per conservare il suo «quadernetto», in cui lasciare indizi, pezzi di testo in fermentazione. Per altri occhi!

 

Extraterrestrial activity #4: Sci-Fi

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earth with debris

di Tracy K. Morris

Non ci saranno margini, ma curvature.
Linee nitide rivolte solo avanti.

Alla storia, dorsale coriacea e angoli
vivi, subentrerà la sfumatura,

Come quando i dinosauri lasciarono il posto
A masse su masse di ghiaccio.

Le donne saranno donne, sebbene
La differenza irrilevante. Il sesso

da: Il corpo di Mircea Cărtărescu

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Proponiamo, dopo l’estratto dal primo volume – L’ala sinistra – pubblicato da 404:FNF nei giorni scorsi, un estratto dal secondo volume – Il corpo – della trilogia Abbacinante di Mircea Cărtărescu, capolavoro ancora per lo più sconosciuto al pubblico italiano, di cui è recentemente uscito il terzo e finale volume, L’ala destra. Scopo di questi estratti, come spiegato nell’introduzione al primo brano, è dare maggior diffusione a un’opera che si colloca tra le maggiori degli ultimi decenni, nella letteratura europea e non solo. Anche in questo caso si è scelto un passo visionario, sia perché la visione mistica e psichedelica è, con la sua particolare grammatica, uno dei motori del romanzo, sia perché la lettura di questo brano, messa a confronto con quella dell’estratto dal primo volume, può dare al lettore una prima, sommaria idea di come Cărtărescu lavori per nessi simbolici e per rimodulazioni (Vanni Santoni).

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di Mircea Cărtărescu

 

Non vivo più nulla realmente, benché viva con una intensità di cui le semplici sensazioni non potrebbero dar conto. Inutilmente apro gli occhi, poiché non posso più vedere. Invano rimango sbalordito davanti alla mia finestra ovale, tentando di cogliere suoni. È come se avessi non un certo numero di sensi, ma miliardi di sensi, ciascuno diverso, ciascuno adatto ad altri stimoli: uno esclusivamente per la forma della tazza dalla quale bevo il mio caffè, un altro solo per la forma del sogno di questa notte. Un altro per il bisbiglio terribile delle mie orecchie, udito distintamente un po’ di anni fa, mentre me ne stavo, nel mio pigiama sdrucito, con le gambe sul termosifone, nella mia stanza di via Ștefan cel Mare. Non percepisco più le alterazioni della luce, le altezze del suono, la chimica del garofano e dei dettagli, ma scene intere, inghiottite all’improvviso da un senso virtuale, appena dischiuso nel centro della mia mente solo per quella scena luminosa ed effimera come un’onda, che reagisce con essa, modificandola, appiattendola, avvolgendola come un’ameba e formando insieme con essa un’altra realtà, antica e immediata, illuminata da un desiderio nostalgico e oscurata dall’estraneità. È come se tutto ciò che mi accade, che potrebbe accadermi, dovesse essermi già accaduto, come se tutto esistesse già in me, non però in forme piene e vistose, ma in attesa, in lamelle accartocciate, rudimentali, avviluppate strettamente le une dentro le altre là nelle strutture del cervello – e anche nelle ghiandole e negli organi e nel mio crepuscolo, come pure nelle mie case in rovina – attendendo lì una conferma e un nutrimento dalla vampa modulata dell’esistenza, a sua volta irrisolta ed embrionale. Non percepisco più se non ciò che ho percepito già in passato, non posso più sognare che i sogni già sognati. Apro gli occhi, non però per il colore e i contorni, dal momento che la luce non si diffonde più in corpuscoli che attraversino il mio cristallino e gli strati traslucidi della retina, che producano rodopsina nelle mie cellule di forma conica; intere immagini giungono improvvise, scolpite nella rodopsina e accompagnate come da un’aura di penero di suono e filamenti di sapori e di profumi, di gelo e calore, di dolore e pietà, di una torsione del capo verso destra confortato e contrastato dal senso cocleare. Giungono interi quartieri, insieme con il tempo, lo spazio e il loro turbamento, e soprattutto con il loro grado di realtà – poiché possono essere reali o sognati, o immaginati, o trasmessi mediante i legami ineffabili che congiungono le nostre vite a quelle di coloro che ci hanno preceduto – giungono labbra e sessi, e tram che scorrono sui binari in inverni con neve sporca, viene mia madre a portarmi ogni tanto da mangiare, talvolta viene Herman. Non potrei percepire nulla di tutto ciò se non si ricostituissero, in qualche modo, nella mia mente (nel mio mondo), se non si schiudessero da lì i bulbi oculari, se non mi dicessi in ogni istante della mia vita: “Ho già vissuto questo un’altra volta, sono già stato lì”, così come non è possibile vedere la luce se la luce non è già stata nella zona occipitale della tua vita, formando là il senso idoneo per la luce. Per questo la mia vita è già vissuta e il mio libro è già scritto, giacché il passato è tutto, e il futuro è niente.

