La conversazione che segue tra Luca Vaglio e me ha trovato spunto iniziale dall’articolo-inchiesta da lui pubblicato il 29 maggio 2015 dal titolo Un popolo di poeti, ma chi li legge oggi? suGli Stati Generali Rileggendo l’articolo ho fatto alcune riflessioni che gli ho poi inviato via mail. E così è nata questa conversazione sul tema dell’ ipotetica diminuzione della “percezione” della poesia da parte del pubblico “colto”.
Biagio Cepollaro:
Continuo a non essere sicuro della validità dell’ipotesi iniziale e cioè che oggi la poesia sia meno ‘percepita’ dalle persone di buona cultura rispetto a ciò che sarebbe avvenuto negli anni ‘50… Questa ipotesi dovrebbe essere suffragata da un’indagine adeguata. Però nonostante i miei dubbi, devo riconoscere che l’inchiesta ha sollecitato una serie di riflessioni interessanti. A me pare che le risposte si siano disposte sostanzialmente su due versanti: uno “sociologico” confermante questo declino: le vendite o le mancate vendite, l’istruzione, i mass media, i social network, il mandato sociale e la superiorità della canzone o del ruolo ‘pubblicistico’ del narratore; l’altro più fiducioso e minoritario, tradizionalmente idealistico o avanguardista: la fiducia nella poesia e nei suoi tempi lunghi, la valutazione della vivacità innovativa della lingua poetica.
Credo sia necessario partire dalla considerazione che non esista un solo modo di concepire una “buona cultura”: in questi ultimi tre decenni si è trasformata proprio la forma della cultura, fino a diventare quasi irriconoscibile per le ‘generazioni’ di cultura precedenti. Negli anni ’90, anche sulle pagine della rivista Baldus, riflettevo su questo sulla scorta di riferimenti alle suggestioni provenienti da Wittgenstein e, per altri motivi da McLuhan e Walter Ong, da Lyotard e Paul Virilio. Quelle riflessioni andrebbero aggiornate con il nuovo campo di discorso istituito dalla rete.
Le forme della cultura non sono solo vesti retoriche, sono anche una sorta di a priori che sembrano determinare i modi concreti in cui i contenuti possano apparire ed essere trasmessi, anzi, condivisi. E non si può forse prescindere da questo. Né si può più dire che la ‘poesia non la legge nessuno’ perché vi è un consumo in rete notevole che non corrisponde certamente al mercato librario che resta quasi inesistente, se sono corretti i numeri citati dall’articolo. Mi viene il sospetto insomma che il problema non sia tanto della marginalità del genere poetico (ma è mai stato davvero un problema? Forse no …) quanto piuttosto del passaggio ad altra forma della cultura che non prevede la centralità della parola e la forma della soggettività che a quella centralità si riferiva (penso a Robert Musil che scriveva La conoscenza del poeta nel 1918, affidando al poeta ciò che dell’esperienza è singolare, la singolarità, l’eccezione …). Il digitale ha intaccato sia la solitudine della parola che riflette, mescolandola profondamente all’immagine e al suono, sia l’esperienza del singolare che è diventata una specie di ‘personalizzazione’, nel senso che questo termine ha assunto nelle “opzioni” che ogni programma prevede … Il singolare, l’eccezione, di fatto sono previsti dal programma … Ho sentito anche il neologismo “customizzare”… Le forme della soggettività (o della soggettivazione, meglio) dipendono dalla piattaforma, come una volta dal campo di discorso che istituiva le parti e i ruoli. Quindi credo che sia molto mutata sia la forma della cultura che la sua trasmissione e condivisione e che la poesia come genere letterario scritto abbia subito un’ulteriore mutazione grazie alla rete che l’ha ricondotta in quella condizione che Walter Ong definiva di ‘oralità secondaria’, dopo le forme imposte e introiettate del libro stampato.
Luca Vaglio:
L’intenzione, come precisato nell’articolo, è di riflettere, di far riflettere su di un tema, quello della marginalizzazione del genere della poesia, di cui la critica già negli anni scorsi si è occupata. Non va trascurato il calo delle vendite denunciato da un editore storico come Crocetti e che una condizione analoga, pur in assenza di dichiarazioni, riguardi i pochi altri grandi editori che ancora pubblicano poesia. E c’è anche che rispetto al recente passato risulta nel complesso meno forte la presenza dei poeti all’interno dell’industria culturale. Non esistono, o non sono facilmente reperibili statistiche di sistema sul numero delle vendite e dei lettori di poesia. E la ricerca Nielsen secondo cui poesia, classici e saggistica insieme valgono il 3% del mercato rafforza l’idea che i numeri con cui abbiamo a che fare siano piccoli. E’ vero poi che oggi molta poesia viene letta e pubblicata su blog letterari e in altri spazi online, ma si tratta comunque di una fruizione di nicchia. Superando la logica dei numeri, che per la poesia non sono e non sono mai stati il centro del discorso, l’ipotesi di partenza è che la poesia, il ruolo e il nome dei poeti oggi siano meno percepiti dal pubblico vasto rispetto ad alcuni decenni fa. E il fenomeno è più notevole se avviene anche tra persone con un livello di formazione elevato e che mostrano interesse verso altri generi letterari e artistici. Forse il tema meriterebbe un’indagine statistica, che comunque non risolverebbe ambiguità e dubbi. Ma non mancano indizi che lasciano pensare che da qualche decennio i poeti italiani siano meno conosciuti o percepiti dal grande pubblico. Può essere un arbitrio usare per una ricerca di questo genere lo strumento dell’inchiesta giornalistica, di sicuro adatto a casi, come quelli della cronaca o dell’economia, più facili da circoscrivere nel tempo. Però si tratta di un arbitrio cosciente, di un rischio calcolato, poichè l’inchiesta, potendo ospitare in poco spazio diverse opinioni, si presta bene a sollevare problemi, introdurre discussioni e avviare riflessioni. Se questo avviene, posti alcuni dati di fatto e un lavoro attento, di norma vuol dire che la domanda è corretta, che il tema c’è, al di là di possibili investigazioni successive.
Provando ad affiancare altre considerazioni a quelle presenti nell’articolo, qui sopra e in altri luoghi, e senza pretendere di esaurire il problema, credo che giovi ragionare sul ruolo della canzone leggera. Proprio su questo, a mio avviso, come evidenzia Guido Mazzoni nel suo saggio “Sulla poesia moderna”, si gioca molto dello spostamento di percezione del grande pubblico e della conseguente marginalizzazione del genere della poesia. L’argomento merita di sicuro più spazio, però non è un fatto di poco conto che proprio a partire dal dopoguerra e per il periodo successivo si affermi sempre di più, e con gradi diversi di ambizione artistica, la canzone leggera. E’ possibile che la canzone, sebbene per struttura sia tutt’altra cosa rispetto alla poesia, essendo più immediata da recepire e a sua volta con il testo in versi, nella percezione e nella fruizione di molti abbia, almeno in parte, sostituito la scrittura poetica. O, forse meglio, può essere che la canzone abbia in qualche misura eclissato la poesia, anche soltanto nell’immaginario collettivo di una porzione del pubblico potenziale. E la facilità di diffondere le canzoni attraverso la radio e la televisione può aver rafforzato il fenomeno. Questo processo probabilmente ha favorito un grado di confusione tra la poesia e la canzone. Spie, cartine di tornasole di questa confusione sono stati diversi interventi apparsi sui media. Tra questi il dibattito, presente sui giornali a più riprese nel corso degli anni ’90, che aveva portato alcuni critici musicali a domandarsi se le canzoni dei cantautori potessero essere considerate poesia. Tema sul quale il poeta Mario Luzi interviene nell’aprile del 2000, rimarcando la differenza tra il testo di una canzone e quello di una poesia: “Uno è intuitivo, l’altro di riporto. Ci sono canzoni molto belle, ma non ci sono collusioni fra loro e la poesia. Quando ho detto queste cose, ho ricevuto dai cantanti parecchi insulti mascherati, soltanto Francesco De Gregori ha capito”.
E’ giusto poi, come si fa qui sopra, calare l’indagine sulla percezione e sul ruolo della poesia nel contesto dei media digitali e delle mutazioni che questi stanno portando negli ambiti della comunicazione e delle forme artistiche. Senza scomodare McLuhan, basta osservare quanto l’email e le chat hanno trasformato il linguaggio della corrispondenza e delle conversazioni per poter ipotizzare che l’influenza di internet tocchi, con modi ancora difficili da definire, anche i generi letterari. Ed è prezioso quanto afferma Walter Ong sull’oralità secondaria, ovvero sulla possibilità di rapportarsi al tempo stesso con lo scritto e con la voce grazie ai media digitali. Trovo che meritino attenzione anche le riflessioni di Lev Manovich, secondo cui l’era contemporanea è quella del computer inteso come strumento metamediale che crea ex novo tutti i media o li converte dalle forme analogiche originarie attraverso una formula numerica, un algoritmo matematico. Il passaggio al digitale, che pure ha già liberato nuovi spazi per la letteratura, come accadde in seguito all’introduzione dei caratteri mobili, viene a modificare l’accesso ai contenuti e la loro fruizione. Se da un lato è sempre più facile riprodurre i contenuti per un numero indeterminato, potenzialmente infinito di volte, dall’altro si trasforma la relazione, anche sensoriale, con il testo e forse con il suo significato. Inoltre, credo sia importante osservare, come suggerisce Mazzoni, l’oscillazione nel corso dei secoli del linguaggio letterario, la sua maggiore o minore capacità di intercettare e rappresentare forme di pensiero collettive e il suo virare recente verso ricerche più singolari e soggettive.
Ho chiesto a Franco Bergoglio, polemista e attento studioso del jazz, di presentare il suo ultimo libro Sassofoni e pistole. Quello che leggerete è uno spin-off su uno dei mille mondi che non hanno trovato dimora nel lavoro. (effeffe)
Il Crimejazz al cinema
di Franco Bergoglio
L’immaginario noir del jazz è sterminato: concentrandomi su quello “letterario” dei romanzi e dei racconti brevi, ho lasciato volutamente fuori il fumetto e il cinema. Verso il cinema il mio pudore è doppio: se per analizzare i romanzi ho impiegato otto anni, il cinema mi avrebbe portato via almeno il doppio. E poi David Butler ha scritto un bel libro sul tema, Jazz Noir (Praeger, 2002); invece del rapporto tra romanzi noir e jazz non se ne era occupato ancora nessuno in termini tanto ampi. Un vero cold case da detective melomane! Senza concorrenza, e senza tema di farsi sbranare da cinefili super-competenti ma sanguinari. Ovviamente l’immaginario “giallo-nero” legato al jazz finisce per rendere labili i confini tra pagina scritta e celluloide. Ieri flirtavano con il cinema Hammett e Chandler, oggi lo fanno Ellroy o Patterson. Molti lettori precoci del libro mi chiedono continuamente di parlare di cinema, di indicare pellicole, di stilare classifiche…nonostante io continui a ribadire che NON sono in grado di affrontare anche quest’indagine. Allora da detective passo al ruolo di testimone e semino alcuni indizi. Dice James Ellroy: il romanzo noir è come il jazz: gli americani lo fanno meglio. Elenco quindi quattro scene memorabili tratte da altrettante pellicole. Tutti film rigorosamente americani –Ellroy oblige- e non tutti capolavori (quello di Altman, forse sì). Il jazz vi gioca un grande ruolo. Entra nella trama, detta le atmosfere e solo uno, Il lungo addio, è emanazione diretta di un romanzo-capolavoro. Non ho saputo resistere. Après moi le déluge diceva qualcuno più importante del sottoscritto; spero solo, lasciando campo libero a curiosi ed esperti, di non trovarmi sommerso da tuoni, fulmini e chicchi di grandine.
Collateral (2004), diretto da Michael Mann. La scena nel Jazz Club è un tributo a Miles Davis: l’improvvisazione del trombettista arriva da Spanish Key, tratta dall’album Bitches Brew e il divino principe della tromba viene evocato più volte nel teso dialogo che occupa la sequenza. Un Tom Cruise assai cool veste i panni di un killer/esperto di jazz quasi tarantiniano (Critici: non picchiatemi!).
American Hustle – L’apparenza inganna (2013), diretto da David O. Russell.
Tutta la colonna sonora di questo disco è una miniera di preziosi, ma a noi interessa la scena dell’incontro tra i due protagonisti interpretati da Amy Adams e Christian Bale, un gioiello che rasenta l’assoluto cinematografico: i movimenti di macchina seguono fedeli i pensieri dei due e le musiche (e pensieri, gesti e musiche si trovano sullo stesso piano!). Il party anni Settanta ha il suono dei Chicago con Does Anybody Really Know What Time It Is. Seguono due minuti indimenticabili con Jeep’s blues di Duke Ellington. La versione è quella del Live at Newport 1956, come mostra bene la copertina del disco inquadrata dalla camera. La canzone entra prepotente e scava “da dentro” la trama.
Johnny Staccato-The Naked Truth (1959), diretto da Joseph Pevney
I telefilm hanno fornito tanto materiale al cliché jazz-noir. Qui gli esperti di televisione mi tireranno le pietre, ma tra tanto materiale scelgo il primo episodio della serie: didascalico nel presentare l’ambiente e I personaggi. Il detective suona il piano, il suo ufficio è un jazz club. La presenza di John Cassavetes nei panni del protagonista sigilla il quadro, mentre sul palco stanno come figuranti Pete Candoli, Barney Kessel, Shelly Manne, Red Mitchell, Red Norvo…
https://www.youtube.com/watch?v=2Yl_CfXCpzA
The Long Goodbye/Il lungo addio (1973), diretto da Robert Altman
La colonna sonora del film consiste in due sole canzoni, la prima Urrà per Hollywood e un’altra intitolata The Long Goodbye. Ogni volta che si sente, c’è una variazione nell’arrangiamento del tema composto da John Williams. La vita di questo Marlowe è intrisa di una solitudine che si rinnova, come un refrain. La canzone torna, sempre lei, ma sempre diversa. La vita è sempre maledettamente uguale, ma sempre diversa. Elliott Gould incarna questo Marlowe esistenzialista indossandone alla perfezione le note musicali.
Per rispondere alla riproposizione di Contropiano dalle Cucine[Federici 1975], si può partire proprio dall’articolo firmato da Nicole Cox e Silvia Federici per avviare un ragionamento — spero non del tutto banale a partire da un contributo a prima vista così datato, così legato alle circostanze polemiche che ne hanno provocato l’apparizione, così marcato da un lessico che sembra consumare la sintassi femminista di quelle pagine fino a cancellarla quasi del tutto, o comunque a isolarla da altre elaborazioni maturate nel contesto della «seconda ondata» e baciate da maggiore fortuna quanto a opportunità di circolazione nel dibattito contemporaneo.
