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La «Garduña» e le mafie. Ogni origine ha un mito

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mafia

di Antonella Falco

La Garduña è una leggendaria società segreta di matrice criminale che avrebbe svolto la sua attività in Spagna e nelle colonie spagnole del Sudamerica in un arco di tempo compreso fra la metà del XV e il XIX secolo. Proprio alla Garduña è dedicato un interessante saggio di Marta Maddalon e John Trumper dal titolo La costruzione del racconto: la “vera” invenzione della Garduña, uscito sul numero 69 de La ricerca folclorica.

John Trumper, studioso di glottologia e linguistica generale, ha pubblicato numerosi saggi di fonetica e fonologia, dialettologia romanza e italiana, sociolinguistica e linguistica applicata. Si è inoltre occupato di etnolinguistica e linguistica storica, di fonetica giudiziaria e di gerghi di mestiere. Marta Maddalon è studiosa di linguistica e sociolinguistica. I suoi interessi di ricerca riguardanti la sociolinguistica, l’etnolinguistica e lo studio della lingua e dei suoi dialetti l’hanno portata a pubblicare testi sull’analisi degli usi linguistici nell’Italia contemporanea e saggi sul fenomeno della rivendicazione identitaria mediata dalla lingua come nel recente Ventimila leghe. Immersione negli usi linguistici dei movimenti politici dell’Italia contemporanea (Aracne, 2013). Maddalon e Trumper non sono nuovi agli studi sulla lingua delle organizzazioni mafiose, infatti nel 2014, insieme al magistrato Nicola Gratteri e allo storico delle organizzazioni criminali (nonché uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta a livello internazionale) Antonio Nicaso, hanno dato alle stampe il saggio Male lingue. Vecchi e nuovi codici delle mafie (Pellegrini Editore).

I due autori partono dalla constatazione che la storia della Garduña è presente «nelle leggende e nei canti popolari della Calabria» – constatazione suffragata da alcuni libri sia italiani che stranieri, anche molto recenti, quale ad esempio il volume Made Men di Antonio Nicaso e Marcel Danesi. Anche nel volume di Enzo Ciconte ‘Ndrangheta dall’unità ad oggi (del 1992, dunque meno recente dell’altro, uscito nel 2014) si fa riferimento ad una «nota associazione fondata a Toledo nel 1412, la Garduna» e ai cavalieri facenti parte di tale associazione, i quali «dalle loro terre, quelle della Catalogna, portarono nel Mezzogiorno d’Italia alcuni metodi in uso in quella consorteria. Si racconta che lavorarono per 29 anni, sottoterra, di nascosto da tutti, per approntare le regole sociali della nuova associazione che avevano in animo di costituire. La sede da loro prescelta fu l’isola della Favignana. Da lì, dopo un lavoro trentennale, decisero di dividere in tre tronconi l’associazione che, da quel momento, si insediò stabilmente nelle regioni meridionali, e si denominò mafia in Sicilia, camorra nel napoletano e ‘ndrangheta in Calabria. È un’antica leggenda, di cui non esistono molte tracce scritte, che si è tramandata oralmente…».

Si tratta per lo più di testi che descrivono dettagliatamente l’organizzazione della società (i livelli in cui si articolerebbe e i vari ruoli e denominazioni presenti al suo interno) e che oscillano tra la tentazione di dare consistenza realistica alla Garduña e l’ammissione del suo essere sostanzialmente una invenzione letteraria assunta però come mito di fondazione dalla mafia calabrese. Trattare il tema della Garduña e dimostrare la sua identità prettamente letteraria ha ovviamente comportato per gli autori del saggio uno studio attento della storia e della letteratura spagnola dal XV al XIX secolo.

In tutte le narrazioni sulla camorra fiorite dall’Ottocento in poi si fa riferimento molto spesso a un testo intitolato Misteri dell’Inquisizione ed altre società segrete di Spagna, per V. de Féréal, con note storiche ed una introduzione di Manuel de Cuendias e con estratti relativi a quest’opera di Edgardo Quinet. Prima versione italiana, Parigi, a spese dell’editore 1847. Sarebbe questa la traduzione italiana di un testo francese del 1845 poi tradotto anche in spagnolo. Questo testo sarebbe da considerarsi una «narrazione romanzesca», cosa tra l’altro espressamente dichiarata dagli autori, che a loro volta potrebbero celarsi dietro degli pseudonimi. Fra questi potrebbe trovarsi una nobildonna tedesca nota con il nome di Madame de Suberwick, la quale per scrivere il suo libro avrebbe viaggiato in Spagna travestita da uomo. Sempre a Madame de Suberwick sarebbe riconducibile un altro testo dal titolo tanto inquietante quanto satirico di Conseils de Satan aux Jésuites, la cui autrice è stavolta denominata Madame de Beelzebuth. Ma secondo gli studiosi spagnoli l’unico personaggio la cui reale esistenza sia storicamente provata è Cuendias, il quale avrebbe anche scritto un progetto di Costituzione progressista conservata nella Biblioteca Nazionale di Madrid. Sempre secondo gli studiosi cui Trumper e Maddalon fanno riferimento si tratterebbe comunque di personaggi – forse di un collettivo – accomunati da un atteggiamento strenuamente anticlericale.

«Quello che è ancora più certo» – scrivono Trumper e Maddalon – «è che rapporti diretti di derivazione, tra società segrete spagnole, vere o letterarie, e organizzazioni criminali storiche italiane non ve ne sono, affermazione che non nega o sottovaluta l’aspetto storico degli influssi dovuti al periodo del Viceregno nel Regno delle Due Sicilie. Vi è invece, come commentano da molto tempo gli storici che si sono occupati della storia dell’Inquisizione, la creazione di un Racconto intorno a questa istituzione, che va ben al di là della sua reale esistenza e del suo modo di operare. Ciò fece sì che nel XVI secolo, a fronte di una rivoluzione di tipo confessionale che viene assumendo una dimensione politica, l’Inquisizione, o meglio la sua immagine letteraria, divenne il simbolo del nemico della libertà politica, a rappresentare cioè i pericoli dell’innaturale alleanza tra il Trono e l’Altare».

L’Inquisizione viene così a incarnare un’entità reazionaria che si oppone al progresso e che «rappresenta l’eccessivo potere temporale della religione». Nel corso del XIX secolo essa diventa protagonista di numerose narrazioni romanzesche il cui scopo politico risulta ben evidente. Tale fenomeno interessa varie nazioni europee, tutte «accomunate da un contrasto politico che coinvolge spinte clericali e anticlericali».

La narrazione di un «perverso piano inquisitoriale» finisce per confluire anche nei codici ‘ndranghetisti: è quanto avviene nel cosiddetto Codice di Pellaro, un manoscritto sequestrato appunto nel territorio di Pellaro in data 22 marzo 1934 e intitolato Origine dei tre cavalieri di Spagna. In esso sono contenute le norme relative alla fondazione della Società di Malavita e quelle relative alla gerarchia che regola l’organizzazione degli affiliati. La parte iniziale di tale codice sembra essere molto simile a un romanzo di cappa e spada o di appendice. Ad ogni modo sembra fuori di dubbio che chi lo ha scritto abbia letto i Misteri. In questo tipo di racconti, inoltre, si evince sia in Spagna che in Francia la complessa organizzazione gerarchica delle associazioni criminali menzionate, di cui Maddalon e Trumper forniscono una dettagliata terminologia. Bisogna inoltre sottolineare come «le associazioni criminali protagoniste di questo filone letterario derivano, come nel caso spagnolo, da vicende reali».

Sebbene sia qualcosa di diverso, anche il banditismo, specie quello sociale, fornisce materiale per trasposizioni letterarie: «banditi e briganti sono molto radicati nella cultura popolare e celebrati in un filone musicale, talvolta di buon livello, che vede anche trasposizioni contemporanee».

Tra i rimandi letterari non si può tacere di quello relativo a Cervantes, chiamato in causa dagli autori (o dall’autore) dei Misteri, infatti «per dare spessore storico alla descrizione della Garduña, si ricorda che è precisamente in un delizioso racconto dell’autore del Don Chischiotte che si incontra Manipodio, il capo della società dei ladri di Siviglia».

Pertanto, i due autori del saggio si dicono convinti che «alla luce di questo rimando, la fonte di tale filone interpretativo per l’origine della camorra e per il Racconto dei Codici possa essere definitivamente identificata».

Tra gli autori ottocenteschi che sostengono la filiazione della criminalità del Meridione italiano dalle forme spagnole, Maddalon e Trumper citano Marc Monnier, Emanuele Mirabella e Abele De Blasio a cui aggiungono l’anonimo autore di un testo intitolato Natura e origine della misteriosa setta della camorra (nelle sue diverse sezioni e paranze, linguaggio convenzionale di essa usi e leggi). Uno dei capitoli è proprio incentrato sulla lingua e si intitola Lingua furfantina dei camorristi. È comunque interessante notare come tutti gli studi dell’epoca sull’argomento diano grande risalto agli aspetti linguistici. Degli altri autori citati il più noto risulta essere Monnier il quale è menzionato in molti testi sulle associazioni criminali meridionali, mentre, sempre basandoci sui testi, risulta completamente sconosciuto l’altro autore, Mirabella, il quale però «scrive l’opera più completa sul gergo criminale dei prigionieri e dei condannati al soggiorno obbligato». Mirabella inoltre ebbe modo di vivere per diversi anni a contatto dei prigionieri di Favignana in quanto medico della colonia penale.

Altro testo di una certa importanza risulta essere Usi e costumi dei camorristi di De Blasio, contenente «esempi di codici e dell’assetto dell’organizzazione camorristica» sia dentro che fuori dalle carceri, assetti che sono tra l’altro «perfettamente rispondenti a quelli ‘ndranghetisti».

Per quanto riguarda una filiazione diretta dalla Spagna, Monnier pur non trovando prove documentali sostiene che le «estorsioni» dei criminali meridionali erano già presenti fin dal tempo della dominazione spagnola. Sia pure in mancanza di «prove dirimenti» questi testi, come scrive Nappi nel suo saggio Il mito delle origini spagnole della camorra tra letteratura e storia, «accogliendo talvolta qualche variazione leggendaria sul tema delle origini ispaniche della camorra, chiameranno quasi sempre in causa la suddetta compagnia segreta variandone la dizione in Guarduña, Guarduna, Garduña o infine nel corretto Garduña».

Non ci sono dubbi circa il fatto che Monnier conosca i Misteri, libro che «fornisce lo spunto per i riferimenti, divenuti obbligatori, a Cervantes, e all’ormai inflazionata novella Rinconete y Cortadillo e a vari episodi del Don Chisciotte».

Anche De Blasio pur sostenendo di non occuparsi dell’etimologia della parola camorra fa notare come essa non sia che la Garduna «che fu introdotta in queste nostre provincie nell’epoca in cui il Regno di Napoli e Sicilia rimase soggetto […] allo scettro di Spagna e governato da Vicerè, che ridussero il popolo povero e servo».

Maddalon e Trumper ricordano come molti autori, antichi e moderni, citando Cervantes avvalorino la tesi secondo cui il noto scrittore spagnolo abbia, nel suo romanzo più famoso, descritto in modo quasi storico-antropologico una serie di comportamenti e di associazioni che dimostrerebbero l’esistenza di “sette” criminali, cosa appunto sostenuta nei Misteri. A proposito dell’episodio di Sancho governatore, ad esempio, si parla del “barato”, ossia l’usanza di pretendere il pizzo sul gioco. Sul termine “barato” si concentra il commento linguistico di Maddalon e Trumper presente nella seconda parte del saggio che stiamo esaminando. Prima di soffermarci su tale trattazione etnolinguistica è bene però ricordare, come fanno gli stessi autori, una altro passo di Cervantes utile ai fini dell’argomento affrontato. Si tratta di un episodio che si colloca nel XV capitolo ed è incentrato sull’incontro con il bandito Roque Guinart. Di costui parla in un suo commento Don Juan Antonio Pellicer, accademico della Reale Accademia di Storia, il quale coglie l’occasione «per parlare della presenza di bande di briganti che infestavano realmente la Sierra della Cabilla, in particolare una, denominata Beatos de Cabilla, i cui membri erano così chiamati in virtù del fatto che si limitavano a esigere solo una parte degli averi delle loro vittime, circoscrivendo quindi il danno e meritandosi per questo l’epiteto di “Beati”». È bene far notare che un certo Perot Rocaguinarda è esistito realmente, e aveva fama di bandito gentiluomo: su tale modello Cervantes avrebbe delineato il carattere del personaggio presente nel suo romanzo. Questa categoria di banditi che mescolavano crimini e azioni caritatevoli, religione ed empietà, era diffusa, a detta degli storici, in diversi paesi.

Agli occhi dei primi meridionalisti, quali Villari e Tranfaglia, la camorra – come anche la ‘ndrangheta e la mafia – assumerebbe il ruolo, contemporaneamente, di protettore e oppressore di una plebe povera e abbandonata a se stessa dal governo borbonico. Oltre a svolgere un ruolo “protettivo”, la camorra si farebbe anche «rappresentante dei loro interessi e della loro cultura», il che darebbe adito alla figura del bandito “buono” che incarnerebbe una forma di «giustizia alternativa». Secondo John Dickie, invece, la ‘ndrangheta sarebbe da intendere come una sorta di «filiale» della camorra di cui riprenderebbe il Racconto e la mitopoiesi. La sua origine sarebbe in tal caso spostata in un periodo più tardo, quello post-unitario e se ne rintraccerebbero con difficoltà «i precedenti storici e linguistici».

Maddalon e Trumper citano tra gli altri un saggio di Nicola Sales, pubblicato sulla rivista Limes nel novembre del 2014, un saggio che ha avuto ampia risonanza in quanto ha visto la partecipazione di Roberto Saviano. Ecco come Sales sintetizza la questione: «Dunque, tutte e tre le organizzazioni criminali nascono nello stesso periodo storico, all’inizio dell’Ottocento, a ridosso della fine del feudalesimo (nel 1860 a Napoli e nelle province continentali, nel 1812 in Sicilia), a imitazione delle associazioni politiche segrete in cui gli oppositori al regime assolutistico borbonico si erano organizzati. […] Le associazioni criminali, che poi chiameremo mafie, si organizzano sul modello politico delle sette segrete dei ceti aristocratici e borghesi».

Maddalon e Trumper, pur annotando le perplessità circa l’uso della parola “feudalesimo” nell’accezione utilizzata da Sales e sull’analisi politica da questi compiuta, si soffermano principalmente sull’attribuzione «di un ruolo primario all’influenza di sette segrete dei ceti aristocratici e borghesi», sostenendo che «la discussione sulla segretezza, in cui la lingua gioca una parte preponderante, non disgiunta dalla definizione di “setta”, spesso usata a sproposito, ha il demerito di allontanare da una corretta definizione dei fenomeni coinvolti, non ultimo quella del gergo».

