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Scilicet! un esercizio di lettura per Claudia Ruggeri

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di Giovanni Palmieri

Un poesia totalmente indecifrabile è una poesia sbagliata. Non è né bella né brutta. Semplicemente è sbagliata. Dove l’ermetismo del dettato e l’invalicabilità delle presupposizioni private siano totali si è in presenza di un testo che nega se stesso. Perciò poesie di tal fatta sono rarissime.

Tra l’oscurità e la trasparenza, tra Campana e Cardarelli, tra i ventagli di Mallarmé e il campanellino di Diego Valeri la distanza è enorme ma il cammino sarà comunque percorribile e ogni testo di ardua decifrabilità offrirà sempre al lettore sagace la possibilità di uno o più appigli decifrativi.

Solo che in poesia non si tratta di “decifrare” un senso univoco e codificato dall’autore ma di poter leggere o, ancor meglio, ascoltare quell’eccedenza di significazione che, per definizione, caratterizza il testo poetico ed travalica ogni volontà individuale lasciando trionfare il testo e la sua “inconscia” autonomia anagrammatica. Giuste le parole di Claudia Ruggeri che in un suo accenno metapoetico ma sofferto scrive che il suo demone creativo “scaccia / per la capienza d’ogni nome”[1]

 

Molto ammirata ma pochissimo spiegata o capita, la poesia della Ruggeri (1967-1996) appartiene ad un moderno trobar clus e risulta pertanto di difficile lettura. Per queste ragioni fu accusata e, al tempo stesso, amata al di là dell’intelligenza vivida del suo dire. Un dire spesso imperativo e pochissimo ambiguo ma, ahimè, mal compreso se non del tutto incompreso. Il mito imbelle, questo, di un certo orfismo… “Mi piace perché non lo capisco”, aberrazione modernista d’un celebre paradosso tertullianeo peraltro riferito alla credenza nel Dio cristiano.

Propongo quindi ai lettori di “Nazione indiana”, che ha già ospitato alcuni testi di questa straordinaria poetessa salentina, un esercizio di lettura sopra la seconda poesia che compone la raccolta Inferno minore[2] che Claudia Ruggeri aveva preparato ma che sarà data alle stampe solo dopo la sua tragica e volontaria morte.

 

 

il Matto II (morte in allegoria)
Ninive[3]

 

“Tu ti dai pena per quella pianta di ricino (…) che in una
notte è cresciuta e in una notte è perita: ed io non dovrei
aver pietà di Ninive quella grande città…” (Giona 4, 10)

 

ormai la carta si fa tutta parlare,
ora che è senza meta e pare un caso
la sacca così premuta e fra i colori
così per forza dèsta, bianca; bianca
da respirare profondo in tanta fissazione                  5
di contorni ò spensierato ò grande
inaugurato, amo la festa che porti lontano
amo la tua continua consegna mondana amo
l’idem perduto, la tua destinazione
umana; amo le tue cadute                                        10
ben che siano finte, passeggere
e fino che tu saprai dentro i castelli, i giardini
fiorire, altro splendore sai, altra memoria,
altro si splende si strega si ride, si tira
la tenda e libero si mescola alle carte; ma                15
i giardini si nascondono con precisione
dove cerchi la larva del tuo femminino e l’arresto
l’appartenenza inevitabile
all’Immagine all’inevitabile distensione
delle terre trascorse delle altre ancora                     20
da nominare chiamarle una poli l’altra tutte
le terre perfette alla mente afferrata
di nomi che smodano scadono che portano
alla memoria o la stravagano.