Non potrei sostenere in alcun modo l’architettura schiacciante della mia vita se io stesso, nella mia interezza, non fossi un organo di senso per lei. E, così come l’occhio non può accogliere e comprendere null’altro che la pura luce, poiché è scolpito dalla luce nell’osso poroso del mio cranio, e dal momento che null’altro al mondo è maggiormente in grado di accogliere e comprendere la luce, allo stesso modo il blocco compatto di fogli e membrane neuronali del mio corpo, con l’anatomia e la malinconia delle sue volute, con la sua struttura tridimensionale, difficile da comprendere quanto quella di un’aldeide, è un solo, grande, unico organo di senso stimolato soltanto dalla mia vita, da questa energia che non è né luce, né suono, né profumo, né gusto, né sensazioni tattili o cinestesiche e neppure lacerazione di tessuti. Nulla, mai, potrebbe recepire altrimenti la mia vita, essa viaggerebbe nell’inesprimibile come bilioni di altri stimoli con cui nessuno sa cosa fare, come la luce in universi privi di globi oculari e come il freddo in mondi senza epidermidi. Sono un unico grande organo di senso, dischiuso come un giglio di mare, che filtra attraverso la polpa bianca dei miei nervi i vortici di questa sola, unica vita, unico mare che mi nutre e mi contiene. Un solo analizzatore, una sola cellula sensuale, lucida, che riceve sempre il vento solare della mia vita, con il suo penero, le sue frange capricciose di aurora boreale, con i suoi tramonti sinuosi e le albe accecanti che penetrano fra le membrane traslucide, m’illuminano i reni e le ghiandole salivari, mi disegnano con fluoro e arsenico le viscere. Mi modificano, producono alterazioni chimiche, ricordi e riflessi, immagini e suoni, liberano ormoni e sogni e ascensori e notti e volti mostruosi mai visti prima, e quest’intero flusso organico e psichico, tragico etico e musicale viene spinto più lontano, attraverso la fontanella del cranio, sulle vie ascendenti della Divinità, tramite sinapsi mistiche e axoni angelici verso il chiasmo ottico della mente che ci comprende e da lì nel talamo del karma e nelle proiezioni verso le aree sensoriali dove i santi e i giudici stanno a gruppi, con nimbi dorati intorno ai crani trasparenti, emanando lingue di fuoco e cianuro, valutando, soppesando, amministrando. Mutata in codici e simboli, in danze allegoriche, la mia vita si spande, informe, sopra il cranio della Divinità, lo protegge come un arcobaleno, come un omuncolo elettrico, con enormi dita, con mille articolazioni, con labbra da sassofonista, ma con un corpo minuscolo da lombrico sospeso a un filamento di seta. Poiché la Divinità è un cervello immenso, una medusa grandiosa con miliardi di sensi, che scivola nella notte abissale, appena illuminata di una luce azzurra di batteri. La sua cupola pulsa lentamente e la sua trasparenza è semplice amore di color oro. Una grande medusa che pensa. Un pensiero che pensa, non però nei termini del pensiero, ma del nulla abissale che lo circonda, quasi che l’intera cattedrale pulsatile, più grande, più ricca e più complessa della capacità del pensiero di pensarla, più aurea della capacità dell’amore di amare sé stesso, insomma più potente del potere stesso, più imperiosa della stessa volontà, non fosse che un minuscolo difetto del nulla circostante, un’imperfezione della morte priva di difetti che riempie tutto il vuoto, una cavità impossibile da localizzare nella roccia della notte senza fine. A sua volta un accidente dell’iper-nulla, dell’ultra-spazio vuoto, della morte elevata alla potenza della morte e dell’aleph elevato alla potenza di aleph. Sicché alla fine pure la Divinità non è altro che un meraviglioso organo di senso dischiuso nel cristallo del nulla, a sua volta organo di senso per un nulla più misterioso. Pieghe dentro altre pieghe, come un bocciolo di rosa, come una vulva.