Per quanto concerne i motivi per cui potrebbero trovarsi dei riscontri tra il Racconto dei codici ‘ndranghetisti (i cui primi esemplari risalgono, sia culturalmente che linguisticamente, alla permanenza nelle carceri oppure al soggiorno coatto) e gli antecedenti letterari, Maddalon e Trumper ricordano che sia i romanzi d’appendice, che quelli di cappa e spada, nonché gli strani testi di cui i due studiosi hanno dato conto nelle pagine iniziali del loro saggio, avevano una larga diffusione presso i ceti popolari e anche nelle carceri. Inoltre, i due linguisti fanno notare come sia prassi comune di molte società, non necessariamente vicine o collegate, trasfondere in ambito letterario, epico e/o musicale, le figure e le gesta dei banditi. Capita anzi, come nota Eric Hobsbawm nel suo Bandits, che le classi subalterne li eleggano a propri eroi. Il fatto poi che questi banditi riescano a coniugare la violenza con le spinte ribellistiche e l’atteggiamento solidale e soccorrevole nei confronti dei più deboli, concorrono a spiegare la creazione di una siffatta figura letteraria. Questi banditi inoltre facevano un largo uso di simboli religiosi ed erano molto superstiziosi. Tali comportamenti risultano diffusi su ampia scala, vale a dire si ritrovano in tutte le descrizioni della figura del bandito in qualsiasi Paese europeo, questo però non porta alla conclusione di un «rapporto diretto di derivazione nel caso della criminalità organizzata italiana» ma solo al fatto che esistono comportamenti pressoché universali di cui l’antropologia culturale fornisce ampio conto. Naturalmente il mito creatosi attorno ai briganti e ai banditi romantici serve a rafforzare l’aura di protettori della povera gente e difensori degli oppressi al punto da renderli protagonisti di racconti e di canti popolari. Questi fenomeni storicamente connotati si sono radicati nell’ambito della cultura popolare e poi sono passati nella letteratura “colta” già ai tempi di Cervantes. Quando si parla codici ‘ndranghetisti bisogna aver chiaro che essi sono una molteplicità di cose e vanno pertanto studiati con notevole rigore. Essi sono infatti, tra le altre cose, «una creazione letteraria, che attinge da fonti popolari ben radicate; sono l’invenzione di un Mito di fondazione, sono un modello per sancire un’appartenenza». Ma non sono solo questo. È bene ricordare che si tratta di «un’invenzione relativamente recente». Maddalon e Trumper riconoscono pertanto che «non è stato facile ricostruire la serie di incastri, di nomi e di nomi in codice (pseudonimi), degli scherzi e delle (mezze) verità; è stato come seguire le trame dei romanzi d’appendice, in cui ad ogni scoperta seguiva la sua negazione, ogni agnizione introduceva nuove scoperte, e così via puntata dopo puntata».

Nella seconda parte del loro saggio Maddalon e Trumper si soffermano innanzitutto sul fatto che indicare una data di nascita precisa, il 1427, per la Garduña – dalla quale poi sarebbero derivate la camorra napoletana e la ‘ndrangheta e i suoi codici – è cosa che lascia assai perplessi. Solitamente quando si parla della nascita di un fenomeno sociale si indica il periodo storico e non una data precisa, indicare quest’ultima implicherebbe infatti «un atto fondativo formale e registrato». Già questo avrebbe dovuto mettere in guardia i commentatori e portarli a diffidare del carattere “storico” del racconto, da intendersi piuttosto in maniera simbolica. Lo stesso discorso vale per la “Bella Società Riformata” – dove “riformata” significherebbe “confederata” – la quale, in base ad alcune fonti, sarebbe nata ufficialmente nel 1820. Luogo di nascita di questa «setta» sarebbe stato la chiesa napoletana di Santa Caterina a Formiello, dove gli esponenti della camorra dei dodici quartieri di Napoli stabilirono nell’ambito di una solenne cerimonia lo statuto della nuova associazione, stabilendo anche che il «capintesta» dovesse essere nativo del quartiere di Porta Capuana, cosa questa fatta ad imitazione delle usanze aristocratiche che per secoli avevano riservato la dignità di Presidente degli Eletti del Popolo (carica soppressa nell’aprile del 1800) al cosiddetto «Sedil Capuano». La Bella Società Riformata sarebbe stata sciolta il 25 maggio 1915, all’indomani dello scoppio della prima guerra mondiale, per volontà del capo camorrista Gaetano Del Giudice. Fu così che durante tutto il periodo fascista non si sentì più parlare di camorra: si continuò a delinquere ma senza avere alle spalle un’organizzazione.

Secondo Maddalon e Trumper l’idea di una associazione criminale organizzata come una setta o una società vera e propria, munita pertanto di statuto e cariche, risulta assai poco verosimile. Anche in questo caso viene da pensare a un Racconto creato a posteriori e poi tramandato.

Nelle opere letterarie e nelle cronache si trova notizia anche di un’altra organizzazione criminale nota come Germanìa: secondo Caro Baroja sarebbe esistita sia una Germanìa carceraria, «che era non solo un gergo ma anche un sistema», sia una Germanìa esterna alle carceri i cui metodi sarebbero stati gli stessi di quelli utilizzati per fondare la Garduña. Si trova un riferimento alla Germanìa anche nel Rinconete y Cortadillo di Cervantes.

Per quanto concerne l’ambito italiano i due studiosi precisano che il mondo carcerario pur non costituendo l’unica origine delle organizzazioni criminali, fornisce comunque ad esse alcune regole e caratteristiche, nonché una certa organizzazione e una certa simbologia.

Garduña

Da un punto di vista più strettamente linguistico “Garduña” è termine che ricorre anche in un toponimo: Sierra de Garduña. Nel senso attinente all’organizzazione criminale, la parola viene citata e glossata originariamente proprio dagli autori che ne parlano nei loro testi. Garduña è termine connesso con la parola “garda” e in ultima istanza, attraverso vari passaggi, il suo significato è riconducibile a termini quali “ladra” e “meretrice”. Il termine non sembra essere presente al di fuori dei già citati Misteri e nelle riprese degli autori italiani. Tuttavia esiste un’opera letteraria non tradotta in italiano e pertanto poco nota, che si intitola La Garduña de Sevilla y anzuelo de las bolsas ed è stata scritta da Alonso De Castillo Solórzano nel 1642. L’espressione “anzuelo de las bolsas” sarebbe da tradurre come “gancio delle borse” e sarebbe l’attrezzo usato da una borsaiola, infatti, come si è ricordato poc’anzi, “garduña” significherebbe “ladra”. Tuttavia la novella – ascrivibile al genere, assai praticato in ambito narrativo, della fanciulla che con abilità e astuzia riesce a volgere al meglio la propria sfortuna – non avrebbe nulla a che fare con la camorra.

Un altro termine sul quale si soffermano Trumper e Maddalon è “barattolo”. A questo proposito i due studiosi precisano che mentre «il lessico dei dialetti siciliani è permeato di ispanismi […] nel caso della Calabria, al contrario, i casi sono decisamente pochi, dai nostri studi più recenti non più di una cinquantina». Per quanto riguarda l’ambito napoletano sono annoverate 85-90 basi ispaniche assolutamente certe. Dunque « mentre il siciliano è ancora permeato di ispanismi» napoletano e calabrese lo sono assai meno. Il termine “barattolo” indicherebbe la cassa comune della malavita e corrisponderebbe al termine ‘ndranghetista “baciletta”. «Il barattolo è organizzato dal “contarulo”» il quale aveva il compito di tenere il registro e segnare l’ammontare del barattolo. Secondo i due studiosi piuttosto che concentrarsi sul concetto di “frode” e di “maltolto” sarebbe preferibile concentrarsi sul “barattolo” inteso come “contenitore”. Il termine ha la sua prima attestazione in siciliano nel 1750, in napoletano nel 1840, ma è presente nel toscano già dalla fine del ‘500. In Calabria comparirebbe nel 1895, sebbene la primissima attestazione, secondo il Glossario Latino Italiano di Pietro Sella risalirebbe al 1449 e in generale sarebbe «riconducibile al Centro-Sud Italia». Nell’Ottocento gli studiosi siciliani ritenevano il termine come un arabismo giunto a noi attraverso lo spagnolo rigettando l’origine nord-italiana proposta da Battisti e Devoto.

Altro termine su cui si soffermano Maddalon e Trumper è “barratteria”. In molti passi della sua opera Monnier ipotizzava che la barratteria napoletana fosse di origine spagnola. Mortillaro e De Ritis mettono in relazione il termine con il racconto dell’Isola di Baratteria DI Sancho Pança in Cervantes, passo che anche Monnier cita e che è commentato da Nappi. Quella che viene ipotizzata è una deriva semantica che da “traffico commerciale” e ”cambio” conduce a “frode”. In Calabria il verbo “barattare” risulta attestato dal 1466 ma non il derivato sostantivo “barattaria”. In italiano il DEI attesta “baratteria” nel Trecento nell’uso dantesco di “frode da barattiere”, mentre la Tabula Amalfitana lo attesta nei secoli ‘300-‘400 nel significato di «frode a danno dei proprietari di nave o degli armatori, e nel Settecento la si ritrova nel senso di ‘rivendita’ o ‘rivenderia’ di cose scambiate con o senza frode a più basso prezzo». In Francia la voce “baraterie” risulta attestata già nel primo Trecento ma sembra che la primogenitura del termine spetti alla Provenza. L’accezione negativa di questa parole potrebbe, nel Meridione d’Italia e segnatamente in Calabria e Sicilia, dipendere da «un’influenza formale e semantica del bizantino». A proposito di questo termine Maddalon e Trumper giungono quindi alla seguente conclusione: «Più che un’origine spagnola, pensiamo, dunque, a un antico provenzalismo con sviluppi semantici particolari avvenuti nell’Italia meridionale».

L’ultimo termine su cui si sofferma l’indagine dei due studiosi è “frieno” da loro definito come «uno dei misteri ancora non completamente svelati nel lessico criminale». «La forma, ancor più del significato e dell’origine, resta problematica; il dittongo – ie – non corrisponde a nessun esito usuale o previsto. La voce non ricorre in Monnier ma è attestata almeno otto volte nell’opera di De Blasio, con il significato di ‘regola’ (singola) o ‘regolamento’; ‘statuto’ (insieme di regole) della società criminale organizzata, denominata poi Camorra». I dizionari siciliani e calabresi dell’Ottocento danno al termine “camorra” il significato di “cavezza”, “briglia” in riferimento agli equini oppure quello di “morso” e “freno del carro”, mentre i dizionari dialettali napoletani sia del Settecento che dell’Ottocento sembrano non avere questo lemma e registrano solo un generico “frino” per “freno”. Secondo Trumper e Maddalon la “camarra” attestata nell’estremo meridione d’Italia sarebbe da confrontare con il termine castigliano “gamarra” che significa “sottopancia di equino”, “cavezza”. Il “freno” inteso come singola regola o come regolamento e statuto sarebbe attestato solo in fonti circoscritte all’Ottocento e riguardanti Napoli e la camorra, «mentre nel Medio Evo vi sono fonti provenzali e catalane che danno estensioni semantiche di simile natura: ‘freno naturale’, ‘il regolamentarsi’ […] Supporre una qualunque origine tanto remota e varia è piuttosto inutile, per cui, il mistero permane».

Per quanto concerne la “Germanìa”, essa è probabilmente l’unica organizzazione spagnola, sia carceraria che esterna, ad aver avuto un’esistenza reale e non solo letteraria. Essa è da intendersi come «un fenomeno autenticamente spagnolo, che ha origine tra Quattro e Cinquecento». Dal punto di vista terminologico potrebbe trattarsi di un catalanismo con il significato di “confraternita” risalente al tardo Quattrocento e indicante gruppi rivoluzionari di Nobili Catalani di Valenzia, tuttavia, concludono i due autori del saggio «Questo nome non ha mai avuto diffusione fuori della penisola iberica e dei paesi di lingua spagnola».

Non vorrei essere nei suoi panni

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blowup(A gentile richiesta, continuano gli Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Spassoso e imperdibile l’incontro di questa settimana. G.B.)

di Alberto Tonti

Alla Facoltà di Architettura, dove sono iscritto da tre anni, già si sente odore di ‘68. Ho deciso con convinzione da che parte stare e, nel frattempo, giusto per tirar su due lire in più rispetto al vaglia mensile che arriva da mio padre, sono sempre alla ricerca di qualche lavoretto.

Poi, improvvisamente, arriva la svolta: vengo tirato dentro una fantastica avventura editoriale da una coppia davvero eccentrica.

Lei è Donatella Foresio, fa la giornalista per la Rizzoli. E’ alta, magra, molto bella, molto chic, fuma una sigaretta dopo l’altra, ha una voce bassa, roca, sensuale. Lui è John Cowan, affascinante e geniale fotografo inglese. Ha fatto fortuna lavorando soprattutto per Vogue, ha prestato a Michelangelo Antonioni il suo studio per girare Blow Up, beve di tutto e in continuazione tanto che il suo assistente lo segue ovunque con un carrello sovraccarico di attrezzi per fotografare e per lo meno un paio di cassette di birre.

Si sono innamorati non so quando, né come, e hanno deciso di fondare a Milano un mensile speciale (che sa Dio perché hanno chiamato SENTA) fatto di foto rigorosamente in bianco e nero e di articoli molto sofisticati. Le foto arrivano gratis dagli amici di John, fra i quali un simpatico ragazzone che si chiama Oliviero Toscani, e gli articoli arrivano gratis dagli amici giornalisti di Donatella.

John_Cowan, Flying High, 1966
John Cowan, Flying High, 1966

Tutti i soldi che servono vengono usati per la redazione (che poi sono io) e, soprattutto, per fotolito, composizione, stampa su carta di altissima qualità e distribuzione. Ci lavoro mezza giornata al giorno e, oltre ad essere ben pagato, mi diverto un sacco. La pacchia dura circa tre mesi perché, prima dell’uscita del quarto numero, i conti non tornano, i soldi stanno per finire e servono finanziamenti per tirare avanti.

John dice a Donatella che non ci sono problemi, ci pensa lui: quelli di Vogue America gli hanno offerto una serie di servizi fotografici sulle Ande e nel giro di quindici, venti giorni al massimo, tornerà pieno di soldi e si andrà avanti. Nel frattempo lavoriamo alacremente per impostare il quarto numero: si sa, quando la prospettiva è rosea si produce molto meglio.

Passano i quindici giorni annunciati, passano i “venti al massimo”, passa un mese intero ma di lui non si hanno notizie: nessuna telefonata, nessuna lettera, nemmeno una cartolina. Donatella inizia a preoccuparsi, tenta in tutti i modi di contattarlo ma non ci riesce, solo dopo altre due settimane scopre che John è stato colto dal famoso colpo di fulmine delle Ande e si è sposato con una fotomodella americana. Così: da un giorno all’altro. Scopre anche che non ha nessuna intenzione di tornare, che non vedremo mai più il becco di un quattrino, che SENTA ha solo debiti da pagare e che, quindi, l’avventura finisce lì.

Ci resto molto male, non tanto perché sono di nuovo senza lavoro ma perché la rivista è fatta molto bene e le foto sono straordinarie.

Donatella, oltre a doversi inventare qualcosa per pagare i debiti, è talmente gentile da procurarmi subito una nuova occasione.

Ti ho fissato per domani un appuntamento con un tizio che pubblica una rivista di settore che si occupa di edilizia, sta cercando collaboratori e ho pensato che ti avrebbe fatto piacere scrivere qualche articolo di architettura”.

Da un lato resto colpito dalla rapidità con cui ha risolto il mio problema, soprattutto adesso che lei ne ha molti più di me e, dall’altro, una fitta mi attraversa lo stomaco perché mi rendo conto che probabilmente non la rivedrò mai più, che dopo i mesi passati insieme mi sono preso una cotta per lei e che quell’ubriacone casinista e traditore di Cowan non se la meritava proprio.