 

(crescono ricini presso ninive
ecco, vedi,      come sviene)

 

 

La prima sezione di Inferno minore, intitolata Il matto (prosette), contiene sei testi tutti dedicati alla carta dei tarocchi che rappresenta la follia. Va precisato che qui i tarocchi sono intesi come pratica cartomantica e non come gioco di carte. In una lettera ad Arrigo Colombo del 15 ottobre 1988, Claudia Ruggeri ha scritto che la “scrittura” “può iniziarsi” solo dopo che “l’inferno delle interrogazioni si è consumato” e solo dopo che il Matto è rimasto solo sul tappeto.[4]

Pertanto il Matto è figura allegorica alla quale il poeta si appella identificandosi solo parzialmente. Si tratta di un discorso che chi scrive rivolge alla figura allegorica ma anche a se stesso e al proprio “inevitabile” destino. I disturbi psichici profondi e socialmente invalidanti di cui la poetessa soffrì sino ad approdare agli sponsali lugubri della melanconia psicotica non sono ovviamente alieni dalla scelta di dialogare con questa e non con altra carta. Va però precisato che la raccolta poetica, dedicata a Franco Fortini, segna un consapevole e radicale cambiamento nella poesia della Ruggeri.

Apertura di significazione allegorica (“si fa tutta parlare”) e logorrea del Matto coincidono sin dall’inizio intrecciando nel testo il piano poetico con quello metapoetico. Ma guardiamo per un attimo la carta…

 

matto

 

Nelle carte dei tarocchi il Matto è un girovago senza meta che tiene sulle spalle un fagottino strizzato con quelle povere cose che rappresentano allegoricamente l’insieme delle sue esperienze. Vaga incessantemente e senza destinazione in uno spazio vuoto, esterno alla realtà, in una specie di Limbo. Tra i colori del suo vestito, il bianco della sacca risalta… La Ruggeri ricorre qui, e non a caso, al sintagma “per forza dèsta” (Inf., IV, 3) con cui Dante  indica il brusco risveglio dal suo torpore, prima di entrare nel cerchio del Limbo, dove incontrerà il castello dei grandi poeti. Il bianco è però un non-colore insostenibile, abbagliante e innocente ma perturbante.[5] Lo segnala la profondità di respiro (ritmo poetico) che induce il contrasto e la determinazione (“fissazione”) dei contorni (vv. 5-6). Parrebbe dunque un caso (vv. 2-3) la sacca poetica così compressa del poeta… Ma così non è. Non v’è caso, ma al contrario fissazione, acribia, determinazione e pensiero!

Detto questo – prima di analizzare il discorso rivolto al Matto che comincia al v. 6 con due vocativi e con la serie anaforica del sintagma verbale “amo” (vv. 7, 8, 10) – occorre dire che Claudia Ruggeri fu una viaggiatrice compulsiva con mete pretestuose o ossessive (Napoli) sino allo sfinimento nevrotico e alla rivolta contro se stessa e contro tale coazione. Questa nevrosi di fuga nutrì però larga parte della sua poesia precedente alla svolta costituita da Inferno minore. La nutrì ma anche la uccise e perciò andava uccisa. Come capiremo meglio in seguito.

 

“ò spensierato ò grande / inaugurato” (vv. 6-7) si riferisce al Matto invocato con un strano “ò” che vale “oh”. Nei tarocchi questa carta rappresenta, però, l’Arcano 0 e non ha valore numerico dato che è lo zero a porre tutti gli altri numeri che da esso derivano e ad esso tendono. Il Matto, che può sostituire ogni carta nel suo valore, rappresenta dunque allegoricamente sia l’unità del tutto (ogni numero motiplicato zero dà zero), sia l’energia primordiale e senza limiti di un nuovo inizio. È per queste ragioni che nel vocativo del testo va anche letto lo zero che identifica il Matto. Giusti altri versi di Claudia Ruggeri in cui possiamo leggere: “ero la ‘nulla’ / degli alfabeti in cifre, il segno / che non scatta”.[6]  Ovviamente “inaugurato” è aulicismo di foscoliana memoria che significa “ripugnante”.