Io, nel frattempo, penetro la mia vita. La inghiotto, la bevo, la vedo, la odoro, l’addento, la vivo, la odio, la posseggo. Bruco con quattro comparti simmetrici, trasformo la mia vita in impulsi codificati e la trasmetto gerarchicamente, più in alto. Il cranio e il torace ricordano il paradiso, si colorano come la cartina al tornasole quando s’immergono nella beatitudine. Pensano, respirano e spingono il mio sangue spumoso attraverso le arterie. È il triangolo della mia felicità, è la piramide della mia umanità ed è il mio coro d’angeli che canta sopra il vasto arazzo di nervi e muscoli del diaframma. Quando sono felice penso, respiro e mi batte il cuore. Sono le funzioni dell’uccello, sono ali spiegate sul cranio di diamante. Sono tre occhi limpidi e azzurri aperti sopra ali di libellula. Se fossi questo soltanto: cervello, cuore e polmoni, sarei un dio, poiché gli dèi non hanno viscere melmose. Sarei come una navicella spaziale che avanza mediante un getto d’aria e sangue, propulsando fra le stelle il suo pilota cerebrale. E lui, l’omuncolo, nel suo abito perlaceo di mielina, manovrerebbe sul proprio stesso corpo come su un sofisticato quadro di comando, con contorsioni di milioni di dita che scorrono sopra miliardi di filamenti e pori del suo corpo pensante. E tutta la navicella sarebbe piena di liquido cefalo-rachideo sfavillante come dell’oro liquido, e nel cranio del pilota un altro omuncolo mostruosamente bello danzerebbe sul proprio corpo con decine di migliaia di dita simili ai filamenti di ragno, e nel suo cranio un altro omuncolo leviterebbe dentro un liquido dorato. E il corpo del più grande sarebbe sempre il cosmo del più piccolo, e il mondo e la notte e Dio sarebbero semplici cosmi impacchettati l’uno dentro l’altro, separati da pareti sempre più esili fatte di ossa craniche, crani dentro crani dentro crani dentro crani…

Non sono però solo angelo, sono pure un demone orrendo e grottesco, che sta appostato come una tarantola pelosa sotto il diaframma. Qui ho le viscere e i reni, e sotto di essi, nella loro sacca rossastra e rugosa, le strane uova che pensano il tempo. E il tubo mediante il quale, smezzato e ridotto a un vibrione sognatore, viaggio verso il ventre di un altro universo. Qui affondo nell’abiezione, avanzando più in basso tramite un getto di urina e sperma. Qui respiro il fuoco sulfureo dell’inferno. E così come, propulsato da cuore e polmoni, da aria e acqua salata, il mio cranio, custodendo il cervello, naviga attraverso gli universi riuniti, il fuoco dello scroto e il terragno delle viscere spingono gli spermi nel tempo che fende lo spazio, trasversalmente, formando con esso una croce di quarzo imponderabile. Ed ecco l’inferno: corpi nudi di maschi e femmine, accoppiantisi l’uno con l’altro fra gemiti e convulsioni, uscendo di continuo l’uno dall’altro, dilaniandosi uteri e vagine, riempendo i corpi erettili con lubrificanti e con sangue, divenendo vecchi, flaccidi, putrescenti, ma continuando a liberare ovuli e sperma, capsule micidiali che illuminano, simili ai fotoni, le labbra sensuali di altre donne, le cosce irsute di altri maschi, genitori e figli e ancora genitori e figli che lasciano dietro di sé la degradazione degli organi sfatti, delle ossa che si dissolvono lentamente dentro loculi dello stesso quarzo abbacinante. Ventri contenenti ventri in cui ci sono ancora ventri, quasi che tutte le mamme e le figlie fossero rinchiuse l’una dentro l’altra, in una sequenza illimitata di donne gravide, alternanza eterna di pareti uterine e di feti gravidi di altri feti, uteri dentro uteri dentro uteri dentro uteri…