Al piano terra di un palazzaccio anni cinquanta, sulla porta d’ingresso c’è una targa enorme con su scritto: Cinque Mattoni. Quando l’editore (si fa per dire) mi riceve nel suo studio mi rendo conto di essere passato dalle stelle alle stalle. Mi spiega che il suo mensile si occupa a 360 gradi di architettura ed edilizia di alta qualità, che avrebbe voluto chiamarlo Quattro Mattoni ma la famiglia Mazzocchi, che pubblica Quattroruote e Domus, purtroppo per lui, aveva già depositato tutti i titoli di testate col numero quattro davanti: tipo Quattro Zampe, Quattro Assi, Quattro Lire, Quattro Palle e, naturalmente, Quattro Mattoni. Lo guardo con tristezza e, mosso da finta comprensione, tanto per arruffianarmelo un po’, riesco in un sospiro ad ammettere che è davvero un peccato.

La signora Foresio mi ha parlato molto bene di lei e allora ho deciso di metterla subito alla prova. Abbiamo la grande opportunità di presentare ai nostri lettori un nuovo complesso residenziale alle porte di Milano e vorrei che se ne occupasse lei. Se è d’accordo le fisserei subito un appuntamento col dottor Silvio Berlusconi, un imprenditore coi fiocchi alla sua prima esperienza in questo campo ma già avviato sulla strada giusta. Personalmente lo ritengo un genio. Ma giudicherà lei stesso…”

Dopo un paio di giorni, a metà pomeriggio, mi presento puntuale negli uffici della Edilnord in piazzale Cadorna. Una segretaria alla moda, con tanto di minigonna, come dai dettami di Mary Quant, mi fa accomodare in una saletta e, dopo un paio di minuti, mi introduce nello studio del capo.

foto-silvio-giovaneBerlusconi è un giovane ometto fin troppo elegante per i miei gusti, ostenta un sorriso a trentadue denti, forse qualcuno di più, ha i capelli imbrillantinati Linetti o Tricofilina, porta le basette lunghe a coprire le mandibole e stringendomi la mano vigorosamente, dà la sensazione di sprizzare energia e sicurezza da tutti i pori.

Si accomodi. Lei è molto giovane, oltre a scrivere, cosa fa di bello nella vita?”

Sono iscritto ad Architettura, frequento il terzo anno e…”

Ma allora forse conosce mio fratello Paolo. E’ di là, sta lavorando al tecnigrafo, venga…”

Lo seguo perplesso, anche perché il nome non mi dice nulla. Ma quando spalanca la porta e me lo indica, dopo aver accennato entrambi un ciao svogliato, capisco di chi si tratta. In tutte le scuole è sempre esistito ed esisterà il “ciccione della classe”, così come lo “scemo della classe”. Lui è magro, e in quel momento mi si stampa sul viso un’espressione inconfondibile, non faccio in tempo a nasconderla che il dottore, richiudendo la porta, mi dice soltanto:

Guardi, però, che è un bravo ragazzo!”

Imbarazzato per la velocità con cui ha colto il mio pensiero occulto, annuisco senza tentare neppure di giustificarmi e lo seguo di nuovo nel suo studio.

Mentre non vedo l’ora di uscire da quell’ufficio, sia per la gaffe, sia per l’atmosfera che non mi si addice proprio, il dottore tira fuori le planimetrie, mi spiega il progetto nelle linee generali e mi propone di recarci assieme a Brugherio, dove sorge il complesso e dove, dal vivo, potrò meglio rendermi conto “della validità dell’opera”.

Lei mi scuserà ma con gli impegni già presi, l’unica possibilità che ho di accompagnarla è domenica mattina. Le andrebbe bene alle dieci?”

Benissimo”

Se mi dà il suo indirizzo passo a prenderla”

Perfetto: via Teodosio 9. A domenica allora…”

Mi alzo dalla sedia, lo saluto e appena fuori di lì mi metto a ridere come un cretino e, prima che i passanti mi prendano per pazzo, m’infilo velocemente in metropolitana.

Domenica mattina alle dieci in punto il citofono si mette a gracchiare.

C’è un signore che t’aspetta, brutta bestia!”

E’ da quando abito lì che la portinaia usa sempre la stessa espressione nei miei riguardi. Non ho mai capito bene perché, anche se ho il forte dubbio che sia scaturito dall’andirivieni di ragazze sempre diverse che mi vengono a trovare. Sta di fatto che per ogni tipo di comunicazione la solfa è sempre la stessa: “C’è posta in casella, brutta bestia!”, “Stanotte quelli di sotto si sono lamentati, brutta bestia!”, “Quando torni tardi non sbattere il cancello, brutta bestia!”, “Sei pallido che fai schifo, brutta bestia!” e così via.

Il dottor Berlusconi, seduto nella sua BMW, mi saluta col solito sorriso e la solita stretta di mano. Mi spiega che incontreremo l’architetto progettista e lungo la strada mi racconta un paio di barzellette neanche tanto male. Ci mettiamo poco ad arrivare sul posto, posteggiamo davanti a un prefabbricato basso adibito ad ufficio, entriamo ma l’architetto non c’è.

E’ a messa” ci fa sapere il suo braccio destro “sarà qui fra una mezz’ora”.

Andiamo bene, penso. Ma visti i precedenti, stavolta evito di mostrare il mio disappunto pre-sessantottino.

Non c’è problema! Se intanto può mostrarmi qualche pianta e qualche prospetto, comincio a prendere appunti”

Man mano che prendo coscienza e conoscenza del progetto mi rendo conto di trovarmi di fronte a un grosso quartiere ghetto, isolato da tutto, privo di fascino e, soprattutto, di infrastrutture di servizio, ancora indietro coi lavori e, comunque, lontano mille miglia da tutto ciò che mi hanno insegnato negli anni durante i quali ho seguito diligentemente i corsi che contano. Insomma, un disastro. L’impressione avuta sulla carta peggiora quando con il pio architetto ce ne andiamo in giro per il complesso, ma avendo imparato la lezione nulla traspare dal mio volto, che resta attento ed interessato alle spiegazioni, alle puntualizzazioni, alla evidente volontà di “vendermi” un prodotto per quello che nella realtà non è: un piccolo capolavoro dell’architettura moderna, un’oasi felice immersa nel verde, dove vivere serenamente con la propria famiglia e la domenica andare a messa.

brugherio

Appena tornato a casa mi metto subito a scrivere l’articolo tentando di stare il più possibile sulle generali, tralasciando completamente la mia opinione, giusto per non farne carne da macello. Sto, quindi, attento a soppesare le parole e mi astengo da un vero e proprio giudizio. Riempio un paio di cartelle di aria fritta sperando di essere riuscito ad accontentare sia il magnifico imprenditore che il grande editore. Ma sbaglio di grosso perché quando consegno il pezzo al padre-padrone di Cinque Mattoni, dopo averlo letto scuote la testa, mi dice che non va bene, che ci sono troppe riserve nei riguardi dell’opera, che non ho colto lo spirito con cui questi articoli vanno scritti, che il dottor Berlusconi investe un sacco di pubblicità sulla rivista, che merita un altro tipo di trattamento.

Insomma, forse è meglio che ci rimetta le mani io stesso. Per carità è scritto bene ma, siccome è la prima volta, glielo aggiusto come si deve, così in futuro saprà regolarsi di conseguenza. L’articolo resta naturalmente a sua firma, anche perché vedrà che basta poco per farlo diventare perfetto. Le farò sapere.”

Riprendo la mia solita routine convinto che tutto sia finito lì ma dopo un paio di giorni mi arriva una telefonata.

Salve carissimo. Buone notizie. Il dottor Berlusconi ha letto l’articolo e ne è entusiasta, tanto che mi ha chiesto di poterla incontrare ancora. Le va bene domani alle dieci di nuovo alla Edilnord?”

Dovrò saltare una lezione, ma va bene…”

Ne vale la pena, mi dia retta. Allora mi faccia sapere come è andata e passi da me quando vuole così le pago l’articolo e ci mettiamo d’accordo per il prossimo. Addio caro.”

Nonostante la consapevolezza di dover incontrare qualcuno che è convinto di parlare con l’autore dell’articolo, quando non è assolutamente così, la mattina alle dieci in punto la solita segretaria, un filo più scosciata e decisamente più sorridente, mi fa accomodare direttamente nello studio del dottore. Accolto da un sorriso smagliante, mi siedo con nonchalance nel tentativo di nascondere il peso del forte sentimento di colpa.

L’articolo è perfetto!”

Ti credo, penso dentro di me, l’ha scritto quel lecca culo dell’editore, mica io.

Ha colto in pieno lo spirito del complesso di Brugherio. Scrive su altre riviste?”

Scrivevo su un mensile ma ha chiuso…”

Che mensile?”

SENTA, una rivista di fotografia e…”

Lo vedo illuminarsi in volto, aprire un cassetto della scrivania e tirar fuori gli unici tre numeri di SENTA pubblicati.

Complimenti, davvero! Questa è la più bella rivista che mi sia capitato di avere fra le mani: foto stupende, articoli scritti bene, impaginazione di classe, bella carta…un vero peccato che abbia chiuso….”

Sbalordito più che sorpreso riesco solo a biascicare:

Purtroppo sono finiti i soldi. E’ una storia lunga…”

Caspita, se ci fossimo conosciuti prima…magari…sa l’editoria è uno dei miei pallini, perché l’altra volta non ho avuto tempo di dirglielo ma ho grandi progetti. Perché, terminato Brugherio, costruirò Milano 2 e dopo Milano 3 ma, poi, ho intenzione di diventare editore, senza dimenticare l’etere, naturalmente, perché come lei m’insegna l’etere è il futuro…”

E’ a questo punto che, dopo la sparata di un paio di Milano nuove di zecca, alla parola etere (che al momento mi rimanda con la mente all’assenzio o a qualche altro tipo di sostanza stupefacente) comincio a dubitare delle facoltà mentali di chi mi sta davanti, però mi sforzo di annuire in continuazione e come si fa con i visionari continuo a sorridere pervaso da un’espressione decisamente ebete.

Quindi, come vede, gente come lei mi sarebbe molto utile nel prossimo futuro. Per esempio potrebbe cominciare ad occuparsi di tutti i testi delle brochure, che ne dice?”

Eccome no! Guardi appena finiti gli esami vado via un mese per le vacanze, ma al mio ritorno la contatto senz’altro.”

Appena fuori di lì, mentre tiro un lungo sospiro di sollievo, il mio proverbiale fiuto per gli affari mi porta ad avere un’unica certezza: ho bisogno di trovarmi un altro lavoro in fretta perché non ho nessuna intenzione di avere più a che fare né con l’editore di Cinque Mattoni, né tanto meno col dottor Silvio Berlusconi che evidentemente dà già i numeri, pur non avendo superato neppure i trent’anni di vita. Poveretto, non vorrei essere nei suoi panni.

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Abracadabra

3
Nciola Ponzio Abracadabra

 

Nciola Ponzio Abracadabradi Nicola Ponzio

 

I

Infliggere ai due Gobbi tre frustate

Accoltellare Dotto al basso ventre

Molestare la Fata Turchina per tutta l’estate

Squarciare di netto la gola alla Strega dell’Est

 

Tormentare la Bella e la Bestia con vero diletto

Colpire ai testicoli il povero Cicco Petrillo

Fuorviare l’intelletto al papà di Vassilissa

Danneggiare la Radura Incantata con nafta e diossine

Aforismi e dintorni

3

di Damiano Sinfonico

La cosa più snob è vivere a Parigi per poter dire “io non ci vivrei”.

Una casa è più grande di poche stanze e più piccola di un’idea.

Una tesi è un’opera di finzione ben documentata.

I poeti hanno un bel ritratto.

Pensieri & pensioni ( una bagatella)

2

di Giorgio Mascitelli

Giunto alla per certi versi ragguardevole età di anni ventotto, Guido della Veloira si trovò a passeggiare e a ponderare passeggiando il proprio avvenire. La diffusione delle famiglie mononucleari e l’ormai prossima definitiva estinzione di qualsivoglia forma di stato sociale rendevano assolutamente tempestiva la fondazione di una famiglia con prole numerosa, che una volta cresciuta avrebbe abbondantemente compensato i costi di svezzamento ed educazione coi vantaggi del numero di fronte ai singoli. Il fatto di tornare a essere un paterfamilias in una società tendenzialmente atomizzata sarebbe stato un prezioso asset nel suo portfolio di risorse aggiuntive che avrebbe potuto risultare addirittura vincente in ragione della sua controtendenzialità ed essere così premiato come il rialzista che annusa il ribasso venturo prima del gregge e come il salmone che risale per primo la corrente. Che la fine della previdenza sociale avrebbe generato famiglie numerose, questo lo prediceva anche fior fiore di algoritmi, anche se poi le addizioni e le sottrazioni quotidiane e/o mensili sembravano indicare l’opposto. Ma quest’ultima era solo della banale aritmetica.

Due i problemi che si frapponevano o sembravano frapporsi all’esecuzione del disegno: il primo, alquanto superabile tutto sommato, di trovare una giovane donna di vent’anni, ché non era cosa da primipare attempate, disposta a farsi ingravidare quattro, cinque o anche sei volte nel corso della sua unica giovinezza, che si fugge tuttavia e fugge alla grande, se non l’acchiappi e non la trattieni a viva forza fino agli anta, ma non a quei primi, ma a quegli altri o addirittura a quelli dopo, per tacere dei millanta;  il secondo, più annoso, era che lo stesso autore del progetto non era particolarmente entusiasta di esso perché la sua realizzazione cozzava contro l’attuazione di un paio di quelli che unanimemente erano considerati pilastri dell’autorealizzazione personale, senza i quali vita non poteva dire d’essere degnamente vissuta. Innanzi tutto  un’intensa attività sentimentale sessualmente appagante ed emotivamente impegnativa, che conducesse per via anatomica alla conoscenza psichica di sé e anche dell’altra,  delle altre, ma per la verità più di sé: l’ altra la si conosce già perfettamente dopo che le hai visto l’ombelico e dopo che l’ hai viste bere due negroni sbagliati di fila. Anche se pensionisticamente raccomandabile, diventare plurigenitore pagante era obiettivamente d’ostacolo al raggiungimento di questa condizione appagante, che presuppone tempo libero e spazi disponibili alla promiscuità seriale o contestuale.

Il piacere di viaggiare era l’altro pilastro ( e quasi ogni pilastro è un ordine), sia nella forma in minore più turisticamente immediata sia più nobilmente in quella del viaggio professionale sia nella suprema della fuga del cervello. E non v’è  dubbio che la famiglia numerosa sia stanziale e tenda alla stanzialità per costruire tutto il reticolo di contatti, posizioni, relazioni e abitudini che fan crescere & prosperare. Non ostava invece la fondazione della famiglia numerosa al terzo di questi pilastri ovvero al possesso, e alla maestria nel suo impiego, di tutta una fitta oggettistica elettronica che l’industria della valle del silicone metteva a disposizione per tutti i momenti della giornata del consumatore. E questo, si può dire, era l’unica ragione per cui non aveva ancora cestinato interiormente il suo proprio progetto.  Le rinunce erano sì gravose segnatamente verso il regime ( severo) delle sue aspettative,  ma sull’altro piatto della bilancia pesava il peso strategico di poter godere, di lì a trent’anni, di un’adeguata prole da schierare sulla scacchiera d’una società ormai divenuta campo di gioco di anziani orbi e bisognosi, di figli unici alla perenne ricerca di badanti,  di coppie non generative con l’orrore dell’invecchiamento, superando d’incanto la forca caudina del pensionamento.