I versi che seguono (7-15) sono quasi trasparenti: del Matto chi scrive ama l’allegria portata lontano (cioè esagerata), il suo darsi (appartenere) agli uomini, il suo io perduto e la sua “destinazione umana”. La follia non è forse il destino dell’uomo? “L’idem perduto” in una prima redazione recitata del testo era banalmente “l’Eden perduto”.[7] Azzeccata pertanto la variante. È infatti evidente che, essendo kantianamente[8] l’io sempre uguale a se stesso (centro unificatore di tutte le rappresentazioni), possa anche essere validamente definito come l’idem. Del Matto si amano anche le sue cadute purché (“ben che”) siano finte e transitorie e finché lui saprà “fiorire” dentro ai castelli e ai giardini (quelli dei principi che amano i fool e quelli, danteschi, della poesia), allora potrà conoscere un diverso splendore, altri ricordi e altro riso. Potrà anche mescolarsi alle carte degli uomini e, “libero” (!), entrare nuovamente in gioco.

 

Ma… ma – e siamo al v. 15 – i “giardini” scompaiono quando il Matto va in cerca della “larva del suo femminino” e cioè, fuor di metafora, della Morte.  L’altro grande Arcano dei tarocchi…

 

morte

 

 

I giardini e la poesia si sottraggono quando il Matto va in cerca dell’arresto definitivo del suo vagare appartenendo così sempre di più all’immagine (“inevitabile”) della morte. I giardini si nascondono anche quando il Matto cerca di appartenere al passato di terre già percorse o di terre ancora da richiamare alla memoria in una perniciosa ossessione mentale. Parentesi: Claudia Ruggeri nacque a Napoli nel 1967 da madre napoletana e padre leccese. All’età di un anno fu portata a Lecce dove visse sino alla morte. Napoli, però, divenne progressivamente per lei il fulcro ossessivo di un elaborato “romanzo famigliare”. A Napoli tornò spessissimo costruendosi anche falsi ricordi infantili e la città campana si trasformò nel palcoscenico eidetico di moltissime poesie. Napoli divenne insomma il catalizzatore di un insieme di “nomi che smodano scadono che portano / alla memoria o la stravagano” (vv. 23-24). La poetessa divenne così la sposa barocca di Napoli e la sua poesia una fastosa celebrazione liturgica.[9] Sino a quando, stanca di questa sudditanza, decise di uccidere quella simbiotica parte di sé. Nella citata lettera ad Arrigo Colombo, aveva infatti scritto: “lontano da Sanfelice delle scale [il Palazzo Sanfelice di Napoli] devo fingermi cose che crescono e muoiono lontano da Napoli, l’unica maniera possibile per bloccarla perché mi muoia per raccontarla, l’unico possibile suicidio si celebra nella distanza; le darò un ricino, apici e animali che spuntino l’ombra in una sola ora… così Dio apprese a Giona la distruzione”.[10] Ancora nella poesia napoli l’ebbi strana ed il porto / e le sbronze testuali,[11] che riprende interi versi del testo che stiamo analizzando, possiamo leggere: “parlò così la sposa la distanza / che per ultimo lutto le diedi i modi esatti del poeta”.[12] Cioè proprio la nostra poesia.

Nel v. 21 (“…chiamarle una poli l’altra tutte”), quel “poli” potrebbe sembrare un refuso per “poi”. Ed in effetti in una prima redazione recitata della poesia il verso diceva “poi”. Non si tratta però di un refuso ma di una variante in cui, per disseminazione del significante, viene intenzionalmente occultata la città di Napoli: una poli = napoli.

Sempre nella prima redazione gli ultimi versi della poesia dicevano: ” – CRESCONO ORIGINI PRESSO / NINIVE – Ecco / vedi / come sviene!”.[13] Così se Ninive è Napoli e il ricino cresciuto nelle sue vicinanze  è la stessa Ruggeri identificata in una sua prima e originaria maniera poetica, ciò che si legge nell’attuale distico finale in parentesi è la necessaria morte (“sviene”) di quel ricino. Il lettore deve “vederla” proprio leggendo la poesia che ha sottocchi. Una morte necessaria a che viva un’altra poesia. Una conclusione ellittica questa che, però, non fa dimenticare quanto il testo dice prima in chiave confessional e cioè che quando Matto si avvicina troppo alla morte, si estranea dai giardini della poesia e infine da tutto… Scilicet!