Quando si parla di «fortuna» del femminismo il virgolettato è d’obbligo: segnala la presenza di una difficoltà impossibile da ignorare, a maggior ragione quando ci si avventura in un lavoro di traduzione da passato a presente. Questa difficoltà ha a che fare con la consapevolezza del fatto che non è possibile imbastire un discorso attendibile sull’eredità del femminismo senza fare contestualmente i conti con il paradosso segnalato da Anna Bravo a proposito di tante riletture degli anni Settanta:
Su un solo punto commentatori e protagonisti fanno coro, il femminismo. Ironia: per anni temuto, minimizzato, a volte messo in ridicolo, il femminismo è diventato il parente ricco dei movimenti, la loro faccia bella buona e democratica, di cui non ci si può appropriare ma che viene comunque rivendicata alla spirito del tempo e delle lotte. Ma su come sia nato devono essere mancate finora la capacità o la voglia di documentarsi, con la buffa conseguenza che in certi testi lo si elegge a sola rivoluzione riuscita del ‘900, e dopo due pagine si passa a altro [Bravo 2008: 7].
Probabilmente non si spiegherebbe questa «buffa» riabilitazione postuma senza tener conto della tendenza diffusa a leggere retrospettivamente le vicende del movimento femminista come una semplice reazione alle strozzature di un processo di modernizzazione impetuoso e disordinato: o, se si preferisce, come «supplemento d’anima» finalizzato a rinvigorire dal basso l’impulso riformista che, in quella fase della storia del nostro paese, poté apparire rilevante. Ammettere invece che quel movimento sia stato altro, significherebbe «riconoscere l’esistenza di domande collettive che investono la legittimità del potere e l’uso delle risorse sociali» [Melucci 1991: 20; Ergas 1986] e, di conseguenza, dotarsi di criteri di valutazione completamente diversi per misurarne meriti e debolezze.
È verso questa seconda opzione che vorrei orientare la riflessione. Non si fa torto ― al contrario ― alle pioniere della «seconda ondata» constatando che ragioniamo a partire da una rivoluzione che non è riuscita, a dispetto di quanto afferma un interessato ottimismo di maniera; che dunque ha ancora senso rivolgersi alle analisi elaborate negli anni Settanta per interrogarsi sui limiti dell’emancipazione e delle sue promesse, oggi cucinate in salsa neoliberista; e che precisamente per questo motivo vale la pena rischiare in un lavoro di traduzione politica dagli esiti non prevedibili. Preliminare al quale è, ovviamente, uno sforzo di inquadramento storico.
L’obiettivo di queste note è quello di sgombrare il terreno da alcuni dei pregiudizi più tenaci che hanno pesato sulla memoria dell’esperienza teorica e politica legata ai gruppi per il salario al lavoro domestico, finendo per ridimensionarne il rilievo oltre il giusto, quando non a restituirne un’immagine deformata fino al grottesco. Chiariti questi aspetti, si tratterà di capire se la prospettiva aperta ormai più di quarant’anni fa si presti a integrare acquisizioni più recenti, ed eventualmente a farsene a propria volta integrare.
1. È stato giustamente notato che un serio ostacolo al consolidamento di una tradizione femminista proviene dal fatto che ogni scritto tende a essere accolto come se affiorasse dal nulla: una singolarità sporadica, errante, senza storia e senza contesto [Rich 1979: 11]. Se un articolo come Contropiano dalle cucine si espone oggi al rischio di una ricezione mutila, ciò dipende anzitutto dall’appartenenza del testo a un filone di pensiero e a una tendenza militante di cui il dibattito femminista contemporaneo sembra aver smarrito completamente le tracce. Cominciamo, quindi, con qualche indicazione relativa allo scenario che, nel 1974, vede apparire lo scritto in questione [Toupin 2014].
Le autrici — Silvia Federici e Nicole Cox ― militavano all’epoca nel New York Wages For Housework Committee, una delle sezioni statunitensi del Collettivo Internazionale Femminista. Fondato a Padova nel luglio del 1972 da una ventina di donne di diversi paesi, il CIF si proponeva di coordinare la rete di gruppi per il salario al lavoro domestico che, nell’arco del decennio, avrebbe preso corpo, oltre che in Italia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, nelle regioni anglofone del Canada, in Messico, in Argentina, in Germania e in Svizzera. Se è probabilmente esagerato definirlo(con le parole del collettivo svizzero L’Insoumise)«un’embrione di Internazionale delle donne», è pur vero che la vocazione transnazionale del CIF rifletteva e accentuava al massimo una caratteristica importante della «seconda ondata» femminista: evacuare gli spazi di una politica basata sulle logiche statuali della rappresentanza e incardinata sui temi della cittadinanza democratica, per operare invece nel senso di una snazionalizzazione delle donne [Ellena 2014: 277-300; Bracke 2013]. Al centro della prospettiva che animava quei gruppi femministi si trovava pertanto la scelta di praticare non il terreno dei diritti civili, bensì quello della riproduzione sociale, secondo le linee di analisi messe a punto nel testo che aveva ufficializzato la scoperta dell’«altra fabbrica»: vale a dire ― mi riferisco ovviamente a Potere femminile e sovversione sociale di Maria Rosa Dalla Cosa — la scoperta della «funzione essenziale nella produzione del plusvalore» di tutti quei servizi necessari alla produzione e alla riproduzione della forza-lavoro che vanno sotto il nome lavoro domestico [Dalla Costa 1972: 49]. Da quelle premesse originava quella che è stata opportunamente definita «una prospettiva intersezionale avant la lettre» [Toupin 2014: 23], sorretta cioè dall’ambizione di mettere in comunicazione e costruire momenti di solidarietà militante tra i segmenti dispersi della filiera riproduttiva, utilizzando il lavoro domestico gratuito e le lotte autonome contro questo tipo di lavoro come un prisma attraverso cui leggere e raccordare i diversi aspetti della insubordinazione femminile della società. A questa esigenza rispondeva la composizione di un movimento capace di mobilitare strati socialmente diversificati e che, al proprio interno, aveva visto fiorire collettivi come Black Women for Wages for Houswork e Wages Due Lesbians: non soltanto, dunque, donne bianche eterosessuali di classe media o di estrazione operaia, ma anche afroamericane in carico all’assistenza sociale, lesbiche, madri sole, prostitute, cameriere, infermiere, lavoratrici dei servizi sociali.
Contropiano dalle cucine vede la luce in questo contesto e obbedisce all’esigenza di chiarire, contro la veemenza dei detrattori, premesse o obiettivi del movimento in fase di costruzione. L’occasione immediata che stimola la stesura dell’articolo è la pubblicazione, su «Liberation», di un intervento di Carol Lopate intitolato Women and Pay for Housework. La scelta lessicale operata da Lopate («paga per il lavoro domestico») merita attenzione. Nel termine adottato precipita una serie di obiezioni ripetutamente sollevate contro i gruppi per il salario, talvolta accusati di ritardare la marcia trionfale dell’emancipazione con una campagna finalizzata a immobilizzare le donne nel ruolo di casalinghe tramite indennizzo monetario; talaltra di perseguire un obiettivo reso superfluo dal crescente inserimento delle donne nel mercato del lavoro retribuito; o, ancora, di ricodificare attraverso una metafora abusiva un complesso di attività per le quali il termine «cura» appare più idoneo di quello di «lavoro». A rendere significativo lo slittamento semantico da «salario» a «paga», in ogni caso, è la possibilità di leggervi in filigrana la resistenza non di una singola interlocutrice, ma di un’intera cultura abituata a riconoscere lavoro (e di conseguenza sfruttamento, interessi in conflitto e comando politico sul lavoro) soltanto in presenza di rapporti di scambio tra forza-lavoro e salario, come se l’attività extramercantile finalizzata alla conversione della busta paga in reintegro della forza-lavoro appartenessse al regno della natura e non a quello dei rapporti sociali di produzione tra soggetti sessuati.
Sia qui permessa una breve parentesi, da riprendere più estesamente al termine di questo contributo. A posteriori, è possibile affermare che la rimessa in questione di questo persistente residuo naturalistico all’interno della teoria sociale (non esclusa quella di ispirazione marxista) segni una tappa critica di rilievo anche per le femministe delle generazioni successive. Orfane di movimento, magari perché nate — come chi scrive — alle fine degli anni Settanta, e perciò stesso forzate a un accesso in primo luogo letterario al femminismo, alcune di loro si sarebbero abituate ad associare alla «teoria performativa del genere» la via maestra della «denaturalizzazione», della problematizzazione della categoria «donna» e della possibilità stessa di concepire la resistenza all’identificazione corrente come un eccesso culturalmente e politicamente produttivo [Butler 1990; 1993; 2004]. Posto ovviamente che si accetti di scavare più a fondo negli spazi bianchi della teoria in questione, e di ricercare nelle forme elementari del vivere i contenuti delle performances che concorrono a disciplinare l’esistenza del genere e che aspirano a inquadrarla — pena lo scivolamento nella penuria di reti stabili di supporto sociale — nelle istituzioni dell’eteronormatività, sembra difficile minimizzare l’apporto fornito in questa direzione dalle femministe del salario.
Prendere sul serio la ridefinizione dei confini tra personale e politico, tra pubblico e privato, imposta dal movimento femminista comportava in effetti spingere l’analisi abbastanza in là da aggredire l’ambito delle pratiche più quotidiane in cui — prima ancora di cristallizzarsi in grandi sistemazioni ideologiche e di sedimentarsi nel senso comune — la destorificazione e la ritrascrizione in chiave naturalistica del rapporto gerarchico tra i sessi si crea e si rinnova. Aprire la scatola nera del lavoro domestico implicava, al tempo stesso, mettere in luce l’inadegutezza di un punto di vista incapace di scorgervi altro che un detrito semi-feudale sopravvissuto come per errore alla corrente della modernizzazione, senza vedere in che modo il capitalismo rilanci il patriarcato sulla base del lavoro riproduttivo gratuito. Si trattava, insomma, di sollevare la questione che «la sinistra non si è mai posta» [Federici 1975: 47], o a cui si era limitata a rispondere con un atto di fede nell’«irrazionalità» di un avversario ritenuto incapace di stare al passo con le esigenze sociali dello sviluppo economico: e cioè spiegare come mai, a dispetto della propria vocazione alla colonizzazione mercantile di ogni anfratto dello spazio sociale, il capitale permetta la sopravvivenza di tanto lavoro escluso dalla codificazione salariale.
Per sollevare la questione, occorreva scuotersi di dosso ogni complesso di inferiorità intellettuale e cominciare a chiedere referenze a un marxismo compromesso dalla tendenza ad attivare le proprie premesse materialistiche a fasi alterne: attribuendo cioè a motivazioni meramente culturali l’oppressione delle donne, come se l’ideologia potesse sussistere e operare in assenza di un’oppressione materiale che essa serve a giustificare. Si rilevava, in quel modo, l’inconfessabile complicità di quel materialismo a mezzo servizio con il modello emancipazionista liberale che associa al processo di modernizzazione la progressiva perdita di funzioni produttive della famiglia, ipotizzando e auspicando la «transizione da un ruolo femminile totalizzante (quello familiare) a un altro ruolo (quello lavorativo maschile), attribuendo a quest’ultimo un valore universalistico e definendo per differenza tutto quello che stava in mezzo come “ritardo”, “contraddizione”, “marginalità”» [Zanuso 1987: 46].
Va detto d’altronde che, abbordando la questione, le donne del salario non si avventuravano su un terreno incolto. L’inasprimento della polemica con una sinistra rivelatasi impermeabile al tema era motivato anche dal fatto che di lavoro domestico, all’interno del movimento femminista, si discuteva abbondantemente. Sul piano internazionale, la questione della critica dell’«economia politica del patriarcato» si era imposta all’attenzione nel 1969 con un articolo di Margaret Benston che rivendicava al lavoro domestico una funzione produttiva, pur incontrando delle difficoltà a spiegarne la gratuità. Di lì si sarebbe alimentato un dibattito la cui posta politica verteva sulla necessità di stabilire se l’oppressione delle donne potesse essere analicamente incorporata nell’analisi del capitalismo accettata dalla sinistra o se facesse parte di un sistema differente che richiedeva una spiegazione parte [Delphy, Leonard 1992]. Nel 1976 l’assemblea plenaria del Tribunale internazionale dei crimini contro le donne, presieduto da Simone de Beauvoir, votava «quasi all’uninamità» una risoluzione presentata dai gruppi per il salario aderenti al CIF, in cui si dichiarava che
il lavoro domestico non pagato è una rapina; che questo lavoro, e la sua mancanza di salario, costituisce un crimine da cui derivano tutti gli altri; che questo lavoro ci marchia a vita come sesso debole e ci consegna senza potere ai padroni, agli agenti del governo e ai legislatori$, ai medici, alla polizia, alle istituzioni carcerarie e psichiatriche, così come agli uomini, per una vita di servitù e di reclusione. Chiediamo un salario al lavoro domestico per tutte le donne, pagato dai governi del mondo. Ci organizziamo internazionalmente per riappropriarci della ricchezza che ci è stata rubata in tutti i paesi, e per mettere fine ai crimini commessi contro di noi ogni giorno [Russell, Van de Ven 1976: 199].
L’approvazione «quasi unanime» del documento non rifletteva un’adesione altrettanto massiccia delle duemila femministe riunite a Bruxelles all’indicazione fondata sulla rivendicazione economica come asse centrale a partire da cui impostare tutte le lotte. Essa indicava in maniera eloquente, tuttavia, il livello di popolarità raggiunto da un’analisi della condizione delle «senza salario» da cui poche, all’epoca, avrebbero potuto prescindere.
In Italia, la questione del lavoro domestico aveva cominciato a fare capolino già nei documenti del femminismo radicale statunitense che, all’inizio degli anni Settanta, circolavano attraverso l’antologia Donna è bello [Anabasi 1972]. Di lavoro domestico come di «ciò che determina in prima istanza la donna» parlavano, in un altro testo di quegli anni molto noto alle femministe italiane come La coscienza di sfruttata, le trentine del Cerchio Spezzato [Abbà et al. 1972: 115]. Il gruppo di Rivolta Femminile dal canto suo, pur rimanendo programmaticamente appartato rispetto alle espressioni di movimento più motivate all’uscita sul sociale, non si era limitato a un accenno elusivo all’opportunità di «sfatare il mito della laboriosità sussidiaria» delle donne; il primo manifesto di Rivolta identificava a chiare lettere «nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere» [Rivolta Femminile 1970: 8].