Come si scrisse dianzi, Guido della Veloira passeggiava e passeggiando ponderava e siccome tale ponderazione ambulatoria aveva luogo in un luogo molto moderno quasi avveniristico, come la passeggiata tra la città della moda e piazza Aulenti a Milano, è probabile che l’avvenirismo di quelle costruzioni avesse ispirato l’avvenirismo dei suoi pensieri o viceversa. Il sentimento del desiderio e le ragioni del pensionismo, l’un contro l’altro armati, si scontravano in lui come due fratelli in uno scontro fratricida. Fu verosimilmente a causa di tale scontro interiore che, poco prima di giungere alla piazza, finì col pestare una merda di cane, la quale come una rosa recisa e puzzolentissima di città giaceva sul terreno. Era, infondo,  il minore degli inconvenienti che sarebbero potuti capitargli. Provò a sfregare la scarpa, ma non servì a nulla; cercò una pozzanghera, ma non ce n’erano; avrebbe dovuto togliersela con un fazzolettino di carta, ma l’idea gli faceva ribrezzo. Questa persistenza della merda, anche a non volerla considerare un’allegoria, inficiava indubbiamente il suo futuro, almeno quello immediato. Allora bisognava ponderare e lui ponderò. Ma essa non accennava a staccarsi dalla scarpa. Fu però un fantastico gioco di riflessi tra le pareti dei grattacieli, quando ormai si era già abituato all’odore, a riportarlo al suo solito umore.

 

 

Lo spazio e il tempo

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Santa Maria della Scala, Federico Pacini, Edizioni Quinlan 2016

di Francesca Fiorletta

Santa Maria della Scala, Federico Pacini, Edizioni Quinlan 2016
Santa Maria della Scala, Federico Pacini, Edizioni Quinlan 2015

Il presente è indifferente e disattento, tuttavia ci teniamo in vita meditando sul cumulo dei ricordi e delle tradizioni che conserviamo. Siamo case piene di presenze in ogni trave che scricchiola, in ogni pietra che geme.
Henry James

Le apparenze, che sono il supporto della rappresentazione esterna, ci stanno a cuore più di ogni interpretazione complessiva del mondo: infatti sono tutto ciò che abbiamo per orientarci nello spazio.
Gianni Celati

L’ordinarietà che sorprende. Qualche considerazione sulla ricezione di Carol

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di Ornella Tajani

Sul piano della qualità filmica Carol di Todd Haynes è un prodotto medio, e forse è giunta l’ora di abituarsi al fatto che un film che racconta una storia omosessuale non deve necessariamente battere un qualche primato, per farsi strumentalizzare e prestarsi a vessillo dell’una o dell’altra barricata, ma può serenamente collocarsi nel larghissimo spazio che sta tra il capolavoro e il disastro, senza disturbare nessuno dei due estremi.
Le due protagoniste Cate Blanchett e Rooney Mara sono brave e convincenti, e alcuni tocchi di regia, alcune inquadrature sfumate tra il bluastro e il verde sono molto gradevoli. Detto ciò, il film risente dell’operazione di taglia e cuci cui deve averlo costretto l’adattamento dal romanzo di Patricia Highsmith: il filo della trama, ora esitante ora precipitoso, si svolge fra lacune e qualche incongruenza, e i dialoghi risuonano a volte così scontati da suscitare nello spettatore un’immediata sensazione di déjà-vu; ma forse è proprio questo effetto che, per quanto riguarda la ricezione, costituisce un punto di forza del film.
Come è stato già notato, Carol ricalca il modello cinematografico hollywoodiano anni ’50 e ci si potrebbe sbizzarrire nel ritracciare il palinsesto di un plot che è un po’ la copia di mille riassunti, come cantava Samuele Bersani. Tuttavia, proprio muovendosi all’interno di uno spazio formale già noto, il film riesce a raccontare una storia d’amore senza nulla concedere ai temi solitamente trattati dalle narrazioni di coppia omosessuali, rifiutando inoltre lo schema dell’extra-ordinario e adottando quello dell’ordinarietà. Nessuna delle due protagoniste, ad esempio, si ritrova di colpo intimamente o dolorosamente costretta a fare i conti con l’attrazione per una donna: non lo fa Carol, seppur sposata e madre, né la più giovane Therese, nonostante abbia al suo fianco un fidanzato che la spinge a partire da New York per l’Europa. Questi due personaggi non sono donne eccezionali, non appaiono particolarmente ribelli, non hanno gusti o stili di vita sopra le righe che avrebbero potuto portarci a concludere che, negli anni ’50, un’attrazione omosessuale fosse possibile solo fra donne fuori dal comune; anche nel look e nei modi, sono in tutto e per tutto aderenti al modello femminile dell’epoca. Inoltre, Carol e Therese si desiderano senza esitazioni di sorta, e si vengono incontro in maniera determinata, senza fretta ma anche senza dubbi. Non esiste nessuna presunta scusante biografica o sociale alla loro voglia di stare insieme, non si indugia sul loro passato, non si precisano le passate esperienze dell’una o dell’altra con particolare zelo. Nessuna molla sofisticata fa scattare l’attrazione e il loro colpo di fulmine è di una semplicità che impedisce ogni eventuale congettura. Non c’è spazio, insomma, per le facili etichette e il rapporto tra le due donne si cristallizza in una dimensione sospesa e cangiante, non dissimile da quella rappresentata dal loro viaggio in auto, che non prevede una destinazione precisa ma non è nemmeno una classica fuga, e la cui principale ragion d’essere sta proprio nel creare la condizione dell’incontro.
L’unico momento in cui lo spettro della morale fa la sua comparsa è pienamente giustificato, concreto, poiché per le protagoniste il fatto di essere due donne comporta – in maniera quanto mai attuale – un ostacolo di ordine giuridico, ossia l’affidamento a Carol della figlia che il marito vuole sottrarle. A questo punto lo spettatore prevede di assistere al solito epilogo vintage fatto di rinunce squisitamente “femminili”, di madri-coraggio declinate all’americana, e inizia ad assaporare il gusto di paglia di una conclusione infelice, perché “erano solo gli anni ‘50” e l’emancipazione aveva ancora tanta strada da fare. Invece Carol non cede a nessun ripiegamento identitario e, con una mossa da non sottovalutare, il film serve sul piatto l’happy end, la cui portata politico-culturale è considerevole: il messaggio che passa, infatti, è che, nonostante siano due donne, la loro storia può finire bene, e anche lo spettatore estraneo alle tematiche gay esce dalla sala, io credo, intenerito e rassicurato dal lieto fine – lo stesso lieto fine che nelle grandi produzioni cinematografiche della Hollywood di metà secolo serviva a confermare l’ordine sociale precostituito.
Carol è una storia per il grande pubblico costruita su un abile paradosso, perché rappresenta l’amore omosessuale senza ghettizzare, rovesciando come un guanto il modus narrandi del grande mélo, scardinando il ruolo da protagonista della coppia eterosessuale e spostando la narrazione in un’epoca un po’ lontana ma visivamente, cinematograficamente nota e ben riconoscibile. «Il pubblico vuole riconoscere, più che conoscere, perché riconoscere è meno faticoso», ha detto una volta Jean Cocteau.
Naturalmente la realtà può essere molto più complessa e faticosa della finzione, ma forse di tanto in tanto non è un male ricordare che potrebbe anche essere più semplice di com’è. Nella prefazione a Tricks (1979) di Renaud Camus, un diario di incontri sessuali occasionali, Roland Barthes scrive che il libro «prova a raccontare il sesso omosessuale («l’homosexe») come se si trattasse di una battaglia già vinta, come se i problemi che un tale progetto comporta fossero già stati risolti: lo racconta tranquillamente». Il caso del film Carol è in parte simile poiché, pur non rinunciando a far scorgere i problemi che le due protagoniste sono costrette ad affrontare, lascia sullo sfondo il discorso sulla condizione omosessuale, riducendo gli ostacoli a elemento esterno alla coppia, a fattore di crisi necessario alla trama; così la coppia appare in tutta la sua interezza, in tutto il suo essere, in fondo, “socialmente possibile”, e lo spettatore ne ricava un sapore di familiarità.
Volendo ipotizzare un punto d’arrivo simbolico nel percorso di rappresentazione e ricezione di narrazioni omosessuali al cinema, io, sparigliando un po’ le carte, proporrei il seguente: che la definizione stringata di un film come Via col vento fosse «È una storia d’amore tra un uomo e una donna» e non soltanto «È una storia d’amore», polverizzando così il consacrato predominio eterosessuale sull’amore per antonomasia. In quest’ottica un film qualitativamente medio come Carol segnerebbe una tappa significativa proprio nel suo essere, semplicemente, una storia d’amore tra due donne.

Diario parigino 1. Visita alla moschea

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di Andrea Inglese

Un po’ di anni fa, sei o sette, ho sentito il bisogno di chiudere i conti con una città dove avevo vissuto in modo discontinuo per un certo periodo di tempo, una città che non era né quella dove sono nato né quella in cui sono cresciuto, una città straniera, molto celebre in Europa e nel mondo, ossia Parigi. Per chiudere quei conti, mi sono messo a scrivere. Non sapevo bene cosa né in che forma. Non me ne sono preoccupato e ho continuato alla cieca per diverso tempo. Alla fine, tutto questo scrivere ha assunto la forma di un romanzo dal titolo Parigi è un desiderio, che uscirà in primavera. Quando questo romanzo l’ho consegnato, pensavo di aver esaurito un’ossessione. Così non è stato.

les nouveaux réalistes: Luca Mirarchi

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le scale di Davide Vargas
le scale di Davide Vargas

Il modo più comodo per (non) morire

di

Luca Mirarchi

 

È sempre pericoloso tenere un tappeto davanti al camino. Inutile dirlo alla madre, aveva ricoperto di tappeti quasi tutto il soggiorno. Adesso era fuori in missione con i volontari. Il padre invece era in ufficio, non rientrava mai prima di sera. Michele, rimasto solo, guardava il talk show del pomeriggio seduto sul suo trono a rotelle – la poltrona in pelle scura di un ipotetico direttore generale. In realtà passava da un programma all’altro, saltando con cura la pubblicità e il meteo. Le previsioni gli ricordavano che esisteva un futuro, la pubblicità è troppo frammentata, sei chiamato di continuo a riattivare l’attenzione. I film e lo sport sono i più indicati per sonnecchiare. Bisogna modulare il volume al punto da renderlo una nenia, priva di picchi e silenzi capaci di svegliarti. Un brusio costante è il miglior compagno tra sonno e veglia.

Non voleva dormire: si era deciso a compilare una tabella di autovalutazione che gli aveva fotocopiato il terapeuta. Prima di andare a letto aveva riempito una tabella di prova: Cos’hai fatto al mattino/pomeriggio/sera? “Un cazzo”, scritto in diagonale, intercettava le righe tra le 9 e le 13; seguiva “Un cazzo”, scritto di fretta, anche per il pomeriggio e la sera. Alla voce: Come ti senti?, gli era bastata una parola, “Male”, ripetuta per ogni fascia oraria. Per la domanda: A cosa stai pensando?, aveva risposto tre volte “Merda totale”. Si era compiaciuto della capacità di sintesi, sapeva che sforzandosi di essere più analitico non avrebbe raggiunto un risultato migliore. Allo stesso tempo sapeva che quella stringatezza non sarebbe bastata al terapeuta, che aveva intenzione di desumere da quei fogli “evidenti segni di miglioramento”. Visto che lo pagava, tanto valeva assecondarlo, magari alla fine avrebbe ottenuto “un controtransfert di presa per il culo” con annessa ricevuta di ritorno. Magari alla fine sarebbe migliorato davvero.

Il fuoco crepitava nel caminetto, la legna del padre faceva il suo dovere. O forse bruciava troppo e si sarebbe esaurita presto, comunque non aveva voglia di stare a pensarci. Doveva concentrarsi sulla tabella: Cos’hai fatto al mattino? “Alle 10 sono in piedi. Bravo, non era poi così scontato!” E in effetti, diverse volte l’aveva tirata fino a mezzogiorno, smarrito tra incubi e pensieri opachi autoflagellanti (Cosa ti alzi a fare? Per buttare un’altra giornata? I tuoi amici sono al lavoro, tu nemmeno ti sei laureato. E poi, eventualmente, laureato in cosa? Scienze della comunicazione? Riesci a coglierne l’ironia? Non sai nemmeno rapportarti agli altri! Tuo padre l’aveva detto: Tu non sei fatto per vendere fumo. Tuo padre l’aveva pensato: Michele, arrenditi all’evidenza. E non aveva torto: esistono anche persone inutili: una di queste, purtroppo, sei tu). Che poi, ad essere onesti, “Bravo, non era poi così scontato!” – una considerazione pragmatica e costruttiva – non apparteneva sul serio al lessico di Michele: l’aveva scritta barando, e lo sapeva. Cancellò, per lasciare un più minimale “Alzato alle 10” (e pazienza per il controtransfert terapeuta/paziente). Un micro lapillo si spense di fianco al camino. Michele tornò alla tabella cognitivo-comportamentale.

Squillò il telefono, quello fisso, chi poteva essere? L’assistente del padre? L’offerta di una compagnia telefonica? Arianna che vuole farsi dire un’altra volta perché non rispondi? (Arianna che non si curava dell’evidenza ed era certa che saresti tornato?) Be’, in ogni caso era improbabile che fosse lei, tanto valeva lasciare gli squilli al proprio destino, avrebbero richiamato più tardi. Per scrupolo controllò il cellulare appoggiato sul tavolo, nessuna chiamata (lo teneva senza suoneria per non rovinare l’auto-stordimento). Quindi. “Alzato alle 10”: un piede in una pantofola, uno nell’altra, e via ad issarsi sul trono a rotelle, dove giaceva, ben ripiegata, la sua felpa col cappuccio preferita. Spostando in avanti con le gambe il trono – non è vero che non faceva nessun esercizio fisico, – Michele ruppe l’inerzia, uscì dalla camera e raggiunse il bagno. Forte dei poteri che la natura aveva riservato ai maschi, pisciò e si lavò la faccia senza abbandonare la postazione semovente. E visto che non sembravano esserci controllori in casa (la donna di servizio aveva già lasciato il condominio), posticipò la doccia ad un altro momento. Ancora strisciando con buona lena, fece un salto – si fa per dire – in cucina, dove lo attendevano gli abituali succhi di frutta alla pesca – visto che è bene non sottovalutare l’importanza della colazione. Fatto questo, lo scorrere ovattato delle ruote – sopra i tappeti, in soggiorno – lo accompagnò fino all’angolo della televisione, a un passo dal caminetto. Purtroppo fuori era una bella giornata e un raggio di sole investiva lo schermo: Michele, seccato, coprì i vetri con le tende. Tornato alla tabella, per riassumere, più tardi aggiunse: “Alzato alle 10”, cui fece seguire “TV fino alle 14”. Non poteva negare che questo sforzo compilatorio fosse un passo avanti, ed era pronto a scrivere: “Pranzo veloce con mia madre, breve sonno e televisione”, quando una scheggia infuocata andò a cadere sul tappeto: cavoli – pensò – e rimase imbambolato a guardare la scoria fumante che si esauriva, lasciando intorno un alone scuro. La madre si sarebbe risentita, su questo c’erano pochi dubbi.