 

 

 

 

NOTE

 

[1] Claudia Ruggeri, il Matto I (del buco in figura) Beatrice, in Ead., Inferno minore, a cura di Mario Desiati, peQuod, Ancona 2006, p. 85, vv. 4-5.

[2] Claudia Ruggeri, Inferno minore, cit.

[3] Ivi, pp. 87-88.

[4] Vedila nel sito ufficiale di Claudia Ruggeri: http://www.claudiaruggeri.it/testi/claudia%20ad%20arrigo%20colombo.pdf

[5] L’epigrafe preposta ad Inferno minore dice: ” ‘Sebbene in diversi stati d’animo l’uomo si compiaccia di simboleggiare col bianco tante cose delicate o grandiose, nessuno può negare che nel suo profondo ideale significato la bianchezza evochi nell’anima come uno strano fantasma…’ (Hermann Melville, Moby Dick)”.

[6] Inferno minore, cit., p. 117.

[7] Vedila in http://www.musicaos.it/testi/maggio/matto2.htm

[8] Ma non freudianamente…

[9] Si veda ad esempio la poesia lamento della sposa barocca (octapus), in Inferno minore, cit., p. 109.

[10] Cit. qui alla nota 4.

[11] In Inferno minore, cit., pp. 134-135.

[12] Ivi, p. 134.

[13] Vedi qui alla n. 7.

Opere e omissioni

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di Davide Vargas

 

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Alessandro Mendini ha definito Davide Vargas un “letterato architetto”.

Il libro Opere e Omissioni è un viaggio attraverso trenta anni di lavoro fatto di progetti disegni libri e scritture. Una sorta di confronto faccia a faccia con la propria autobiografia personale. Cadono i “commenti” critici, i riconoscimenti, la bibliografia, e resta soltanto la narrazione delle immagini. E delle parole che trovano origine nelle sensazioni e nella memoria personali. Resta anche un luogo. Il “qui” dei racconti pubblicati nel 2009, che tanta parte ha nelle ragioni del lavoro presentato. Come in una sorta di grafo si rintraccia in ogni opera. Restano anche le omissioni. Fatte di errori e di aspirazioni inespresse. Ogni cosa onestamente mostrata. Disegnata. Raccontata.

In trenta anni ho progettato edifici e ne ho realizzati (non molti e sempre con fatica). Alcuni li ho visti abitati ed amati. Altri hanno subito sorte diversa. Ho letto molto e scritto racconti. Ho disegnato e colorato. Ho colorato con il caffè come faceva Montale (me lo ha detto di recente Silvio Perrella e mi è sembrata una bella cosa). Ho letto poesie. Ho la certezza di fare sempre la stessa cosa.

Che cosa?

A lungo ho creduto di poter contribuire alla salvezza dell’uomo. Un pezzetto beninteso. E dentro una cordata dove stiano insieme linguaggi ed esperienze diverse e concorrenti. Il viaggio che ho raccontato in “Racconti di architettura” tocca le tappe di un’architettura “eroica” che portava nella propria vocazione l’idea di cambiare il mondo.Ma è un’illusione. Ce ne siamo accorti tutti. Ma nessuno rinuncia alla tensione che quell’illusione alimentava. Si tratta di un altro punto di vista.

Credo che invece ognuno scriva solo la propria personale autobiografia. Fatta di frammenti che trovano una ricomposizione. Una sorta di mappa. E una ricerca di qualità.

I miei edifici sono tutti incastonati nei dintorni della mia terra. Il “qui” che mi ha mostrato la bellezza (quella difficile da scovare) e il dolore del degrado. Ne portano impressi i segni della durezza: il cemento nudo a vista, il metallo, una sottile imperfezione e altro. In “Racconti di qui” ho cercato questa bellezza nelle pieghe, negli anfratti. Nel dorso delle cose. Così anche la geografia alla fine non esiste più. Ognuno costruisce la propria. Come una geografia letteraria. La contea di Yoknapatawpha di Faulkner o la New York di Teju Cole. Luoghi assolutamente inesistenti e quindi totalmente reali. O luoghi trasfigurati. È lo stesso.