Ma ecco che la medusa celeste non è solo cervello e non è solo pensiero, è sesso e passione allo stesso tempo, e non per la fusione di carni e princìpi, bensì per la loro identità sostanziale, poiché all’estremo, agli estremi degli anfratti di guazza, l’ipercerebro, che è lo spazio, non è altro se non l’ipersesso, che è il tempo. E l’iperspazio, che è il pensiero, non è altro se non l’ipertempo, che è la passione. E l’iperpensiero, che è tutto, non è altro se non l’iperamore, che è nulla. E il tutto-nulla, impalpabile, inevitabile, inalterabile, è proprio la mia vita, che capto con l’organo di senso del mio corpo, nel cui flusso mi libro e aleggio, che invento a mano a mano che essa stessa mi inventa, finché lei si rapprende e io mi rarefaccio e formiamo insieme una totalità vita-corpo in cui non si sa più chi crea e chi sabota chi. Infatti la matrice dei miei organi imprime alla mia vita una forma codificata, la sola che la tua materia grigia possa comprendere. Con essa ti invio l’odore dei miei capelli e il sapore delle mie labbra. Il colore dei miei occhi e la durezza delle mie unghie. Tutto ciò lo trovi in questo grande unico codice, in questo regesto, in questo libro illeggibile, questo libro.

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Due interviste di Vanni Santoni a Mircea Cărtărescu sono leggibili su Le parole e le cose e minima&moralia.

Miti moderni/18: Visite di cortesia

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13664404_10210404281852852_1358214894_ndi Francesca Fiorletta

Separa i fiori dall’armadio, la vita scorre come un filtro d’immagini. Leggi le stelle, parla alle nuvole: segui i consigli del buon vicinato.
Ogni notte è una tappa, una scalinata bolognese, su cui baciarsi piano, toccarsi bene sotto i vestiti, e poi sparire piano, sopra un giubbotto di pelle sciupata.
“Guardami negli occhi”, le ripeteva. Guardami dentro, la testa. 

Tre racconti del concreto

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casa

di Hugo Bertello

STORIA DEL MURATORE CHE VOLÒ SOPRA AI TETTI
Racconto dal grande slancio

La fantasia è una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte
le combinazioni possibili e sceglie solamente quelle che rispondono ad un fine,
o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli, divertenti.
(Italo Calvino, Lezioni Americane)

 

Una volta un muratore canadese ricevette il compito di rinnovare una mansarda. Terminato il proprio lavoro con gran perizia, il muratore si accorse di aver sbagliato qualche calcolo, poiché gli avanzavano ben 100 mattoni, che non sarebbero stati più di alcuna utilità alla costruzione. Ora, siccome ogni mattone pesava 4 libbre – valutò brevemente l’uomo – il loro peso totale doveva ammontare a 400 libbre tonde tonde. Ricordando molto bene la gran fatica che gli era costata trasportare il peso su per le scale, questi iniziò allora a pensare se non vi fosse un metodo migliore per riportare il materiale al piano terra, dentro al suo furgone.