Il talk show del pomeriggio era davvero fiacco: una ragazza di diciassette anni, esasperata da uno stalker che non le dava tregua, aveva tentato il suicidio buttandosi in piena notte dalla finestra del terzo piano, finendo però sulle spalle di un trentenne, sbronzo, che cercava di non pensare al mancato rinnovo dell’ultimo contratto. I due erano stati ricoverati nello stesso ospedale, nello stesso reparto e addirittura nella stessa camera! [Esclamazione stupita della conduttrice]. Alla fine della degenza si erano fidanzati e progettavano di sposarsi e vivere insieme. Sennonché, quella notte, il trentenne disoccupato non era sbronzo solo per il mancato rinnovo, anzi, a sentire gli amici era quasi sempre ubriaco, ormai da anni, e difatti una cirrosi avanzata avrebbe finito per battere sul tempo il matrimonio. Vedova prima di sposarsi, la diciassettenne era stata ricontattata dallo stalker e si era rivolta al talk show del pomeriggio, che nel rispetto della sua privacy – la ragazza non era ancora maggiorenne – le aveva leggermente sfumato i tratti del viso. La conduttrice aveva promesso di risolvere il problema della ragazza.

Così aveva messo sulle news – fumata nera per il papa – mentre uno scoppiettio più marcato preannunciava l’arrivo di una meteora in fiamme – quindi era passato allo sport – tennis, un documentario girato a Wimbledon – col fuoco che lambiva gioioso il tappeto – per  finire sulla finale registrata di Megachef (il contest di cucina preferito da sua madre), dove un’insegnante obesa (la concorrente preferita da sua madre), sembrava sul punto di far saltare in aria una pentola a pressione, solo che non si riusciva a vedere bene con tutto quel fumo che montava in soggiorno.

Rimase come ipnotizzato a guardare le fiamme diffondersi. Iniziava a sudare. Quanti pensatori prima di lui si erano ritrovati a contemplare il fuoco? Non ne aveva idea, si sentiva più vicino al livello di contemplazione di una braciola sul barbecue. Non riusciva a muoversi. Neanche allora riusciva a muoversi. Gli veniva da soffiare, o forse era solo il respiro che si ingrossava. Guardò i fogli della tabella cognitivo-comportamentale – ormai non l’avrebbe più completata – li lanciò contro il fuoco; si pentì subito: non voleva che bruciassero proprio oggi, quando stava succedendo qualcosa e avrebbe avuto finalmente un episodio da raccontare. Scivolò giù dal trono come avrebbe fatto un prigioniero nel tentativo di ingannare il suo carceriere. Sentiva il calore irradiarsi nel corpo. Al crepitare del camino si sovrappose per un istante il volume dalla TV: Megachef, il verdetto culinario finale (sua madre, mentre davano il contest in diretta, la sera prima, era stata richiamata in servizio per un’emergenza, ma si era fatta registrare la puntata e contava di vederla appena possibile). Il vincitore del contest, un giovane cameriere immigrato, salutava fra le lacrime i molti parenti che aveva lasciato nell’Africa subsahariana. Doveva esserci un bel caldo dalle sue parti – considerò Michele – adesso che poteva empatizzare con gli immigrati! Riuscì a raccogliere qualche foglio ma non tutti, alcuni si erano fermati incerti sul bordo del camino, permettendo alle scintille di fare un balzo in avanti. Il fumo adesso saturava la stanza, smussando i contorni dei mobili che traboccavano di oggetti materni. La madre rientrava a buon diritto fra gli “accumulatori compulsivi”, quelli che non buttano via niente, ma proprio niente, nel senso letterale del termine. La TV, forse esasperata per il calo di share, emise un sibilo e interruppe le trasmissioni. Fuori qualcuno stava bussando alla porta, sotto un’adeguata sollecitazione anche il resto del condominio prendeva vita.

Sarebbe bastato così poco per alzarsi e scappare, per uscire finalmente di casa. La sua fuga era sempre stata immobile: tutto era nato in casa, tutto finiva in casa; gli piacevano le simmetrie, sembravano dare un senso alle cose. Ora le cose avrebbero preso vita, si sarebbero trasformate. Cenere e CO2 al posto di poltrone e tavoli. La distruzione è cambiamento. Sarebbero bruciati i quadri astratti simil Mondrian comprati dal padre anni prima; sarebbe esplosa la famiglia nei ritratti ben ordinati sulla credenza – la cronologia dei fiocchi di scuola e delle vacanze dai nonni, la comunione, la cresima e gli altri sacramenti, lo spazio ancora vuoto per la foto di laurea. Si sarebbero disciolte le statuine Thun che presidiavano il soggiorno in ordine sparso, a cominciare dagli angioletti paffuti disposti a corona sopra il camino. A Michele ricordavano le bambole di cera nei film dell’orrore. L’ossigeno andava bene sia per vivere che per bruciare.

I colpi che provenivano dall’ingresso si fecero più forti e insistiti, ora Michele riusciva quasi a sentirli, ma giaceva disteso sul pavimento e gli sembrava per una volta di essere nel giusto: in ogni film catastrofico che si rispetti, se scoppia un incendio, bisogna respirare al livello del suolo. Per di più l’ingresso dava sulla porta a sinistra del caminetto, mentre Michele stava strisciando nella direzione opposta, verso la finestra, che nell’immaginario collettivo rappresenta pur sempre una via di fuga (anche se l’appartamento si trova al secondo piano), e tutto sommato era proprio questo che lui sognava di fare ogni giorno: fuggire, allontanarsi il più possibile da quella casa. Ma nemmeno stavolta lo lasciarono in pace: nel muro ad angolo con la finestra era incassato il mobiletto del telefono, e proprio quando Michele lo raggiunse partì lo squillo di una chiamata. Il ragazzo tentennava, ma dato che sarebbe potuta essere la sua ultima telefonata si aggrappò al mobile, rovesciandolo, e impugnò la cornetta quasi fosse un trofeo. – Michele, che succede? Rispondimi! – Fu subito investito da un moto di delusione: l’ultima chiamata e gli toccava pure sua madre. – Michele, stai bene? Una vicina ha chiamato il Soccorso, dice che la casa brucia… Tra poco arriviamo con l’ambulanza, ti prego resisti –. E insomma no, niente Arianna, la sua cara amica sarebbe rimasta esclusa dal gran finale. – Mamma, – le rispose, – sto bene, qui la casa è a posto, stai calma. – Michele! Finalmente! – Mamma, ascolta, lo sai chi ha vinto il contest? – Come dici? Non ti sento bene… – Megachef! non l’ha vinto la tua insegnante, mi dispiace, – piagnucolò, abbassando la voce. – Non ti capisco, cade la linea, tu… –. Lui davvero non ne aveva più voglia, lasciò andare la cornetta e si stese di schiena. Se solo Arianna avesse potuto cogliere il suo dolore, se gli fosse stata vicina in quei momenti, mentre il fuoco lo assediava e non c’erano più vie d’uscita, l’avrebbe smessa di avere fiducia? Lei e la sua ottusa propensione alla vita – lei che l’aveva scelto dal primo giorno, al test di ingresso in facoltà: – L’hai capito, madre? Quella ragazza tanto a modo… nemmeno lei mi ha salvato! – Il grido si spezzò in gola. – Mi lascerete, almeno stavolta, in pace? – chiedeva stordito alle ombre e ai bagliori sul muro. E non poteva certo accorgersi della porta che intanto si spalancava. Non erano tempi favorevoli per immaginare nuove prospettive.

Il padre entrò in salotto coprendosi la bocca con una sciarpa. Si fermò al centro della sala, individuò il figlio – Non muoverti da lì! – sparì nel fumo verso la cucina. Tornò brandendo un estintore, quello che aveva portato sua moglie dopo i primi mesi di volontariato («Mi spieghi cosa ce ne facciamo di un estintore in casa?», le aveva chiesto, «Spera di non essere mai costretto a scoprirlo», aveva ottenuto indietro come risposta). Dopodiché rientrò nella stanza, tolse la sicura e indirizzò la manichetta verso le fiamme. Il getto potente inondò il camino, i tappeti, la catasta di libri e giornali, la sua riserva di bottiglie messe in ordine secondo le annate, gli scheletri anneriti delle foto di famiglia, gli attoniti Thun e tutti gli altri orpelli che riempivano il muro (i crocefissi tipici di mezza Europa, uno per ogni viaggio; i feticci finto etnici collezionati perché «tutte le religioni hanno lo stesso Dio»; l’orologio a cucù in ricordo di Praga che non aveva mai funzionato). Quindi abbassò il getto sul divano e soffocò le ultime fiammelle residue. Rimase imbambolato con l’estintore sgocciolante a mezz’aria e con il fiato grosso. Ebbe un sussulto, corse ad aprire la finestra. Vide Michele riverso a terra, fece per piegarsi, bestemmiò, tornò al centro della stanza e riaprì l’estintore: direzionò il getto su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro (tranne che sulle riproduzioni di Mondrian e sul tavolo in ferro battuto col piano di cristallo). A quel punto si precipitò da Michele, che oscillava lento la testa ed era pallidissimo. Gli prese la mano, cercò di parlargli, lo scosse. Il ragazzo aprì gli occhi, sorrise, si sollevò sui gomiti e guardò stupito il paesaggio domestico ricoperto da una coltre di neve rappresa, che lasciava trapelare monconi di mobili anneriti e avanzi di tappeti ritorti. Il tanfo degli additivi chimici impregnava l’aria. Michele riconobbe la morsa che gli serrava la gola ad ogni risveglio. Prima che si lasciasse andare il padre lo afferrò deciso e lo aiutò ad appoggiare la schiena al muro. Poi si sedette a fianco. – Ti sei messo a giocare al piromane, eh? – disse e gli diede una pacca sulla coscia. – Mi stava venendo un infarto mentre bussavo e tu non aprivi. Il campanello era saltato, non trovavo le chiavi, ma alla fine ce l’ho fatta. L’importante è che tu stia bene. Che cazzo, – aggiunse dopo un po’, – è vero che il terapeuta ti sprona a reagire… ma così non ti sembra un po’ troppo?

La madre arrivò accompagnata dalle sirene e dalle luci dell’ambulanza. In un unico slancio si proiettò fuori dall’abitacolo, lungo il giardino, sulla rampa di scale, dentro la casa e dentro il salotto. Si arrestò sulla porta e si mise a fissarli con la bocca spalancata, le braccia allargate in un abbraccio abortito, del tutto incapace di parlare. – Vorrei che stesse sempre così, – sussurrò il marito, seduto all’angolo opposto della stanza. La madre percorse con lo sguardo la geografia devastata del soggiorno. Abbassò piano le braccia, lasciò cadere l’estintore che usava in servizio, tornò a guardare il marito e il figlio. Il marito allora sollevò l’estintore “domestico” e con l’altra mano fece il segno dell’ok: – Mi ero sbagliato, avevi fatto bene a portarlo a casa –. La madre cedette. Urlò tutta la rabbia e lo spavento che aveva accumulato. Il condominio per alcuni secondi trattenne il fiato. Poi ciascuno riprese a fare quello che doveva. I volontari si attrezzarono per dare una mano.

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Michele, il padre e la madre sono seduti a tavola per la cena. La tavola è illuminata al centro da un candelabro, sembra una scena di Dickens trasposta a Beirut. Sono circondati dai resti del principio di incendio. Non era stata l’apocalisse che sembrava all’inizio, anche se quasi la metà del soggiorno mostra i segni delle fiamme. La madre ha voluto cenare nella stessa stanza come ogni sera. Michele è seduto a capotavola, dà le spalle alla finestra; i genitori sono ai suoi lati uno di fronte all’altra. Il padre rompe il silenzio con un colpo di tosse: – Be’, alla fine siamo stati fortunati, no? – Se questa ti sembra fortuna… – sospira la madre. – Volevi mettere alla prova le tue certezze sull’aldilà? – Non parlare così davanti a me e a Michele! – Ha quasi trent’anni, se non te ne fossi accorta; e poteva morire; dovresti dirmi grazie, se stavo ad aspettare voi… (Michele, nel frattempo, ripassa gli ingredienti del Taboulé di couscous che ha vinto il contest di cucina). – Ho visto, – gli fa la madre, – ho visto il tuo capolavoro. Hai passato l’estintore ovunque tranne che sul tavolo e sui quadri. È stato un caso, vero? – Michele, dille tu cosa ne pensi: ti spiace che abbia salvato te sacrificando i Thun? – La madre anticipa il figlio: – Sono i soccorritori che si occupano dei soccorsi, lo sai cosa poteva succedere? Il padre scuote la testa; Michele, a fatica, commenta: – Scusate, intanto non potremmo assaggiare le focacce? (Le focacce preparate dalla madre la mattina, tornate utili per l’occasione). Ma è del tutto inutile: – Certo che lo so cosa poteva succedere, poteva bruciare prima l’appartamento e poi il condominio… – Ti prego, spiegami, esiste qualcosa che prendi sul serio, oltre il tuo lavoro? – …e poi certo, sareste arrivati voi a soccorrere gli inquilini carbonizzati. – Anche con la segretaria sei così spiritoso? –. A quel punto Michele – mentre il padre calibra una risposta adeguata – si isola dal discorso, e affonda lo sguardo nel buio che si apre oltre il candelabro: il fuoco ha cancellato la casa dei genitori, il piano della realtà si capovolge, adesso vede Arianna che gli viene incontro, come a volte faceva dopo le lezioni, per chiedergli come stava o per scambiare due parole (mentre lui restava distante e cercava una scusa per andar via). Nel corso dei mesi aveva iniziato a cambiare opinione: non provava alcuna attrazione fisica per Arianna, né si era creata l’intimità condivisa dell’amicizia, eppure lei non sembrava farci il minimo caso, manteneva intatto l’entusiasmo. Era brillante, gentile, autoironica, e Michele comprese che non voleva rinunciare a lei. Diventarono amici e lo rimasero anche negli anni del suo (auto)isolamento nella casa dei genitori (il periodo in cui la madre iniziò con il volontariato). Arianna aveva continuato a chiamare anche se lui non rispondeva. Michele aveva paura di ascoltare una voce che proveniva “da fuori”. Michele ora stringe forte i lembi della tovaglia perché non ce la fa più ad assistere – anche stasera, dopo l’incidente – all’ennesima replica della sitcom dei due coniugi in crisi, che riattizzano l’antica fiamma soltanto nel corpo a corpo verbale. La madre alza la voce e lo tira per una manica, Michele si scosta, le dice Lasciami in pace, non la sta a sentire. Gli sembra di avvertire una sensazione nuova, non sa darle un nome ma il solo fatto che sia diversa non gli dispiace. – E com’è che lo paghiamo il mutuo, dimmi un po’: vendendo i tuoi angioletti bombati? –. Michele si rivolge di nuovo al buio di fronte: Fa’ che io non sia qui, domani o fra un anno, ti prego, fa’ che io non sia qui. – Adesso basta, mi rifiuto di parlare con te, – risponde la madre con tono grave, poi chiede al figlio: – Che ti succede? Sembra come se fossi… assente. – Stavo per esprimere un desiderio… – Il padre lo guarda perplesso: – Un desiderio? Aspetta, abbiamo pure le candele, soffia, e poi esprimi il tuo desiderio. – Bene, così puzzano e restiamo anche al buio, – ironizza la madre. – Tanto, per quel che c’è da vedere… – ribatte lui. Michele si scoccia, sbotta: – Smettetela! – Lo guardano stupiti: – Che cosa c’è, ora? – Il desiderio, voglio esprimere il mio desiderio. – E allora esprimilo, forza, questo desiderio, – commenta il padre, guardando compiaciuto la moglie. Michele raccoglie il respiro e soffia sulle candele. Quando l’odore di cera inizia a spandersi nella stanza, il ragazzo ha già espresso il suo desiderio.