I miei edifici parlano di me. I miei racconti parlano di me. Così i disegni. È una materia con cui fare i conti.

Il libro è una narrazione suddivisa per temi. I temi superano la cronologia.

E come in ogni narrazione occorre fare delle scelte. Una pensilina può essere più importante di un edificio più grande. Un disegno più di una costruzione.

C’è da raccontare un’idea.

 

 

Nota

Davide Vargas, Opere e Omissioni, Lettera ventidue, 2014

[Ho chiesto a Davide questa sorta di autopresentazione legata in qualche modo al suo libro di cui parlo qui.

Di seguito una scheda bibliografica di Davide Vargas.B.C.]

Progetti:

Il Municipio di San Prisco pubblicato e  premiato al primo Festival dell’architettura di Parma del 2004;

Casa privata ad Aversa pubblicata e segnalata al premio Inarch2006;  nel 2010 è stata inserita tra le opere selezionate per il volume “italiArchitettura” a cura di Luigi Prestinenza Puglisi per l’UTET

La Casa per Studenti di Aversa segnalata per la Medaglia d’Oro all’architettura italiana 2009, pubblicata su Domus e selezionata per Sustainab.Italy al London Festival of Architecture del 2008.

Ha partecipato agli “Annali dell’Architettura e delle Città” del 2007 con un’idea progettuale sulle aree dimesse di Bagnoli.

Ha pubblicato il libro di interviste “Conversazioni sotto una tettoia”, Clean Napoli 2004.

Suoi lavori sono segnalati su “Domus”, “Domusweb”, “Spazio e Società”, “l’Arca”, “Interni”, “Controspazio” e “d’Architettura”.

Il Municipio di san Prisco completo del secondo stralcio ultimato nel 2009 è stato selezionato per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2010. Inoltre è stato vincitore al Premio Inarch Campania 2010 e segnalato per la Medaglia d’oro all’architettura italiana.

Dal 2010 al 2011 ha scritto per Domus di Mendini.

Nel 2011 è stato selezionato per il 24th world congress of architecture UIA 2011 Tokyo.

Nel 2012 è stato selezionato per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2012 con il progetto di un’azienda vinicola a Liberi (CE).

Scritture:

Suoi racconti sono su Nazione Indiana, Comunità Provvisorie e Sud.

Nel 2009 ha pubblicato “Racconti di qui” tulliopironti editore. Il libro è stato presentato a Napoli Milano Roma Bolzano Bergamo…è stato recensito sul Venerdi di Repubblica, l’Indice dei libri, Domus, l’Arca, Nazione Indiana….è stato inserito nella classifica del Premio Pordenone legge. Mendini gli ha dedicato un editoriale su Domus e Stefano Gallerani lo ha inserito nei libri del primo decennio del 2000 su Il caffè illustrato.

Nel maggio 2012 esce “Racconti di architettura” tulliopironti editore. Stefano Galerani ne parla su Alias/Manifesto. Gianni Biondillo su domusweb. Segnalato nella rubrica LIBRI sul Venerdi di repubblica

Con ilfilodipartenope ha pubblicato “Alberi” libro d’arte in 250 copie numerate.

 

 

 

Amor fati

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corinth
Opera di Corinth

Il sesso tra marito e moglie

di

Luca Ricci

Ho pensato a una cosa inconsueta, e cioè al sesso tra marito e moglie. Non quello festoso e appassionato dei primi tempi, no, quello successivo, quello assuefatto e abitudinario, monotono e stanco, che viene dopo i figli. Insomma ho pensato al sesso che nonostante tutto marito e moglie continuano a fare, perché di accoppiarsi con partner occasionali son buoni tutti. Si dice che il matrimonio è un’istituzione antiquata che deve occuparsi della parte sana della vita: figli, casa, affetto. Per le perversioni, per la parte oscura di sé- per chi ce l’ha- bisogna andare a cercarsi qualcosa là fuori, nella giungla. Eppure è affascinante la sessualità che perdura dopo la procreazione, in due corpi che hanno raggiunto lo scopo imposto da Madre Natura, questa loro ostinazione alla copula e al piacere gratuito, questo essere dei Peter Pan del seme e delle ovaie, questo voler ignorare che si è già fatto quel che si doveva fare, il compito è realizzato e il mandato scaduto. Il sesso tra marito e moglie è depotenziato, è come un riassunto del sesso dei primi tempi, se allora erano 1000 baci adesso sono 100, e su questa scala si possono benissimo ricalcolare tutte le altre comunissime e triviali attività da letto. Come cambia un pompino dopo il matrimonio!