La novità che le femministe del salario introducevano all’interno di una discussione che aveva toccato tutte le frange del movimento era un drastico supplemento di ambizione teorica e di determinazione strategica. Il lancio della parola d’ordine del salario al lavoro domestico come «un’indicazione di lotta e una direzione in termini organizzativi» [Dalla Costa 1972: 53], contenuta in una nota di Potere femminile e sovversione sociale e via via formalizzata negli incontri internazionali del CIF, si esponeva perciò stesso a reazioni ambivalenti. Se per un verso infatti il lavoro di Dalla Costa si inseriva nella corrente viva del femminismo dando voce a fenomeni di insubordinazione interpretabili come «estraneità delle donne al cosiddetto bene comune» [Dalla Costa, Fortunati 1976: 14], per altro verso il richiamo perentorio alla necessità della «direzione organizzativa» doveva suscitare forti diffidenze all’interno di un movimento in gran parte persuaso — per quanto riguarda le forme dell’aggregazione politica —di poter affidare all’informalità l’onere di logorare il paradigma maschile di gestione del potere. Mal si adattava alla propensione diffusa per un modello organizzativo reticolare e policefalo la spinta centralizzatrice finalizzata a «dare ordine al fiume in piena del femminismo» attraverso una codificazione particolarmente rigida dei rapporti tra ‘vecchie’ e nuove reclute, che poteva per esempio arrivare al punto di decretare l’apertura della sede padovana di Lotta Femminista alle nuove secondo orari prestabiliti, «per non fare da freno al lavoro politico» [Zanetti 1998: 199-200]. La stessa Lotta Femminista, d’altronde, sarebbe stata attraversata da un grosso dibattito al riguardo: il rischio di veder riprodotto il modello organizzativo di Potere Operaio era avvertito e criticato (in Emilia Romagna, a Milano, a Venezia, a Firenze) dalle sezioni del gruppo che, pur non praticando ufficialmente l’autocoscienza, dedicavano una parte consistente del confronto tra donne ai temi della vita quotidiana di ognuna e avevano integrato il proprio bagaglio con la lettura di Carla Lonzi e dei testi del femminismo radicale statunitense
Un ulteriore elemento di distinzione rispetto alle punte alte del dibattito coevo era dato, come si è accennato, dalla scelta di interpretare il lavoro domestico gratuito come un modo di produzione e riproduzione indissociabile dalla società salariale. Mentre in Francia la tendenza materialista aveva isolato il «nemico principale» inquadrando il lavoro domestico all’interno di un modo di produzione patriarcale teoricamente indipendente dal processo di accumulazione capitalistica [Delphy 2013], le femministe del salario escludevano risolutamente la possibilità di concepire un capitalismo — diremmo oggi — gender blind, situato accanto al modo di produzione patriarcale: capace, cioè, di far funzionare la catena complessiva della produttività sociale senza attingere alla riserva gratuita di lavoro domestico e senza utilizzare il salario come leva di comando sul lavoro non retribuito.
Infine, l’aspetto più di altri destinato a provocare scandalo (molto più di quanto potesse suscitarne all’epoca l’evocazione del free love, come ha giustamente notato Adrienne Rich parlando della campagna Wages for Housework), e a generare controversie anche all’interno del CIF relativamente all’impostazione dell’intervento nei diversi contesti in cui i gruppi operavano, era la richiesta di free money. Limitarsi a deplorare l’assegnazione femminile al lavoro domestico non retribuito senza andare oltre avrebbe significato, secondo le teoriche del salario, rassegnarsi ad accettarne la gratuità [Lotta Femminista 1974]. Naturalmente non mancavano dei precedenti storici a cui rifarsi, per quanto riguarda la richiesta di retribuzione alla prestazione domestica: si è soliti citare, al riguardo, il movimento delle Welfare Mothers afroamericane o quello inglese delle Unsupported Mothers, madri sole avevano formato comitati per ottenere un salario in cambio del lavoro svolto a casa. Risalendo ancora più indietro nel tempo, si possono trovare già nel xix secolo correnti femministe orientate alla richiesta di retribuzione del lavoro casalingo. Ma la novità dirompente legata alla prospettiva del salario al/contro il lavoro domestico consisteva nel rivendicare soldi non a titolo di scambio, bensì soldi sganciati dalla prestazione e rivendicati in cambio di nulla come condizione necessaria per riguadagnare livelli accettabili di controllo sul proprio tempo, sul proprio corpo e sulle proprie relazioni. Questa doveva essere la condizione ― la «leva di potere» ― per ricontrattare con lo Stato e con la società la posizione delle donne e le condizioni generali della riproduzione. Come si legge ne Le operaie della casa:
Una leva di potere per cui le donne riescano in una posizione di forza a contrattare le condizioni del lavoro domestico stesso, le condizioni del lavoro esterno, le condizioni dei servizi, le condizioni della procreazione e della sessualità. Visto allora che questo del “crearsi una leva di potere” è il reale problema che sottosta a qualunque lotta sul lavoro di casa, sul lavoro esterno, sui servizi, sulla procreazione e sulla sessualità, noi diciamo: Non si può denunciare solamente, e per di più unanimemente, il lavoro domestico come primo anello della catena che sfrutta tutte le donne e fermarsi alla denuncia, come fanno larghe sezioni del Movimento femminista.Adesso che invece di piangere sole nelle case, come spesso hanno dovuto fare le nostre madri, credendo di essere le uniche disgraziate, abbiamo scoperto di essere milioni nella stessa condizione, la consapevolezza di essere milioni ci dà un’altra possibilità: Lottare. D’altronde non si può, come altre sezioni del Movimento fanno, saltare dalla denuncia della gratuità del lavoro domestico alla lotta sul lavoro esterno o sui servizi. Perché sarebbe fare il gioco che i riformisti ci hanno sempre costretto a fare e che ci ha condannato all’impotenza: andare a lottare su un secondo fronte dove eravamo in poche e non lottare sul primo dove ci siamo dentro tutte [Collettivo Internazionale Femminista 1975: 22].
Vorrei parlare di due parole, “vergogna” e “speranza”. Sono due parole che nel nostro mondo di sottigliezze e prodigi tecnologici sembrano arcaiche, generiche, grezze. Oppure, come si suol dire, retoriche. Però le parole non sono come le App, non se ne inventano di nuove tutti i giorni.
Purtoppo ti amo, di Federico Pacini, Editrice Quinlan, 2013
È una visione del mondo – da fotografo, ha già spiegato Susan Sontag – e un’immagine dell’Italia, fatta di accostamenti incongrui, di tempi stratificati, di stili e dettagli inspiegabili, che tuttavia stanno insieme e formano una enigmatica “metafisica” unità.
Così è infatti l’insieme del libro di Pacini: diversi filoni tematici sparsi e ritmati nelle ricorrenze e negli incastri, dove gli accostamenti tra immagini successive arricchiscono le singole e intrecciano i temi.
(da: Il proprio sentire, nota introduttiva di Elio Grazioli)
Federico Pacini (Siena 1977) è laureato in Scienze Politiche. In ambito fotografico ha ricevuto importanti riconoscimenti a livello internazionale: second place with Honorable mension IPA 2009 International Photography Awards Lucie Awards (new York, Lincoln centre, 19th october 2009) per il libro 00001735. tif; second place PX3 Competition 2010 – Prix de la Photographie Paris per il libro 00001735.tif. Dal 2004 al 2012 ha realizzato inoltre varie pubblicazioni e diverse esposizioni sia in italia che all’estero.
(Alberto Giorgio Cassani ha scritto un libro complesso e affascinante – Figure del ponte: Simbolo e architettura, Pendragon, Bologna, 2014 – che sa spaziare, enciclopedico, dalla letteratura alla filosofia, dalla architettura alla storia, etc. Qui ci regala un testo inedito sull’argomento del suo saggio, e noi per questo lo ringraziamo. G.B.)
Simboli e metafore di una figura architettonica
di Alberto Giorgio Cassani
Creare ponti e non alzare muri. Questo è l’aforisma newtoniano – un altro segno dei cambiamenti epocali della Chiesa Cattolica? – lanciato al mondo da papa Francesco. E come sarebbe potuto non essere, venendo dal Ponti-fex Maximus, il costruttore di ponti? La società, invece, sta andando esattamente nella direzione opposta: i muri reali costruiti da Israele nei confronti dei Palestinesi, i muri virtuali che si levano alle frontiere per non far passare i migranti da un paese all’altro, i fondamentalismi di ogni genere che stanno fomentando gli odî fra i popoli. L’archetipo e la metafora del ponte come simbolo del collegare, del lanciarsi di là dall’ostacolo, nella volontà di unire e non dividere sembra sempre più un’immagine retorica e impopolare in questi tempi d’intolleranza, lacerazioni e paure.
Ma il ponte è davvero quella cosa che unisce due sponde opposte creando un legame che supera due polarità? O nel ponte si nascondono altri aspetti, celati nell’immagine apparentemente pacificante e di più scontata evidenza?
Rudyard Kipling nel 1925.
Nel 1893, Rudyard Kipling pubblicò un formidabile racconto dal titolo The Bridge-Builders, I costruttori di ponti . In quel testo sono contenute tutta la profondità e tutte le aporie che ruotano intorno alla figura di cui stiamo ragionando.
Il ponte, qui, è la rappresentazione della Tecnica dispiegata dell’Occidente che pretende di conquistare il mondo e davanti alla quale niente può resistere: religione, tradizioni, miti, leggende; in una parola, tutto ciò che ha a che fare con il “sacro”. Il rappresentante di questo Abendland è l’ingegnere Findlayson. Inglese, padrone della propria scienza, basa la sua visione del mondo sulla sicurezza dei calcoli matematici. Non ha fatto i conti, però, con il sacro, l’“irrazionale”. Kypling sa bene che le acque sono sacre e che i ponti sono sacrileghi. Certamente non poteva aver letto il meraviglioso libro di Anita Seppilli, di là da venire, dedicato proprio a questo tema: perché il ponte «non solo affonda i suoi piloni nel sottosuolo [come fanno tutte le costruzioni dell’uomo, tutte profananti l’intangibilità del sacro e tutte, perciò, richiedenti un sacrificio compensatorio, NdA], ma anche dissacra la corrente dei fiumi – delle acque, così cariche di valenze sacrali, e già esse stesse in comunicazione con l’oceano infero, col mondo dei morti – le varca, le aggioga, e persino penetra a volte nella profondità del loro alveo» .
È proprio ciò che fa il ponte di Findlayson (erede letterario dei tanti ponti che Isambard Kingdom Brunel costruì in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo): ben ventisette piedritti di mattoni “profanano” le sacre acque del Gange, nel racconto chiamato Madre Gunga, e rappresentato, come animale totemico, dal Coccodrillo.
Findlayson, in questa sua opera creatrice, è come un dio: «con un sospiro di soddisfazione vide che la sua opera era buona» , con evidente rimando a Genesi I 10. Kypling, da grande scrittore, ci manda dei segnali inequivocabili: il ponte è «nudo e crudo come il peccato originale» , dunque ha commesso un sacrilegio che richiede un’espiazione e una vittima sacrificale. In una notte di tregenda, il sangue è proprio ciò che chiede Madre Gunga all’Assemblea degli dèi del pantheon Indù, riunita in seduta straordinaria. Dopo aver fatto ingrossare talmente le acque che persino il razionalista Fyndlayson si mette a pregare per la salvezza del suo ponte, Madre Gunga chiede infatti giustizia agli dèi suoi sodali per l’oltraggio subito. Krishna, alla fine di un’animata discussione, s’incarica di spiegare a tutti come andranno le cose con l’uomo bianco: «Troppo tardi, ormai. Avreste dovuto ammazzare all’inizio, quando gli uomini venuti di là dal mare non avevano insegnato nulla alla nostra gente. Ora che il mio popolo ha sotto gli occhi il loro operato, la cosa gli dà da pensare. E a tutto pensa meno che ai celesti. Pensa invece al carro di fuoco e alle altre cose che i costruttori di ponti hanno fatto, sicché, quando i vostri preti tendono la mano chiedendo l’elemosina, dà poco e a malincuore. Questo è solo l’inizio» .
Kypling non poteva immaginare che, un giorno, una parte del mondo non occidentale avrebbe rifiutato la Tecnica dispiegata – tranne quella della comunicazione mediatica – in nome di una Tradizione altrettanto pervasiva e massimalista, tagliando teste nel folle tentativo di ridisegnare il mondo secondo una lettura settaria del Corano. Kypling, ai suoi tempi, vedeva ancora (con quanto entusiasmo?) la vittoria dell’Occidente sui valori tradizionali del mondo orientale.
Ma Kypling non aveva inventato nulla. Nel testo che è all’origine della cultura occidentale, I persiani di Eschilo, il motivo della sconfitta di Serse contro i Greci è individuato unicamente nel peccato di arroganza (hybris) del Grande Re, come riconosce l’ombra del padre Dario: aver “aggiogato” con catene “da schiavo” il sacro Ellesponto: «E mio figlio, ignorando queste profezie, le ha portate a compimento per giovanile temerarietà [thrásos i.e. hybris]: lui che pensò di trattenere con legami lo scorrere del sacro Ellesponto, la divina corrente del Bosforo, quasi fosse uno schiavo, e tentò di trasformare lo stretto, e chiudendolo in ceppi forgiati col martello creò un’ampia strada per un ampio esercito. Pur essendo mortale gli dèi tutti, e in particolare Posidone, credette di dominare, con mente non retta: come potrebbe non essere una malattia dello spirito questa che si è impossessata di mio figlio?» . Il ferro, il metallo, frutto del lavoro “demoniaco” del Fabbro, con cui Serse forgia le catene, si sa, non può venire in alcun modo in contatto col sacro. Ecco perché il ponte Sublicio, l’unico collegamento per secoli tra le due rive del Tevere, era costruito unicamente con travi di legno (sublicæ) e chiodi di bronzo e la sua cura era riservata al Pontifex Maximus. Ma anche tale ponte esigeva sacrifici, di cui è chiaro segno l’antichissimo rituale del 14 (o 15) maggio, ricordato anche da Ovidio ne VI libro dei Fasti, in cui le Vestali gettavano nel fiume ventisette fantocci di giunchi, detti Argèi, con i piedi e le mani legate: un inequivocabile gesto di “sacrificio”, di là dal vero significato, a tutt’oggi discusso dagli storici.
George Washington Bridge di New York
Il ponte non è dunque quella semplice «strada fatta sopra dell’acqua» come lo definisce il pur grande Palladio, o quella linea che mira al suo scopo, con riferimento al Washington Bridge di New York, dell’altrettanto grande Ludwig Mies van der Rohe .
È molto di più. Se ne era accorto, alle soglie del XIX secolo, il “rivoluzionario” architetto Claude-Nicolas Ledoux che, in una tavola illustrante il progetto dell’École rurale de Meillant ,aveva inquadrato quest’ultima attraverso l’arcata di un ponte progettato lì accanto. Un unico grande arco ribassato, vagamente ellittico, simile ad un occhio – diviso da colonne doriche a formare una grande finestra termale – inquadra il paesaggio e l’École. Il ponte di Ledoux sembra l’anticipazione, oltre un secolo prima, della figura (Heidegger scrive propriamente: «das Ding») filosofica del Brücke di cui parlerà Martin Heidegger: il ponte come riunione della Quadratura ; Cielo, Terra, Divini e Mortali sono qui ricongiunti dal ponte. In verità, nell’immagine di Ledoux non vediamo gli dèi; ma, essi sono presenti nella celebre planche 33 del suo trattato (1804) , e, dunque, è lecito presupporli nascosti da qualche parte.
