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Braccia rubate (al cinema) – atto II

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Illustrazione di Roland Topor

 

Ecco il secondo atto della rubrica « Braccia rubate (al cinema) », corredato da una breve bio-filmografia dell’autore e da un link a un film che evoca il testo (o viceversa). Le seconde braccia rubate sono quelle di Manuel Maria Almereyda Perrone con le sue tre storie di lupi, Lavizzari e bulbi oculari.

 

ANTI-FAVOLA

 

Francia, massiccio centrale, febbraio 2017

Trovati morti ancora dodici lupi.

Negli ultimi mesi la carneficina di lupi è aumentata in modo allarmante: sono ormai migliaia gli esemplari trovati morti in questa regione montagnosa.

Compito ingrato quello della polizia locale che cerca di mettere un freno a questi atti criminali, difficili da perseguire perché le vittime sono animali, e contro un’opinione pubblica che disprezza i lupi e chiude volentieri un occhio su questo massacro.

Tutto porta a pensare che non si tratti di casi isolati ma che siano tutti opera della stessa persona che agisce con freddezza e premeditazione.

I lupi sono attirati nel bosco, con cestini pieni di leccornie.

Storditi dal cibo sono legati e travestiti con abiti da pensionata.

In seguito, in questo atto barbarico, gli viene inserito un bambolotto di plastica nel ventre lacerato.

Tutto questo mentre sono ancora in vita. Moribondi sono infine violentati e sgozzati nel momento del piacere.

Il giornale locale è stato vittima di un attentato dopo una serie di articoli che esigevano una presa di posizione della popolazione accusandola di nascondere e assecondare il probabile mandatario di questi atroci delitti.

Nell’ultimo articolo appaiono alcune foto, scattate da un cacciatore che aveva assistito alla scena e sfuggito per puro miracolo, che lasciano poco spazio ai commenti e stordiscono per la loro crudezza: una bambina di sette anni, bionda, vestita di un impermeabile rosso e ricoperta dal sangue del povero animale che sta torturando con un sorriso innocente.

 

LA GUERRA DEL PESO

 

Si è detto a lungo che il quadro di Lavizzari sia uno dei più suggestivi della sua epoca.

A cavallo tra l’alto e il basso medioevo il quadro rappresenta il ponte tra questi due mondi, le credenze e l’immaginario di popolazioni così diverse tra loro.

La guerra del peso, dipinto dal maestro nella primavera dell’anno mille, raffigura due popoli che scendono da due valli contrastanti per affrontarsi in un corpo a corpo sanguinario.

Due donne in primo piano, avvinghiate tra di loro, traspirano tutto il rancore della guerra, il sudore e la polvere sono magistralmente raffigurati dal maestro con un utilizzo di colori tenui in una scala cromatica per il resto dai toni forti e generosi, tecnica ancora sconosciuta all’epoca e poi ripresa dalle scuole della Bassa Sassonia e dai maestri rinascimentali.

Le due donne raffigurano la sintesi dei gusti a cavallo tra le due epoche, una opulenta e imponente con un seno prosperoso, l’altra dal corpo asciutto, scaltra agile e muscolosa, un seno piccolo e appuntito.

Ogni donna è seguita da un popolo di persone, da una parte magri e agili dall’altra grassi e imponenti.

La battaglia è un abbraccio di questi due popoli, avvinghiati in questo corpo a corpo silenzioso.

Per questo motivo da sempre questo quadro è stato considerato un grande capolavoro d’avanguardia rispetto ai suoi tempi.

Una rappresentazione tangibile dell’immaginario collettivo, un esempio della sua trasformazione tra due epoche, da un periodo di prosperità economica rappresentato da donne formose coi seni prominenti a un periodo di miseria in cui l’ideale è rappresentato dalla scaltrezza e la forza di sopravvivenza.

Nel Medioevo il processo di cristianizzazione porta in effetti ad un radicale cambiamento nel modo in cui viene percepita la figura femminile.

L’austera morale medioevale definisce i nuovi canoni estetici del corpo della donna: esile e acerbo per dimostrarne la castità e la purezza, con i fianchi stretti, il seno appena abbozzato, ma il ventre prominente, indice di fecondità in quanto madre.

In epoche successive questo conflitto e questa trasformazione si sarebbero ripetute a vari intervalli.

Forse la guerra intestina più importante nella storia dell’umanità: la guerra tra grassi e magri.

Quello che si conosce meno è la storia intima del maestro e le origini del quadro.

Uno studioso svedese, Jolaf Sberdensen, ha scritto un ottimo testo proponendo un parallelo con il mistero delle valli gemelle, mistero che data della stessa epoca del Lavizzari e anzi, secondo lo studioso il mistero non sarebbe altro che la storia riprodotta nel quadro.

Visione piuttosto imbarazzante perché relegherebbe il capolavoro del maestro a una semplice cronaca di fatti e non uno sguardo sensibile sull’umanità e i suoi complessi.

Sberdensen si perde un po’ in questa polemica sterile, dato che qualunque sia la fonte di ispirazione il quadro è un capolavoro anche per l’equilibrio delle parti, la sovrapposizione di tecniche, la sensibilità e la ricchezza di dettagli, in cui non è da meno la precisione anatomica, anch’essa piuttosto insolita per l’epoca.

Ma non c’è bisogno di perdersi a difendere un artista che non ha altro argomento di aver sopravvissuto nel tempo e aver continuato a dialogare coi suoi posteri, mille anni dopo, con assoluta pertinenza.

Molti poeti hanno citato il maestro, nei secoli, in modo più o meno esplicito.

Basti ricordarsi i famosi versi di Leopardi – ai tu che al cuor fece bilancia – nei suoi teneri sonetti di gioventù.

La scuola freudiana ha fatto suo lo sguardo del maestro sintetizzando i disturbi alla base di anoressia e bulimia come il complesso di Lavizzari.

Perfino in medicina il nodone di Lavizzari fa riferimento all’infiammazione dei neurostrasmettitori che si occupano dello smaltimento del grasso.

L’imponente opera di Botero non si potrebbe capire senza considerare una certa vena di provocazione al maestro.

Famosa è anche la storia del quadro.

Rifiutato dalla società dei duchi, che avevano commissionato l’opera a Lavizzari, probabilmente a causa del loro rinomato complesso estetico, il quadro è finito per secoli nel dimenticatoio, prima di diventare una delle opere di riferimento per tutta una generazione di pittori barocchi, che ne vedevano una chiara rappresentazione del potere delle forme e della vittoria dell’opulenza.

Durante i primi anni del Ventesimo secolo, invece se ne ricordano le riproduzioni su manifesti di propaganda politica, esortando un popolo magro e coraggioso a difendersi a ribellarsi a un nemico grasso e inattaccabile.

Il quadro per anni ha occupato una delle sale più importanti del Musée du Louvre, a Parigi.

Recentemente ha ancora fatto parlare di sé dopo essere stato oggetto di vandalismo dalla famigerata società dei custodi del grammo.

La polemica che ne è scaturita ha portato il governo francese a proibirlo per oscenità e provocazione della morale di uguaglianza e fratellanza dei popoli.

Da quel momento si trova nelle cantine del museo, malgrado le insistenti domande da parte di musei di tutto il mondo, in attesa della fine di un processo che probabilmente durerà ancora molto tempo.

Quello che stupisce in tutta questa storia è che, malgrado il quadro abbia suscitato forti reazioni, sia stato soggetto di vari saggi e sia un pilastro della storia dell’arte, un elemento non viene mai citato al proposito, anche se è senza dubbio essenziale per capire l’opera del maestro e la sensibilità del suo capolavoro.

Lavizzari era cieco.

UN OCCHIO

 

Un giorno sono andato a pescare nei mari del Sud.

Seduto su una sedia in metallo pieghevole, un secchio a terra pieno a metà d’acqua e la sigaretta tra i denti per salvarla dal vento, ho pescato un occhio.

Un occhio grosso, scivoloso come un pesce, caldo e morbido.

Aveva dei tentacoli come lunghe ciglia e non si capiva se sopra e sotto gli spuntassero pure due piccole pinne.

La sera raccontando l’accaduto, in una taverna di poca cosa, attorno a un tavolo grezzo e ricoperto di bottiglie, i vecchi avventori, che di notte sono pescatori, mi hanno spiegato.

Nei mari del sud capita spesso di pescare un occhio, un naso o una bocca.

 

FINE

Manuel Maria Almereyda Perrone,(03/12/1981), svizzero di origine napoletana e tedesca, si forma in teatro, scopre il linguaggio cinematografico per caso, lavorando con un gruppo di donne anziane (da 80 a 90 anni) a Buenos Aires su un progetto teatrale, per adattarsi ai problemi di energia e memoria del gruppo.

Ha fondato a Marsiglia, dove vive e lavora, l’Agence de l’Erreur (www.lerreur.fr) con cui ha prodotto Rêves d’occasion, 2012, di cui l’episodio Santex è stato distribuito da Canal Plus, Adios Muchacha, che ha avuto il premio Paca al Festival di Nizza. Lavora in questo momento come assistente di Cid Hamet Ben Engeli su un adattamento cinematografico di Don Quichotte de la Mancha. Ha avuto il premio Unesco della città di Trieste per la sua poesia Ho camminato nel giardino dei vecchi ed è stato finalista del premio di drammaturgia Oltreparola per la pièce Agonia di un angelo.

150 anni di Alice: Un vecchio libro di Alice

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150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI(NDF)

di Cristina Babino

a mia sorella Elena

 

alice garzanti babinoLa storia di Alice, tutta la sua fantasmagoria irriverente e perturbante, la associo nella mente a un oggetto preciso. Un libro, e uno soltanto. L’ho recuperato, e con quello i ricordi d’infanzia che ad esso si fondono nella memoria, nella biblioteca della mia casa in campagna nelle Marche. Una casa dove non vivo – risiedo all’estero ormai da molti anni, in quello spazio contemplativo e spesso nostalgico che consente, o impone, la distanza – ma dove ho raccolto su scaffali di legno lucido e pesante tutti i libri che nei miei molti viaggi, traslochi e spostamenti non ho potuto portare con me. E sono tanti. Li ritrovo ad ogni ritorno, mi aspettano nel loro ordine non cronologico, non alfabetico, e neanche troppo tematico, aggiustati sui ripiani a seconda delle dimensioni e dell’altezza dei loro dorsi. Mi piace che la loro disposizione sia gradevole anche all’occhio – o sempre avuto un po’ la fissa delle simmetrie, dell’armonia delle forme. Mi riprometto spesso di cambiare quest’ordine molto poco filologico, di mettere in sequenza tutti quei libri per autore, o più diligentemente per argomento, il che, mi dico, verrebbe tutto a mio beneficio, la ricerca di questo o quel volume sarebbe senz’altro più agevole. Ma poi mi dico anche che i dorsi dei miei libri li conosco tutti, e che comunque mi ci vuole un attimo per riconoscere quello che mi serve, a colpo d’occhio, e a colpo sicuro. Allora a che pro cimentarsi in un riordino lunghissimo e noioso, visto anche il poco tempo che trascorro in quella casa, solo per le parentesi brevi delle vacanze. Quindi è rimasto tutto com’è, anche stavolta.

Il libro è un tascabile, rilegato in brossura, un’edizione Garzanti del 1978 (anni fa ne facevo cenno già qui). Non era originariamente destinato a me, ma un regalo di uno zio a mia sorella Elena.  Prova ne è pagina 92: una pagina vuota alla fine del capitolo dedicato alla partita di croquet della Regina, sulla quale campeggia una scritta a penna blu, fatta con calligrafia infantile, che dice: «elena e il libro delle avventure di ALICE». Un suo marcare il territorio, qualcosa che i bambini fanno spesso sulle loro cose, su quelle a cui tengono in particolare.