Il tempo è quasi sempre dimezzato, come la passione, ma è soprattutto la percezione che marito e moglie ne hanno- chiaramente da angolazioni diverse- a essere alterata. Il sesso tra marito e moglie è fatto sbadatamente, quasi sovrappensiero, annullato dalla consuetudine, dalla familiarità. E’ questo che tutto sommato lo rende straziante, e perciò irresistibile, perfino afrodisiaco. La crudeltà delle pratiche BDSM non sarà mai all’altezza di una scopata tra due esseri che si conoscono troppo bene, che si vogliono troppo bene (dopo essere stati innamorati che- vista la carica di distruttività insita nel sentimento dell’amore- è quasi il contrario). Il sesso tra marito e moglie non è affatto giocoso, perché la leggerezza viene portata in dote dall’incoscienza, mentre i coniugi vengono sempre incalzati dal senso di responsabilità, non fosse altro che nei confronti del loro stesso rapporto (si tratta di perpetrare e proteggere il rapporto). Alla stregua di due edonisti avviliti, non fanno altro che ripetersi: “Sarebbe sciocco mandare all’aria tutto proprio adesso, dopo tutte queste cose fatte insieme, tutti questi anni passati insieme”.

La progettualità è il fardello di cui si fanno carico i coniugi mentre scopano, pesanti zaini invisibili che li fiaccano mentre tentano di aggrovigliarsi tra di loro. D’altronde come si potrebbero accettare ruoli o maschere avendo a che fare con una persona di cui conosciamo limiti e miserie e perfino qualità (quanto possono inibire le qualità!), i cui misteri sono stati svelati a uno a uno col passare lento dei giorni? Il sesso tra marito e moglie è osceno, poiché è come se si consumasse tra amici. Marito e moglie dell’altro hanno visto le mutande sporche, hanno udito i peti, hanno assaggiato il sudore, hanno annusato l’alito cattivo, hanno toccato le vesciche. I cinque sensi sono annichiliti dalla memoria che marito e moglie conservano l’uno dell’altra, eppure marito e moglie continuano a cercarsi, bramosi di stringersi, contenti solo di sentire circolare da vicino il sangue caldo del coniuge. C’è spazio solo per la disperazione quando marito e moglie fanno sesso, perché entrambi provano una brulla commiserazione nei confronti dell’altro (e di se stessi). Il loro afrodisiaco è la pena, la loro sensualità larvale. Non è un sesso addomesticato, questo no, piuttosto un sesso compromesso, impossibile da compiersi, senza reale passione ma proprio per questo più autentico del sesso appassionato. L’amore tra marito e moglie è un sesso al di fuori della finzione dei feromoni, tanto più barbarico quanto più è molle e scocciato, tirato per i capelli, malridotto, asciugato.