Claude-Nicolas Ledoux, École rurale de Meillant
Sono invece presenti le altre tre componenti della Quadratura: Cielo, Terra e Mortali. Il Cielo, in parte inquadrato dall’arco del ponte e in parte sullo sfondo al di sopra di esso, è esaltato dalla presenza di un arcobaleno, ponte celeste esso stesso e simbolo, in molte culture, dell’unione tra Cielo e Terra. L’arco del ponte scavalca il piccolo fiume, ma ben dodici piloni s’infiggono nella sua corrente. Nonostante questo, la Terra non pare essere perturbata dal “sacrilegio”: le acque del ruscello scorrono tranquille e, sullo sfondo, un paesaggio fatto di lievi colline, di arbusti e di verde rende quasi l’immagine di un piccolo idillio, di un locus amœnus. E i Mortali cosa fanno? Utilizzano il ponte in tutte le sue parti: una carrozza lo attraversa, senza notare nulla di ciò che accade sotto il ponte: che alcuni cavalieri portano ad abbeverare i loro cavalli lungo la riva del fiume; che delle donne lavano i panni nella corrente; che un barcaiolo attraversa lentamente il fiume; che, sullo sfondo, ci sono figure di donne con bambini. Il punto di vista ribassato, scelto da Ledoux, non fa altro che enfatizzare questa visione di ciò che accade sotto il ponte (e sappiamo quanta viva vissuta sotto i ponti sfugga ai nostri occhi che i ponti li usiamo solo per attraversarli). In verità c’è un altro personaggio un po’ eccentrico rispetto a questo quadro quasi di genere: è un giovane, fermo sul ponte, apparentemente agitato perché un colpo di vento gli ha fatto volare il cappello a larghe tese. Un unico momento di pathos, all’interno della perfetta Quadratura. Sappiamo che i ponti sono i luoghi prediletti per i suicidi-sacrifici.
Friedrich Nietzsche ritratto da Munch nel 1906
Tra Otto e Novecento, la figura del ponte assume la sua piena consistenza “filosofica”, arricchendosi via via di nuove caratteristiche: dalla sua presenza come figura centrale nella filosofia nietzschiana – il ponte come figura di transito: «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo – un cavo al di sopra dell’abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione» . Senza dimenticare, però, gli “esili ponti” che il filosofo di Röcken utilizza come immagine degli antichi valori che la corrente del fiume travolge e distrugge ; alla fondamentale riflessione di Georg Simmel, nel mai troppo ricordato saggio Brücke und Tür del 1909, in cui, per la prima volta, accanto alla funzione del collegare appare quella, inscindibile con essa, del separare: «Astraendo due cose dalla imperturbata situazione della natura, per designarle come “separate”, noi le abbiamo già nella nostra coscienza riferite l’una all’altra, le abbiamo distinte entrambe, insieme, nei confronti di tutto ciò che sta loro in mezzo. E viceversa: noi sentiamo come collegato, soltanto ciò che abbiamo in precedenza e in qualche modo isolato. Le cose devono essere prima divise l’una dall’altra, per essere poi unite. Dal punto di vista pratico come da quello logico, sarebbe senza senso legare ciò che non era diviso, ancor più: ciò che in qualche modo non rimane ancora diviso» ; alla già citata visione heideggeriana del ponte come quella cosa che «riunisce la Quadratura», e che crea un «luogo»: «Il luogo – infatti, per il filosofo di Meßkirch – non esiste già prima del ponte. Certo, anche prima che il ponte ci sia, esistono lungo il fiume numerosi spazi (Stellen) che possono essere occupati da qualcosa. Uno di essi diventa a un certo punto un luogo, e ciò in virtù del ponte. Sicché il ponte non viene a porsi in un luogo che c’è già, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte» .
Franz Kafka nel 1906
Ma, a distruggere parzialmente quest’idea così “pacificante” del ponte, aveva pensato nel 1916 un racconto di Kafka intitolato semplicemente DieBrücke: anche qui, all’inizio, il ponte sembra apprestarsi a svolgere il suo compito storico di condurre di là dell’abisso lo sconosciuto che lo attraversa: «Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano» . Ma costui infligge inspiegabili torture al ponte con un bastone dalla punta acuminata e il ponte, dimenticando la sua rigidità strutturale, si volta sorpreso per vedere in viso lo sconosciuto, sancendo, in tal modo, la sua fine. Infatti, «una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» .
Il ponte Moderno è compreso tra questi quattro momenti: in una complessità di aspetti che include, insieme, la molteplicità delle forme dei ponti, dall’antichità ad oggi. Come non rimanerne “sommersi” ermeneuticamente? Come cercare un filo conduttore in mezzo a tante, apparentemente infinite, figure di ponti? Simmel ce ne ha fornito la prima, decisiva, traccia: un ponte collega ma, al tempo stesso, separa-divide. È necessario proseguire sulle orme del grande filosofo e sociologo berlinese. Il ponte unisce e divide, dunque, ma è anche sospeso – e, in tal caso, snon sacrilego, come afferma l’assistente di Findlayson, l’indigeno Peroo: «A me piacciono i ponti so-spe-si, che volano da una sponda all’altra, con un solo grande balzo, come una plancia. Allora non c’è acqua che può far danni» –; è isolato e abitato; può crollare, o solo fingere il crollo (come il ponte berniniano di palazzo Barberini a Roma, o la Teufelsbrücke di Friedrich Ludwig Persius a Potsdam (1838) ; può infine, addirittura, muoversi (come i viadotti di Paul Klee nel loro tentativo di Revolution (1937).
Friedrich Ludwig Persius a Potsdam, Teufelsbrücke
È quanto ho cercato di fare col libro Figure del ponte: Simbolo e architettura. Mantenendo intatta la complessità e singolarità di ciascun ponte, vedere quale aspetto predominasse, attraverso le griglie interpretative sopra ricordate. Scoprendo, naturalmente che uno stesso ponte può unire, ma anche dividere o tentare un (impossibile?) movimento, come il puente de la Mujer a Puerto Madero di Santiago Calatrava, col suo pilone inclinato come un ballerino di tango sulla sua tanguera.
«Allora io capisco […] – scriveva il grande Alberto Savinio – perché d’altra parte tanto amore io sento per il mondo ‘di là dal ponte’» .
Santiago Calatrava, puente de la Mujer a Puerto Madero
[È morto il 30 agosto Oliver Sacks. Lo ricordiamo con questo pezzo.]
di Eugenio Lucrezi
Oliver Sacks, Emicrania, Adelphi, Milano 1992
«Considerati come organismi fisici, siamo tutti più o meno simili, nel senso che i nostri corpi hanno un repertorio limitato di sintomi; e questo rende possibile diagnosticare i casi di emicrania, o distinguerli, che so, da quelli di asma o di epilessia. Ma se si prende in esame la nostra personalità cosciente, quella che dice Io, ecco che diventiamo tutti unici: il che significa che non esistono due casi di emicrania uguali tra loro, e che la stessa terapia può avere successo con un paziente e risultare inefficace con un altro».
Sulla frontiera, una di fronte all’altra, stanno in piedi due guardie, immobili come statue di pietra, l’una a guardia dell’altra.
Al di qua e al di là della frontiera si stendono due terre che un tempo erano la stessa terra.
I mondi, o le Potenze, o i due colori, il Blu e il Rosso, un tempo erano la stessa sostanza, un’unità in quiete, completa e senza ombra di rottura, senza premessa di deflagrazione.
La frontiera è la prova che l’unità non è stabile. Ciò che è coeso oggi non può esserlo domani. Lo zero genera l’uno, l’uno genera il due. Ciò che è quieto trema in un punto preciso ma indefinibile. La rottura si manifesta a partire dall’indivisibile.
Nessuno, neppure le Sfere, è a conoscenza di come si sia arrivati a vivere dietro la frontiera. La memoria ha smarrito le cause del conflitto, sono stati sparigliati gli antefatti e la cronologia.
È certo solo che c’è stato un antefatto, dei tumulti hanno preceduto l’apparizione di due fazioni, dapprima diverse in filigrana e poi perfettamente distinguibili. I contrasti hanno preceduto la presa delle armi e la guerra civile.
Se potessi farei solo buche nella terra. Col vento e con la pioggia, nel solleone più incandescente, dove ogni respiro è fuoco nei polmoni, quando l’inverno mi morde le dita: l’importante
Con l’episodio Omega Station, trasmesso in Italia dieci giorni fa, si è conclusa la seconda stagione di True Detective. Si è trattato, a detta di molti, di una piccola rivoluzione nel mondo delle serie televisive, narrazioni che a torto o a ragione sono considerate come l’ennesima ulteriore nuova vita dell’immaginario romanesque. Sicuramente gli addetti ai lavori sapranno con parole migliori delle nostre, di semplici spettatori, in che modo e attraverso quali dispositivi narrativi, cinematografici, televisivi, questo passaggio di testimone dal romanzo alla serie sia accaduto, sempre che questo sia realmente successo.
Ad ogni modo, grazie a un’amica francese, Sylvie, ho scoperto su Libèration, una lunga intervista a Chris Marker, vero rivoluzionario dell’immagine, autore di due capolavori come La jetée e Sans Soleil e mi ha molto colpito un passaggio in particolare:
“(…) Et mon besoin de fiction s’alimente à ce qui en est de loin la source la plus accomplie : les formidables séries américaines, style The Practice. Là il y a un savoir, un sens du récit, du raccourci, de l’ellipse, une science du cadrage et du montage, une dramaturgie et un jeu des acteurs qui n’ont d’équivalent nulle part, et surtout pas à Hollywood.”
Se fosse stato ancora in vita mi sarebbe piaciuto davvero sapere cosa avrebbe potuto dirci di questa serie che è stata per me un vero e proprio coup de cœur. La forza dei personaggi, la scrittura, sia nei lunghi monologhi, di teatro senza teatralità, che nei dialoghi colti, il tipo di inquadratura, il tono, in verità assai cupo, senza essere apocalittico, estremamente umano nel percorrere tutte le zone d’ombra delle vicende raccontate, ne sono all’origine. Per quanto True detective abbia trovato molti estimatori tra i miei amici, semplici lettori o complicatissimi scrittori, ho riscontrato pareri discordi soprattutto sulla seconda stagione che per quanto mi riguarda ho trovato avvincente come la prima, anche se per ragioni diverse.
Così ho ripescato su Télérama questa lunghissima intervista a Nic Pizzolatto , creatore della serie, poco dopo il grande successo ottenuto dalla prima stagione. Ho provato a tradurla per i non francofoni sperando di animare una discussione che mi sembra di non sterile attualità.
effeffe
Nic Pizzolatto : “‘True detective’ est une série d’investigation… sur la personnalité de ses héros”
a cura di Pierre Langlais (23/04/2015.)
In che genere classificherebbe True Detective? Tra i thriller?
Questo è un po’ riduttivo. Si tratta di una serie investigativa… della personalità dei suoi protagonisti. Più vicino a quello che viene definito procedural drama, una forma di letteratura poliziesca, che non un thriller puro.
Ha iniziato in televisione, scrivendo due episodi di The Killing, il remake americano della serie danese. Che cosa ha tratto da questa esperienza?
Era il mio primo lavoro in campo televisivo. Prima di allora, ero professore universitario. La mia fortuna è che lo showrunner di The Killing permetteva agli sceneggiatori di produrre loro stessi gli episodi che avevano scritto. Il che mi ha permesso di formarmi sul terreno in modo abbastanza efficace. Due mesi dopo aver lasciato la facoltà, mi sono ritrovato in piene riprese, produttore del mio episodio, cosa che assai corrisponde alla mia visione della creazione artistica: gettarsi a capofitto nel lavoro, prendere le cose come vengono. The Killing mi ha insegnato tutto quello che so sulla televisione. Chi fa cosa, come funziona un’agenda, cosa vogliono gli attori, cosa si presume che faccia lo showrunner, etc. . È questa esperienza che mi ha dato la certezza che nel caso in cui avessi dovuto lanciare una mia propria serie avrei voluto averne il controllo assoluto.
Lei è uno scrittore, ha esordito con la pubblicazione di un Polar, Galveston. Cosa l’ha spinta a mettere da parte la letteratura per fare della televisione?
Vengo dal sud della Louisiana, una zona molto rurale, e la televisione era per me la prima finestra aperta sulla cultura, sul mondo al di là dei campi intorno a casa mia. Mi sono sempre sentito vicino al mondo della televisione, il piccolo schermo ha sempre esercitato un fascino su di me. Dennis Potter [scrittore di fiction per la BBC tra gli anni ‘60 e 80, autore di The Singing Detective, ndr] è uno dei più grandi scrittori del dopoguerra. Intorno al 2003 o nel 2004, quando HBO mandava in onda contemporaneamente I Soprano, The Wire e Deadwood, mi sono reso conto che queste serie soddisfacevano il mio appetito di storie più dei romanzi contemporanei che leggevo. Sembravano più vitali, più viscerali, parlavano in modo diretto di ciò che stava accadendo nel nostro mondo. Allo stesso tempo, ho imparato che cosa sia uno showrunner, e il fatto che in televisione, lo sceneggiatore sia l’autore, colui che controlla la storia. L’idea che si possa lasciare il proprio segno in una serie come per un romanzo mi ha sedotto del tutto. C’erano così tante barriere sociali, geografiche ed economiche, tra uno come me e la gigantesca macchina che produce le serie che non pensavo di poterne fare un giorno. La mia speranza era che perfezionando la mia arte, la scrittura, dovevo poterla declinare in ogni tipo di media, che ai miei occhi si equivalgono. Per ora, i miei romanzi sono le mie serie.
True Detective, visto che stiamo ancora parlando di letteratura, è una serie che “si racconta” attraverso due narratori, i suoi due protagonisti. Perché ha scelto questa struttura?
Vuole dire della natura discorsiva, conversativa, di True Detective, e del fatto che gran parte della serie si limiti a inquadrature fisse su dei tipi mentre raccontano la loro storia? Che non succeda nulla, tranne due figuri che parlano alla telecamera? I personaggi sono tutto quel che conta per me. Ed è quello che intriga le persone quando guardano True Detective. Anche se sono convinti di essere interessati alla storia per sé, a mio parere, se vengono, è per Cohle e Hart. Il documentarista Errol Morris e il regista Mike Leigh per me sono quelli che catturano il più efficacemente, e sottilmente, i loro personaggi, con tutte le loro sfumature e contraddizioni. Mi riferisco in particolare alla pellicola di Errol Morris The Thin Blue Line, su un condannato a morte, accusato ingiustamente, in Texas. È un’opera che mi ha ispirato per la struttura di True Detective, e che mi ha fatto capire che si potevano dire molte cose con una inquadratura fissa su un personaggio che parla rivolto alla telecamera.Mi sono detto che se avessi usato questa cosa nella progressione naturale del racconto, avrei potuto scrivere una serie piena di monologhi. È la storia di personaggi che raccontano una storia. Ascolteremo quello che è successo, quello che dicono che sia successo, e che pensiamo stia per accadere. Del resto è una trama molto semplice, molto diretta, che non cerca mai di stupirvi con un impossibile rovesciamento della situazione .
Matthew McConaughey è vicino al Rust Cohle che aveva immaginato?