Non molto tempo dopo il padre è seduto alla scrivania in plexiglass del suo studio, di fronte alla pagina Excel di un documento che deve spedire entro sera, e soprattutto prima che la batteria del portatile si esaurisca. Carica i dati dalla chiavetta usb, allega all’e-mail, scrive due righe di testo e invia. Stira le braccia verso l’alto in un tentativo di stretching. Sbadiglia. Si china di nuovo sul computer e apre la finestra di Skype per informare la segretaria. Le riassume in breve quanto è successo durante la giornata. Il segnale di batteria scarica inizia a lampeggiare, è tempo dei saluti. Chiude il computer, si lava i denti e crolla a letto senza spogliarsi.

Nel mentre Michele è già a letto da una ventina di minuti. Sistema i cuscini a croce sulla testiera, il primo in orizzontale, il secondo messo di lungo per appoggiare la schiena. Continua a fissare la pagina bianca della nuova tabella cognitivo-comportamentale. Cos’hai fatto al mattino/pomeriggio/sera? Tira un sospiro e si mette a scrivere. Mattino: “Mi sono alzato prima del solito”. Pomeriggio: “Ho guardato la TV, un talk show di merda stupido e poi il contest di cucina preferito da mia madre. Poi fuori dal camino sono schizzati lapilli che hanno incendiato i tappeti vicini, il salotto, i Thun sopra il camino, le bottiglie di mio padre, i giornali, e hanno danneggiato la credenza di mia madre. Il fuoco ha rovinato anche i crocefissi e le altre cose che aveva appeso. Io intanto ero riuscito a raggiungere l’altro lato della stanza, dove c’è il mobiletto del telefono, per provare a chiedere aiuto (il cellulare chissà dov’era). Non sono riuscito a chiamare perché ho perso i sensi. È arrivato mio padre e ha spento l’incendio con l’estintore (me l’ha raccontato lui, dopo). È arrivata anche mia madre con gli altri volontari. Più tardi mia madre ha sistemato la stanza, mio padre è uscito e io sono andato in camera”. Sera: “A cena abbiamo fatto il punto della situazione”. Come ti senti? “__________”. A cosa stai pensando? “Alla stupidità di questa tabella del cazzo che serve solo a fare finta che i soldi che prendi non siano del tutto rubati”. Tira sopra una striscia e riscrive: “Sto pensando all’importante passo avanti che ho fatto oggi, perché non solo sono riuscito a metabolizzare una situazione drammatica senza particolari scompensi psichici, ma ho anche dimostrato un atteggiamento attivo di fronte a un evento problematico ed imprevisto”. Come ti senti? Michele getta via la tabella e prende un libro dal comodino. Un nuovo racconto. Prima di iniziare la lettura sottolinea l’ultima frase del precedente: «Le cose hanno continuato a cadere». Oggi non era Arianna al telefono; per un attimo pensa che potrebbe chiamarla, quasi se ne convince. Scuote la testa. Anche lei è parte del passato che l’ha condotto a quel punto, anche lei è attraversata dal dolore. Si mette a leggere con foga senza trovare la giusta concentrazione. Scorre le righe con l’indice per non distrarsi. Insiste fino al punto che proprio non ce la fa più. Nel minor tempo possibile, ma senza movimenti bruschi, appoggia il libro e gli occhiali sul comodino, spegne la lampada e scivola sotto la coperta. Questo è un passaggio molto delicato. Se avrà fortuna riuscirà a proseguire sulla strada del sonno. Altrimenti, si sveglierà di nuovo, resterà a fissare il soffitto finché i pensieri saranno diventati insostenibili, riaccenderà la lampada, prenderà il libro e ripeterà la procedura sperando che le cose, stavolta, vadano un po’ meglio.

La madre ha impiegato le ore successive a sistemare il soggiorno e a catalogare quello che è andato perduto e quel che si può salvare. A parte il brusio del frigorifero il silenzio adesso è completo. Osserva da alcuni minuti i suoi contenitori colorati disposti nell’angolo della cucina deputato allo smaltimento. Nel verde va l’umido, nel giallo la plastica, il rosa è per la carta, il marrone per l’indifferenziato. Tutte le sere si dedica con la massima cura alla separazione dei rifiuti. Anche se oggi è molto più tardi del solito non si muove dalla sedia. Ha sistemato in poco tempo i resti della cena: i pezzi di focaccia sbocconcellati (nessuno aveva troppa fame), la bottiglia dell’acqua e quella del vino (una “superstite” di poco pregio), la carta del pane e dello Scottex (giustificato a tavola dall’emergenza). I rifiuti bruciati giacciono in ordine sparso sopra una vecchia tela cerata distesa fra il tavolo e il frigorifero. Nessun contenitore reca la dicitura per OGGETTI DEGRADATI CHE PRIMA ERANO PARTE INTEGRANTE DELLA TUA CASA. La madre si alza, prende un grande sacco nero e li mette tutti dentro. Controlla il gas e il contatore e va in bagno – tiene la testa bassa mentre attraversa le macerie in soggiorno. Toglie il trucco, spalma la crema per il viso e si lava i denti. Indossa la vestaglia del giorno prima che avrebbe dovuto lavare. Ora è distesa prona sul suo lato del letto, sistema la mascherina per gli occhi. Il marito ha la solita postura che fa pensare a una salma, tranne che per le braccia distese lunghe anziché raccolte sul petto. La madre inizia a tamburellare con le dita sul materasso. Senza accorgersi, sposta la mano destra verso il centro del letto. Ha un sussulto non appena sfiora quella del marito, ma invece che ritrarsi la appoggia piano sopra la sua. È calda – ancora lo nota, lei ha sempre le mani fredde – prova a stringerla in modo impercettibile. È stanca, ha bisogno di dormire. Non passa molto che il marito starnutisce, mugugna qualcosa e si rigira dalla parte del muro. Lei apre gli occhi e guarda il nero della mascherina. Sa che il sonno non tarderà ad arrivare. Sente passare qualche macchina in lontananza. Sono le due di notte. Per alcuni sono le due del mattino.

#FreeAshraf – Conversazioni poetiche per Ashraf Fayadh

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di Campagna #freeAshraf

Ashraf Fayadh, poeta, curatore e artista di origine palestinese, nato e residente in Arabia Saudita, è detenuto da oltre due anni nel carcere di Abha, in Arabia Saudita. Fayadh, che fa parte del collettivo di artisti di Edge of Arabia e che nel 2013 è stato tra i curatori della mostra Rhizoma alla Biennale di Venezia, nel 2014 è stato arrestato nella città di Abha dalla polizia religiosa saudita con l’accusa di apostasia e di diffusione dell’ateismo con la sua raccolta poetica Le istruzioni sono all’interno (Dar al-Farabi, Beirut, 2007). A novembre del 2015 il poeta è stato condannato a morte per decapitazione da un tribunale saudita. Fayadh, che nei due anni di detenzione non ha mai potuto consultare un legale, ha sempre respinto tutte le accuse. Nel mese di dicembre, dopo il verdetto di condanna a morte, ha presentato appello sostenendo che le accuse fossero viziate da falsità e che non fossero supportate da prove. Ha anche affermato di essere un credente musulmano, respingendo così le accuse di aver rinunciato alla fede nell’Islam.

Nel corso del 2015 molte sono state le iniziative internazionali per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso di Ashraf Fayadh e chiedere alle autorità saudite il suo rilascio. Nel dicembre 2015, il Festival Internazionale di Letteratura di Berlino ha lanciato un appello a individui, associazioni e organizzazioni a mobilitarsi per il 14 gennaio, data in cui in tutto il mondo si svolgeranno reading poetici e incontri a sostegno di Ashraf e della libertà di espressione.

In Italia i reading si svolgeranno a Roma, Milano, Napoli, La Spezia, Bologna, Pescara, Bari, Sassari, Ravenna e Villacidro (VS). Le iniziative italiane hanno ricevuto l’adesione e il sostegno di Amnesty International Italia.

Info sulla campagna del Festival di Berlino qui.

L’appello di Amnesty qui.

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Una poesia sciolta:

I baffi di Frida Kahlo (Traduzione di Silvia Moresi)

Ignorerò l’odore del fango, il rimprovero della pioggia
e il tormento che da lungo tempo dimora nel mio petto.
Cercherò un giusto conforto per la mia situazione che non mi permette di descrivere le tue labbra come desidero,
non mi permette di far cadere gocce di rugiada sui tuoi petali rossastri,
né placa l’enorme smania che mi tormenta quando comprendo che non sei al mio fianco, ora,
e che non ci sarai neppure quando dovrò spiegare la mia condizione al silenzio…quel silenzio con cui la notte, sempre, mi punisce!
Dimostrami che la terra è silenziosa così come appare da lontano, e che tutto ciò che è accaduto tra noi non era altro che uno sgradevole imprevisto; no, non è possibile sia questa la conclusione!

**

Cosa pensi dei miei giorni che ho assassinato senza di te?
Delle mie parole che sono svanite in fretta,
della mia misera condizione,
delle sofferenze oramai sedimentate nel mio petto come alghe secche?
Ho dimenticato di dirti che mi sono abituato alla tua reale assenza,
che i desideri hanno smarrito la strada che li portava a te,
e che anche i ricordi han cominciato a svanire!
Io continuo ad inseguire la luce ma non è desiderio di vedere…le tenebre rimangono spaventose
anche se ad esse ci si abitua!

**

Ti bastano le mie scuse?
Le scuse per tutto ciò che accadeva mentre tentavo di giustificarmi
quando la gelosia si agitava in qualche angolo del mio petto,
quando la delusione distruggeva un nuovo giorno della mia triste vita,
quando ti ripetevo che la giustizia avrebbe continuato a soffrire per i dolori del ciclo mestruale,
e che l’amore è come un uomo impotente che sopravvive nell’autunno della vita…

**

Sarò costretto ad ingannare i ricordi
e mentirò dicendo che il mio sonno è tranquillo.
Distruggerò tutto ciò che resta delle domande…
quelle domande che han preso a cercare alibi per ottenere risposte convincenti,
dopo che tutta l’abituale punteggiatura è stata fatta crollare
per motivi strettamente personali!

**

Chiedi allo specchio di spiegarti quanto sei bella!
Spargi come polvere le mie parole ammassate,
respira profondamente, e ricorda quanto ti ho amata…
Come è possibile che ora la nostra storia sia diventata un semplice contatto elettrico
che stava per incendiare solo un enorme magazzino vuoto!
Le tre leggi della Patria (Traduzione di Silvia Moresi)

Prima legge:

Ogni Patria pacifica ….o in guerra costante…
Ogni Patria che, giorno dopo giorno,  senza lamentarsi viene calpestata dai tuoi piedi…
diventa nel cuore…qualcosa su cui l’esilio esistenziale non ha influenza…
e che gli toglie importanza.

[…]

Terza legge:

Ogni assenza…ha una presenza fissa,
Ogni vuoto…ha una pienezza di vuoto,
Ogni affollato e vitale quartiere…ha una morte
poco importante
che disturba il suo caos brulicante di vita…
E i vicini dormono tutto il tempo
perché tu sei da solo!

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Alcune poesie da Ashraf Fayad, Le istruzioni sono all’interno, Dār al-Fārābī, Bayrūt 2007

Spazio vuoto (Traduzione di Jolanda Guardi)

Ogni cosa ha la sua… dimensione!
La tua è molto usa alla tappezzeria
E la tua ombra pesante… non permette all’asfalto
Né alla vernice… e nemmeno alle scritte appiccicate sulle vetrine
Di essere viste.
Anche tu hai uno spazio… niente male
“vuoto”

L’aria è inquinata… e così anche i cassonetti della spazzatura
E il tuo animo da quando si è mescolato al carbone
E il tuo cuore… dall’occlusione delle vene
E dal suo rifiuto di concedere cittadinanza
Al sangue di ritorno dalla tua testa.

Senza la tua memoria… perdi molto della tua dimensione
Devi seguire una dieta adatta
Per perdere l’eccesso di te!

Prendi le tue decisioni in fretta
Ché la forza di gravità…
Non aspetta molto
Nota: cambia il fattore tempo con il tuo nome…
Per giungere alla corretta soluzione sul modo di lanciare l’ultima
Pagina del tuo diario
Nel cestino dei rifiuti… e centrarlo!

Consumi d’aria quanta ne basta a due neonati
Quando urlano entrambi allo stesso modo…
Sapendo che le particelle d’aria intorno a te…
Trasmettono il suono in modo distorto… la tua laringe…
Ha bisogno di restauro

Una mendicante sulla cinquantina… espone il suo orgoglio in
Un cencio impreziosito di monete… augura a te… e a quella
Bellezza che cammina al tuo fianco casualmente… di avere
Presto un figlio
Perché occupi un altro spazio… vuoto…
In cambio di una moneta!

È giunta l’ora di moltiplicare i tuoi passi… asessualmente
E di cambiare i tuoi calzini puzzolenti
.
.
.
Realtà scientifica: i batteri si sviluppano in fretta

Abbandonati al sonno…
Perché è giunto il momento di fondersi… e dissolversi
E assumere la forma adatta alla nostalgia in cui ti sei versato!
Evapora… condensati…
Torna al tuo vuoto…
Per occupare il tuo spazio abituale
… te stesso!

Titoli (Traduzione di Jolanda Guardi)

Al-Ḥağğāğ appunta a Ruby la medaglia di plastica di Babele
A una sontuosa festa…
Un annuncio su Internet pubblicizza la necessità di volontari
per la guerra di al-Basūs…
E seri tentativi per giungere da Caronte nelle profondità
della terra per esaudire le richieste degli investitori attraverso
un telefono gratuito!

Il tuo oroscopo oggi (Traduzione di Jolanda Guardi)

Mercurio si scontra con la luna a causa di un vecchio rancore!
Un vecchio amico ti chiama all’improvviso per chiederti se
è stata proprio Haifa’ Wahbi* ad apparire nuda
in una scena del video incriminato.
E un vecchio amore a fior di superficie
(in genere emergono solo i corpi morti)

Rappresentazione (Traduzione di Jolanda Guardi)

Un uomo e una donna che indossa la ‘abaya legale fermi ai piedi
del monte
Un corvo li osserva dall’alto ed è come vedesse se stesso
allo specchio in compagnia di un uomo che non ama…
Un uomo che non sa che Ibn Firnās era una barzelletta storica
di cui nessuno ride eccetto un corvo che non è obbligato
a sognare di volare!