E’ un sesso incastrato tra le bollette da pagare e i figli da portare a scuola, il bollo della macchina scaduto e la spesa al supermercato, un talk show televisivo e una camomilla per digerire. Accade negli interstizi della vita, cioè in luoghi simbolicamente trasgressivi, sui pianerottoli della mente. In realtà marito e moglie finiscono sempre nello stesso letto- il medesimo dove dormono russando, dove hanno trascorso infermi lunghe settimane a sfebbrare, dove anche i loro figli hanno dormito, pisciato, cacato e vomitato-, di cui conoscono ormai ogni avvallamento o escrescenza, gobba o affossamento (al pari di quelle dei loro corpi). Il sesso tra marito e moglie può non essere preannunciato da niente, le circostanze sono trascurabili. Il più delle volte non andranno a letto prima- a causa– di una cena galante, ma solo dopo un banale piatto di pasta (per tacere sui brodini col dado Star o i menù da McDonald’s), e il loro amplesso non sarà il proseguo di una conversazione sciolta e brillante- carica di tensione erotica-, bensì la protesi di brevi frasi di servizio spizzicate nel silenzio. Trascurabili saranno anche gli abiti: tute da casa, pantofole logore, maglioni lisi, abiti sformati, ecco gli strumenti di seduzione delle coppie navigate- i guardaroba magari stipati con capi di abbigliamento messi per altri, o non messi più. Il sesso tra marito e moglie nasce dalla perseveranza diabolica di due corpi disgraziati ed è, in fin dei conti e proprio in ragione di questo cantare dall’interno di una prigione (non dimenticatevi mai di Emily Dickinson!), la cosa più poetica che un uomo o una donna possano combinare.

Toujours Charlie? Riflessioni e testimonianze un mese dopo gli attentati di Parigi.

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[Riproponiamo oggi uno speciale apparso su alfabeta2 a un mese dagli eccidi di Parigi. Abbiamo raccolto alcune voci e privilegiato alcuni aspetti, convinti non solo che non sia facile dare una lettura univoca di quegli eventi, ma che non sia neppure necessario. In Francia, intanto, analisi e discussioni continuano, e non solo su legislazioni antiterrorismo e sul potenziale nemico interno, ma anche sulla segregazione sociale e razziale che mina la “République” ben più in profondità degli occasionali massacri realizzati da un piccola minoranza di adepti dell’idiozia e del fascismo di marca religiosa. Articoli di Badiou, Inglese, Donaggio, Buffoni, Rakha, Gallo Lassere. a. i.]

Luce, di Robert Lax

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tradotto da Andrea Raos

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Tratto da Robert Lax, Poems (1962 – 1997), a cura di John Beer, Wave Books, 2013, p. 102 – 122. Grazie a Renata Morresi per un paio di migliorie e a Orsola Puecher per l’impaginazione.

cinéDIMANCHE #14 JOHN CASSAVETES “Una moglie” [1974]

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cassavetesIntervista di Yves Bourde (Le Monde) a John Cassavetes  pubblicata in Hommage à Cassavetes  a cura di Orly Films

traduzione di Francesco Forlani

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A Woman Under the Influence. Una donna “sotto influenza” di che influenza si tratta?

Di una forza … L’influenza del suo entourage, della società, del marito, della sua famiglia, della maternità. Una donna lacerata tra diversi poteri, tra diversi ruoli.

Dopo Husbands, Mariti, Minnie e Moskowitz, l’amante, ecco la donna. Quale donna?


Ho scritto questa sceneggiatura per mia moglie, Gena Rowlands, splendida attrice però non si tratta di un’autobiografia. Questo lavoro nasce forse dalla disperazione, dall’interrogarsi sul senso della nostra vita? Ho messo da parte l’allegria, l’umorismo, il ridicolo, e mi sono immerso in qualcosa di serio, in questo desiderio di dire, dire qualcosa per Gena, per la mia stessa famiglia. Gli uomini non sono abbastanza sensibili, riconoscono le difficoltà delle donne, non le conoscono. La scrittura del soggetto è nata in solitudine, anche qualcosa di più della solitudine: in uno stato d’innamoramento.  Man mano che procedevo nell’elaborazione e poi durante le riprese, ho preso coscienza di problemi che mi erano sconosciuti, per non dire estranei. Infine, quando ho visto il film terminato, sono rimasto scioccato dalla realtà.

Film-psicodramma, Psicoterapia ?