Ma io l’ho ereditato, diciamo cosi, in quel modo un po’ furbesco con cui in casa ci si scambiano – o ci si prendono – le cose che piacciono. L’ho fatto mio, senza tanti giri di parole. Ho pensato, piuttosto unilateralmente, che l’affezione profonda a quell’oggetto e le memorie connesse bastassero per legittimarne il mio possesso ormai esclusivo e pacifico.

La dedica sul frontespizio recita «Alla meravigliosa Elena, da zio Pino. Natale, 1979». È incredibile, all’epoca avevo appena tre anni e mezzo, ma ricordo benissimo quel Natale, il momento preciso in cui mio zio – pallido e filiforme, coi capelli rossi e le lentiggini sul viso che portiamo in famiglia come un marchio di fabbrica – passato quel giorno per una visita, porgeva questo dono a mia sorella che aveva compiuto da poco otto anni, sotto il grande albero sapientemente addobbato dalla mamma in salone, come ad ogni ricorrenza, e a cui non ci era concesso avvicinarci troppo.

vecchio libro scritta CristinaNon so bene se mia sorella conoscesse già la storia di Alice nel paese delle meraviglie, probabilmente mio zio doveva avergliene parlato in precedenza, e il libro in regalo era il coronamento ideale dei suoi racconti. Ma ricordo la felicità e il sorriso aperto sul viso di Elena per quel regalo così piccolo eppure così carico di promesse e di avventure da sfogliare ad ogni pagina. E ricordo la mia curiosità di minuta analfabeta e nuova al mondo per quel piccolo oggetto rettangolare e misterioso. Era l’ultimo Natale di quei difficili anni Settanta – funestati dal terrorismo, dalla crisi energetica ed economica, e la nostra Ancona anche da un terribile terremoto venuto dal mare di cui ancora, nonostante una rapida ricostruzione, la città e i suoi abitanti portano con sé la memoria e le ferite –  che ci avevano visto nascere, e ci stavano lasciando crescere. Un paperback poteva ben bastare, al tempo, per renderci felici. E non avremmo osato, comunque, chiedere niente di più.

Sotto il discreto segno a penna blu che pretendeva di nascondere le cifre si può intravedere ancora il prezzo: L. 2.700. La copertina è quella classica dei Garzanti di una volta, incorniciata di arancio e di marrone. Al centro, un’illustrazione a colori tenui che raffigura l’incontro di Alice col Brucaliffo (anzi solo Bruco, nella traduzione dell’epoca di Alfonso Galasso e Tommaso Kemeni). La copertina è scolorita, e un po’ scarabocchiata, ne manca persino un angolino inferiore sulla destra, e ricoperta di striature bianche dovute all’usura, a passaggi di mano infantili entusiaste e poco accorte, a letture avidamente insistite, ripetute; il dorso è consunto in più parti, un sentiero concavo in cui il dito indice affonda per tutta la lunghezza, tenuto insieme alla meglio con uno scotch ingiallito dal tempo e ormai quasi del tutto inservibile, se non fosse per la sovraccoperta in cellophane trasparente con cui anni fa ho provveduto a rivestire il tutto nell’estremo tentativo di salvare il salvabile. Espediente poco estetico, senz’altro, e poco poetico, con l’adesivo giallo che sporge a più riprese dall’interno, ma tutto sommato ancora efficace.

È un libro che oggi sfoglio raramente, con cautela estrema, quasi come sfoglierei un manoscritto antico: le pagine rischiano di staccarsi ad ogni apertura dalla costola della rilegatura, e in molti casi si sono già scollate per una buona metà, assumendo un allineamento sghembo, approssimativo. Per questo sinora l’ho sottratto alle imprudenti mani di mia figlia, distraendola con edizioni meno fascinose ma più recenti, colorate e accattivanti. Riservandomi di passarglielo in eredità, non appena sarà abbastanza grande per capirne il valore, tutto affettivo, genealogico quasi, famigliare.

La carta, corposa sotto i polpastrelli, originariamente già ruvida, sembra essersi inspessita col tempo e ha assunto quella nuance giallo paglierino e quell’odore pungente di umido e soffitta tipici dei vecchi libri economici. Il testo è accompagnato dalle classiche, inconfondibili illustrazioni originali di Sir John Tenniel. Illustrazioni dal tratto infittito, nervoso, che sembrano tradurre nel segno appuntito, spesso spigoloso, tutta l’inquietudine che anima la bambina protagonista delle avventure nel paese delle meraviglie e dietro lo specchio. Sono immagini mai rassicuranti, mai soltanto didascaliche, esplicative, che ritraggono una bambina dai lineamenti invero già adulti, stranamente matura nella sua espressione perennemente imbronciata, sempre scostante, a volte annoiata, e semmai sbigottita, ma mai allegra e neppure sorridente.

Questo mi ha sempre colpito di quelle illustrazioni per un libro che si voleva per l’infanzia: che quella bambina non ridesse mai, neanche di fronte alle trovate più surreali e divertenti – penso al tè col Cappellaio Matto e compagnia, o alle battute sornione del Gatto del Cheshire –  che quel nonsense a cui doveva arrendersi il suo ragionamento non fodisegnolibro1elena cristinasse mai uno spasso per lei, una ricreazione, piuttosto una prova assurda da superare per approdare all’avventura successiva, come in una specie di raccontato videogame ante litteram (e anche i protagonisti dei vecchi giochi elettronici con cui mi intrattenevo da bambina, a ripensarci adesso, non ridevano mai).

Ad alcune di queste immagini mia sorella, non contenta, aggiunse del suo, colorandone a matita o a pennarello alcuni dettagli: il risultato sono delle illustrazioni ritoccate, un po’ in bianco e nero e un po’ no, simili nell’effetto finale a certi dagherrotipi colorati dell’Ottocento, coi loro toni acidi e l’aria altezzosa e vintage, aristocratica e svagata.

Mia sorella – mai stata una lettrice che diremmo vorace – lesse questo libro per almeno otto volte consecutive, fino all’adolescenza inoltrata. Terminata una lettura, entusiasta, lo riprendeva in mano a intervalli regolari, ricominciava a leggerlo daccapo, fermandosi ogni volta alla fine delle avventure nel paese delle meraviglie perché quelle dietro lo specchio, diceva, non erano altrettanto avvincenti. Sentii così tanto parlare di quel libro, dai suoi racconti rapiti ed eccitati, che appena imparai a leggere mi fiondai sulle sue pagine, rinnovando l’incontro con quei personaggi strambi, dal fascino a volte oscuro, e persino indisponente, celebrando un rito silenzioso, chiuso nel paese intimo della nostra cameretta, di cui lei andava genuinamente fiera.

Sulla quarta di copertina, nel breve testo riportato per attirare l’attenzione del potenziale lettore, Alice viene definita «una bambina perversa polimorfa». Se sul “polimorfa” non potevo che essere d’accordo – è Alice stessa ad ammetterlo a colloquio con il Bruco: «so chi ero stamattina quando mi sono alzata, ma da allora credo di essere cambiata più di una volta» – ricordo la mia sensazione di fastidio, incomprensione, per quel “perversa” che, dopo averne controllato il significato sino ad allora ignoto, mi pareva parola bizzarra, vagamente tendenziosa, insomma inopportuna. Una sensazione che a dirla tutta non mi abbandona neppure oggi, quando ascolto canzoni come The Humpty Dumpty Love Song o White Rabbit, ammiro certe foto di Annie Leibovitz,  le splendide illustrazioni di Arthur Rackham del primo Novecento o quelle contemporanee e ambigue di Leonardo Cemak, o mi immergo in lungometraggi che portano il titolo del libro (il vecchio musical del 1966 con Peter Sellers nei panni della Lepre Marzolina,  l’intramontabile rivisitazione Disney, la grottesca e un po’ angosciante Alice di Svankmajer, fino al recente di Tim Burton), e penso a quanta ispirazione è nata, e può ancora nascere, a 150 anni di distanza, da questo libro pensato per i bambini – anzi scritto per delle bambine – che tramanda la sua fascinazione più profonda nell’età adulta, che tra i classici è certo il più mobile, destabilizzante, visionario.

Asterusher è la mia casa. Intervista a Michele Mari

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di Antonella Falco

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticciN.I. La casa, intesa sia come spazio fisico che come luogo immaginario, declinata come nido in cui rifugiarsi o come carcere castrante e opprimente, come ricettacolo di affetti e ricordi familiari o come luogo congeniale allo sprigionarsi di forze psichiche irrazionali e violente, è un ambiente che ha spesso ispirato gli scrittori, in ogni epoca e a qualsiasi latitudine. Molti di questi scrittori sono tra l’altro a te particolarmente cari, penso a nomi quali Landolfi, Borges, Gombrowicz, Poe, Kafka, Canetti e tanti altri. D’altra parte tu stesso hai posto la casa al centro di molti tuoi romanzi e racconti. In tal senso Asterusher (leggi qui la recensione, ndr) è dunque un atto dovuto, l’esito naturale e inevitabile di un preciso percorso letterario?

M.M. Un atto dovuto, sì. Penso che queste fotografie siano il corrispettivo figurativo (e il loro oggetto il corrispettivo plastico) di tante mie pagine, e che, tanto in termini di autobiografia quanto in termini di poetica, siano molto più significative di quanto potrei scrivere articolatamente e diffusamente. In ogni caso non stiamo parlando di fotografie “secche”, ma di fotografie integrate da brevi testi.

N.I. Asterusher si compone di novanta foto. Immagino ne siano state scattate molte di più. Il lavoro di selezione è stato particolarmente difficile?

M.M. Abbastanza: come scrivo nella prefazione, lasciato a me stesso avrei teso all’esaustività enciclopedica dei cartografi dell’imperatore borgesiano… Ancora adesso rimpiango immagini che sono rimaste fuori (una di queste, in particolare, non figura in Asterusher soltanto perché il suo oggetto è venuto alla luce quando il libro era già chiuso: si tratta di un antico pallone di cuoio, deformato e gibboso, perfetto per illustrare un passo dei Palloni del signor Kurz).

N.I. Presso molte culture gli oggetti sono considerati cose tutt’altro che neutre. Le scienze etnoantropologiche, ad esempio, hanno dimostrato come presso diverse popolazioni melanesiane sia diffusa la credenza secondo cui gli oggetti possiedano una sorta di potere spirituale, una facoltà intrinseca che li assimila alla persona che li ha posseduti e che permane in essi anche dopo il loro passaggio nelle mani di un’altra persona. L’oggetto partecipa della forza magica (che i maori chiamano hau) del possessore originario, forza magica la cui qualità può essere positiva o negativa. Le tue case sono piene di oggetti assolutamente impregnati, come questo libro dimostra, della tua energia vitale e tu stesso hai più volte affermato di avvertirli come “radioattivi”. Quanto è ambivalente il tuo rapporto con essi? Quanto c’è di benefico e quanto di malefico nell’energia che questi oggetti ti rimandano?

M.M. Vorrei poter dire (e anzi dico) che me ne viene solo del bene. Fin dall’infanzia gli oggetti, come i personaggi dei libri e dei fumetti, come gli animali e le piante e i mostri, sono sempre stati i miei interlocutori privilegiati, i miei compagni e i miei amici; forse perché, a differenza degli umani, non smentiscono le illusioni del nostro pensiero magico, e, lungi dal sollecitarci alla crescita e (orrore) alla “maturazione”, ci trattengono in un mondo fisso e immutabile.