Deduzioni (Traduzione di Jolanda Guardi)

A volte, l’amore è come la rottura del digiuno!
Altre volte, come scarpe da ginnastica nuove regalate
a un bambino paralizzato!
L’amore – per lo più – è un affare che comporta molti
danni…
per tutte le parti.

Cuore (Traduzione di Jolanda Guardi)

Il cuore è motore di perfetta fattura
Ha bisogno di combustione… per assicurare il movimento a pieno regime!
Pari opportunità (Traduzione di Jolanda Guardi)
Una ragazza e un ragazzo…
La madre preferisce il ragazzo alla ragazza
Il ragazzo sta vicino alla madre nel momento del bisogno
La ragazza partorirà un altro ragazzo che le stia accanto!
Equità (Traduzione di Jolanda Guardi)
Si dice che la gente sia come i denti di un pettine
Ma non è così… mi raderò la testa in ogni caso
Per non essere obbligato al confronto!
Saggezza (Traduzione di Jolanda Guardi)

L’amore non è essere un passerotto nella mano di chi ami
Per lui è meglio che dieci sulla pianta.
Un passero sulla pianta è meglio di dieci nella mano…
Dal punto di vista dei passeri!

Ricordi di passione (Traduzione di Silvia Moresi)

Pettino con un ramo di rovi
i miei capelli…e ne raccolgo le ciocche…
Forse mi stringerai tra le tue braccia…

Hanno detto che lì è terminato un assedio,
che le tue mani esauste
hanno spezzato la catena con la loro stretta…
e che forse ti incontrerò… come hanno detto.

Se n’è andata…non so quante volte…
se n’è andata?
non so
quante volte…se n’è andata?

Quanto è dimagrita…e quanti fili d’argento il tempo ha ricamato
sulla mia testa…

Perdonami se ho replicato la tua morte sul mio letto,
perdonami se ho dimenticato l’odore dell’estenuante fatica sul tuo cuscino.
Non c’è amore all’infuori di te…e io ero tra i disperati!

La tua grazia… perdonami
se ho smesso di versare lacrime,
di ripetere il tuo nome nell’eccitazione della passione
e negli abissi della tristezza.
Ho girato il mio viso cercando il calore delle tue braccia,
non c’è amore all’infuori di te…sei l’unica…e io sono il primo degli amanti!

Parola (Traduzione di Silvia Moresi)

La vecchia porta applaude il vento…
per il suo spettacolo di danza con la compagnia degli alberi!
La vecchia porta…non ha mani,
gli alberi non sono a servizio dell’accademia di ballo
e il vento è un essere invisibile…
se non danza con gli alberi.

 

l’uomo che forse faceva finta di dormire (2/2)

1

di Marino Magliani

Marino_Mannenafdeling, jaren '20 of '30_recente

 

 

 

 

 

 

 

La sala ristorante è quasi vuota. Mangerò un panino al bar. Non sarebbe più aperto, ma gli olandesi amano fare questo genere di strappi per mostrare che sono tolleranti. Al mio fianco c’è una signora non alta, anzi piuttosto piccola e

Nel nostro mondo fluttuante

3

sans-titre
Pubblichiamo un estratto da Un dialogo infinito. Note in margine a un massacro appena apparso nella collana Saggi e documenti di Effigie.

 

di Massimo Rizzante

 

Un amico di Tokyo mi dice: «Sai, i giapponesi sono lotofagi. Mangiano letteralmente le radici del loto». «In questo caso – aggiungo – è il popolo che più di tutti gli altri dimentica il passato. E perciò è anche il più saggio della terra».

Ouverture

1

littlerature

di
Francesco Forlani
Ci sono due modi per arrivare in Place des Vosges. Uno è percorrendo da Bastille il boulevard Beaumarchais prima di imboccare la rue du Pas-de-la-Mule; ben altra cosa però è raggiungere la meta sfilando lungo la rue des Rosiers, trecento metri di strada, rue des oubliés, des émigrés, des retrouvailles. In un angolo di giardino che precede la piazza, Frank osserva le panchine di legno disposte ad arco e le persone che se ne stanno sedute durante la pausa pranzo. Franck ne distingue i profili e ne indovina le conversazioni nonostante si trovi a una certa distanza e alle spalle. Ad attirare la sua attenzione è la panca di sinistra, dove due donne sulla quarantina hanno disposto nel mezzo alcuni dolci, Blancmange e Baklava, acquistati in uno degli innumerevoli ristorantini, falafel che popolano la strada.
Certamente è colpito dall’eleganza delle due signore, ma è la loro disinvoltura ad attirarlo, per i gesti con cui accompagnano le parole, per la semplicità dell’atto di mangiare una cosa su una panca in un giardino, semplicità rivestita di abiti di marca e calzante scarpe di lusso. Le osserva per un tempo infinito prima di avere come un presentimento di non essere solo. Con la coda dell’occhio ha infatti percepito, al termine di una diagonale che attraversa lo spiazzo, una presenza, concentrata come lui sulle donne, ma per altri motivi, in una prospettiva totalmente diversa dalla sua. Non sa dire se l’altro se ne sia accorto, per quanto, per un breve istante, abbia avuto l’impressione che i loro sguardi si siano incrociati tipo a metà strada, in campo neutro; l’assoluta perseveranza del suo alter ego aveva però dissolto ogni dubbio a riguardo e ne aveva dedotto che della sua presenza non se n’era affatto reso conto.
Una cosa però ora sa di certo; l’attenzione che aveva fino ad allora totalmente rivolto alle due amiche – la confidenzialità che la vicinanza dei corpi trasmetteva faceva pensare a un’amicizia di lunga data- era stata distolta e dedicata ad altro come se la triangolazione in atto tra lui, l’altro e le due donne, al pari di una catena di Sant’Antonio non si potesse rompere e trasformarsi in un accerchiamento. Così Frank osserva i pensieri e i movimenti dell’altro con meticolosa concentrazione, quasi convinto del fatto che qualcun altro stia osservando lui, e quello, a sua volta, sotto gli occhi di un altro ancora come del resto stava già accadendo alle due donne che non lesinavano affatto, tra una battuta e l’altra, una risata, occhiate ai passanti, specie se prestanti o da insicure donne accompagnati.
Ci sono due modi di vedere le cose, le persone. Si possono contemplare, ammirare, riconoscendone un valore superiore, quasi una possibilità di riscatto interiore in quella esperienza di bellezza o di sublime manifestazione di una presenza tanto inattesa quanto catartica, nei fatti; perché uno si sente migliore quando la bellezza diventa un viatico imprescindibile come le parole di un amico prima d’intraprendere un viaggio; lo sguardo allora si lascia fagocitare e allo stesso tempo nutrire e l’estasi indurre a un’immobilità per certi versi feroce dei muscoli se non si avvertisse dentro un movimento frenetico – il battito accelerato del cuore, il freddo alle ginocchia, le vertigini. Diverso è lo sguardo del predatore perché anticipa un movimento, una sequenza ripetuta mentalmente, un piano d’azione che non lascia adito al fallimento, non ammette sconfitta. In realtà esiste un altro modo di guardare ma si tratta piuttosto di un non vedere, come in effetti accade alle due donne sedute sulla panchina molto prese nella conversazione.
Al punto di non accorgersi affatto del topo che dopo averne registrato le pause, i movimenti, la durata delle distrazioni dai dolci- generalmente dopo averne preso uno dal vassoio e per buona educazione attendere la fine della frase prima di portarlo alla bocca- con una mossa del cavallo e un salto da dietro alla panca ne afferra quello più sul bordo, e per quanto grande, ben più grande del muso ce l’ha tra i denti mentre sgattaiola via infilandosi sotto alcune lamiere di un cantiere in corso. Certamente Frank è colpito dalla rapidità del roditore ma è soprattutto l’agilità quasi felina del topo ad attirarlo, la precisione dell’azione tutta svolta nel silenzio e con una tale sapienza che le due signore non si sono rese conto di nulla. Frank abbandona la sua posizione dirigendosi verso di loro. Non ha voglia di dirglielo, avvisarle, non vuole interrompere il sodalizio che la giornata di sole, la freschezza del giardino ornato con piante di fico, una pausa pranzo dal lavoro, insieme a una certa spensieratezza ha reso possibile. Ma quando se le ritrova quasi di fronte e ne nota lo stupore di non ritrovarsi uno dei dolci – il numero pari delle porzioni, calorie da spendere in parti uguali, dopo il furto, era ormai decaduto – gli viene un sorriso, lo stesso che la lettura di un’inserzione su Libé poco prima gli ha provocato:
Cercasi scrittore. Vitto, alloggio, rimborso spese, gettone. Durata un anno. Disponibilità a trasferirsi.
Seguivano indirizzo mail a cui inviare la candidatura e referenze richieste. Frank non ha dubbi adesso. Quell’incarico sarà sa part de gateau.

Bastava saperlo prima

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bd(Alberto Tonti – architetto, scrittore, critico, talent scout, persino cantante a Sanremo – ha conosciuto tutti nella vita. Sono anni che gli dico di scrivere un resoconto dettagliato dei suoi infiniti incontri, perché quando me li racconta al bar mi fa morire dal ridere. Dopo mia insistenza, a modo suo è uomo pudico, ha deciso di mantenere la promessa. Quello che vi pubblico oggi è il primo – e mi auguro non ultimo – di quelli che lui ha voluto chiamare Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Lo ringrazio fin d’ora e aspetto sue nuove a prestissimo. G.B.)

di Alberto Tonti

Primo tempo

Il concerto è finito da poco fra le migliaia di fiammelle tremolanti al vento della notte fredda, nonostante luglio. Grandi emozioni, brividi per tutti: finalmente è tornato quello di un tempo, quello che speravamo di ritrovare dopo la lunga sbandata durante la quale, come un qualsiasi suffragetto, non ha fatto altro che cantare le lodi al Signore, accanto a quattro sgarrambone di colore, manco fosse entrato a far parte di un coro invasato di una qualsiasi setta religiosa della Georgia o dell’Alabama. Ma amen tutto passato, stasera è stato grande, grandissimo e Milano per la prima volta lo ha accolto ed acclamato come merita.

Imbacuccato alla bene meglio, strisciando lentamente le suole mi avvicino intirizzito, ma soddisfatto, verso gli sfoghi delle uscite. Appena fuori dai cancelli di San Siro un oceano di auto mi costringe a slalom veloci alla volta della mia auto, posteggiata di traverso, proprio dietro alla bancarella puzzolente delle salsicce alla piastra. Una retromarcia furiosa, un paio di controsensi pirata, qualche colpo di clacson nervosetto e via, lontano dalla pazza folla, ottanta all’ora verso casa a preparare in fretta l’Evento, anche se non si tratta del Diluvio Universale, né tanto meno della consegna delle Tavole a Mosè (due fra i pochissimi accadimenti che possono a ragion veduta definirsi Eventi).

Se è OK, ti avverto per telefono” ha detto David Zard, prima di salutarmi nel backstage. Con i pochi prescelti che ho invitato a casa mia nell’attesa parliamo di tutto, mantenendo un contegno distratto, svogliato, quasi a nascondere la sottile eccitazione che aleggia nella stanza. Sul piatto del giradischi gira alla solita velocità un bel vinile di Ben E. King che canta Around The Corner, perché Stand By Me sa troppo di banale. La porta finestra che dà sul giardino è spalancata, il vicino di casa, anche se non fa caldo per niente, ha purtroppo riattivato il suo maledetto rumoroso condizionatore che scassa non poco i maroni. Il ghiaccio tintinna nei bicchieri lasciando scie oleose di bourbon, i portacenere in un’ora sono già pieni di cicche, la stanchezza e la strisciante delusione stanno prendendo tutti quando il telefono si mette a squillare: “Va bene, fra mezz’ora siamo lì…” “Giura!” dico. “Giuro!” risponde. Gli sguardi di tutti sono puntati su di me. “Vengono….viene…forse bisogna andare a comprare qualcosa, c’è poco da bere”.

Nel giro di venti minuti Elio Fiorucci, il grande, riesce a procurarsi una cassa di liquori, per lo più whisky, gin e Martini, una di coca-cola, una di aranciata, una di birra, più tre enormi pizze calde e profumate. Nessuno riesce a spiegarsi come abbia fatto, dato che è passata da un pezzo l’una di notte, ma il tempo per domandarglielo non c’è, tutto deve essere predisposto e in perfetto ordine per la visita.

Giusto perché non sto più nella pelle, mi metto alla finestra: lui non arriva scalzo, a dorso di asino, con un ramoscello d’olivo in mano, come qualcuno di noi ha fantasticato, ma seduto dentro una grossa Citroen nera. Il campanello vibra, scorgo attraverso la porta a vetri dell’ingresso la sua inconfondibile sagoma, la vista mi si annebbia, sbando di lato, giro la maniglia con la palma improvvisamente sudata e solo allora mi appare in tutto il suo splendore.

Alla classica frase di convenienza genere “nice to meet you” mi stringe debolmente la mano emanando un grugnito sordo, lo stesso fa con tutti gli altri che, nel frattempo, si sono avvicinati in estasi, sorridenti ed emozionati, per sincerarsi della sua reale presenza.

Non si toglie il cappello di paglia che gli incornicia i riccioli rossi-castani: indossa una camicia giavanese verde smeraldo, con palme gialle, aperta fino al penultimo bottone a mostrare un petto glabro, un pantalone in origine bianco e un paio di stivaletti crema di simil pelle, smangiati in punta, da cui sporgono calze da tennis slabbrate. La barba è del giorno prima o forse di più, gli occhi sono tristi e indagatori, l’incedere sospettoso.

https://www.youtube.com/watch?v=8SkvaALFQOs

Tanto per metterlo a proprio agio, conoscendo i suoi gusti (preparato sono preparato), sul grande tavolo, proprio sotto lo scaffale dei dischi, ho appoggiato in ordine sparso qualche LP degli Everly Brothers, quasi fossero lì per caso. La mossa si rivela quella giusta per rompere il ghiaccio, anche perché so perfettamente che una volta ebbe a dire “senza gli Everly non sarebbe esistito nessuno di noi”.

Lui si piazza seduto davanti al giradischi. Prende in mano il primo album, poi il secondo e il terzo, chiama a sé Mick Taylor, sì proprio lui l’ex chitarrista dei Rolling Stones assoldato per il tour, e comincia a parlottare. Poi fa segno, con l’unghia lunga listata a lutto, di procedere all’ascolto del Greatest Hits dei fratellini. Tramite il mio buon vecchio Thorens, obbedisco. Del resto non chiedo di meglio. Quando Bird Dog attacca, lui e Mick riprendono a mormorare robe sugli accordi, sugli arrangiamenti, sui riff di chitarra. Più volte mi fa capire di tornare indietro di qualche solco così che Taylor possa risentire un passaggio fondamentale mentre continua a mugugnare parole incomprensibili. Tornare indietro di qualche solco è in assoluto la cosa che so fare meglio nella vita, non ho fatto altro dai dodici anni in poi, con la puntina ci so fare. Lui sembra apprezzare. Tanto che ho la sensazione di cogliere persino un abbozzo di sorriso riconoscente, ma probabilmente vaneggio.