Ragno Tigre

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ragnotigredi Federico Betta 

A vederlo così era come se stesse affogando. Si muoveva tutto veloce, saltava di qua e di là, dal suo manuale al video, e poi dal video ai suoi appunti e poi si fermava, tirava un respiro, guardava lo schermo e ricominciava a sbracciare coi suoi stupidi fogli. Lo so, è impossibile, ma sembrava come se venisse risucchiato dentro quel coso.

Da quando ha cambiato lavoro non ha smesso di nominarlo. Fino al Natale scorso, ha continuato a ripetere che in America ce l’hanno tutti e qui, invece, siamo ancora mezzi contadini per colpa dei russi.

Era la cosa che voleva di più al mondo, l’unica che gli avrebbe cambiato la vita, che avrebbe cambiato la vita a tutti noi. Ma la mamma non era d’accordo: diceva che con le assicurazioni non aveva ancora ingranato e prima o poi dovevamo cambiare la macchina. Quando lei tirava fuori quella storia lui spariva dalla stanza e urlava “La macchina va benissimo!”

Questa volta, però, non voleva solo comprarlo, non voleva solo far crepare d’invidia lo zio Giorgio. Questa volta voleva proprio convincerci che era la cosa giusta da fare: “Senza di lui mi passano tutti avanti.”, diceva sempre.

Alla fine, la botta giusta gliel’ha data la storia del muro e per quasi due mesi, da quel nove novembre fin sotto Natale, è diventato insopportabile. Continuava a stressarci che finalmente potevamo fare il grande salto anche noi, che lui quella cosa l’aveva aspettata tutta la vita. È arrivato a dire che non comprarlo era come se i rossi avessero perso con tutti, a parte che contro di noi: “Se non cavalchiamo le macerie, per noi è la fine!”.

A quel punto anche mamma non ce l’ha fatta più e gli ha attaccato un messaggio sullo specchio del bagno: “se proprio ci tieni, è giusto che tu lo prenda.”

Era il 22 dicembre, sabato: io stavo facendo colazione, pronto all’ultimo giorno di scuola, e mamma, al solito, passava la pezzetta sulle maniglie della cucina.

Ho sentito un toc toc, strano, leggerissimo, e ho alzato la testa vedendo mamma che si era fermata anche lei. La porta della cucina, lentamente, si è aperta e, dopo qualche secondo, è spuntata la faccia di papà, con un gran sorrisone e quel bigliettino appiccicato sul naso. Ci ha guardati, prima mamma e poi me, e come una tigre pronta all’assalto si è avvicinato a bere il suo caffè. Appena la tazzina ha toccato di nuovo il tavolo, mi ha guardato e ha detto: “chi mi accompagna al negozio invece di andare a scuola!?”.

Mamma l’ha puntato e senza dire una parola gli ha lanciato lo straccio. Papà l’ha schivato e si è tuffato dietro me, con il foglietto ancora sul naso: “Roooarr”, ha fatto. Mamma, asciugandosi le mani nel grembiule, ha raccolto la pezza e, alzando gli occhi al cielo, ha detto: “va be’ va, a Natale siamo tutti più scemi.”

Ci siamo preparati come per andare in spedizione: acqua, frutta, due Mars e Polo a tutto spiano. Mamma ci ha guardati salire in auto dalla porta di casa e, quando mi sono voltato perché papà ha grattato incastrando la terza, lei era ancora lì.

“Siamo indietro, Fra! Il mondo è nel futuro e noi giochiamo ancora col fax.”

La storia del muro per lui è stata fondamentale, come se una cosa che succede a mille chilometri potesse cambiare le cose anche da noi: “le brigate rosse, la p2, la Dc, ma ti sembra un Stato normale? Se non ci fossero loro, secondo te, avremmo tutti ‘sti casini?” Per lui, il muro di Berlino è sempre stato il simbolo del potere dei russi e adesso, che finalmente è caduto, tutto il mondo si darà una regolata. E anche qui da noi, secondo lui, sarà tutto diverso, perché non avremo più quella cosa a farci ombra. Di questo è proprio convinto: “da quando hanno tirato giù quell’obbrobbrio – così dice sempre lui, obbrobbrio con quattro b – finalmente anche noi possiamo diventare un paese normale. Siamo già in ritardo, Fra! Se non stiamo al passo, ci asfaltano!”