È esattamente il Rust Cohle che avevo scritto, compreso il suo aspetto. Ho scritto i primi due episodi di True Detective senza sapere da chi sarebbero stati interpretati i protagonisti, ma in seguito ho adattato il mio lavoro su Matthew McConaughey e Woody Harrelson. Per esempio, entrambi hanno una specie di virilità vecchia maniera del sud. Così ho provato a confrontarmi con questo, e a impregnarne i personaggi. La mia fortuna è che Matthew è riuscito a incarnare Rust esattamente come lo avevo scritto. I monologhi di Rust non sono alla portata di qualsiasi attore.
Dei monologhi di Rust sono state fatte delle parodie …
Alcune di queste parodie sono esilaranti! Stanno a dimostrare che la serie ha avuto un grosso impatto, e che Rust è diventato un’icona. D’altronde volevo che i miei due protagonisti fossero degli archetipi, in modo che dopo True Detective, qualsiasi sceneggiatore che avesse deciso di scrivere una serie su un paio di poliziotti ci avrebbe dovuto pensare due volte.
Tornando a monologhi, qualcuno ha detto che sono vuoti, chiacchiericcio senza fondo …
Si sbagliano. Alcuni americani hanno un problema serio nel prendere in considerazione le idee espresse senza ironia. Ecco, io non ho tempo da perdere con l’ironia. L’ironia è povera, adolescente è un modo maldestro di evitare di assumersi la responsabilità delle proprie opinioni, di proteggere se stessi. In certi ambienti intellettuali conviene pensare che Rust dica cose ridicole, ma in tal caso a queste persone direi che Schopenhauer scriveva cose assurde, come del resto Emil Cioran. Rust non è uno studente che delira mentre si fuma un cannone, esprime le idee di filosofi pessimisti e antinatalisti. Se i suoi monologhi hanno turbato o infastidito così tante persone è la prova che contengono qualcosa di giusto …
True Detective inizia nel 1995, anno di uscita sugli schermi di Seven di David Fincher, un film su un serial killer che un po’ ricorda la sua serie. È per questo che ha scelto il 1995?
Assolutamente no! Volevo che la serie si estendesse su un tempo sufficientemente lungo in modo che si potesse osservare un reale cambiamento, o la mancanza di un’evoluzione nei personaggi. I figli di Marty dovevano avere il tempo di crescere, per esempio. Nel 1995, abitavo ancora in Louisiana. Ci ho vissuto lì fino ai ventidue anni. Così mi sono sentito a mio agio nella descrizione e nella costruzione di questo universo
Due parole sullo stile, l’atmosfera di True Detective, compreso il fatto che alcuni abbiano definito la serie come “cinematografica” …
Lo stile della serie deve tutto ad Adam Arkapaw, il nostro direttore della fotografia [anche direttore della fotografia di Top of the Lake, ndr]. Non è merito del regista Cary Fukunaga, né tanto meno il mio. In quasi il 90% delle scene, abbiamo utilizzato attrezzature e format televisivi convenzionali, e sono persuaso che la gente sia rimasta assai sorpresa dalla realtà degli elementi di scena della Louisiana, si siano sicuramente convinti del fatto che avessimo creato un posto magico, quando poi non abbiamo creato assolutamente nulla! Non abbiamo quasi mai costruito dei set! Inoltre, non credo che si possa dire che questo è un film di otto ore. So che le persone pensano di fare un complimento quando dicono che una serie è “come un film”, ma in realtà è riduttivo. In America, le serie sono indubbiamente superiori al cinema da almeno dieci anni a questa parte. Permettono di fare cose inconcepibili per il cinema. In True Detective, ci vogliono tre ore per arrivare a conoscere i personaggi, capire chi siano, le loro contraddizioni e i loro valori. Ben prima che l’azione, la suspense della serie cominci per davvero! È impossibile per il cinema. La versione grande schermo di True Detective inizierebbe con il quarto episodio!
Le teorie più strampalate sono circolate su Internet mentre mandavano in onda True Detective. Come l’ha presa tutta questa agitazione?
Non me ne sono immischiato! Dopo il secondo episodio, ho lasciato Internet. Non voglio né moderare, né controllare, né tantomeno partecipare alle discussioni intorno al mio lavoro. Il mio ruolo è quello di fare la serie. Punto. Una cosa però l’ho imparata ed è che se dodici milioni di spettatori seguono una serie, ci saranno quasi altrettante esperienze e interpretazioni. Ho anche capito che se si scrive un’opera con un sottotesto, si rischia di non essere capiti correttamente. Comunque sia, io non voglio rinunciare al sottotesto. Una parte del pubblico si lascerà andare in interpretazioni deliranti? Lasciamoli pure nei loro deliri. È una delle conseguenze del successo della serie.
Nella serie, Rust Cohle ha delle visioni. Capitano anche a lei quando scrive?
Non nel senso religioso del termine, in ogni caso. Non sono un tipo religioso. Soffro di una forma blanda di sinestesia, che era molto più forte quando ero bambino. Prima di diventare uno scrittore, ero un pittore. Quindi, penso ancora molto visivamente. Vedo delle immagini prima che diventino parole. La Louisiana, dove sono cresciuto, è un posto allucinogeno. Sono sempre stato attratto da artisti dotati di visioni metafisiche. Per esempio, c’è molto William Blake in True Detective. Non credo che ci sia un mondo soprannaturale, ma penso che gli esseri umani abbiano accesso a certe cose che non possiamo spiegare razionalmente.
Conta di tornare al romanzo?
Uno dei problemi della televisione e del cinema è che costano cari. Allora bisogna autocensurarsi, porre dei limiti. Quando si scrive un libro, non è necessario scendere a compromessi. Ci può essere un tempo, in un futuro non così lontano, in cui la televisione o il cinema potrebbero andarmi stretti, dove avrò bisogno di tornare alla libertà e alla semplicità delle parole su una pagina.
Che cosa ci può dire in merito alla seconda stagione di True Detective ?
Non sono sicuro di poterle dire granché. Sul versante della scrittura i primi due episodi sono pronti. Ci sarà sicuramente da iniziare il casting a maggio o giugno. La storia si svolge in California, ma non nella California che si è abituati a vedere in tv o nei film. Ci saranno tre personaggi principali, e sono già molto eccitato, affascinato dal loro linguaggio e dalla loro personalità. Speriamo di iniziare la produzione in autunno, in modo da mandarlo in onda probabilmente per febbraio 2015.
Milano, estate 1792. La grande e moderna città, fulcro dell’Illuminismo italiano, viene scossa dalla notizia di alcune morti violente avvenute nelle campagne circostanti. Le vittime, uccise a pochi giorni di distanza le une dalle altre, sono tutte molto giovani, bambini o ragazzi, per lo più intenti a pascolare il bestiame o a svolgere qualche attività nei campi o nei boschi. Ad aggredirle e ucciderle per poi fare scempio dei loro corpi e cibarsene è una misteriosa «bestia feroce» che alcuni identificano in un lupo, altri in una iena scappata da un circo itinerante, altri ancora in una creatura soprannaturale e demoniaca. I tentativi di catturare la bestia messi in atto dalle autorità cittadine si rivelano tutti inefficaci finché non si decide di ricorrere alle fosse lupaie, soluzione a quanto pare suggerita dall’anziano filosofo Cesare Beccaria, che dopo aver scritto celebri testi di filosofia giuridica continua a fornire il proprio contributo alla vita pubblica della città in veste di consigliere del Magistrato Politico Camerale, un’istituzione del governo austriaco che attende a tutti gli affari politici, economici e camerali del Comune di Milano.
Il 18 settembre, dopo un’estate di morti e di paura collettiva, si diffonde la notizia secondo cui una bestia, un lupo, è caduta in una delle fosse, nei pressi di Porta Vercellina. I contadini, accorsi dopo aver sentito i suoi ululati, la prendono a sassate e perticate per poi metterle un capestro al collo e strangolarla. Tra i testimoni sopravvissuti alle aggressioni che si recano a vedere la bestia alcuni riconoscono in quell’animale la fiera che li ha assaliti, altri negano con forza che si tratti della stessa belva, d’altra parte «le ugne e i denti di questo lupo non sembrarono adatti a fare le ferite che si osservarono ne’ ragazzi e nella fanciulla che n’erano state vittime» (p. 83). Ad ogni modo dopo tale cattura non si ha notizia di nuove aggressioni e dopo qualche ultimo presunto avvistamento non si fa più parola del misterioso animale e la vita a Milano e nel contado ritorna alla quotidiana normalità.
Questa è la coinvolgente e a tratti fiabesca storia narrata ne La bestia feroce. Anonimo resoconto milanese del 1792, da poco pubblicata dalla casa editrice Il muro di Tessa. Il volumetto, che reca in sovraccoperta una xilografia di Edoardo Fontana, raccoglie sotto questo titolo tanto la cronaca redatta da anonimo autore e scritta contemporaneamente all’accadere dei fatti – ossia il Giornale circostanziato di quanto ha fatto la Bestia Feroce nell’Alto milanese dai primi di Luglio dell’anno 1792 sino al giorno 18 settembre – peraltro mai fino ad oggi pubblicata integralmente malgrado sia stata diverse volte citata da molti studiosi, quanto un interessante e accurato saggio introduttivo scritto da Raffaele Russo e intitolato La bestia che ride.
Proprio questo saggio merita una più attenta disamina per la molteplicità e la ricchezza degli spunti che offre al lettore. L’autore sottolinea come nessun altro animale al pari del lupo abbia avuto una così notevole e duratura fortuna letteraria: «fin dalle letterature più antiche, la figura di questo predatore è stata presentata in rapporto alle vicende degli uomini, e nel corso delle varie storie ha preso spesso su di sé alcune delle caratteristiche umane più rilevanti» (p. 18). Il lupo ha subito un processo di antropomorfizzazione per il quale si è visto attribuire qualità tipicamente umane, divenendo creatura infida, astuta e malvagia. Ma «l’immagine mitopoietica» del lupo presenta anche aspetti positivi: dalla storia della lupa che ha allevato Romolo e Remo dando luogo al mito di fondazione dell’Urbe, fino alla vicenda di Mowgli che nel Libro della giungla di Kipling viene salvato proprio da una famiglia di lupi. Motivo per il quale Raffaele Russo sostiene che «potremmo insomma parlare di una strutturale duplicità dell’immagine culturale del lupo nel corso della storia letteraria, e vederlo come un terminale simbolico della caratteristica ambiguità di quel predatore ben più pericoloso – l’uomo – con cui la sua storia è così spesso mescolata. Forse si può addirittura sostenere che per il lupo (in letteratura e nella storia della cultura) si può spendere meglio che per ogni altro animale diverso dall’uomo l’intraducibile parola greca deinòs, quella con cui Sofocle descriveva la specificità dell’uomo stesso: un essere capace di azioni grandi e benevole, così come delle più crudeli e miserevoli ferocie» (p. 19).
Le storie letterarie che nei secoli passati hanno posto al centro della narrazione la figura di un lupo mangiatore di uomini, per quanto oggi inverosimili, non hanno fatto altro che dipingere, e a volte accentuare con tratti fiabeschi, una possibilità che per tutta l’età medievale e anche moderna ha costituito un rischio concreto, soprattutto per le popolazioni rurali che vivevano al limitare di boschi e foreste. «Le antiche storie trasfiguravano e rendevano ancora più spaventosa una possibilità del tutto concreta. Del resto nel mondo tradizionale le favole avevano una chiara funzione educativa, erano storie di avvertimento, che servivano a rinforzare le indicazioni educative ed etiche dell’istituzione familiare. Si trattava di quella che Clara Gallini chiama “pedagogia della paura”, per la quale “l’oggettivazione del mostro sempre configurava pericoli e interdetti ben precisi e pertinenti al limitato ordine delle possibilità contemplate dal contesto» (p. 21).
La godibilità del saggio di Russo risiede tutta nell’excursus letterario-filosofico che lo attraversa. Viene così chiamato in causa un racconto di Maupassant, Il lupo, risalente al 1882 ma ambientato nel 1764, vale a dire in piena età illuministica e antecedente solo di pochi decenni alla vicenda milanese. Nel tardo Ottocento l’uomo non si relaziona più alla figura del lupo con la «fatalistica rassegnazione» (p.22) che si può ad esempio rintracciare nelle fiabe dei fratelli Grimm, ancora legate a una tradizione di matrice medievale; tra Sette e Ottocento le storie che parlano di lupi hanno ormai poco a che fare con Cappuccetto Rosso e raccontano invece di come il progresso abbia portato l’uomo a imprimere il proprio dominio sulla natura, dominio che si esprime anche nel relegare la figura del lupo, inteso come l’incarnazione più selvaggia e pericolosa del mondo naturale, in ambiti sempre più circoscritti e lontani.
Date queste premesse è ovvio che quando particolari condizioni climatiche e ambientali determinano un riavvicinamento dei lupi ai centri abitati, con conseguenti aggressioni a uomini o animali domestici, «il loro tornare a far danno non quadra più con l’immagine che l’uomo ha di se stesso e del suo rapporto con la natura» (p.23).
Scatta allora il sospetto, se non la convinzione, che a rendersi protagonisti di aggressioni tanto efferate non possano essere dei lupi normali: tanto orrore non può che avere un’origine inquietante e soprannaturale, se non tutti almeno uno di questi animali – quell’unico al quale si attribuiranno tutte le stragi, non importa se avvenute a grande distanza le une dalle altre – deve possedere una natura demoniaca. Russo, rievocando il racconto di Maupassant, sottolinea come lo scrittore francese faccia riferimento a condizioni climatiche avverse e al fatto che l’eccezionale rigidità di quell’inverno ha reso i lupi particolarmente feroci, ma ricorda anche come ben presto nelle campagne abbia iniziato a circolare la leggenda di un lupo bianco di enormi dimensioni, estremamente aggressivo e pericoloso e dotato di un’astuzia tanto perversa e raffinata da non potersi attribuire a un semplice animale. I cacciatori hanno ucciso altri lupi ma non lui, che è sempre sfuggito alla cattura tanto da indurre chi gli dà la caccia ad usare pallottole benedette per poterlo finalmente uccidere. Il soprannaturale ha ormai fatto irruzione nella vicenda, non si tratta più di una semplice caccia, quel lupo diviene un’ossessione, ucciderlo è per i cacciatori una questione di vita o di morte, costi quel che costi bisogna ammazzare il lupo bianco anche se questo può comportare la perdita della propria stessa vita (cosa che puntualmente accade a uno dei protagonisti del racconto). Questa folle caccia autodistruttiva, come ben sottolinea Raffaele Russo, ricorda un’altra memorabile caccia: quella altrettanto folle e ossessiva ingaggiata da Achab contro Moby Dick (che con il lupo di Maupassant condivide il colore bianco e rappresenta al pari di esso «il potere irredento della natura», p. 24).
Anche nella vicenda milanese l’attenzione viene focalizzata su un’unica bestia i cui tratti subiscono ben presto una trasfigurazione in senso fantastico e diabolico.