N.I. È appena uscita la tua traduzione de Il richiamo della foresta di Jack London, pubblicata da Rizzoli, editore per il quale hai tradotto anche L’isola del tesoro di Stevenson e Ritorno all’isola del tesoro di Andrew Motion. Pensando al racconto La freccia nera, contenuto in Tu, sanguinosa infanzia, credo di non sbagliare se dico che per te l’attività traduttoria costituisce un cimento entusiasmante. Tenendo conto del fatto che London è uno dei tuoi numi tutelari e che ne I demoni e la pasta sfoglia lo hai definito «l’ultimo grande epico della letteratura occidentale», come ti sei accostato a questo lavoro di traduzione? Quali sono stati i tuoi strumenti e quale la tua prassi di lavoro?

M.M. Traduco in modo istintivo e di getto; poi, in un secondo tempo, verifico e controllo sui dizionari, e in certi casi confronto la mia soluzione con quelle di altri traduttori, se ce ne sono; infine rileggo la traduzione come un testo a sé stante, limandola secondo le “ragioni dell’orecchio” imposte dalla lingua d’arrivo.

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticciN.I. Un altro autore che ami, Gesualdo Bufalino, giunse all’opera di traduzione da autodidatta per poi regalarci non solo splendide traduzioni ma anche interessanti riflessioni sull’arte del tradurre, quale ad esempio questa: «Il traduttore è come uno scassinatore di casseforti. Guai se gli tremano le mani […] Freddezza e passione, dunque, ci vogliono entrambe. Il traduttore deve essere insieme un mistico e un ingegnere. Quindi tradurre è più di un esercizio: è un gesto di ascesi e di amore». Quali sono gli aspetti che per te contano di più nella traduzione di un testo? Saresti disposto a sacrificare la fedeltà a favore di una maggiore letterarietà, insomma, per dirla con il Monti, «una bella infedele fa sempre miglior fortuna di una brutta fedele»?

M.M. In moltissimi casi una certa quota di infedeltà letterale è indispensabile per salvare lo spirito, il senso, il ritmo, le suggestioni subliminali dell’originale (tant’è vero che una buona traduzione non deve dare l’impressione di essere una traduzione, ma imporsi al lettore come testo a sua volta originale): bisogna però sapersi fermare un attimo prima di cedere alla tentazione (pur generosa e nobilissima) di “migliorare” l’originale. Ai fini di questa profilassi mi aiuta il fatto che, non essendo un traduttore professionale, posso permettermi il lusso di tradurre solo testi che, come Il richiamo della foresta, mi incutono un sentimento di reverenza e di adorazione.

N.I. Nei prossimi mesi arriveranno in libreria anche le nuove edizioni di alcuni tuoi libri, quali per l’esattezza?

M.M. A novembre il nuovo tascabile di Euridice aveva un cane, a febbraio quello di Roderick Duddle, e in primavera la ristampa di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti nelle collana Arcipelago (tutti da Einaudi).

N.I. Nelle ultime settimane due decani della critica italiana, Franco Cordelli e Pier Vincenzo Mengaldo, il primo dalle pagine de Il Fatto Quotidiano, il secondo dalle colonne de La Lettura, inserto culturale del Corriere della Sera, hanno tracciato un quadro a tinte fosche della letteratura italiana contemporanea, dichiarandone sostanzialmente, se non proprio la morte, uno stato di coma pressoché irreversibile: dopo Calvino, Volponi e Levi i romanzieri italiani sarebbero dei mediocri intrattenitori, la poesia non esisterebbe più da tempo e la critica si sarebbe ridotta all’arte della marchetta. A dire il vero queste analisi relative al declino o alla morte della letteratura italiana ricorrono ciclicamente ormai da diversi anni, lo stesso Mengaldo non è nuovo a dichiarazioni di tal fatta. Qual è la tua opinione in merito?

M.M. Lavoisier, Spallanzani e Volta erano tristi, perché Galvani aveva rivelato che le rane non erano più quelle di una volta. Intervistato, il rospo si sottrasse al quesito.

Michele Mari, «Asterusher»: l’autobiografia per feticci di un puer aeternus

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Michele Mari. Asterusher. Autobiografia per feticci

di Antonella Falco

Novanta foto equamente divise: quarantacinque nella sezione dedicata a Nasca e altrettante in quella dedicata a Milano. Novanta foto, e due case, per raccontare attraverso gli oggetti la vita di Michele Mari, uomo e scrittore (inutile chiedersi dove finisca l’uno e inizi l’altro, la linea di demarcazione netta di solito non esiste, meno che mai per un autore come lui).

È quanto si propone di fare Asterusher. Autobiografia per feticci, volume che è uscito in questi giorni per i tipi dell’editore Corraini di Mantova e si avvale delle splendide fotografie di Francesco Pernigo.

Asterusher è la mia casa. Intervista a Michele Mari – LEGGI }

Il titolo, che più letterario e bibliofilo non potrebbe immaginarsi, fonde in una crasi neanche troppo velata i nomi di Asterione ed Usher, rispettivamente derivanti dai racconti La casa di Asterione di Jorge Luis Borges e La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe.

Dunque la casa, anzi le case, sono al centro di questo libro: gli oggetti in esse contenuti e i ricordi a questi legati danno vita a un racconto autobiografico che nel caso di Mari è inscindibile da una poetica degli oggetti. Quelle dello scrittore milanese, lo sanno bene i suoi affezionati lettori, sono case-libro, case letterarie, e una casa della letteratura non può che avere come esito naturale e inevitabile una letteratura della casa. Lo dimostrano le didascalie poste a commento delle foto: a parte quelle scritte espressamente per questo volume (che in alcuni casi citano opere di altri autori), le altre – la maggior parte – provengono dai libri di Mari, testi che l’autore ama pensare come «letterariamente continui, come parte di un unico metalibro».

Chi conosce la dimora milanese dello scrittore sa che è una casa spartana, semplice eppure bellissima, dove a farla da padrone sono i libri assieme a tanti piccoli e grandi oggetti che hanno ormai assunto lo status di reliquie e talismani. Tutti insieme essi compongono quel luogo-non-luogo che è il fantastico regno di Michele Mari, un regno uno e trino, essendo geograficamente dislocato tra Milano, Nasca e Roma (sebbene l’abitazione romana non sia presente nel libro perché non direttamente legata agli anni dell’infanzia e della prima giovinezza, essa non è meno ricca di fascino e attrattive). Sui due regni settentrionali si concentra dunque la lunga teoria di foto che compone Asterusher. La prima sezione del libro è dedicata al buen retiro di Nasca, piccolo centro in provincia di Varese, sulle sponde del Lago Maggiore. È qui, nella grande casa che il nonno materno acquistò lo stesso anno della sua nascita, che Mari trascorre le estati. È questa la casa adombrata in tante sue opere: dal maniero di Osmoc (che trova nella biblioteca il suo cuore pulsante) in Di bestia in bestia, alla casa di Scalna (quasi anagramma perfetto di Nasca) nel racconto eponimo di Euridice aveva un cane, alla magione di campagna di Verderame la cui cantina nasconde inquietanti misteri.

Casa signorile, «ancorata in una fissità quasi minerale», la grande dimora sul lago presenta tratti che la assimilano alle case landolfiane (oltre che, ovviamente, alla casa degli Usher citata nel titolo) per cui alla frase «nella nostra [casa] sentivo abitare lo spirito della morte», contenuta in Euridice aveva un cane, fa da contraltare perfetto il passo di Racconto d’autunno in cui Landolfi scrive: «su tutto era stesa la polvere del tempo, non la polvere, la particolare opacità delle cose morte, dovunque era il senso di gesti rappresi nell’aria» e basta scorrere le foto di pagina 16, 56 e 57 per rendersi conto che la nobile dimora di Nasca potrebbe trovare una degna chiosa in quest’altro passo dello stesso romanzo: «tuttavia, […] l’insieme induceva la medesima impressione che l’esterno della casa, quella cioè di un fastoso abbandono».

Com’è noto, nelle opere di Landolfi, la casa assurge spesso a vero e proprio “personaggio” della narrazione e presenta caratteristiche di decadenza, semiabbandono e mistero che hanno finito per costituire un topos della narrativa landolfiana. Come lo stesso Mari scrive nel saggio de I demoni e la pasta sfoglia dedicato allo scrittore di Pico, le dimore di Landolfi «sono anche e soprattutto una poetica». Esattamente come le proprie. Sfogliando le foto, sia di Nasca che di Milano, e leggendo le didascalie – che, lo si è detto, in alcuni casi sono state scritte espressamente per commentare le foto ma nella maggior parte sono tratte da romanzi e racconti di Mari – quello che colpisce è il perfetto rapporto osmotico tra oggetti fotografati e citazioni: il brano citato si pone come ideale chiosa alle immagini e le immagini trovano, in tutti i casi, anche quelli meno evidenti e prevedibili, il loro inveramento nel brano.

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticci Sempre a proposito del forte legame che lega Mari ai propri oggetti non ci si può esimere dal chiamare in causa (è egli stesso a farlo nella Prefazione) il trattatello intitolato Fantasmagonia, racconto eponimo della raccolta uscita nel 2012. Fantasmagonia, articolato in un introibo e diciannove paragrafi, costituisce un esauriente enchiridio sulla fantasmasi e presenta tratti fortemente autobiografici. In esso almeno due paragrafi, il dodicesimo e il diciassettesimo, si soffermano sul rapporto che l’apprendista fantasma intrattiene con gli oggetti. Egli ama soffermarsi «con speciale affetto» su alcuni oggetti della casa «provando in anticipo il lutto della loro perdita» e «proprio le cose cui più il proprietario pensava con prolettico rimpianto sono quelle che più, dopo la morte, lo imprigioneranno».

In particolare nel paragrafo diciassette il futuro fantasma è descritto come «soggetto commuovibile dagli oggetti», riporto l’intero passo che starebbe bene posto in esergo ad Asterusher:

«Incapace di sciogliere il ghiaccio dei propri blocchi esistenziali, il futuro fantasma è pressoché escluso da un autentico commercio umano. Schiavo del solipsismo, fin da piccolo egli si abituerà a investire sentimentalmente nelle cose, siano essi oggetti (non necessariamente giocattoli), vestiti, elementi di architettura domestica. Queste cose lo commuoveranno, la sua stessa fedeltà a queste cose lo commuoverà: egli si penserà come soggetto commuovibile dagli oggetti, diventando pertanto oggetto egli stesso».

Il feticistico rapporto con gli oggetti (non è un caso che il sottotitolo di Asterusher sia proprio Autobiografia per feticci), spesso, ma non necessariamente, legato ai piccoli tesori dell’infanzia (giocattoli, giornalini, fumetti per cui si vedano le foto alle pagine 76, 77, 78, 86, 87, 103) rappresenta una costante nella narrativa di Mari: gli oggetti sono cimeli e reliquie da custodire gelosamente impedendo che vadano smarriti a causa dell’incuria o della disattenzione o che finiscano in mani profane, le mani di persone incapaci di apprezzarne il valore e la sacralità.

Dal signor Kurz che nel primo racconto di Euridice aveva un cane sequestra sistematicamente tutti i palloni che i bambini dell’adiacente collegio fanno accidentalmente rimbalzare nel suo cortile durante le loro partitelle, custodendoli dentro una serra – vero e proprio monumento alla memoria di quei piccoli e dei loro giochi – ciascuno con la sua targhetta identificativa recante la data del “sequestro”; al padre che in L’uomo che uccise Liberty Valance, in Tu, sanguinosa infanzia, sottrae al figlio i giocattoli per evitarne lo smarrimento e l’irrimediabile perdita; al professore che ne I giornalini (sempre in Tu, sanguinosa infanzia) appresa la notizia dell’imminente paternità decide di impacchettare e immagazzinare in cantina i venerati giornalini dell’infanzia per sottrarli alle incaute e irriverenti manine del nascituro il quale ignorandone lo status di vere e proprie reliquie, li impiastriccerebbe con i suoi pennarelli: è tutta una museologia degli oggetti. Nel repertarli e nel catalogarli secondo certosini schemi tassonomici, il loro custode, il quale altri non è che l’autore stesso, rivela un compiacimento feticistico che trasforma quei semplici tesori dell’infanzia in oggetti erotizzabili.