A me, in fondo, non sembra che sia successo chissà che. I russi, sì, se la sono presa in quel posto, ma non scherziamo, quelli sono i russi: mica sono tutti idioti come tispiezzoindue. E poi, anche se non tornano i russi, arriveranno i cinesi. Sicuro! Mi ricordo ancora quella scena, con quel tipo davanti alla fila dei carri armati; l’hanno fatta vedere centomila volte. “Un ragazzo! Un ragazzo da solo, vedi cosa può fare?” Papà si esaltava come ai film di Rambo, ma io ho sempre pensato sì, un ragazzo da solo lo fanno vedere alla tv, ma quello è uno, uno solo, e gli altri morti ammazzati? Eh? Non contano niente?

“Quelli sono cinesi, Fra! Non si capiscono neanche tra di loro. Ma sai quanti sono? Ora che si mettono tutti d’accordo, qui, ne facciamo uno grande come una casa!”.

Ecco, da quando aveva mollato la fabbrica per lanciarsi con le assicurazioni – “Fra, questo è il mio piano americano!” – il mondo girava attorno a quel coso. “Basta imparare due tasti e fai tutto più veloce. I miei capi, in America, ne hanno due a testa. Altro che russi, Fra! Questo, questo è il futuro.”

Quel giorno, sabato 22 dicembre, il piano americano di papà doveva fare, finalmente, il grande salto: quel coso, dopo averci rotto le palle per un anno, stava arrivando. Grazie al magico presepe e alla faccia della Ritmo scassata, infatti, stavamo per comprare il nostro primo computer.

Era gasatissimo, come i bambini che aspettano il gelato. Ma, secondo me, non aveva fatto bene i calcoli. Era sabato, ultimo giorno prima della chiusura natalizia, in giro c’era un casino allucinante e cercare quel coso è stato una specie d’incubo. Mamma gli aveva detto “Ma perché non lo prendi su Postal Market?” ma lui non ha voluto sentire storie: “comprare cose serie per corrispondenza? Ma va’, non lo fanno neanche in America!” E così abbiamo girato tutti i negozi e i negozietti della nostra bella città sotto il dirupo e, a ogni ora che passava, mi sembrava sempre più di cadere in fondo a un buco, come nella trappola di quegli insetti assurdi. Quand’ero bambino ce n’erano tantissimi a casa del nonno, si chiamano Formicaleone, ma non so perché li ho sempre chiamati Ragno Tigre. Forse perché mi facevano paura, nascosti in fondo al loro buco, con le pareti così ripide che le formiche, appena ce le buttavo dentro, erano quasi sicuro spacciate.

Con i primi due tipi è stato tranquillo. Loro hanno detto: “mi dispiace, è tardi, bisognava ordinarlo”, e lui, come niente fosse, ha fatto finta di guardare le macchine fotografiche e ha detto: “Be’, certo, il 22 dicembre, ovvio”. Dal quarto negozio in poi, però, aveva la pelata bagnata come i vetri quando piove. E dopo il centro commerciale, quello nuovo attaccato all’autostrada, quasi quasi finiva male. Erano le quattro e mezza e il tizio con la targhetta sulla camicia sorrideva da dietro il bancone: papà aveva gli occhi pieni di fuoco e io mi sono messo in mezzo per portarlo via. Altro che Ivan Drago.

Era praticamente buio e il fondo del fosso ci stava aspettando. Sentivo il respiro feroce di un mostro pronto a saltare fuori per inghiottirci, ogni persona in mezzo alle scale era un artiglio del nemico e seguivo papà che gli spintonava a destra e sinistra per arrivare prima alla macchina. Nel piazzale ha grattato due volte per incastrare la prima e poi è partito facendo un salto. Io ho chiuso gli occhi e ho gridato: “attento!” Lui ha inchiodato e ha urlato contro una vecchia che non si muoveva. Lei si è girata e senza capire cosa stava succedendo ci ha salutato con la mano.