Una cosa Russo non dice nel suo saggio, ovvero che in Francia proprio nello stesso periodo in cui è ambientato il racconto di Maupassant, e quindi pochi decenni prima dei fatti avvenuti nell’alto milanese, ossia per l’esattezza tra l’aprile del 1764 e il giugno del 1767, un’altra bestia, per molti versi analoga alla nostra, terrorizza la regione del Gévaudan. Questa creatura, nota appunto come laBestia del Gévaudan, uccide e ferisce uomini e animali in un’area vasta una novantina di chilometri. Le vittime, per lo più donne e bambini, vengono sgozzate e poi divorate parzialmente o integralmente. Si contano 136 morti accertate su un totale di 270 attacchi, ma si stima che il vero numero delle vittime debba aggirarsi tra le 150 e le 200 poiché a un certo punto per volontà del re Luigi XV si smette di contarle. Delle 136 vittime accertate 14 vengono decapitate, forse a causa del trascinamento del cadavere con conseguente trazione del collo. Per ordine del re un gran numero di valorosi cacciatori si reca nel Gévaudan per uccidere la bestia. Molti di essi asseriscono di averla uccisa o ferita in maniera mortale ma questa torna ogni volta a mietere vittime. Il che induce la popolazione locale a credere che essa sia dotata di poteri soprannaturali e che sia in sostanza immortale, altri pensano addirittura alla presenza di un licantropo. Altre ipotesi, non supportate però dal riscontro di prove, parlano di un serial killer travestito da animale, ma le impronte ritrovate accanto alle vittime sono sempre e soltanto di animali e non di esseri umani (cosa che per certi versi avvalora la teoria del lupo mannaro). Si pensa anche alla possibilità che la bestia possa essere un leone sebbene le orme e i morsi non siano compatibili con quelli di un grosso felino ma sempre riconducibili invece a un canide, sia pure di grandi dimensioni. L’ipotesi più accreditata è dunque quella riconducibile a uno o più lupi, forse appartenenti alla stessa famiglia, forse ibridi o probabilmente affetti da acromegalia, malattia che provoca un’ipertrofia nella crescita delle ossa (tra i testimoni c’è chi asserisce che la fiera abbia l’aspetto di un lupo ma le dimensioni di un vitello). La Bestia del Gévaudan, che indubbiamente deve aver affascinato la fantasia di Maupassant, ha esercitato la sua suggestione anche sull’industria cinematografica che a distanza di vari anni l’uno dall’altro le ha dedicato due film, La bestia nel 1975 e Il patto dei lupi nel 2001.
Il saggio di Russo inquadra la vicenda della «bestia feroce» nel quadro politico culturale e sociale della Milano di quegli anni, gli ultimi dell’impero austriaco. Quattro anni dopo, il 15 maggio 1796, Napoleone sarebbe giunto trionfalmente a Milano; in quell’estate del 1792 nei salotti, nei circoli illuministici, nei caffè letterari in cui l’argomento prevalente sono le speranze e i timori legati a quanto sta contemporaneamente accadendo nella Francia rivoluzionaria, la notizia della belva assassina irrompe destando, se non una vera e propria preoccupazione, almeno la curiosità degli intellettuali cittadini. Tra questi si interessa alla vicenda Pietro Verri, il quale in una lettera al fratello Alessandro compie delle argute riflessioni su cui l’autore del nostro saggio si sofferma attentamente.
La lettera, datata 1 settembre 1792, dice a proposito della fiera:
«La Bestia se la ride di tutti noi, delle taglie nostre, de’ nostri tridui e delle paralitiche nostre risoluzioni; sin’ora ella ha mostrato più spirito e condotta di quello che abbiano fatto da noi gli uomini; e poco vi manca ch’io non mi dichiari del suo partito, poiché sono sensibile al merito, e infine poi se noi mangiamo e uccidiamo non è maraviglia ch’ella faccia altrettanto, persuasa com’ella sarà che anche per lei è fatto il mondo» (p. 25).
Lupi del Glacier National Park (1918). Da www.flickr.com/photos/internetarchivebookimages
Raffaele Russo commentando la lettera si sofferma innanzitutto sulla «notevole immagine della bestia che ride» (p. 25), sottolineando come questa rientra in quella forma di antropomorfizzazione del lupo di cui si è già detto, essendo il riso una peculiarità precipua dell’essere umano. Non mancano poi le critiche nei confronti delle istituzioni, le cui decisioni in merito alla vicenda sono definite «paralitiche», e non mancano soprattutto l’ironia e il sarcasmo tipicamente illuministici nei confronti dei «tridui» e delle pratiche religiose messe in atto per allontanare il flagello. Ma la cosa più importante è che per la prima volta si sposa il punto di vista dell’animale, dal momento che se noi ci nutriamo e per farlo (e per difenderci) ammazziamo altre creature, allo stesso modo essa farà altrettanto nella persuasione che anche a lei spetta un posto in questo mondo. Una posizione molto moderna e aperta, di netto relativismo culturale, che come giustamente sottolinea Russo ha avuto un precedente importante nell’affermazione contenuta in un saggio di Michel De Montaigne a proposito delle popolazioni autoctone del Brasile dedite al cannibalismo. Siamo nel Cinquecento e Montaigne fa notare come questa pratica, che gli esploratori e i missionari europei ritengono barbara, non è poi tanto diversa dalla barbarie delle torture e dei martiri ordinati dai tribunali dell’Inquisizione. Ma Verri va oltre, compiendo «un passo avanti scandaloso, anche rispetto alla già scandalosa posizione di Montaigne: il punto di vista altro che propone non è infatti solo quello di un altro tipo di uomini, distanti da noi, come i cannibali brasiliani, ma è quello di un’altra specie animale. […] Il passo avanti di Verri, rispetto al relativismo culturale di Montaigne, giunge a mettere in discussione lo specismo che è stato il presupposto indiscusso di ogni riflessione sul rapporto fra uomo e natura fino all’età dell’illuminismo, e oltre» (p. 27).
In questa riflessione del Verri, Russo vede «uno dei primi sintomi dell’incrinarsi dell’immagine dominante e antropocentrica dell’uomo come signore razionale (signore perché razionale) che aveva caratterizzato l’epoca precedente» (p. 28).
Il saggio si sofferma anche sulle descrizioni che della bestia sono state fornite da chi è sopravvissuto alle aggressioni o dai contadini che l’hanno vista e affrontata. Tali descrizioni, degne di un bestiario fantastico medievale, sono tutte accomunate dalla mescolanza di tratti fisici appartenenti ad animali domestici – e pertanto familiari – quali ad esempio capre, cavalli e maiali. Si tratta ovviamente di una descrizione assai poco realistica che evoca e mette in scena le paure più recondite, i terrori più ancestrali della povera gente dell’epoca e che molto ha a che fare con la categoria freudiana del perturbante.
Chi ha assistito – o peggio ancora è stato vittima – di un attacco da parte di un lupo non può che fornire un identikit della bestia trasfigurato dalla paura, la quale trasforma un comune lupo in una belva favolosa. Accortamente Russo ricorda come il perturbante sia «un peculiare tipo di paura» che si prova «quando una persona, una situazione o un animale viene avvertito come familiare ed estraneo allo stesso tempo, e genera una dolorosa sensazione di confusione e disorientamento» (p. 34). «Il perturbante» secondo la nota definizione di Freud è appunto «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare».
A questo va ad aggiungersi la constatazione di quanto particolare e delicato sia il periodo storico nel quale si colloca la vicenda della «bestia feroce». Come si è detto, sono anni di fermento e di profondi cambiamenti: un’epoca di transizione, dunque, in quanto tale perfettamente congeniale all’insorgere di una «crisi della coscienza collettiva» che secondo il sociologo Émile Durkheim produce nella società uno stato di disorientamento e angoscia, una condizione di ansia dovuta al vacillare delle vecchie certezze e all’incapacità di trovarne di nuove. A tutto questo Raffaele Russo riconduce la paura collettiva che ha pervaso le genti delle campagne intorno a Milano in quell’estate del 1792, portandole a convogliare nella figura di un unico portentoso mostro assassino le aggressioni messe in atto da numerosi lupi sbandati, che circostanze ambientali e climatiche eccezionali hanno indotto ad abbandonare le loro abituali sedi montane, spingendoli nei boschi delle pianure, fino al limitare dei centri abitati.
La bestia feroce, conclude Russo, non rappresenta altro che la presa di coscienza della vulnerabilità umana malgrado l’illusione di dominio sul mondo che deriva dal vivere in luoghi fortemente antropizzati e civilizzati:
«Il fascio di luce della civilizzazione ci racconta una bella favola su noi stessi, ci fa credere invincibili ed eterni. Ma appena oltre il piccolo fascio di luce, ciò che abbiamo sempre temuto è ancora in agguato. Poco più in là, forse anche tutt’intorno a noi e dentro di noi, ci sono ancora, irredente, le forze naturali che abbiamo imparato a ignorare, ma non abbiamo mai veramente vinto. Abbiamo sempre saputo che alla fine sarebbero tornate. A volte in effetti ritornano sotto forma di malattia, altre volte di tempesta o di terremoto. Qualche volta, eccezionalmente, possono prendere la forma di una bestia feroce. Un lupo, ad esempio» (pp. 36-37).
Come si è detto, gran parte del pregio del volumetto risiede nel ben congegnato saggio di Raffaele Russo e nella molteplicità degli spunti di riflessione che esso fornisce. Ma interessante risulta anche la cronaca dell’anonimo autore milanese per il valore documentario e per la sua godibilità come “fiaba nera”, ossia per gli aspetti gotici del narrato, i quali, come indica il Verri nella sua lettera, potrebbero anche rendere inclini a parteggiare per la bestia attribuendole i connotati antropomorfici del serial killer con tutta la fascinazione che tale figura ha esercitato ed esercita nell’immaginario letterario-cinematografico. Si legga a tal proposito il bel saggio di Michele Mari contenuto ne I demoni e la pasta sfoglia nel quale, elencando i motivi per cui l’uccisore seriale può riscuotere la simpatia del lettore o dello spettatore, l’autore scrive «si può parteggiare per lui […] perché all’esprit de géométrie unisce volentieri l’esprit de finesse […] ma soprattutto perché è solo, cosmicamente solo in un mondo che parla altre lingue e segue altri dèi» (M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Cavallo di ferro, Roma 2010, p. 366).
Nel caso della nostra «bestia feroce» la fusione tra esprit de géométrie e esprit de finesse potrebbe rintracciarsi nell’astuzia beffarda con la quale ella, secondo quanto riportato nella cronaca, inganna le sue giovani vittime fingendosi un cane e avvicinandosi ad esse scodinzolando come se volesse giocare.
Sembra quasi di trovarsi di fronte al lupo di Cappuccetto Rosso, calato però in un contesto decisamente più efferato e grandguignolesco. Non mancano infatti le scene “splatter” di squartamenti e sgozzamenti e smembramenti: la belva, avida di sangue, beve dal collo delle sue vittime e lascia nei campi cadaveri mutilati e semidivorati.
Ma non bisogna credere che l’autore del testo indugi nel gusto del raccapricciante con sadica morbosità: la sua è una cronaca scritta in tempo reale, un diario dei fatti, un testo redatto in uno stile composto e discreto, del quale si può notare l’immediatezza senza che sfugga al lettore attento una certa settecentesca sorvegliatezza. Chi lo ha scritto è comunque persona avvezza a usare la penna, frequenta i circoli illuministici del capoluogo lombardo ed ha modo di consultare i documenti dell’amministrazione cittadina.
Difficile non pensare, per affinità di tematica, a un’altra opera di ambientazione poco più tarda (inizio Ottocento, sebbene scritta allo scoccare dell’ultimo decennio del Novecento), opera letteraria, questa volta, e non cronachistica, benché anch’essa composta ricorrendo all’escamotage del diario: mi riferisco a quel piccolo (per numero di pagine) preziosissimo gioiello che è Io venìa pien d’angoscia a rimirarti del già citato Michele Mari. Qui un giovanissimo Leopardi, in odore di licantropia, attende agli studi che ne faranno il grandissimo letterato che tutti conosciamo e affina quella fascinazione lunare che tanta parte avrà nelle sue poesie, sotto lo sguardo perplesso e sempre più preoccupato del fratello Orazio Carlo, autore del diario. Anche qui non mancano le morti efferate e i misteri declinati secondo un gusto dell’atavismo e del doppio, oltre che del gotico, da sempre estremamente cari allo scrittore milanese, ma l’opera brilla, al di là delle tematiche affrontate, per la scelta di uno stile arcaizzante che ci restituisce il duplice prodigio di una prosa apocrifamente leopardiana da un lato, e di una lingua tuttavia nuova e attuale dall’altra.
Non sarebbe una cattiva idea leggere in successione le due opere – La bestia feroce e Io venìa pien d’angoscia a rimirarti (quest’ultima, tra l’altro, dopo le tre edizioni Longanesi, Marsilio e Cavallo di ferro, ormai introvabili, sarà ripubblicata da Einaudi nella collana Arcipelago nei primi mesi del 2016) – tanto più che quella del lupo antropofago è una figura che non conosce periodi di crisi né in campo editoriale né in campo cinematografico contribuendo a tramandare quell’immagine perturbante del mostro che da sempre dialoga col nostro subconscio svelandoci che tutte le storie di mostri sono alla fine storie di uomini e che la teratologia non è altro che lo studio del lato oscuro della nostra psiche.
il mare diviso
(Canto di un cristiano e di un povero cristo)
i.
in questi tempi scuri
cerco porti sicuri
e accoglienza
ora che il mare è diviso
e sono inviso
all’altra costa
eppure le mie merci sono buone
quanto conti il mio pensiero
credo sia un dettaglio:
se vendo non sbaglio
il conto del dare e dell’avere
la questione di cosa sia vero
chi sia Dio chi profeta
inquieta il mercato
e non mi appartiene
(sarò pure cristiano per convenienza
ma degli scambi non si può fare senza)
ii.
potessi vivere sempre
sulla riva del mare
non farei altro
che guardare l’altra sponda
se vivessi d’inverno
sulla riva del mare
vorrei un cappotto
e un cappello
potessi comunque vivere
sulla riva del mare
aspetterei un cammello
che mi porti
sull’altra sponda
coloniali
i.
tramonti di cacao
trionfi di zucchero di canna
nelle sere di mari
e nuovi velieri
armati appena ieri
vuoti per tornare pieni:
esportiamo pensieri
esportiamo occidente
in perline colorate
di autentico vetro
(la ricchezza vera
tornerà indietro)
ii.
troppe solitudini
e troppa acqua
per dilatare il mondo
seguendo mappe inesistenti
derive di continenti
dove la fine
simila l’inizio
(schiumosa la scia
sulla via
delle indie)
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[Bruno di Pietro (1954) vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato: Colpa del mare, Oedipus Salerno-Milano 2002; [SMS] e una quartina scostumata, D’If, Napoli, 2002; Futuri lillà, D’If, Napoli, 2002; Acque/dotti. Frammenti di Massimiano, Bibliopolis, Napoli 2007; Della stessa sostanza del figlio, Evaluna, Napoli 2008; Il fiore del Danubio, Evaluna, Napoli 2010; Il merlo maschio, Laboratorio di Nola 2011; è presente nelle antologie Mundus. Poesia per un’etica del rifiuto, Valtrend, Napoli 2008; Alter Ego, Poeti al MANN, Napoli, Errico Ruotolo, Opere 1961 – 2007, Fondazione Morra, Napoli, 2012.]