Dai cimeli dell’infanzia tale atteggiamento si estende ad altri oggetti riconducibili a un periodo più tardo come ad esempio – nella seconda sezione di Asterusher, quella dedicata alla casa di Milano in cui Mari vive dal 1983 – le penne che ha utilizzato per scrivere i suoi libri «fin dentro l’attuale millennio», prima di «arrendersi» alla scrittura digitale: «assiepate come i soldati dell’antica falange», esse sono dominate dallo sguardo «severo e disdegnoso» del Sommo Dante che dalla «sua specola alta» sorveglia la scrivania dello scrittore (foto di p. 82). Nella pagina accanto campeggia la foto di due bottiglie di profumo piene zeppe di mozziconi di matita «accumulati negli anni degli studi liceali e universitari», che Mari sente (lo scrive nella Prefazione) come «un burocratico precipitato oggettivo di quegli studi, molto più garante e probante, per me, di un diploma di laurea appeso al muro». E ancora, a pagina 91, il suo libro più prezioso: una prima edizione dei Canti Orfici di Dino Campana che ebbe in dono da un’amica della madre il giorno in cui si offrì di svuotarle e ripulirle un ampio scantinato.

L’elenco potrebbe continuare a lungo ma non voglio togliervi la sorpresa di scoprire Asterusher pagina dopo pagina: vi basti sapere che qui non vi è spazio per l’effimero trascolorare degli oggetti, qui ogni più piccola cosa è immagine plastica dotata di una sua figurativa solennità che la sottrae al flusso obliante del tempo e la cristallizza in figura erotizzabile. Qui regna l’acronia indiscussa e indubitabile, la stessa a cui rimanda il paragrafo sedici di Fantasmagonia. In esso viene spiegato come il premorto, e poi il fantasma, tenda a «contaminare le fasi della propria vita ricordandole come coeve», pertanto i ricordi «gli si affolleranno sotto la specie dell’indifferenza temporale», motivo per cui «lo stato memoriale del fantasma sarà […] all’insegna della più adiafora acronia».

Un comportamento per certi versi simile a quello che l’autore adotta nei confronti delle epoche letterarie alle cui forme linguistiche attinge con una disinvoltura che attraversa l’intero arco diacronico della nostra storia letteraria: le forme della lingua succedutesi nel corso dei secoli vengono utilizzate e mescolate come fossero sincrone. Quello che ne deriva è una prosa in cui gli arcaismi più peregrini convivono felicemente con formidabili neologismi, dove accanto al gioco della neoformazione lo scrittore si concede il gusto della deformazione (fortemente espressionistica), dove il registro aulico non disdegna l’accostamento al registro basso e triviale e dove entrambi questi registri, in virtù del loro «divorzio dall’uso ordinario» risultano «equipollenti», ambedue consentendo alla pura «letterarietà» di dispiegarsi (è quanto Mari afferma in un suo scritto contenuto nel volume Parola di scrittore).

Dagli oggetti, dunque, si può risalire alla poetica dell’autore, una poetica che a sua volta di quegli oggetti è figlia; allo stesso modo la casa è al contempo madre e amante dello scrittore come appare chiaro da quest’altro passo di Fantasmagonia: «pregna degli spiriti dell’inquilino, la casa gli è madre: madida dei suoi essudati, gli è amante».

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticci

Rimanendo ancora sui concetti di acronia, diacronia e sincronia, è il caso di soffermarsi su almeno altre due foto, la prima, a pagina 22, raffigura quattro lettini allineati in una stanza della casa di Nasca, quattro lettini, che come spiega la didascalia tratta dal racconti I giornalini potrebbero rappresentare «un’allegoria dell’età dell’uomo», ma che pure sembrano sospesi in un tempo mitico: un tempo fuori dal tempo e quindi sottratto al divenire. Ma è soprattutto l’altra foto, a pagina 100, nella sezione milanese, a imporre una simile riflessione. La didascalia – non tratta, stavolta, da alcun testo – si sofferma sulla scultura lignea di un coccodrillo che Mari ha realizzato con le proprie mani. Ma l’essenza e, potremmo dire, l’intima verità di questa foto, che forse una certa profilassi induce l’autore a tacere, è l’acronica “simultaneità” dei tre bambini immortalati in altrettante foto attaccate alla parete: ai lati, nelle due immagini a colori, Rolando e Sergio, i figli dello scrittore, al centro, nella foto in bianco e nero, il piccolo Michele che stringe il suo orsacchiotto. Poco importa se le foto a colori siano state scattate a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila e quella in bianco e nero tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta: Michelino, Rolando e Sergio non solo possono collocarsi su un orizzontale piano sincronico, ma possono addirittura concedersi il lusso di trascendere il tempo fino alla «più adiafora acronia».

Dilatando la prospettiva tutto Asterusher potrebbe leggersi e sfogliarsi come l’autobiografia – per feticci – di un moderno puer aeternus, tanto più che lo stesso Mari ha dichiarato di non sentirsi un adulto ma «un bambino invecchiato».

Puer aeternus, dunque, o se preferite, novello Peter Pan, malinconico Piccolo Principe, che ha trasfuso molta della propria emotività nei luoghi e negli oggetti che lo hanno accompagnato nella vita, Michele Mari risulta così tanto continuo e compenetrato alle proprie case da richiamarmi alla mente, mentre sfoglio per l’ennesima volta il suo libro, le sibilline parole di Borges: «Risiedevo già in questo luogo, poi vi sono nato».

Le responsabilità del precario (nell’epoca del “cognitariato”)

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asino piccolo

di Andrea Inglese

 

Intorno agli anni Novanta, storicamente parlando, io stavo finendo di studiare, o mi ero già laureato, conseguendo (fuori corso) un’accurata laurea in filosofia, quindi con alcuni amici, che stavano anch’essi conseguendo, o avevano conseguito lauree in giapponese, psicologia, o storia della medicina medievale, si andava a caccia di lavoretti, che erano molto necessari, ma non tanto influenti sul nostro destino economico, e neppure su quello del paese, dal momento che il Prodotto Interno Lordo continuava, con tale andazzo, a rimanere al palo.

Il sordido realismo

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Taxi Teheran, Orso d'oro al 65° Festival internazionale del cinema di Berlino
Taxi Teheran, Orso d'oro al 65° Festival internazionale del cinema di Berlino
Taxi Teheran, Orso d’oro al 65° Festival internazionale del cinema di Berlino

di Francesca Fiorletta

Jafar Panahi ha girato, letteralmente davanti alla telecamera, uno dei film più interessanti degli ultimi tempi. Si è messo alla guida di un taxi, in un ipotetico giorno qualunque, e ha attraversato le vie polverose e catatoniche di Teheran.

L’impostore di Javier Cercas

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di Giovanni Dozzini

L'impostoreIl corpo a corpo tra realtà e finzione è qualcosa che ci riguarda tutti, ossia tutti gli uomini, anche se naturalmente riguarda ancora di più gli scrittori, più in generale gli uomini d’arte ma forse soprattutto gli scrittori. Il nuovo libro di Javier Cercas ha un titolo esplicito e sfrontato che in qualche modo definisce la natura di questo corpo a corpo, o meglio la natura di colui che se ne fa palcoscenico, o ring, uomo o scrittore cambia poco: L’impostore (traduzione di Bruno Arpaia, Guanda) è un altro ponderoso tassello della ponderosa produzione letteraria di Cercas, e un libro in cui il narratore spagnolo si avvicina vertiginosamente alla ratio stessa della letteratura, alla sua ragion d’essere e al suo modo di essere e di essere pensata e agita.

L’impostore del titolo è un uomo il cui nome a noialtri italiani dice poco o pochissimo, Enric Marco, e che però in Spagna dieci anni fa esatti è stato protagonista di una vicenda incredibile che a suo tempo godette di un’attenzione mediatica clamorosa. Marco, in poche parole, è stato autore e interprete di un’impostura portata all’esasperazione, arrivando non solo a presiedere la più importante associazione spagnola di ex deportati nei campi di sterminio nazisti senza mai essere stato deportato in un campo di sterminio nazista, ma addirittura a inventarsi, anzi a reinventarsi in continuazione, perlomeno da un certo momento in poi, la propria intera esistenza, e di farlo a favore di telecamera, di penna e di obiettivo fotografico. Fu smascherato da uno storico misconosciuto quando occupava già da anni la più rilevante carica della Amical de Mauthausen, nella primavera del 2005, sul punto di diventare il primo ex deportato spagnolo a parlare in una commemorazione ufficiale della liberazione del lager, per di più quella del sessantesimo anniversario, per di più alla presenza dell’allora premier José Luis Zapatero. Enric Marco aveva ottantaquattro anni, e da più o meno una trentina aveva cominciato la straordinaria opera di riscrittura della propria vita, adoperando la tecnica più elementare ed efficace dei migliori bugiardi e dei migliori romanzieri, e cioè mescolare verità e menzogna, puntando in alto ma senza mai rinunciare a mescolare, facendo crescere la bolla della sua finzione all’inverosimile ma senza mai dimenticare di insufflarci dentro le giuste quantità di realtà. Solo che Enric Marco non era un romanziere, e non stava scrivendo un romanzo. Enric Marco era un uomo che stava falsificando la sua storia.

Marco fu soldato repubblicano ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, si ritrovò in Germania nel cuore della Seconda guerra mondiale ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, diventò prigioniero dei nazisti ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, e poi se ne tornò in Spagna a fare ciò che bene o male tutti o quasi tutti gli spagnoli avrebbero fatto per quarant’anni, e cioè chinare la testa di fronte alla dittatura franchista dando a intendere di non aver mai nemmeno potuto pensare di essere in qualche modo oppositori del Generalissimo.

La storia di Marco è francamente avvincente ed eccezionale, ma altrettanto francamente per un lettore italiano non può esserlo tanto quanto può esserlo per un lettore spagnolo. Non sta qui, in assoluto, la forza di questo libro. La forza di questo libro cresce pagina dopo pagina, e cresce soprattutto quando Cercas, con la sua prosa complessa e allo stesso tempo limpida e lineare, un’abilità propria dei grandi, quale Cercas indubbiamente è, quando Cercas insomma si cala con coraggio nell’abisso in fondo al quale forse si trova il senso primario della letteratura, e che ovviamente si intreccia in modo feroce e morboso con quello della vita stessa. Cercas non scrive un romanzo, ovvero non scrive un romanzo di finzione ma un romanzo di realtà, e facendolo si mette a nudo senza pudore, svelando le proprie paturnie, il proprio rimuginare e le proprie debolezze, portando in scena la sua quotidianità, anche, la sua famiglia, le sue abitudini.

Di primo acchito potrebbe sembrare un esercizio analogo a quello fatto anni fa col formidabile Anatomia di un istante, ma la verità è che non si tratta di niente di più diverso. Anche in quel caso l’autore di fatto cercava di raccontare una realtà al netto della finzione, però mentre lì Cercas rinunciava come un fallimento a scrivere un romanzo collettivo impossibile qui aderisce a una storia individuale concentrandoci le proprie nevrosi e i propri dubbi esistenziali di uomo e di scrittore, giungendo a comporre quasi un’autobiografia letteraria in forma di romanzo di realtà.