Annegare, cadere in un buco, farsi mangiare le gambe da un Ragno Tigre, volevo dirgli di andare a casa, che l’avremmo comprato dopo Natale, ma lui, come tutte le formiche disperate che ho lanciato in quelle trappole, era pronto a tutto.

E, infatti, ha avuto l’ultimo scatto: è partito facendo fischiare le gomme e abbiamo infilato il casello.

Anche le formiche facevano così. Arrivate sul fondo del buco, era come se impazzivano: cominciavano a muoversi di qua e di là, saltando sui granelli di sabbia come per volarci sopra, come quando al mare stai annegando e, anche se sei distrutto, dai le ultime bracciate, ancora più potenti delle altre. A vedere la scena ti verrebbe voglia di dare una manata e salvarle, vorresti sentire l’abbraccio di mamma che ti alza, ma invece stai fermo, perché sei attirato anche tu in qualche cavolo di modo magnetico, da quel mostro che può schizzare fuori e tirarti sotto.

Aggrappato al volante non c’era verso di fargli prendere un pezzo di Mars. “C’è un giorno nell’anno, Fra, no grazie, un giorno solo, ho detto no grazie, uno tra tutti gli altri trecentosessantaquattro giorni, che deve andare come si deve, com’è sempre andato.”

Saltando nella corsia di sorpasso, guardavo la luce dei fanali scassati della Ritmo, e pensavo che la cosa bella delle formiche nel fosso è che alcune, quelle che ce la mettevano davvero tutta, riuscivano a salvarsi.

“Lo sai perché nel presepe mettiamo anche quel tizio che dorme, eh? E quegli altri… quello che fa le castagne, eh? Per esempio? Cosa c’entra?”

Papà era schizzato a centotrenta e mi chiedevo se avremmo sfasciato la Ritmo o ci saremmo salvati anche noi. Per mantenere la calma distruggevo una Polo dopo l’altra, ipnotizzato dalla lancetta del contachilometri che tremava terrorizzata anche lei. “Perché così, quando a mezzanotte mettiamo il bambinello, tutte quelle cose, quelle persone normali, diventano magiche!” Senza staccare gli occhi dalla strada, ha suonato a una Mercedes che non lo faceva passare e ha rubato dal cruscotto l’ultimo pezzo di Mars.

“E io, eh? Me lo spiega quel cretino con la targhetta, cosa scarto io a Natale?”

Erano ormai quasi le sei e papà ritardava a rallentare per mettersi in coda al casello di uscita. Passando in fianco alle macchine, ha fatto i fari e suonato a un furgoncino col telone strappato: con una finta uno-due che sembrava Rocky, l’ha fatto fermare e si è infilato al suo posto.

Quando la stanga si è alzata – stavamo volando sui granelli di sabbia – e il tipo del furgoncino ci malediceva – come sbracciamo per la paura di affogare – ho chiuso gli occhi inghiottito da un mostro – cammini tranquillo e poi cadi in un fosso – e quella vanga che ha spaccato tutto mi ha invaso la testa – il buco in un vetro è come nella sabbia.

Era quasi Natale anche lì, io avrò avuto dodici o tredici anni. Stavamo caricando, proprio in quella Ritmo appena comprata, gli attrezzi da portare al nonno: dovevamo aiutarlo a piantare un grosso pino che voleva addobbare in mezzo al giardino. Avevamo la terra, un piccone, un vaso gigante e una vanga, molto lunga. Era tutto sistemato, e papà, per ridere, mi ha sollevato facendo finta di mettere nel baule anche me. Io ridevo, come al solito quando fa lo scemo: “Dai, mettimi giù, dai, il nonno ci aspetta.” Ma lui continuava a farmi girare e con una mano, da dietro, ha sbattuto il portellone della macchina.

Bum!