Tutti amano disquisire sul punk, a freddo. Tutti si sono ampiamente nutriti dell’estetica punk, che troneggia come fosse sempre fresca nei grandi archivi dell’immaginario contemporaneo. E gli stilisti a corto di idee, i costumisti di Hollywood in crisi d’ispirazione, i romanzieri di fantascienza, gli sceneggiatori di serie televisive noir, i giovani musicisti che si ostinano a rinnovare disperatamente il rock, tutti hanno facoltà di pescare in quel solaio di fine anni Settanta, di ripassare alla moviola Jello Biafra, di analizzare i prolissi testi di Steve Ignorant, ma ovviamente nessuno è disposto a dare credito al ragionamento punk, assolutamente grossolano, schematico, ottuso.
Ardebat pastor Chorileus Amaryllida pulchram;
saepe inter uirides umbrosa cacumina fagos
pectide temptabat chordas cantusque mouebat
uersibus indoctis, qualis per amara uirecta
auditur desiderio cantare palumbus,
at circum rident nemora inter densa cicadae;
talia tunc Chorileus; referebant omnia siluae:
“Candida, nunc per te resonant, Amarylli, canora
pectide iam frondes, iam amens lymphatus amantis
dicere fert animus uesano pectore flammas
tu mihi quas fundis rapiens in fomite cordis.
Incipe Acidalios, Erato, nunc incipe uersus.
Forsan et haec docti fiducia carmina ridet
cum tenui faciles modulatus harundine uersus;
dum mea delibet teneras uox flebilis aures,
dum deus ille ferox adsit miseratus amores,
cui per Acidalios fluctus sapiens quoque cedit,
non dubito suaues inter strepere anser olores.
Ridear a coruis, sat erit, dum dignus amari.
Incipe Acidalios, Erato, nunc incipe uersus.
Te uidi flores teneros per prata legentem,
et molles uiolas et purpureos narcissos
puniceosque crocos et Apollineos hyacinthos,
solam ludentem; tunc post carecta latebam;
ut uidi, perii, mollis me perculit error:
tunc subrisisti ac nigras uer disicit umbras.
Incipe Acidalios, Erato, nunc incipe uersus.
Nunc me per densos saltus perque aspera ducit
pascua tempestas rapidique potentia solis:
rara per umbrosas ualles fons limpida currit
raraque per dumos errantem sublevat umbra,
cum te per fontesque umbrasque, Amarylli, reuiso,
te per aquas riuosque nouos, per laeta uirecta,
nec possum currente sitim restinguere riuo,
frigore nec possum aut umbra sedare calorem.
Incipe Acidalios, Erato, nunc incipe uersus.
Te clamant, Amarylli, greges, te fronde uirenti
omnis ager nomenque tuum, stupet inscia turba
pastorum -canit omne nemus, canit aspera tellus-
mirantur quae monstra canant, cur lentus in umbra
formosam doceam resonare Amaryllida siluas.
Incipe Acidalios, Erato, nunc incipe uersus.
Cumque uenit Titan fulgentia sidera condens,
cumque uenit noctuque refert sua lumina Phoebe
praecipitans, suadent labentia sidera somnos,
semper amor nomenque tuum laudesque canuntur.
Incipe Acidalios, Erato, nunc incipe uersus.
Stat nocturna quies, animalia fessa sopore
gaudent, omne pecus stabulis, nec uertice montis
iam uigilant beluae per amica silentia Lunae:
ast ego te semper uideo carmenque susurro;
cum surgit croceum linquens Aurora cubile
cumque dies, reuocans hominum pecorisque labores,
ast ego te semper reuoco carmenque susurro,
carmina peruolitant, liquidas perduntur in auras.
Incipe Acidalios, Erato, nunc incipe uersus.
Iam mordet rumor gelidus, nos mordet iniqua
invidia aut stricta spectant iam fronte Catones:
nec tamen insontes formident fascina amantes
rumoresque senum: conturbent basia uersum
basia conturbent uersum carmenque malignum.
Incipe Acidalios, Erato nunc incipe uersus.
O iam nunc possim leuis uolitare per auras
et mare nauigerum et montis transire per altos,
ut suauem libem tua per labella Lyaeum,
et tua sit solaciolum mordere labella!
Somnia quae fingo dum torrida uoluitur aestas,
expectoque diem cum uerso uertice caeli
autumnae pluuio perflabunt turbine nubes.
Desine Acidalios, Erato, iam desine uersus.”
Talia dicebat Chorileus cantusque mouebat
formosam resonare docens Amaryllida siluas
uersibus indoctis, studio iactatus inani;
et circum raucas dicunt risisse cicadas:
solatur Chorileus nec tristia carmina curat.
_________________
[Autotraduzione
Desiderava il pastore Corileo Amarilli graziosa:
spesso tra i faggi in rigoglio, in mezzo alle cime ombreggiate,
con il suo plettro tentava le corde e levava i suoi canti
con i suoi versi non dòtti, così come si ode il colombo
per desiderio cantare in mezzo agli amari roveti,
ma tra il più folto dei boschi ne ridono intorno cicale;
sì così allora Corileo; rendevano ogni eco le selve:
“Ora del plettro canoro risuonano, chiara Amarilli,
già queste fronde per te, già ubriaco il mio animo folle
di innamorato mi spinge dal cuore impazzito a cantare
fiamme che dentro mi versi e rapisci all’esca del cuore.
Erato, intonali adesso, intonali i versi acidalii.
Forse alterigia di dotto mi deriderà questi canti,
ché ho modulato sul flauto sottile i miei facili versi;
solo che giunga alle orecchie gentili il mio canto dimesso,
solo m’assista pietoso d’amore il terribile dio
cui per i flutti acidalii perfino il sapiente si piega,
dubbi non ne ho a strepitare da oca fra cigni gentili.
Resti io deriso dai corvi, mi basta esser degno d’amore.
Erato, intonali adesso, intonali i versi acidalii.
Io t’ho veduta sui prati raccogliere molli corolle
sia le gentili viole, e insieme i purpurei narcisi,
sia con i crochi sgargianti i giacinti sacri ad Apollo,
ti trastullavi da sola: io dietro i cespugli ero occulto,
come ti vidi, perii, mi percosse dolce sgomento,
mi sorridesti tu, allora, scacciò primavera nere ombre.
Erato, intonali adesso, intonali i versi acidalii.
Ora attraverso le balze boscose e fra i pascoli impervi
me la stagione e il furore del sole impetuoso conduce;
rada la limpida fonte per valli ombreggiate serpeggia
rada fra i cespi anche l’ombra per me peregrino è conforto,
se per le fonti e per le ombre te sempre, Amarilli, ritrovo,
te per le stille dei nuovi ruscelli e i ridenti cespugli,
pure non posso al ruscello che scorre ammansire la sete,
pure nel fresco e nell’ombra non riesco a placare l’ardore.
Erato, intonali adesso, intonali i versi acidalii.
Gridano te, Amarilli, le greggi e te grida e il tuo nome
tutto quest’agro dai verdi dumeti, e stupisce l’ignara
turba, i pastori -ogni bosco ti canta, aspra terra ti canta-
chiedono quale prodigio ti canti e perché quieto all’ombra
a riecheggiare Amarilli graziosa io ammaestri le selve
Erato, intonali adesso, intonali i versi acidalii.
Quando il Titano si avanza e nasconde gli astri lucenti,
quando s’avanza di notte e riporta Febe i suoi raggi
precipitando, ma al sonno persuadono gli astri fugaci,
sempre il tuo amore e il tuo nome si cantano con le tue lodi.
Erato, intonali adesso, intonali i versi acidalii.
Resta la quiete notturna, gli stanchi animali del sonno
godono e il gregge dei suoi ripari e già al picco del monte
belve non vegliano più fra silenzi amici di Luna:
io tuttavia senza posa ti vedo e il tuo incanto sussurro;
quando si leva l’Aurora lasciando il suo letto di croco,
sorge anche il giorno e richiama i mestieri d’uomini e gregge,
io tuttavia senza posa ti chiamo e il tuo incanto sussurro,
volano via questi canti, perduti alle limpide brezze.
Erato, intonali adesso, intonali i versi acidalii.
Gelida ormai maldicenza ci morde e ci morde l’invidia
senza giustizia, o ci spiano a fronte aggrottata i Catoni,
ma gli incolpevoli amanti non temano l’occhio maligno
le maldicenze dei vecchi: disturbino i baci quel canto
turbino i baci quel canto insieme all’incanto malvagio.
Erato, intonali adesso, intonali i versi acidalii.
Ah così io possa oramai fra le lievi brezze volare,
scorrere il mare percorso da navi e le grandi montagne,
per delibare dai tuoi libami il soave Lieo,
e mordicchiare per mio conforto il tuo labbro di miele!
Sogni che immagino, mentre l’estate infocata finisce,
nell’aspettare quel giorno in cui muti l’asse del cielo,
e con il vento piovorno ci soffino nubi d’autunno.
Erato, smettili ormai, sì smettili i versi Acidalii”.
Sì queste voci spiegava Corìleo e levava i suoi canti
e riecheggiare Amarilli graziosa insegnava alle selve
con i suoi versi non dòtti, obbedendo a vana passione;
dicono poi che d’intorno ridessero roche cicale:
ma si consola Corileo e di tristi canti non cura.]
Ricorre in questi giorni il secondo anniversario dell’attacco al sarin in alcune aree della periferia di Damasco, la Ghuta.
Casualmente da qualche giorno si rincorrono le notizie sull’uso della stessa sostanza da parte del gruppo Stato Islamico in Iraq.
Sarebbero in questo caso fonti militari statunitensi ad affermarlo.
Le due cose non sono connesse fra loro. O meglio, potrebbero essere connnesse fra loro in una forma non intuitiva, non facile, della quale non discuterò qui.
Al tempo dei fatti della Ghuta il gruppo Stato Islamico, che ancora si chiamava Stato Islamico di Iraq e Siria, non si trovava nell’area di Damasco.
La vicenda della Ghuta si legò alla famosa “linea rossa” tracciata dal presidente americano Barack Obama, superata la quale la superpotenza atlantica sarebbe intervenuta in Siria.
Per questo motivo su di essa si esercitò un’imponente opera di propaganda, tendente a dimostrare che a compiere l’attacco non fu l’Esercito del presidente Bashar al-Asad, bensì qualche gruppo dell’opposizione – possibilimente jihadista – che, appoggiato dall’esterno, voleva costringere Obama all’intervento.
Ne disserro di tutti i colori, fiorirono rapporti più o meno segreti, più o meno basati su fonti verificabili, relazioni di tutti i generi, giornalisti vari pensarono di fare scoop raccontando di spie che sapevano tutto.
Tutto ciò non riportò in vita nessuno e, soprattutto, contribuì a dimenticare le vittime.
E a rimuovere il fatto che quelle vittime sono lì a chiederci giustizia.
Barack Obama non intervenì in Siria, Bashar al-Asad ammise di avere armi chimiche (proprio quellle del tipo usato nella Ghuta) e Vladimir Putin lo convinse a procedere in un’operazione tesa a smantellare quell’arsenale.
Nessuno sa cosa il dittatore abbia smantellato.
Come tutti sanno i controlli, in Siria, non si possono fare se non seguendo le regole imposte dal regime: fare altrimenti rappresenterebbe una violazione di sovranità di tipo prettamente imperialista.
Il risultato è paradossale: in Siria, da quel 21 agosto 2013 a oggi, passano sotto silenzio le decine e decine di attacchi chimici contro la popolazione da parte dell’aviazione siriana.
Mentre le accuse “chimiche” (da confermare) riguardo al Nemico Designato, l’ISIS, vanno per la maggiore.
Questo post di oggi vorrebbe riportare la barra al centro del problema “chimico” nell’area segnalando due ottimi articoli che ripercorrono la storia dell’attacco chimico della Ghuta.
Nei giorni caldi della crisi greca di quest’estate l’argomento a favore della Grecia che un’Europa senza di essa sarebbe impossibile in quanto patria nell’antichità dei valori europei ha destato una forte reazione sia nel discorso mediatico main stream sia in numerosi interventi di privati cittadini in vari forum in rete. In Italia l’intervento più noto è stato quello di Claudio Magris sul Corriere della Sera, del quale però non intendo occuparmi in quanto in un successivo articolo nella stessa sede lo scrittore triestino ha relativizzato le proprie posizioni. In realtà la questione era ed è di poco conto: l’argomento, utilizzato in forma ufficiale da esponenti del governo francese e, credo, italiano, è evidentemente un argomento retorico e pletorico, che il linguaggio diplomatico ha usato sia perchè un’allusione alle radici classiche compare nella peraltro mai entrata in vigore costituzione europea sia come succedaneo nell’impossibilità di elencare tutte le ragioni a favore di una permanenza della Grecia nell’Euro, perché ne sarebbe emerso un quadro poco edificante dei comportamenti tenuti dai gruppi dirigenti della UE e in particolare di coloro che, specie nel governo tedesco, si sono eretti a custodi della morale pubblica.
E’ tuttavia possibile cogliere in questa piccola vicenda collaterale un paio di dettagli che consentono forse di riflettere qualche aspetto più ampio. Nel discorso mediatico l’argomento storico progreco è stato contestato con motivi egualitari ( nessun paese si può nascondere di fronte alle proprie responsabilità usando come paravento la propria storia) e con motivi morali ( i greci avranno anche fondato la democrazia, ma sono dei recidivi che hanno già chiesto tre anni fa degli aiuti concessi e che ora ne chiedono di nuovi). Ora ciò che vorrei sottolineare in queste obiezioni non è la loro pertinenza o meno ( a mio avviso esse sono in astratto accettabili, ma si basano su una ricostruzione dei fatti a dir poco parziale), quanto due presupposti che le caratterizzano: innanzi tutto che i comportamenti di intere nazioni cioè di entità complesse e collettive siano giudicabili con criteri uguali a quelli dei comportamenti individuali; in secondo luogo che non esista nessun senso storico negli avvenimenti, segnatamente quindi nessuna idea di giustizia e di responsabilità storiche.
Da un certo punto di vista non c’è nulla di strano in questi presupposti: in fondo l’immagine della Grecia moderna erede di quella antica è un’immagine umanistica, che si basa proprio su un sentimento di responsabilità storica e partecipa di quell’idea di comunanza spirituale nelle epoche propria dell’umanesimo, e ormai da decenni la cultura umanistica non è più considerata utile dalle classi dirigenti occidentali ed è stata sostituita in ogni campo dalla tecnocrazia.
Il problema comincia ad emergere, se si fa caso al fatto che l’idea stessa di Europa Unita non solo è un’idea umanistica, ma che nasce proprio dall’idea di un senso e di una responsabilità storici. L’unità europea è infatti il prodotto del desiderio di riscattare secoli di conflitti feroci tra popoli europei sentiti come fratricidi in nome di una civiltà comune. Se si mettono in discussione i presupposti umanistici di questa idea, non ne resta poi molto: in fondo lo spazio ideologico comune è quello occidentale, che vede negli Stati Uniti il vero paese guida, dentro il quale agisce una serie di nazioni ormai piccole nello scenario mondiale.