L’impostore a tratti si trasforma in una sorta di processo a se stesso, all’ambizione e alla presunzione di essere scrittore, anche se la sentenza finale non è emessa, come succede nella letteratura di valore. Cercas è narcisista quasi quanto il suo anti-eroe, o non sarebbe uno scrittore, e lo è al punto da evocare, per spiegare o spiegarsi i propri procedimenti creativi, il fantasma di Cervantes. Enric Marco è il suo Don Chisciotte. E a noi sta benissimo così, perché i ragionamenti di Cercas sono piccoli trattati d’arte, di narrativa, di finzione. L’unico passaggio di finzione autentica dell’intero libro, peraltro, il dialogo immaginario tra Cercas e Marco che appare verso la fine, è la scena madre di quel processo, e forse di tutta la produzione di Cercas fin qui. Una decina di pagine, anzi meno, in cui Javier Cercas si fa incalzare e attaccare senza misura, si fa colpire sotto la cintola, dritto sul muso, dappertutto, e prova a difendersi e a contrattaccare come ogni scrittore ragionevole potrebbe o dovrebbe fare ogni santo giorno e ogni santo istante nel cupo turbinio e nella solitudine della propria mente.

Pure qui, si scava nel profondo, in un compendio di tutto ciò che è l’intero libro: menzogna e verità, finzione e realtà, ambizione e bontà, tutto, certo, incastonato nel presente e nel passato recente della Spagna, nella sua recente sbornia per la memoria storica e nella sua incapacità di distinguere tra memoria e storia, nella sua risacca e nei suoi conti lasciati in sospeso. L’impostore è per certi versi il più spagnolo dei libri di Javier Cercas, eppure è anche il più universale. È un grande libro, ricco di idee, un’esplorazione dotta e insieme popolare dell’animo umano e del mestiere di fingere storie.

Della Serie: Narcos

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NARCOS: l’efficienza della forma narrativa.

di

Tiziano Colombi

 

Narcos è una serie trasmessa e prodotta da Netflix, il servizio di streaming americano che presto arriverà anche in Italia. Le dieci puntate che la compongono sono state rilasciate il 28 agosto e dovrebbero essere disponibili da noi nel mese di ottobre.

Narcos nasce da un’idea del regista e produttore brasiliano José Padilha, documentarista di lungo corso e regista di Tropa de Elite – Gli squadroni della morte, film premiato con l’Orso d’oro al Festiva di Berlino del 2008 (ha anche diretto il reboot di RoboCop).

 Alla fine degli anni ’70 i primi laboratori per la produzione di cocaina si trovavano in Cile. Poi arrivò il generale Pinochet e il fiorente commercio terminò rapidamente. Il prodotto però era eccellente e qualcuno pensò di proporlo ai contrabbandieri colombiani. Tra questi il più lesto a fiutare l’affare fu un certo Pablo Escobar, la cui intuizione principale fu quella di trovare un mercato alternativo e più ricco per la polvere bianca: gli USA.

Qui la faccenda si complica e diventa epica.

Il linguaggio scelto da José Padilha per dare corpo al racconto è un abile (e furbo) mix di fiction e materiale di repertorio conditi con telecamera a mano, voce off e un paio di prove attoriali eccellenti (Wagner Moura/ Pablo Escobar su tutti).

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Narcos non è solo la storia di Pablo Escobar, non è una biografia e nemmeno un documentario sulla vita del colombiano più famoso del globo (con tanti cari saluti a Garcia Marquez e Renè Higuita). E’ un racconto complesso perché complessa è la materia che prova a plasmare: il narcotraffico. Ci sono la geopolitica e la politica, l’epica e l’economia criminale, le storie personali di protagonisti e comprimari, i morti, il sangue, i palazzi del governo (dei governi), le strade di Medellin e Miami, la CIA, la DEA, i militari e i paramilitari.

C’è tutto quell’intrico di vita e morte che sta ai confini tra la realtà e la follia sudamericana.

Nell’incipit della serie gli autori ci infilano anche un bel riferimento al “realismo magico” che non fa mai male e tranquillizza tutti. Vabbè, concesso, passiamo oltre.

Se proprio però vi va di trovare un riferimento letterario siamo più dalle parti di 35 morti di Sergio Alvarez.

L’ibridazione (la chiamiamo sistematica e ci infiliamo anche Hieronymus Bosch?) è il tratto distintivo di Narcos, che poi è l’unico modo per tenere insieme una storia come questa, che è poi uno (non il solo certo) dei modi di maneggiare la varietà e la generosità degli attrezzi propri della narrazione, che poi è l’oggi, il presente, e anche un po’ già il passato.

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I tempi cambiano, i media evolvono, il linguaggio anche…e sì…”la convergenza è una tendenza al meticciato che coinvolge sia le tecnologie e i device che i linguaggi e le forme testuali” e bla bla bla… l’hanno già detto e scritto Franzen (Ops!) e un sacco di altri tizi.

Per cui a chi in rete si lamenta dell’uso invadente della voce fuori campo, quella dell’agente della DEA Steve Murphy (interpretato da Boyd Holbrook), novello Virgilio, che prende per le orecchie lo spettatore per le dieci puntate della serie e lo conduce in giro tra nord e Sudamerica, mi vien da dire che forse ha ragione il critico di The Hollywood Reporter quando scrive che “with 10 hours to play with, Narcos; with its loping narrative cadence, often feels like it’s narrative a book, not a movie”.

 Ohibò! Abbiamo fatto il giro dal romanzo alle serie, dalle serie al romanzo.

Il fantomatico feuilleton del XXI secolo. Sarà.

41bMEt2ATEL._SX344_BO1,204,203,200_Io però mi spingerei a guardare altrove, più precisamente all’introduzione di un libro del giornalista messicano Diego Enrique Osorno, Z La guerra dei narcos, nella quale Osorno stesso racconta la sua decisione di abbandonare “l’informazione nuda e cruda” a favore del giornalismo narrativo secondo la lezione di Alma Guillermoprieto, dice lui, e anche un po’ secondo quella di Rodolfo Walsh, dico io (e anche qui un caro saluto al Truman Capote di A sangue freddo).

Lo chiama, con una certa dose di autoironia, “giornalismo infrarealista”, perché questo gli pare l’unico mezzo efficace per comprendere (e far comprendere) la realtà allucinata e violenta del narcotraffico (nel suo caso si tratta nel nord est del Messico).

Osorno arriva a questa conclusione passando attraverso la lettura di un romanzo, 2666 di Roberto Bolano: “che è riuscito a far capire, al giornalista che sono, l’importanza di una narrazione esaustiva, quasi una maratona narrativa, quando si fa quello che sembra impossibile: parlare del narcotraffico”.

 E qui torniamo alla forma. Quale forma? Il romanzo, il documentario, la serie tv, il reportage giornalistico? E se la forma giusta fosse quella più efficace? Dove per efficace intendiamo tecnicamente ben congeniata, economicamente sostenibile e soprattutto in grado di raccontare e coinvolgere il maggior numero di persone possibili?

 Ecco, Narcos è un prodotto apprezzabile soprattutto per la sua efficienza narrativa. A qualcuno potrà piacere ad altri meno, non è privo di difetti e il suo impianto drammaturgico non sempre schiva la retorica. Però funziona, veste la storia, quella di Pablo Escobar (oltre la sua icona pop) e del salto di qualità del narcotraffico (dalla marijuana alla cocaina) che non è solo una vicenda di sangue e morte, ma una porzione di mondo articolato e infinitamente complesso.

Il nostro.

 

les nouveaux réalistes: Simone Ghelli

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I tafani della Merse

di

Simone Ghelli

Per fare quel ritratto che adesso teneva tra le mani Giovanni s’era dovuto avvicinare molto, a non più di un metro, e gli schizzi d’acqua gli erano andati sull’obiettivo e così erano rimasti impressi quei puntini, quelle microscopiche gocce che gli veniva di toglierle col dito. Nella fotografia Fabrizio aveva la bocca spalancata per il terrore e annaspava con un braccio nel tentativo di divincolarsi dalla presa di Danilo, che lo teneva da dietro per costringerlo a non uscire dall’acqua. Danilo lavorava alla cooperativa, andava al manicomio due volte alla settimana col furgoncino bianco e il disegno di un sole sulla fiancata con cui portava l’allegria. Fabrizio, che piangeva e si lamentava in continuazione coi dottori per le sue cadute e i dolori alle ossa, si metteva di buonumore non appena lo vedeva.

Quel giorno Danilo si era presentato già in costume e infradito ai piedi e aveva proposto di portarli alla Merse, come dicevano a Siena. Disse di conoscere un buon punto in mezzo al bosco dove avrebbero portato gli ospiti a fare il bagno. L’assistente sociale fu entusiasta dell’idea e ci mancò poco che non li abbracciasse, ma disse che purtroppo avrebbero potuto portarne al massimo quattro perché mancavano gli infermieri. Allora Danilo propose subito Fabrizio, che voleva tenere per qualche ora lontano dalle sue paure e dalle botte che prendeva in continuazione. Poi chiese a Giovanni chi altri volesse portare e lui propose Giulio, che stava dalla mattina alla sera accovacciato in un angolo. Si era così abituato a quella postura che ormai non riusciva più a camminare in posizione eretta e aveva bisogno di qualcuno che lo tenesse per un gomito e lo trascinasse.

«Giulio non dà fastidio a nessuno,» aveva spiegato Giovanni, «e anche la Teresa».

La Teresa parlava tutto il giorno coi suoi parenti morti, che vedeva da qualche parte sopra le nuvole, e quello le bastava. Poi Danilo fece il nome di Sabrina. Sabrina era difficile da tenere, aveva continui spasmi, non stava mai ferma e poi faceva quel rumore coi denti, quel rumore che era come uno sfregamento di giunture che si rompono e che a Giovanni faceva venire i brividi.

«Allora è deciso».

Danilo sorrise, sorrideva sempre lui.

Col furgoncino passarono per una strada sterrata, piena di buche, il sole sulla fiancata che splendeva in mezzo all’ombra dei cerri. Proseguirono fino a un punto in cui il fiume si allargava e l’acqua era bassa e un po’ stagnante per via di una diga naturale composta da sassi e pezzi di legno. Il posto era così pieno di tafani che Giovanni aveva dovuto azionare il tergicristalli per vederci qualcosa. Mentre percorrevano lentamente gli ultimi metri, Danilo aveva provato a spiegargli che la colpa era del motore, del calore che emanava, ma Giovanni non era riuscito ad ascoltarlo fino in fondo perché gli era preso il terrore di scendere ed era rimasto con le mani strette sul volante e gli occhi incollati al parabrezza che si affacciava sul corso d’acqua.

Quando furono finalmente fermi finse addirittura di cercare dei guanti in lattice sotto al sedile e rimase così, con le mani che razzolavano tra la terra e i sassolini sparsi sul tappetino, finché non fu sicuro che anche l’ultimo di loro fosse sceso. I tafani però non se n’era andati e alla fine aveva dovuto affrontare le sue paure ed era uscito di corsa con i palmi delle mani aperti davanti al viso e per poco non era inciampato sul greto del fiume. Non se n’era accorto nessuno, ma il solo pensiero di poter essere preso in giro gli aveva fatto perdere definitivamente la pazienza. Non aveva affatto voglia di dover costringere gli ospiti a fare qualcosa che non desideravano, e anche se Danilo affermava il contrario (che in loro i desideri andassero creati perché non erano stati abituati ad averne), certe volte Giovanni pensava che fosse una gran perdita di tempo perché tanto loro non avrebbero capito mai niente di niente. I primi tempi quei pensieri lo avevano fatto sentire una bestia.