Tenendomi sollevato, dopo un momento, si è voltato e, quando mi ha lasciato andare, ho capito cos’era successo: il manico della pala avanzava fuori dal vetro sfondato della Ritmo nuova.

A me si è aperta la bocca e ho fatto un passo indietro. L’ho detto io, che era lunga. Lui è rimasto immobile, come ipnotizzato da quella pala che aveva distrutto la macchina. In tutto quel silenzio mi ha spaventato un rumore: era stato come un urlo, ma un urlo basso, come tappato, e veniva dal secondo piano. Mamma si era affacciata alla finestra e ci guardava con una mano davanti alla bocca.

Lui si è voltato verso di me, poi ha guardato lei, e con la faccia grigia è rimasto lì fermo, tra la mano di mamma, la mia bocca aperta e la macchina bucata. Io guardavo tutto e non sapevo cosa dire.

Al telefono col nonno cercavo di non farmi scappare quella storia – “Ma cos’è successo? Dove siete?” – e mi passava in testa un sacco di roba: c’era il presepe, c’era papà, il nonno, l’albero di Natale, la mamma, la vanga, l’orsetto di peluche – “Digli di sbrigarsi, se viene buio non si fa più niente!” – e tutte quelle cose si distruggevano una sull’altra, come le palle di sabbia schiacciate su una montagna sempre più alta.

Se ce la metti tutta il mostro non ti prende: se ti muovi, se fai ancora due bracciate, non annegherai mai, così mi diceva, così mi ha sempre detto, devi dare sempre altre due bracciate. E lui se ne stava lì, davanti alla pala nel vetro della Ritmo nuova, con il nonno che urlava per fare il buco dell’albero.

Era una buca grande, talmente grande che sembrava la trappola gigante di un Ragno Tigre. Era un fosso enorme che s’ingrandiva sempre di più, un buco nell’acqua è come nella sabbia, un buco nel vetro che diventa infinito e risucchia tutto, compreso me, il nonno al telefono e anche il tipo del furgoncino dietro di noi, anche se tutto era successo quattro anni prima.

È strano come le cose di tanti anni fa sono sempre qui. Come quel muro caduto a Berlino, che ci ha fatto fare il grande salto, come me, adesso, davanti alla porta del sua stanzetta. Lo guardo, chiuso là dentro da mesi, davanti a quel coso che gli fa la faccia più grigia del buco nella Ritmo. E vorrei entrare e dirgli no, dai, lascia stare, non serve a niente. Vorrei dirgli che è lo stesso, anche se hai distrutto il vetro della macchina nuova, vorrei dirgli chissenefraga di tutto, fai ancora due bracciate papà!

E invece non faccio niente, rimango fermo, zitto, e lo guardo che piano piano smette di agitarsi. Sembra attaccato a un attrezzo che non gli da più energia. O forse i grandi capi, quelli in America, quelli che ne hanno due, proprio quelli che non sbagliano niente, gli stavano succhiando via tutta la vita. E lui se ne sta fermo immobile, senza sapere cosa fare, tra i miei occhi e il computer, come me, quella volta della vanga, tra i suoi occhi fissi e la mano di mamma.

Ivan Drago, la caramella intorno al buco e il tipo con la targhetta. La tigre, i cinesi, la donna nel parcheggio, il telone strappato e le formiche che non sono mai spacciate fino alla fine. Dai, ancora due bracciate, dai papà, ancora due.

Ci sono i pastori, la capanna, Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello, e quando a mezzanotte arriva il bambino, tutto diventa magico. Anche la stella, lassù nel cielo, la stella magica con la coda, ferma immobile a brillare. Ancora due bracciate, volando sui granelli, ancora due, ancora due, se no diventi grigio, sempre più grigio, ancora due papà, se no cadi giù, ancora due, ti prego papà, vola, vola impazzito su quei maledetti granelli, se no sparisci, perché il muro è caduto, la fabbrica è chiusa, abbiamo il computer, sparisci, sparisci assieme a tutto il resto, come le formiche, quelle spacciate che non ce la fanno più.