Vorrei precisare che, quando parlo di umanesimo, m’interessa innanzi tutto il suo aspetto di habitus, cioè, nel senso che Bourdieu dà a questa parola, una serie di criteri interiorizzati che inducono ad agire e comportarsi ed esprimere preferenze in un certo modo, e meno quello di dottrina o sistema di valori, anche se ovviamente il primo aspetto dipende dal secondo. Se questo habitus umanistico è ormai venuto meno, come dimostrano le reazioni infastidite nei media italiani e stranieri all’argomento delle radici greche dell’Europa, cosa lo ha sostituito? Sicuramente tra i governanti, ma ormai anche tra la maggior parte dei governati, la competitività ossi una mentalità volta alla competizione a tutti i livelli tra individui, tra aziende, tra nazioni come valore unico. La competizione può essere tutt’al più temperata da alcune regole che servono a mantenere in piedi il gioco e a limitare l’effetto far west o meglio a passare da un far west alla Sergio Leone dove gruppi di pistoleros si sparacchiano a vicenda senza cause efficienti a un far west classico dove sentimentali gentiluomini alla John Wayne sparano con tutte le ragioni di questo mondo agli indiani che non rispettano il patto di stabilità. Inoltre non bisogna dimenticare che, tra i gruppi dirigenti, regna l’idea che l’economia e in particolare la teoria classica sia giunta a un livello di predittività e rigore epistemologico che l’accomuna alle scienze dure. In un contesto di questo genere l’idea di civiltà europea o meglio di un’unione che abbia il compito storico di risolvere le contraddizioni di questa civiltà diventa, nella migliore delle ipotesi, un’idea come tante altre che una classe dirigente deve prendere in considerazione.
Nello stesso mese di luglio il governo ungherese ha annunciato la costruzione di un muro antiimmigrati al confine con la Serbia suscitando un’ondata di indignazione, alla quale mi associo. Questo annuncio oltre a indignarmi mi ha anche sorpreso perché la porzione di confine meridionale ungherese con la Serbia è molto piccola e largamente inferiore a quella con la Romania e la Croazia. Insomma, non riuscivo a spiegarmi il motivo della mossa ( pura propaganda? Mossa antiserba? E perchè mai, visto che a confinare con l’Ungheria è proprio la Vojvodina ossia la provincia autonoma serba dove vive la minoranza ungherese?), poi mi è venuto in mente che il regolamento di Dublino sugli immigrati impone che a vagliare e accogliere eventuali richieste d’asilo e a farsi carico dell’assistenza sia il primo paese dell’Unione in cui l’extracomunitario è entrato. In questo senso il muro è la prova giuridica che eventuali stranieri sono entrati in Ungheria da frontiere comunitarie e debbono essere espulsi verso quei paesi. A questo punto è facile immaginare le tensioni e le ritorsioni che ne nasceranno.
Ecco, quando parlavo di sostituzione dell’habitus umanistico con quello della competitività, non bisogna immaginare cose astratte, ma questo progressivo scontro su ogni cosa senza una logica politica di medio periodo, come se lo spirito di Django o di Sartana si fosse sostituito a quello di Erasmo.
La protagonista di Animali domestici è una donna che una volta avremmo detto di mezza età e che invece sembra una ragazza che non sa ammettere di non esserlo più da almeno un decennio. Vita irrisolta la sua. Sembra quasi che per Letizia Muratori nascere e crescere “nei quartieri alti” di Roma sia una disgrazia. Nessuno dei personaggi che ruota attorno alla protagonista sembra felice, realizzato, completo. Tutti si portano addosso irrequietudini, dolori, frustrazioni.
La protagonista ha una vita sentimentale fatta di compagni opachi, editor autoreferenziali o ragazzi per bene eroinomani, le sue amiche sono sempre sull’orlo del precipizio, su tutte Chiara che trova affetto solo dai cani che raccoglie compulsivamente per strada. Negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza il carattere di questi personaggi, che si conoscono da sempre e continuano a frequentarsi non ostante tutto, è forgiato fatalmente dal loro censo sociale. La protagonista stessa ha come unico rapporto duraturo nel tempo, da quand’era una liceale fino alla scrittrice che ora è diventata, un uomo che è in realtà il padre di una sua amica. Edi Sereni. Relazione fatta più di conflitti e vendette che di tenerezze e comprensione.
È un romanzo claustrofobico questo di Letizia Muratori. Fatto di ambienti – sociali e fisici – chiusi, impermeabili al mondo esterno. La scrittura è controllata fino all’ossessione, la precisione del dettaglio maniacale. Le continue digressioni “a scatola cinese” dell’io narrante, il fluttuare nel tempo e nei luoghi topici della vita di questa tribù incestuosa, sono come la vie di fuga che la scrittura si dà per non restare soffocata dall’aria viziata che vuole descrivere. Riuscendoci.
(precedentemente pubblicato su Cooperazione, n° 10 del 3 marzo 2015)
Carmelo Colangelo, Una rotonda sul male. Kafka allo specchio dei filosofi, d’if, Napoli 2014, p.206.
Frutto della rielaborazione di lezioni che Colangelo ha proposto in occasione di un ciclo dedicato al tema del male nella ricezione filosofica dell’opera kafkiana, questo libro è il terzo di una collana intitolata “i saggi del cuore”; collana delle edizioni d’if di Nietta Caridei che è già un piccolo classico nel campo di una «critica appassionata che, se non conosce altro lavoro che non sia quello sul testo, nondimeno non saprebbe come altro onorarlo se non riprendendo la strada maestra della sua narrazione» (si legge nel risvolto di copertina).
A sedici anni volevo morire. Mi ero presa una cotta assurda per una specie di teppistello da strada con background famigliare degno di Moll Flanders, che ovviamente sognavo di redimere per poi scappare con lui chissà dove. E ho scritto ogni cosa sul mio diario. In realtà invocavo una morte metaforica, come quasi tutti gli adolescenti in certi periodi: uccidere noi stessi che in quel momento soffriamo per un qualsiasi motivo, per poi rinascere a una nuova vita più soddisfacente; tutto il resto invece era vero come può esserlo a quell’età.
E’ stata una fortuna che all’epoca non ci fosse Facebook, perché se fossi morta dopo aver scritto quelle parole, delle quali solo io potevo comprendere fino in fondo il senso, mi sarei trovata il profilo saccheggiato da giornalisti in cerca di facili scoop, e per prima cosa avrebbero individuato come colpevole il mio “malacarne” (così a Messina vengono i chiamati i ragazzi che non si presenterebbero volentieri ai genitori). Le mie origini siciliane avrebbero potuto dare adito poi a dissertazioni al limiti del razzismo regionalistico, e rovistando tra le mie foto come ratti nei rifiuti, qualcuno si sarebbe potuto addirittura spingere a cercare – nei miei tratti somatici e nella cronica assenza di sorriso – una causa-effetto di lombrosiana memoria per quanto successo, e così da vittima sarei diventata colpevole e infine di nuovo vittima della gogna mediatica. Morta due volte. La morte due punto zero.
Così è morta Ilaria, sedici anni, anche lei messinese, prima per aver ingerito delle pasticche di droga sintetica e poi per la manipolazione della sua vita sui social: ha smesso di essere poco più di una bimba vittima di una piaga sociale per diventare una darkettona coi «capelli corti, rasati all’altezza delle tempie. Tre piercing sul volto: sul labbro, sul naso e sulla lingua» (“Il corriere”).
Qualcuno ha scritto che non era molto bella, la peggiore delle colpe in questo schifo di mondo votato all’estetica senza arte (una giornalista di “Repubblica”, edizione di Palermo Alessandra Ziniti, alla quale faccio i miei “complimenti” per la professionalità: «Era particolarmente inquieta questa ragazzina di 16 anni con il viso sfigurato da cinque piercing, compreso una perla sulla lingua, il lobo dell’orecchio destro sfondato, i capelli cortissimi rasati alle tempie a darle un aspetto ancor più mascolino»). Altri hanno ipotizzato avesse tendenze suicide perché scriveva frasi macabre nei suoi status: «Il buio è più denso ed io non riesco a trovarci un senso» (io giuro che ho scritto molto, molto peggio). “Vanity fair” l’ha addirittura definita «adolescente controcorrente», come se i ragazzini di quell’età fossero tutti modelli di conformismo. Giornalisti tutti dimentichi di aver avuto un diario a cui da ragazzini affidavano i pensieri più reconditi – quasi mai di gioia – perché, come scriveva David Gerrold, “l’adolescenza è quella parte della vita in cui s’impara a essere depressi”. Non è fatta per la felicità, o meglio per la consapevolezza della felicità, ma si nutre dell’illusione della disperazione (quando non ci sono i drammi veri), perché solo distruggendo si può costruire, solo ribellandosi ci si può emancipare, e basta poco per farlo: colorarsi i capelli, o decidere di frequentare una scuola diversa da quella scelta dai genitori. Poi tutto passa, perché è questo l’adolescenza, un passaggio, un’iniziazione (c’è anche chi è un adolescente senza patemi, ma non so che adulto possa diventare senza un po’ di sturm und drang – ma non sono una psicologa quindi non parlo di cose che non conosco. Io.).
Quindi sono davvero grata di essere stata un’adolescente problematica in un tempo in cui potevi odiare il mondo e sentirti in trappola nella tua vita e, a meno di grandi gesti di ribellione, potevi solo urlarlo nel tuo diario, quello di carta, chiuso col lucchetto. Poi magari tutti a casa lo leggevano a tua insaputa, ma finiva lì, in quel segreto diffuso che genitori intelligenti continuavano a custodire, magari vigilando un po’ di più ma senza drammatizzare troppo.
Ora invece che tutto si affida alle confidenze da social network, che le frasi macabre riempiono gli status di tutti gli adolescenti, è facile accanirsi su questi diari telematici alla ricerca delle motivazioni più assurde per morti che non si possono spiegare, o meglio, che hanno cause oggettive, ma che restano comunque incomprensibili perché ingiuste e premature.
Ilaria è morta a sedici anni per delle pasticche tagliate male. Questa è la notizia. Ed è l’unica cosa che dovrebbe scrivere. Parlare di come ha avuto la droga, di chi gliel’ha data, di chi la vende, del contesto in cui si trovava. Tutto questo è la notizia, il resto è spazzatura. Le chiacchiere dei moralisti che imbrattano i giornali, un tanto a parola, il doppio per ogni vaneggiamento, sono sproloqui senza senso e senza valore.
E poi c’è gente come Maurizio Blondet, giornalista in pensione, collaboratore de “L’Avvenire”, del “Giornale” e de “La Padania”, famoso per le sue posizioni antisemite, razziste, omofobe (nonché grande produttore ed esegeta di ipotesi di complotto). Orfano di una testata che gli dia voce, sul suo blog personale due giorni fa ha scritto un inqualificabile post sulla tragedia di Ilaria in cui si rivolge direttamente alla ragazza dandole del topino insignificante, tanto che le chiede: «Le foto che hai postato sono tutti “selfie”, perché chi volevi ti fotografasse, né bella né brutta com’eri?» Sì, di nuovo l’aspetto fisico come colpa da espiare: siamo a questo.
E ancora: «Eri standard, eri una dei tanti, delle nullità da discoteca», e poi – dopo averla definita vittima delle troppe libertà imposte dai media – le addossa diverse colpe condivise con le sue colleghe adolescenti: «ragazzine “liberate”, fate i pompini, prendete la droga, fate tutto quello che vi dice il bulletto o la ganga dei farabuttelli senza onore, perché altrimenti “vi escludono”; e voi non sapete dove andare. Non avete risorse, né mentali, né morali, per sopportare la solitudine».
Viene da chiedersi cosa ne sappia Blondet della vita di Ilaria: nemmeno i post su Facebook consentono di intuire più di tanto di lei, perché infangarne così l’immagine? E infine l’irrisione del corpo privo di vita sulla spiaggia, l’ultima delle ingiurie, spregevole da parte di un uomo che avrà dei figli e dei nipoti e che non dimostra alcuna compassione: «un corpicino di nessuno – un piccione morto, un topino grigio».
Blondet, si legge in un post successivo in cui spiega perché ha dovuto chiudere i commenti al suo blog, intende scioccare provocare: lui non ce l’ha con la ragazzina, ma con la sua famiglia colpevole di averle dato troppo libertà. Una famiglia allo sbando secondo lui, perché i genitori hanno entrambi altri rapporti alle spalle, perché Ilaria si trovava a vivere con tre fratelli nati tutti da altre relazioni. Genitori incapaci di dare un’educazione valida: «il “padre” ha avuto “precedenti convivenze”, più d’una. E sicuramente le “madri”, plurime, hanno avuto anch’esse le “loro esperienze”. Hanno bevuto a grandi sorsi la libertà magnificata dai media e raccomandata dalla pubblicità» (Le “madri” sono ovviamente più colpevoli).
Blondet insiste, pure, sulla provenienza della ragazza da Messina e soprattutto da una zona periferica che in un altro post assimila ai ghetti di quelli che chiama negri americani: «A Messina, nelle periferie orribili del sottoproletariato inutile, di quelli che un tempo si chiamavano “Poveri” o umili». In questa periferia che lui dipinge come una sorta di girone dantesco, la maggior colpa dei “poveri” è quella di non farsi mancare «la libertà sessuale, la trasgressione… si sono emancipati anche loro. Insomma hanno perduto Dio, il Dio a cui credevano bene o male i nonni; ed hanno perduto tutto. Come tutto il popolo italiano, che si rigettato Dio, non è più nulla e sta affondando nel nulla del suo degrado. Ma in quei quartieri, in quel Meridione, è peggio: perché non avevano altro che sperare in Dio. E adesso, sperano nella libertà sessuale».
Così sproloquia Blondet, servendosi della morte di una ragazza come di una clava per randellare una società a suo avviso troppo permissiva – in cui si accolgono (sia pure malamente) i migranti che arrivano sulle nostre coste stremati e in cerca di una possibilità di vita, in cui si parla di regolarizzare le unioni tra individui e dello stesso sesso, e di legalizzare le droghe leggere, in cui le ragazzine di sedici anni possono uscire di casa senza troppe storie, in cui le famiglie sono allargate perché l’amore può andare oltre il legame di sangue. Nessun rispetto per il dolore dei genitori, nessuna compassione da parte di chi si professa cattolico e si riempie la bocca di Dio, quello stesso Dio che secondo il Dogma cristiano per l’umanità ha sacrificato il proprio figlio: là dove Blondet è incapace di provare pietà per il figlio di qualcun altro.
Ilaria è colpevole tre volte: non era carina, ai suoi occhi, era meridionale, ed era una giovane donna con troppe libertà acquisite. Per questo merita di morire di nuovo, uccisa da parole che feriscono e bruciano e disseminano odio e fomentano gli animi di poveri in spirito che aspirano a Dio ma hanno dimenticato la propria umanità.