Tutte le sue ore di studio e le idee romantiche sulla follia, che gli erano sembrate così forti da poter reggere l’urto contro ogni realtà, si erano sbriciolate nel giro di pochi minuti il giorno in cui un infermiere gli aveva chiesto se avesse per caso già fatto il vaccino contro l’epatite. In un attimo Giovanni aveva ripensato a tutti i malati che aveva toccato – altro che ospiti: quelli erano malati e contro la paura il linguaggio non aveva potuto niente – e improvvisamente aveva accusato un giramento e si era dovuto sedere perché gli tremavano le gambe e davanti agli occhi erano comparsi tutti quei puntini, proprio come quelli che erano rimasti impressi nella fotografia. Giovanni s’era dovuto avvicinare molto per farla. Aveva dovuto togliersi scarpe e calzini, arrotolarsi i jeans fino alle ginocchia e sopportare il contatto con il fondo limaccioso del fiume, dove sprofondava la pianta del piede. Danilo teneva Fabrizio da dietro e lo costringeva a immergersi fino al collo, che aveva tutti i tendini tirati per lo sforzo.

«Scatta adesso, scatta prima che si liberi!»

Rideva Danilo e rideva anche la Teresa, con le braccia sollevate al cielo e la gonna che faceva una nuvola sulla superficie dell’acqua. Giulio, invece, non rideva affatto. Fermo su un sasso come un granchio venuto a prendersi un po’ di sole, aveva la bocca piegata in quel modo a lui solito, che era un’espressione di disgusto.

«Scatta adesso, non riesco più a tenerlo!»

Sabrina era rimasta da sola a riva. Si rotolava per terra, raschiava il sudicio con le unghie che avrebbe poi ciucciato.

«Dai!»

Giovanni schiacciò il pulsante e bloccò il movimento di Fabrizio che si stava sbilanciando nello sforzo di divincolarsi dall’abbraccio di Danilo. In un turbinio di schizzi ritrasse il suo volto deformato dalla paura di cadere nell’acqua. A distanza di quindici anni la fotografia aveva conservato vivo ogni dettaglio e il ricordo di tutto ciò che premeva dal fuori campo – la cantilena di Teresa, lo sguardo fisso di Giulio, il ronzio dei tafani dentro a un tronco marcio, le gambe bianche e insozzate di Sabrina e tutto quello che era venuto dopo e che aveva avuto a che fare con lo smantellamento di quelle vite, che avevano sradicato e buttato altrove. In tutti quegli anni si era chiesto più volte se fosse stato anche lui una persona cattiva. Il fatto è che si era sempre nascosto dietro a qualcun altro. Non aveva mai fatto né più né meno di quello che gli veniva chiesto. Con Danilo vestiva la parte di quello che criticava l’istituzione e i suoi uomini, gli faceva credere che se fosse stato per lui chissà che rivoluzione là dentro. Danilo lo aveva sempre ascoltato con il sorriso. Sorrideva sempre, lui. Sorrideva anche il giorno che chiusero tutto.

«Vedrai che ora staranno meglio,» gli promise, «vedrai che finiranno i loro anni in pace».

«La smetteranno anche di chiamarli ospiti?»

«Cosa vuoi che gliene importi a loro di come li chiameranno».

Dopo che furono trasferiti non andò neanche più a trovarli, di loro non ebbe più notizie, eppure si ricordava tutti i loro nomi e anche la disposizione con cui prendevano posto a tavola. Li sognò soltanto una volta, ma non avrebbe saputo dire se fossero stati davvero liberi. Del sogno gli era rimasto soltanto il ricordo di questo ronzio, che era come un pungolo; la sensazione che anche lui, in fondo, non fosse poi tanto più buono degli altri.

Scienza e letteratura. Intervista a Martin Bojowald

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Veronica Castiglioni

di Alfredo Zucchi 

Veronica Castiglioni
Veronica Castiglioni

Negli ultimi giorni è venuta fuori una discussione accesa e feconda sul ruolo della scienza, sulla sua vera o presunta neutralità, sulla sua relazione con le discipline umanistiche – in particolare, quel delicato passaggio dalla verifica dei fatti alla loro narrazione. La discussione nasce con un articolo di Mariano Tomatis su Giap, a cui risponde Massimo Sandal. In mezzo, due interventi del direttore della rivista Le Scienze, Marco Cattaneo, su facebook.

In questo quadro, mi pare che l’intervista che ho fatto a Martin Bojowald, fisico e autore di Prima del Big Bang. Storia completa dell’universo (Bompiani, Milano, 2011), possa contribuire a arricchire la discussione, specialmente riguardo alle relazione tra scienze e lettere. La mia posizione – se neutrali, com’è giusto, non si può essere – è che non ci sia una frattura così netta tra le due discipline. 

I gatti del professore

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di Davide Orecchio

gatto– Credo ne abbia avuti a decine, e di razze diverse.

– È vero. Certosini, soriani, birmani, meticci, bastardi. Ho perso il conto. Ricordi la gatta grigia e nera che, quando lui l’accarezzava, faceva le puzze?

– Pensavo proprio a lei. Il professore avrà avuto trent’anni.

– Non più di trenta.

– Rincasava nel bilocale di Ponte Milvio.

– Acqua Acetosa.

– Sì. La prima moglie era ancora in casa editrice. Lui posava la cartella, sedeva in poltrona ed ecco la gatta!

– Subito sulle sue gambe. Ad accucciarsi, a prendere carezze. Chiudeva gli occhi. Inarcava il dorso. Ma non faceva le fusa. Non ronfava.

– No. Una sfilza di peti.

– Però silenziosi. Il professore sentiva la puzza e scoppiava a ridere. Non l’ha mai scordata.

– Quella gatta? Impossibile dimenticarla. Poi ce ne fu una che sparì. Era rossa. Andava per strada. Scappava dalla finestra di un appartamento al pianoterra. Un ex portineria, nei primi anni tristi del professore.

– Quando divorziò?

– Sì. E si teneva compagnia con quella gatta troppo bella per andare per strada.

– Una Rita Hayworth.

– Una roscia. La mattina lo svegliava graffiandogli i piedi. Lo fissava senza pudore. Un giorno uscì e non è più tornata.

– L’hanno presa. Succede alle gatte belle.

gatto

– Ricordi la gattina tigrata che morì a un mese d’età?

– Purtroppo sì. Cadde dalla finestra.

– Ti confondi. Ebbe un’occlusione intestinale. Una domenica mattina il professore la trovò fredda, sdraiata per terra tra la cuccia e la lettiera che aveva provato a raggiungere per fare la cacca. Allora il professore, per distrarsi, andò a Porta Portese, ma pensava alla gattina e piangeva.

– Adesso ricordo. Quando il professore s’addormentava sul divano, la gattina, durante le sue poche settimane di vita, pensava che fosse morto e piangeva anche lei, gli saliva sulle spalle, gli miagolava sul collo.

– Ci fu un’altra gatta che saltava due metri in alto verso il sonaglio.

– Sì, una gatta miracolosa. E ci fu un gatto che in pochi secondi s’arrampicava sul corpo del professore, dai polpacci ai fianchi alla nuca, graffio dopo graffio. E ci fu una gatta che dormiva sul cornicione con l’astuzia strafottente della coda.

– Mi presti la tua coda?

– Mi presti i tuoi baffi?

– Mi presti il tuo sonno sotto al termosifone e l’abilità di leccarti?

– Ah ah ah!

– Ah ah ah!

– Un gatto, piuttosto longevo, morì di un tumore a diciott’anni d’età. Negli ultimi giorni ogni suo passo, zoppìa, sofferenza verso il cibo non mangiato, verso l’acqua non bevuta, verso la lettiera non adoperata era un messaggio per il professore: “Adesso basta, che dici?”.

– Il tumore gli era venuto alla spalla, ricordo, e non gli consentiva di camminare. Iniziò a miagolare diversamente. Miagolava lamenti. Era lui il gatto selvaggio?

– No, adesso sei tu che ti confondi. La gatta selvaggia, una femmina, è degli anni Settanta, quando il professore viveva con la seconda moglie in una casa con un terrazzo grande a viale dei Quattro Venti, dove la gatta stava tra il rosmarino e il basilico, mentre il bambù cresceva sbilenco, e l’edera resisteva, mentre il rincospermo aveva la forza del verde coriaceo e la fotinia si muoveva col vento, l’alloro era il soprammobile di sempre, il gelsomino era il fesso di sempre, arrampicatore senza costrutto, e quattro lucertole abitavano i vasi.

– Quattro lucertole e una gatta?

– Durò per poco. Ci fu una guerra, un gioco al quale i rettili non sopravvissero. Del resto la gatta selvaggia era la regina del terrazzo. Non consentiva a nessuno di avvicinarsi. Accettava solo il professore, che amava. La moglie provò ad accarezzarla e le graffiò un occhio, le spremette sangue dalla palpebra, poteva accecarla. Ma dal professore prendeva carezze. Tra i due c’era rispetto, una distanza vicina, in silenzio. L’altra gatta, quella degli anni Ottanta, te la ricordi?

– Temo di no.

Gatti

– Mise al mondo quattro figli e non li allattò.

– Erano malati?

– Il professore trovò un cucciolo morto dietro la vasca, un altro nell’ombra del water, un altro in cucina, un altro in soggiorno. Li gettava nella spazzatura e guardava la gatta: cosa fai? Come puoi? Tre mesi dopo era di nuovo incinta. Scopava, figliava, uccideva.

– Quando il professore era giovane, i gatti esistevano per dieci anni e poi morivano. Quando invecchiò, i gatti iniziarono a vivere fino a vent’anni.

– Luminosi e odorosi. Pensi che il professore abbia nostalgia dei suoi gatti?

(immagini tratte da www.pixabay.com)

mescolarsi

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di Antonio Sparzani
migrazioni

Di fronte a questa faccenda dei migranti, profughi, rifugiati, non è neppure chiaro come chiamarli, da un po’ di tempo mi si muoveva qualcosa nella testa che non riuscivo bene a mettere a fuoco, ma che sentivo come diventare qualcosa di più grosso di quanto non pensassi tempo fa. Che pure è un po’ di tempo che ne arriva di questa gente, però è come se ci fossero dei salti di qualità ogni tanto, che poi saranno diversi da persona a persona, questi salti, però è anche probabile che in una determinata zona del mondo, sotto il bombardamento di avvenimenti così costanti e inesorabili, in molti si abbia la stessa reazione, o percezione, come se qualcosa stesse cambiando alla base, cioè nel modo in cui pensiamo il mondo, come siamo stati abituati fin da bambini.

Almeno quelli della mia generazione, figli degli anni quaranta del secolo scorso, tempi duri per quasi tutti, non c’era da sfogliar verze. E l’idea che c’era allora del mondo era quella di un posto diviso in tanti posti più piccoli, ognuno con la sua bella popolazione, con certe caratteristiche, lingua, abitudini, religione, modo di vedere le cose e di trattare gli altri, e le altre. E questa idea qua non è facile scalzarla davvero, tant’è che ancora adesso che questo modello sta davvero facendo acqua da tutte le parti, ancora adesso, sì, siam tutti qui a pensare che siamo una nazione fatta in un certo modo e con certe abitudini ecc. che viene invasa da altri uomini e donne che devono integrarsi in quelle nostre abitudini e diventare in prospettiva italiane e italiani brave e bravi come siamo noi.

E invece credo sia questo che non funziona più. Quando si mescola il blu col giallo viene fuori il verde, che è proprio diverso dai due punti di partenza, non possiamo dire al verde di assomigliare al giallo o al blu, certo, se ci mettiamo poco giallo, sarà un verde che ancora tende al blu, ma qui non si tratta più di “poco”, di poche persone che si spostano, di qualche sparuto gruppo che cerca di intrufolarsi in una grande massa, qui si tratta di masse consistenti di persone che non “si intrufolano”, ma si mescolano bellamente con altre masse consistenti.