Nel frattempo, la maggior parte dei presenti assume un atteggiamento distratto, quasi che nulla di straordinario stia avvenendo in questa casa, a notte fonda, in una domenica di metà luglio, a Milano. Nessuno osa rivolgergli la parola o ha il coraggio di accennare una chiacchiera, una timida parvenza di battuta. Un continuo, febbrile movimento ci porta tutti fra la cucina e il soggiorno: un po’ per offrire da bere, un po’ perché pervasi dall’imbarazzo, un po’ perché proprio nessuno riesce a star fermo.

Lui non schioda le chiappe neppure per un istante, non rivolge verbo ad alcuno, su varie sollecitazioni di normale amministrazione tipo “vuoi un piatto di spaghetti o un pezzo di pizza?”, “vieni di là che c’è un juke-box con vecchi 45 giri!”, “vuoi uscire in giardino a prendere una boccata d’aria?”, reagisce solo con uno sguardo bicolore noia-disprezzo. Poi, finalmente, con accanto un fido galoppino, si muove lentamente verso la biblioteca, sbircia i testi sacri di rock and roll, si sofferma a lungo su qualche foto appoggiata alla costa dei libri, si immerge a decifrare i titoli col capo reclino e, d’un tratto, chiama a sé l’accompagnatore, gli bisbiglia qualcosa all’orecchio e l’ometto fa cenno di avvicinarmi.

Vuole sapere perché ci sono tutti questi libri sul Partito Comunista!” esclama, puntandomi addosso i suoi occhi acquosi e inquisitori.

Sono sulla storia del Partito Comunista Italiano, ci sono altri libri di storia qui, la storia mi interessa molto” affermo, recitando la parte di quello che, con orgoglio, difende la propria libertà intellettuale. Annuiscono entrambi brontolando qualcosa, ma certo la risposta non li ha soddisfatti per niente.

Cosa volete bere?” mi affretto a dire tanto per cambiar discorso. “What do you wanna drink” ripete l’ometto.

Brandy” biascica il maestro. Un dubbio atroce mi attraversa la mente per rivelarsi immediatamente realtà. “No brandy, sorry”, dico. “Vodka” sospira di rimando. “Neppure quella, sono veramente spiacente” replico. “Coffee” ruggisce. “Coffee, certamente si!” esclamo terrorizzato e, al contempo, sgravato da un peso insopportabile. Girando velocemente i tacchi, come appena fuori da un incubo mi affaccio in cucina per ordinare un espresso lungo in tazza grande. La richiesta cade come un fulmine a ciel sereno. “Da ieri la macchinetta è senza guarnizione” sentenzia la mia ragazza “verrà uno schifo! Ma chissenefrega tanto è americano, mica sa com’è fatto un buon caffè”.

Senza guarnizione, l’acqua bolle in un attimo e tocca a me tornare da lui, appoggiargli delicatamente una mano sulla spalla e domandargli con fare cameratesco: “Quanto zucchero, Bob?”. Alzando due dita come Churchill, per la prima e ultima volta mi dice: “Thank you”.

Solo in quell’istante mi rendo conto che non gli si può stare vicino, è come se non avesse fatto la doccia da quando ha deciso di passare dall’acustico all’elettrico e sono passati un bel po’ di anni. Oltre a tutto non sorride mai, non si capisce se si rompe le palle, se si sta rilassando, se odia o, al massimo, sopporta la situazione, insomma un mezzo disastro.

Ciononostante mi rendo conto che sto parlando col signor Zimmerman in persona, che gli ho toccato una spalla, che ho quasi chiacchierato con lui di politica, che mi ha risposto a monosillabi ma mi ha risposto, che sono soddisfatto del mio scarso inglese e, soprattutto, che sia stato ad un palmo da me per almeno un’ora e mezza.

L’odore del mito resta impregnato nell’imbottitura per almeno un paio di giorni poi, dato che non va via, decido di porre rimedio interpellando il tappezziere al quale, comunque, chiedo di aggiungere una piccola targa. Adesso sulla spalliera della poltroncina che ha accolto le sue natiche c’è scritto: “Qui si è seduto Bob Dylan”.

Secondo tempo

Passano alcuni anni e Bob torna a Milano, stavolta all’Arena. Il solito Zard mi propone un altro dopo concerto. Memore di quanto mi è costato il tappezziere organizzo, in fretta e furia, una bella cena in una ricca casa di un ricco editore.

Verso la solita una di notte, arriva. E’ vestito come l’altra volta e non si è mai neppure lavato dall’altra volta.

Al suo passaggio gli invitati si aprono come le acque del Mar Rosso, tutti gli sorridono quasi accennando un inchino come se fosse la Madonna di Lourdes o la Regina Elisabetta. Lui si piazza direttamente a tavola, a capo tavola. Fa un cenno al solito galoppino per far capire che ha fame, quindi che si dia inizio alle portate.

Stavolta si svolge tutto in maniera più veloce e molto più irritante: non apre bocca se non per infilarci porzioni esagerate di cibo, grugnisce saltuariamente qualcosa, qualcuno interpreta quei suoni come continui apprezzamenti ma io, conoscendo my chicken, ne dubito.

Quelle poche volte che qualche intrepido gli rivolge la parola, continuando a masticare, lo fissa come se gli avesse chiesto un prestito.

Arrivati alla frutta, purtroppo, mi scappa di chiedergli se desidera qualcos’altro: mi risponde secco “yes, a taxi!”.

Per quanto mi riguarda è fin troppo, mi trattengo dal mandarlo a fare in culo, anche perché come potrebbe mai un povero fan come me mandare a quel paese un genio come lui? Eppure sfioro l’incidente diplomatico. La padrona di casa se ne accorge e con estrema gentilezza, prima che Mr. Tambourine Man si allontani definitivamente dalla nostra vista e dal nostro olfatto oltraggiato, gli fa persino omaggio di una splendida stampa antica, che viene immediatamente agguantata senza cenno di ringraziamento.

Solo qualche settimana dopo mi capita di leggere su un mensile musicale una sua intervista: “Non voglio mai incontrare chi mi adora, loro sanno tutto di me e io non so niente di loro. Loro sono cresciuti con me. Ma io sono un estraneo.”

Bastava saperlo prima.

L’amore è l’origine di tutte le cose. Poesie per Bowie

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ziggy

Arthur Rimbaud

Notte di giugno! Sedici anni! – Ti lasci esaltare.
La linfa è uno champagne e ti sale alla testa…
Divaghi; e senti alle tue labbra un baciare
Che palpita là, come una piccola bestia.

l’uomo che forse faceva finta di dormire (1/2)

4

di Marino Magliani

Marino_Mannenafdeling, jaren '20 of '30

 

 

 

 

 

 

Il 29 dicembre scorso ho fatto una piccola vacanza nella regione della Gheldria, che si trova al centro dell’Olanda, ai confini con la Germania. L’albergo dove ho alloggiato si chiama Ehzerwold, è situato ai margini del

La cometa di Halley

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di Antonio Sparzani

vacche al pascolo alle malghe
vacche al pascolo alle malghe

(Pubblico con piacere e commozione questo breve racconto scritto da una persona straordinaria, editore, fotografo, ornitologo e grande amante della natura, Oliviero Dolci, che è purtroppo mancato il 31 dicembre scorso. Il titolo “La cometa di Halley” è suo, ma, vista la data del racconto, marzo 1997, si trattò certamente della cometa di Hale-Bopp, in quel momento molto visibile nei cieli del nostro emisfero, mentre l’ultimo passaggio della cometa di Halley avvenne nel 1986, a.s.)

8 marzo 1997
La mattina entrando in stalla mi accorsi subito che la Mimi aveva lo sguardo innamorato, – cos’hai sei in calore? Fa ridere l’idea che una mucca ti possa guardare con aria innamorata, eppure è proprio così, attraverso lo sguardo trasferisce su di te tutto l’interesse che la sua condizione fisica le impone, essendo tu membro esclusivo del suo branco.

Il coatto e la signora

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di Paolo Sabbagh*

Venerdì 8 gennaio 13:30 ca. siamo alla fermata di via tiburtina e stiamo facendo salire i migranti per accompagnarli ad una mensa e farli mangiare.

Un ragazzo corpulento ci si para davanti e indicando i nostri fratelli migranti dice “questi qui nun entrano”.

A questo punto Pablo gli chiede se è un controllore e di fargli vedere il tesserino; “nun so’ nisuno” risponde il coatto “questi nun entrano e basta!”.

Io e Pablo, visto l’atteggiamento, ci prepariamo allo scontro ma vediamo un signore di mezza età e di pari stazza del coatto che ci precede e gli dice: “be’, ma se non ti piacciono scendi te”; la signora a lui vicino: “ma che sei razzista?”; una ragazza poco dietro con la kefiah al collo: “a fascio demmerda”; il suo ragazzo: “e vattene!”.

Allora il coatto, colto alla sprovvista dal furore dei passeggeri del 163, scende a più miti consigli dicendo: “bene me ne vado, nun ce viaggio co li negri io” ed esce dall’autobus in mezzo agli applausi dei viaggiatori che solidarizzano con i nostri brothers e a Pablo che gli consiglia di prendere il prossimo autobus.

Alla fine io e Pablo ci siamo salvati da una capocciata in faccia beccandoci anche i complimenti da parte di una Bella signora perché “aiutiamo ste povere creature”.

In mezzo ad una Roma, per dirla alla Remotti, fetente, impiegatizia, dei mezzi litri, della coda alla vaccinara, dei ricchi bottegai, del volemose bene e annamo avanti, ce n’è un’altra “dal basso”, comprensiva, generosa, accogliente, luminosa, di grande infinita immensa bellezza.

 

  • Volontario del Baobab di Roma

Sodali

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di Giovanni Bitetto

Sento gridare dentro di me, ma non conosco più il cammino della mia volontà fino alla mia gola.
Il marinaio, Fernando Pessoa

Reinhard non aveva previsto la pioggia.
Heinrich non aveva previsto la pioggia.

Sorseggiava rumorosamente il brodo per coprire il brontolio dei tuoni. I lampi inondavano la sala da pranzo, trascinavano la luce dell’unica candela. S’illuminava il tavolaccio di legno, il vecchio curvo: rimestava nel piatto adoperando il cucchiaio. Heinrich scrutava i pezzi di pasta che galleggiavano a mo’ di arcipelago, la superficie del liquido ambrato, bastava un soffio per scatenare il maremoto, devastarne la geografia provvisoria, squadrava le rotte marittime delle verdure, dei pezzi di carne che avrebbe prelevato con un semplice gesto. Il brodo si raffreddava e lui rimaneva immobile, nutrendosi di tanto in tanto, la bocca schifata dal liquido inerte. Non cessava di piovere.

Čistye Prudy – Il tram Annuška

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[Pubblichiamo un estratto da Viaggiatori nel freddo. Come sopravvivere all’inverno russo con la letteratura, exorma edizioni, 2015]

di sparajurij

All’uscita dalla metropolitana il vento si serve dei primi metri per assalire e respingere i viaggiatori nelle gallerie delle scale mobili. Lo sbalzo di temperatura genera correnti impazzite e l’aria si infila come una ragnatela di lame dentro i cappotti. Quasi un secolo fa, nel 1923, in questo stesso luogo che all’epoca ospitava una trattoria malfamata, la polizia, come fosse vento, spingeva fuori dal locale Sergej Esenin per arrestarlo dopo una serata alcolica e una lite con un avventore troppo curioso.

Post in translation: Dmitrij Gorčev

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allegare-graffetta-simbolo-diagonale_318-61913Graffette

di Dmitrij Gorčev

traduzione di Ida Amlesù 

In un paese lontano viveva un uomo.

Quest’ uomo amava perdutamente una donna. Solo che la vedeva molto di rado. Una volta ogni quattordici anni. E in tutto, una volta e basta.

Un bel giorno, quest’uomo ebbe un gran bisogno di qualcosa. Graffette, forse. O magari vermicelli, chi lo sa.

Ma in quel paese c’era una regola per cui tutto, ma proprio tutto, era gratis, perché tanto soldi non ne aveva nessuno.

Hai bisogno, mettiamo, di una scopa: eccotela in regalo.

Prima, però, bisogna scrivere una richiesta formale a una speciale commissione. Così e cosà, scrivi: ho grande necessità di una scopa. La commissione arriva, controlla tutto, interroga i vicini e un mese dopo si può andare ritirare la propria scopa. E, cosa importante, è gratis.

Ma senza commissione non si può. Magari hai già una scopa. Oppure non hai proprio niente da spazzare. Tutto può essere – magari non hai nemmeno le braccia. E mica ci sono abbastanza scope per tutti.

Perciò l’uomo si sedette e scrisse la richiesta. Io, scrisse, ho grande necessità di graffette. O forse di vermicelli. La recapitò a chi di dovere e se ne tornò a casa ad aspettare la commissione.

Senonché la commissione non venne affatto.

Al nostro avevano persino cominciato a raffreddarsi le gambe. È evidente che aveva un bisogno disperato di queste graffette. O di vermicelli.

Quand’ecco che un giorno qualcuno bussa alla porta. Entrate, dice l’uomo. Ma non si alza da terra per aprire la porta, perché non ne ha le forze. E comunque la porta non ha neanche la serratura.

E a che gli servirebbe una serratura. In quel paese non c’era proprio nessuno che ne avesse una.

Perché può anche essere che diano a qualcuno degli scarponi. Però lui, mettiamo, arriva a casa, prende e muore. Ma la porta è chiusa a chiave. Come farà, ci si chiede, la commissione a togliergli gli scarponi? Perciò le serrature in quel paese non le aveva nessuno.

In quel momento si apre la porta ed entra una donna. Quella stessa donna di cui l’uomo era innamorato. Per la gioia lui si spaventa persino.

Bisognerebbe farla accomodare su una sedia, pensa. Ma una sedia mica ce l’ha.

La donna però non ha intenzione di sedersi. E’ lei, dice, tal dei tali?

Certo che sono io, proprio lui, pensa l’uomo. Ma per la gioia non riesce a dire nulla. Bisognerebbe versarle dell’acqua, pensa. Ma non ha mica un bicchiere. E l’acqua gliel’hanno tagliata chissà quando.

Ma la donna, senza che le dica niente, sa già tutto di lui da tempo. Lei, dice, l’anno scorso ha avuto grande necessità di tappare la finestra, così le è stato dato quasi mezzo chilo di stucco per vetri gratis. Sono già sette mesi che l’inverno è passato, ma lei finora non ha restituito lo stucco. Quindi si muova un po’ a scrostarlo, ché domani vengo a prenderlo. E se ne va.

O Signore, pensa l’uomo, come può credere che non voglia ridarle lo stucco. Si alza in qualche modo e lo scrosta tutto. E il pezzetto di vetro che ci era attaccato lo ripone con cura in un angolino. Si stende di nuovo per terra e si mette ad aspettare che la donna ritorni.

Solo che lei non torna più. Al suo posto arrivò proprio un’altra persona, un uomo, e ritirò lo stucco. Per qualche ragione, ritirò anche il pezzetto di vetro. Ma il nostro non obiettò nulla a riguardo.

Quando però arrivò la commissione per interrogarlo a proposito delle graffette, si scoprì che l’uomo era già morto. Giaceva sul pavimento, tutto coperto di neve, e quando la commissione spalò via la neve vide che l’uomo sorrideva.

E aveva un sorriso così bello che la commissione subito gli tolse gli scarponi e lo seppellì nel cortile.

E nessuno chiese: chi seppellite?

Perché era un uomo, solo.