M’è capitato ieri di sentir parlare un giovanotto dai tratti somatici chiaramente orientali, e quindi mi aspettavo, più o meno inconsciamente, di sentire un italiano smozzicato, incerto e parlato male, e invece questo parlava come un perfetto milanese, con l’accento giusto, e forse anche con maggior eleganza. È stato come un lampo nella mia testa: lui è milanese, è italiano, come me e come i miei amici, l’unica differenza sono alcuni tratti del volto, che poi un po’ alla volta, col passare delle generazioni, cominceranno a sbiadire, così come cominceranno a modificarsi i lineamenti dei nostri figli e delle nostre figlie che si incroceranno presto o tardi con qualcuno con lineamenti diversi. E allora?

Mi sono venute in mente le poche cose che so delle invasioni, cosiddette barbariche. Ma anche di quelle precedenti, gli indoeuropei che un po’ alla volta hanno invaso l’Europa, incontrando le popolazioni locali e con modalità probabilmente le più varie, non tutte così incruente, mi immagino; fatto sta che il risultato è stata una bella mescolanza di genti davvero diverse. Molti anni fa comperai un libro sulla storia dell’Inghilterra, di un illustre storico, George M. Trevelyan, libro (A shortened history of England) che percorre la storia di quel paese dalle origini ai giorni nostri – o veramente suoi, Trevelyan morì nel 1962 – e il primo capitolo è intitolato The mingling of the races, capite, mingling, la più turbinosa delle mescolanze, Iberici, Celti, Romani, Anglosassoni, e perfino Vichinghi. Adesso questa mescolanza sopravvive nella lingua, le parole di quello che chiamiamo inglese sono spesso distinguibili per la loro origine, celtica, sassone, latina, ecc. Sono passati secoli, naturalmente, ma tutti si sentono (fieramente) inglesi, o, meglio, Britons.

Non ci si oppone a questi avvenimenti così macroscopici, i poveretti che ci provano durano – sulla scala della storia – lo spazio di un mattino, con tutta la tecnologia del mondo. Senza contare che, nel lungo periodo, questi mescolamenti sono positivi, nuove forze arricchiscono situazioni stagnanti, nuovo sangue e nuove idee, possibilità insospettate saltano fuori. Certo, con tutti gli incidenti di percorso del caso, nessuno di questi percorsi è indolore, ma il marocchino cattivo, o l’ivoriano sadico, non saranno peggiori del lombardo mafioso o dello svizzero assassino. Si tratterà di indirizzare, ma questo potrà saltar fuori solo dall’intelligenza e dal buon senso di governanti meno ottusi degli attuali, i percorsi educativi, sociali, e anche giuridici, per agevolare questa transizione nel suo periodo più caldo, che è questo, e forse quello dei prossimi cinquant’anni. Toccherà attrezzarsi, però fabbricandosi faticosamente gli attrezzi, che non ci sono già fatti, sperimentando e cercando ancora una volta – e in un contesto assai più esteso – di dare valore, concretezza e significato materiale a quelle vecchie parole che informarono la rivoluzione francese, libertà, uguaglianza, fraternità, ricordate?

Tu se sai dire dillo, IV edizione 2015

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cop

17-18-19 settembre 2015

Galleria Ostrakon

via Pastrengo 15, Milano

La rassegna Tu se sai dire dillo, ideata da Biagio Cepollaro e giunta alla quarta edizione, è dedicata alla memoria del poeta Giuliano  Mesa, scomparso nel 2011.

A leggere le sue poesie, oltre a Biagio Cepollaro, vi sarà anche Andrea Inglese.  Quest’anno i temi saranno: l’esperienza di Milanopoesia (1983-1992) raccontata da Eugenio Gazzola e da alcuni protagonisti come l’artista William Xerra, la poetessa Giulia Niccolai e dall’organizzatore Mario Giusti; il festival dei nostri anni  Bologna In Lettere a cura di Enzo Campi ; l’Artventure parigina di Lucio Fontana ricostruita da Jacopo Galimberti, l’opera elettronica di Giovanni Cospito eseguita al Teatro Verdi, situato proprio di fronte allo Spazio Ostrakon.

E ancora avranno spazi dedicati: la figura unica diventata leggenda del poeta-operaio Luigi Di Ruscio tratteggiata da Christian Tito; la nascita del blog  Perigeion e i poeti Massimiliano Damaggio, Antonio Devicienti, Nino Iacovella, Gianni Montieri , presentati da Francesco Tomada, e infine, la poesia di Nadia Agustoni, Giusi Drago, Francesco Forlani, Vincenzo Frungillo, Italo Testa e la prosa di Giorgio Mascitelli.

17 Settembre, Giovedì

ore 18.00

Biagio Cepollaro e Andrea Inglese leggono Giuliano Mesa

ore 18.30

L’artventure parigina di Lucio Fontana a cura di Jacopo Galimberti

ore 19.30

Le poesie di:

Nadia Agustoni

Giusi Drago

Francesco Forlani

Vincenzo Frungillo

Italo Testa

I racconti di :

Giorgio Mascitelli

ore 20.30

Intervallo

ore 21.00  Il pubblico è invitato a spostarsi al Teatro Verdi, di fronte allo Spazio Ostrakon

Opera elettronica di Giovanni Cospito su testi di Biagio Cepollaro

18 Settembre, Venerdì

ore 18.00

Gli anni di Milanopoesia

a cura di Eugenio Gazzola

Saranno presenti:William Xerra, Giulia Niccolai, Mario Giusti

ore 19.30

Intervallo

ore 20.00

Lettere dal mondo offeso: per Luigi Di Ruscio

a cura di Christian Tito

Letture dal romanzo epistolare

Proiezione video

Testimonianze

19 Settembre, Sabato

ore 18.00

Perigeion e i poeti

a cura di Francesco Tomada

Massimiliano Damaggio

Antonio Devicienti

Nino Iacovella

Gianni Montieri

Francesco Tomada

ore 19.30

Intervallo

ore 20.00

Il presente di Bologna in Lettere

a cura di Enzo Campi

“Agit-prop-poetry”, un intervento di Enzo Campi

“Sistemi d’Attrazione”, proiezione di un video montato con i materiali della terza edizione del Festival Bologna in Lettere

“Sì, si può”, recital multimediale con Alessandro Brusa, Martina Campi, Francesca Del Moro, Rita Galbucci, Enea Roversi, Jacopo Ninni, Mario Sboarina, Enzo Campi

L’immagine in copertina è di Biagio Cepollaro, Predella-Dittico, dipinto su due pannelli. Tecnica mista su mdf, cm 80 x 50 complessivi,2009.Coll privata, Milano.

Liguria nomade: Magliani e Ferrazzi

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Un padre e figlio, durante la primavera del ’73 (Marino Magliani)

Questo era ciò che pensava. Se il padre gliel’avesse detto apertamente che così non poteva durare, che se non studiava poteva andare con lui in campagna, il ragazzo avrebbe preferito. Ne poteva nascere un discorso. Ma il padre entrava in casa e taceva.

Non doveva essere facile, pensava il ragazzo. Il padre portava in casa l’odore della campagna, si lavava le mani in cucina e si sedeva al suo posto. La madre serviva la pasta.

Un giorno il ragazzo spiegò al padre che avrebbe potuto capire che stagione era dall’odore dei suoi vestiti. Durante il tempo della falciatura, in agosto, la camicia odorava d’erba e insetti triturati. Erano le giornate lunghe e appiccicaticce in cui il padre puliva le terrazze e tutto attorno odorava di insetti spezzati.

4 testi da “Maniera nera”

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di Marco Giovenale

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Dissenso

dieci decimi (sezioni, sono,

dissezioni).

 

Non tiene per nessuno

in particolare, particola, è

Per Erri De Luca: la nostra solidarietà

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di Gigi Richetto

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La Valle di Susa che resiste è riconoscente verso Erri De Luca per la lucidità e il coraggio che sa esprimere con la sua parola contraria. Contraria in primo luogo alla devastazione

#Oktoberfestung

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di Helena Janeczek

oktoberfest

Eccoci qua: la Germania ripristina i controlli, ferma i treni, chiude la frontiera e tutti gli altri seguono a ruota. La domenica che sputtana Schengen è un’altra catastrofe per l’Unione Europea, dopo le fantastiche trattative con la Grecia (oltre che naturalmente per la marea di rifugiati persa e intrappolata in mezzo alle frontiere).

FABIO TETI “spazio di destot”, verso la nuova complessità

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copertina destot1-1 copiadi Daniele Poletti

“Se leggo con piacere questa frase, questa storia o questa parola, è perché sono state scritte nel piacere (questo piacere non è in contraddizione con i lamenti dello scrittore). Ma l’inverso? Scrivere nel piacere mi garantisce – me, scrittore – del piacere del mio lettore? In nessun modo. Questo lettore bisogna che lo cerchi (lo «draghi»), senza sapere dov’è. Si è creato allora uno spazio del godimento. Non è la «persona» dell’altro che mi è necessaria, è lo spazio: la possibilità di una dialettica del desiderio, di una imprevisione del godimento: che il gioco non sia già chiuso, che ci sia un gioco.”

(Roland Barthes : da “Il piacere del testo” – Einaudi 1975)

 

Molto spesso in recensioni, saggi brevi e testi di critica letteraria i nomi di Deleuze, Barthes e Derrida ci cascano dentro, e abbastanza frequentemente come ornati che suonano a vuoto. Ahimè oggi si apre con Barthes, ma spero con i migliori intenti. Evocare sullo sfondo “Il piacere del testo” in relazione a “spazio di destot”, rappresenta la simulazione della prima e unica domanda da porsi rispetto a questo libro di Fabio Teti: «Perché un libro come questo dovrebbe darci piacere/godimento?». La risposta sarà per via indiretta, altre domande sorgeranno, alcune risposte senza domanda, alcuni percorsi.

Della serie: Show Me a Hero

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Habitat

di

Flavio Pintarelli

Se volessimo individuare una costante che accomuna l’opera televisiva di David Simon da The Corner a Show Me a Hero quella sarebbe senza dubbio la capacità che lo scrittore americano dimostra nel far convivere nelle sue trame l’alto e il basso, la strada e il palazzo, il sottobosco criminale e la giungla delle stanze del potere. Ma, come accade in una celebre scena della prima stagione di The Wire, quella in cui i dealer incontrano al cinema gli agenti che sono soliti “prenderli a calci in culo” per strada, la rappresentazione degli opposti come facce di una stessa medaglia per Simon è l’occasione di sgretolare i cliché a cui ci hanno abituato i narratori più pigri. Così, a incontrarsi in quel cinema di Baltimora non sono tanto poliziotti diventati criminali a furia di calcare le strade o spacciatori dal cuore d’oro, bensì uomini separati dalle circostanze e dalle regole di un gioco irrimediabilmente truccato; qualcuno lo chiamerebbe “società”, altri, più ideologici, “capitalismo”.

Show Me a Hero non fa eccezione a questa regola. È la storia, realmente accaduta, di una  una città, la città di Yonkers. Una cittadina al confine con il Bronx, tre chilometri a nord di Manhattan, stesa su una zona collinare affacciata sulle rive del fiume Hudson, nella contea di Westchester, stato di New York. A Yonkers è nato, tra gli altri, lo scrittore Richard Yates.

Show_Me_a_Hero_PosterSiamo al tramonto degli anni ’80 e c’è un giudice di nome Sand che vuole condannare le politiche di segregazione razziale messe in atto dal governo cittadino, obbligando la città a costruire 200 unità abitative popolari, ma non i temutissimi projects, alveari metropolitani ricettacolo di ogni nequizia. Bensì delle più avanzate low income houses, abitazioni per persone indigenti progettate secondo i principi della defensible space theory. Una teoria urbanistica sviluppata dall’architetto Oscar Newmann (interpretato nella serie da Peter Riegert), secondo la quale un’area urbana è più sicura quando le persone provano verso la propria abitazione un senso di proprietà e responsabilità nei confronti della comunità in cui abitano. A rendere defensible (difendibile) uno spazio contribuiscono cinque fattori:

  1. La territorialità, ovvero l’idea che ogni abitazione sia un luogo “sacro”.
  2. La sorveglianza neutrale, ovvero il collegamento tra le caratteristiche fisiche di un’area e la capacitàà dei residenti di vedere ciò che vi accade.
  3. L’immagine, ovvero la capacità del design fisico di trasmettere un senso di sicurezza.
  4. Il milieu, ovvero tutti quei fattori che hanno a che fare con la sicurezza come la vicinanza a una stazione di polizia o a un’affollata area commerciale.
  5. Le zone attigue sicure, ovvero la capacità di trasferire ai residenti l’abilità di sorvegliare le zone adiacenti alle loro abitazioni attraverso il design delle stesse.

Ciononostante nessuno dei bravi, onesti, operosi cittadini di Yonkers è disposto ad accettare che un giudice e una manciata di avvocati ebrei di New York possano minacciare il quieto vivere della loro neighborhood e il valore dei loro immobili.

Show Me a Hero 1

Nick Wasicsko (Oscar Isaac) questo concetto lo ha capito alla perfezione. Nick è un politico locale, membro del consiglio comunale, che contro ogni pronostico decide di candidarsi alle elezioni contro il sindaco in carica, Angelo Martinelli (Jim Belushi). Martinelli è un pezzo da novanta della politica locale. Nessuno può neanche lontanamente immaginare che possa perdere la tornata elettorale. Ma Wasicsko ha capito che la questione degli alloggi è il terreno di scontro perfetto su cui sfidare l’avversario. Così tocca la pancia delle persone, fa campagna elettorale promettendo di opporsi alla sentenza e vince, tra l’incredulità di tutti.

La vittoria, tuttavia, diventa la sua condanna. La sentenza del giudice Sand è inappellabile. Gli avvocati del Comune sanno che non ci sono margini di trattativa e, come se non bastasse, se la sentenza dovesse restare inapplicata le multe comminate ridurrebbero rapidamente la città in bancarotta.

Wasicsko è perciò costretto a dover approvare un piano di edilizia popolare. Lo deve fare a dispetto dell’ostilità crescente della cittadinanza e dei suoi stessi elettori, in un clima reso irrespirabile da chi soffia sul fuoco per alimentare la tensione razziale e maschera il razzismo dietro discorsi razionali. Come se non bastasse, il giovane primo cittadino deve guardarsi anche dalla fronda interna al consiglio comunale, capitanata dal vice sindaco Hank Spallone che, a dispetto della realtà dei fatti, continua ad opporsi al piano di edilizia abitativa, guadagnando sempre più consensi. Wasickso resta così vittima della sua stessa retorica e, dopo due anni, perde la carica proprio contro Spallone.

Show me a hero è un meditato apologo sulla politica in forma di tragedia. “Show me a hero, and i’ll write you a tragedy” recita infatti la citazione completa di Fitzgerald che Simon sceglie come titolo per la sua miniserie. Lo scrittore americano affonda infatti le mani nel materiale tragico. Siamo nel territorio di Antigone, solo che alla legge degli dei, quella del cuore e dell’amore fraterno, s’è sostituita la legge della pancia, quella soffia sulle paure e le insicurezze delle persone. A contrapporsi a questa c’è la legge degli uomini, l’apparato kafkiano di regole che deve applicarsi no matter what. Nessuna delle due ha però la ragione di prevalere, sono cieche entrambe, entrambe non sono altro che rulli compressori che livellano la complessità delle cose.

Lo si vede bene in quell’unico, lunghissimo montaggio alternato parallelo che è il secondo episodio. Dove alle udienze presso la Corte Federale presieduta da giudice Sand si avvicendano le sedute del consiglio comunale di Yonkers. Non c’è uscita possibile dal circuito. A ogni passaggio l’intensità dell’ostinazione delle due leggi non fa che aumentare. Più la legge degli uomini vuole dimostrarsi inflessibile, perché quell’inflessibilità è la sua unica ragion d’essere, più la legge della paura diventa aggressiva, schiuma, s’agita e morde.

Show Me a Hero 3

Una morsa letale che schiaccia tra le sue ganasce uomini e donne a dispetto delle loro buone intenzioni. Così è Mary Dorman (Chaterine Keener) e così è Nick Wasicsko quando, alla fine dell’episodio, l’alternanza del circuito inflessibilità-paura si chiude nel convergere delle loro voci al telefono. Mary trasalisce, quando al telefono del Comune è il sindaco in persona a rispondere. Accorgersi che a ricoprire quella carica non è una figurina di carta ritagliata, ma il l’alito concreto della voce di un uomo in carne e ossa ha la forza di un pugno. Il ritorno della corporeità, il riconoscersi al di là dell’ordine del simbolico che la politica impone ai suoi protagonisti, è la vera forza della narrazione di Simon, quella tessitura che imbastisce e cuce insieme l’alto e il basso.

Siamo fuori dalla rappresentazione della politica come regno assoluto del behind the scene, della retroscenistica complottarda. È il fantasma di House of Cards che appare dovunque in controluce, quando si guarda Show Me a Hero. Quanto sono diverse le tombe dei padri nei due show? In uno la lapide ridotta a pisciatoio, nell’altra muta pietra a cui ci si appella, fino alle estreme conseguenze. Quanto è gratuitamente inumano il primo e quanto è irridicibilmente umano il secondo?

Nella trama allegorica tessuta di Simon c’è l’oggi che viviamo. Qui, ora, ma anche altrove, in ogni parte del mondo. Lo scontro tra la legge della paura e la legge degli uomini è il presente odierno, trasportato a Yonkers, tra la fine degli anni ’80 e l’alba dei ’90. Come a dire che non si tratta solo di Zeitgeist, ma che quello scontro, quelle dinamiche possono prodursi ovunque, dovunque, in qualsiasi tempo quando se ne danno le condizioni.

C’è una soluzione a tutto questo? Chi la chieda a un narratore se non è in malafede è quantomeno sciocco, perché il compito del narratore è raccontare, e nel raccontare far sentire quel residuo ultimo di umanità che alberga sotto ogni simbologia, sotto ogni riduzionismo. Come fa Simon, quando intreccia le vicende della politica alla vita minuta dei suoi personaggi. Le microstorie dell’umanità delle case popolari, spinta ai margini, eppure dignitosa sono fatte della medesima sostanza della macrostoria delle corti di tribunale e delle aule della politica.

Così come, ancora una volta, sono gli incontri tra le persone a fare la differenza. La scoperta dell’altro è la forza che scava sotto le fondamenta del muro dei simboli. Così, ancora una volta, il personaggio di Mary Dorman scopre l’umanità al di fuori della mura domestiche. Il saluto di Pat, la donna di colore, la militante di lunga data che tende la mano alla militante dell’ultimo minuto ha una forza dirompente. Instilla il dubbio, cambia la gelatina alla luce che colora la scena, scuote anche la convinzione che pareva più solida. Ancora una volta l’arte si mostra per quello che è o dovrebbe essere davvero: potere trasformativo in grado di ri-scrivere la realtà in forma di finzione e nel raccontarci la prima attraverso la seconda indicarci la strada da seguire. In fin dei conti, cosa vogliamo chiedere di più a un narratore?

Come un film francese

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di Giacomo Verri

saporito

C’è uno scrittore dalla penna annebbiata, uno che ha scritto quella manciata di romanzi e poi si è perso. Come tanti, in fondo. Però il fatto di aver nella vita pubblicato delle pagine lo pone al di là di una linea d’ombra, una frontiera oltre la quale gli è riconosciuto ufficialmente un ruolo intellettuale ambiguo, difficile, a tratti tragicamente ridicolo. Il protagonista dell’ultimo romanzo di Roberto Saporito, Come un film francese (Del Vecchio editore, pp. 135, euro 14), è infatti uno scrittore a cui viene affidato, nonostante gli anni di assenza dagli scaffali reali e virtuali delle librerie d’Italia, un corso di scrittura creativa; ruolo beffardo e disciplina equivoca, ma che rappresentano a tutto tondo uno dei vizi dell’editoria che insegue chimere: “questa è la mia piccola rivincita”, spiega il protagonista, “insegno qualcosa che nessuno mi ha mai insegnato e che sono sempre più fermamente convinto che non si possa insegnare”.

E tuttavia il corso ha successo, le diciotto ragazze assiepate tra i banchi idolatrano il loro maestro (che sfrutta l’aria da intellettuale fascinosamente trasandato come stimolante antidoto alle piretiche attrazioni del gentil sesso verso il macho-calciatore-esibizionista), i maschietti un po’ di meno, ma tant’è. La ninfetta più appassionata è Carlotta, ventun anni, “bella di una bellezza frutto di generazioni di innesti di donne bellissime con uomini ricchissimi”. Scopano in maniera moderatamente sfrenata, sopra al letto è appesa “un’enorme e originale tela di Jean-Michel Basquiat”, lei ha una quantità lussureggiante di soldi, una Cinquecento a pois molto molto chic e molto smart, e ha pure la sindrome della salvatrice, vuole riaccendere senza indugi il fuoco sacro della scrittura nel professore disilluso e questi, tra una seduta di sesso e un’altra, si lascia condurre nelle belle dimore della facoltosa studentessa.

In “una villa-palazzotto di pietra grigia della fine dell’Ottocento, direi, a metà strada tra Antibes e Cannes”, avviene un incontro importante: quello con una fanciulla dagli occhi verdi e i capelli rossi cortissimi: c’è un viaggio nella notte a bordo di una Vespa viola, c’è una Gauloises, c’è un bacio. La proprietaria della labbra osculanti è Lea, liceale ricca ereditiera.

E ancora della diciassettenne Lea è la voce narrante della seconda parte del libro. Lea la bella, Lea la trasgressiva, inusuale e spiazzante Lea. Assieme a Martina intraprende un allucinante viaggio verso Londra a bordo di un Maggiolino del 1969, rosso, quanto di più vintage si potrebbe immaginare. Al duo si aggiunge, da qualche parte in Francia, Anny. Insieme vivono una serie di ricamboli tarantiniani che epilogheranno al Père-Lachaise. E tra lazzi e disincantate malinconie Roberto Saporito ci fa conoscere un personaggio divertente, cinico e innamorato a un tempo, di quella disperazione leggera che si respira nei film francesi di una volta.

Multiversi. Parole Suoni Gesti ° (18-20 settembre, Pisa)

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Una rassegna sulle scritture ad alta voce, a cura di Fabrizio Bondi e Paolo Gervasi

 Pisa, Cinema Teatro Lux, 18-20 settembre 2015.

Periodicamente si rinnovano le lamentazioni sulla morte dell’arte, della letteratura, del teatro, della poesia. Ma da questi proclami pieni di rancore e stanchezza emerge soprattutto che l’idea della fine rappresenta un alibi. Un modo per sottrarsi all’ascolto del presente e della sua complessità.

Di fronte alla ripetitività di una fine che non smette mai di finire, siamo convinti che l’unico modo per tenere in vita la poesia sia farla accadere. Continuando a scriverla, a leggerla, e a pronunciarla ad alta voce. Continuando a convocare la comunità di chi vuole ancora ascoltarla, e utilizzare il proprio corpo come una cassa di risonanza.

Per questo insieme al Teatro Lux e all’associazione The Thing abbiamo immaginato la rassegna Multiversi. Parole Suoni Gesti. Tre giorni di poesia, musica, teatro, e corpi in risonanza. Per continuare ad ascoltare il presente e le sue possibilità. Per sopravvivere alla fine del mondo, con le orecchie bene aperte.