No. È la vita che è uno psicodramma. Il film tratta di ciò che ci è peculiare, le ossessioni generali tra uomini e donne. C’è un problema legato all’amore. Una donna come Mabel, il personaggio protagonista, si è forse detta prima del suo matrimonio: “Io non voglio sposare quest’uomo,” eppure lo ha fatto. Questa coppia è diversa dalle altre in quanto è così coinvolta da non potere divorziare. La domanda allora è: “L’amore è possibile, in particolari circostanze può resistere quando la famiglia si divide? »

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Si dividerà?

Non lo credo. Il legame è la conoscenza di tale legameÈ  fuori di discussione. L’uomo deve prima escludere la sua famiglia per cominciare a spezzare questa influenza e lasciare alla moglie il tempo di esprimersi, di essere degna, di essere sé stessa. Alla domanda Mi ami? ” lui non può rispondere, si rifiuta di mettere un’etichetta a un sentimento che va ben oltre l’interrogativo. Tutto rimane aperto. Il nodo non è nella passione della sessualità, l’uomo e la donna se ne accomodano. È che lui ama ciò che la rende diversa, l’anima originale, ma crede di essere l’unico a capirla. Ecco allora che non riesce a superare il proprio disagio nelle situazioni in cui si ritrovano di fronte a molte persone. Peter Falk pensava del marito, del suo personaggio, che l’amore fosse un ostacolo alla sua comprensione di lei.

Come ha diretto i suoi interpreti?

In primo luogo, per me non si tratta di attori, ma di persone, esseri viventi. I registi sono piccoli dittatori e la stampa dà loro troppa importanza, a me compreso. È l’intensità delle emozioni che conta. I ruoli sono interpretati da persone che amo, mia moglie, sua madre, mia madre, altri Cassavetes, amici, ed è impossibile controllare le emozioni di coloro che amate, però più li conoscete, più si può far passare quello che sentono.
Io non li dirigo in ogni dettaglio e non si correggono mentre recitano. Non cercano di dare al pubblico un‘immagine simpatica di sé stessi. La cosa rara è che si rivelano come persone. Questo fa parte della mia mentalità. Dobbiamo allenare noi stessi a rimanere sensibili, sono le emozioni a farci vivere. Amo questo film perché non vi è alcun punto di vista. Non ce ne possono  essere. La storia e i personaggi sono molto reali per me. Se pur la visione di queste fratture è compiacente, questa cosa esiste: alla prima occasione, ci allontaniamo di corsa dall’amore.

femmeQuanta parte lascia all’improvvisazione durante le riprese?

Praticamente nessuna. Il film si compone di diversi scritti sparsi e messi insieme e tutti i dialoghi sono stati rispettati alla lettera. In compenso, la libertà che hanno gli interpreti  di esprimersi fisicamente ripugna a tanti. Pensano che il loro comportamento vada troppo lontano. Mi ricordo di un nuovo assistente operatore sul set di ripresa, talmente sorpreso dalla violenza di una scena che gli è caduta di mano la telecamera. In effetti, quando si lavora su un terreno così fragile e pericoloso, l’intensità, l’atmosfera così tesa possono impressionare. In realtà la cosa importante è la paura che hanno le persone di esprimersi e voglio che nessuno si senta in colpa per avere qualcosa da comunicareÈ  la libertà di esprimere la propria profondità ad essere rivoluzionaria.

Dalle memorie di un insonne/5

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di Giorgio Mascitelli

Un amico, un sedicente amico, mi ha propinato delle strane bustine color fucsia che mi dovrebbero far dormire come un angioletto, visto che i metodi naturali hanno fallito al pari di quelli sociali. Ma per me qui c’è puzza di bruciato, non mi convince la sua affabilità, la sua gentilezza un po’ melensa. Qui c’è puzza di Big Pharma. Essi si insinuano nei meandri dei loro oppositori e dei loro detrattori proponendo tramite falsi amici dei prodotti che creano dipendenza. Essi vanno davanti alle scuole a distribuire certe deliziose caramelline ai bimbi contenenti un principio attivo che crea dipendenza.  Essi prendono certe medicine prodotte per certe malattie e, senza averne le prove, dicono che servono anche per curare altre malattie per creare dipendenza. Lui mi ha garantito che le bustine erano dei generici. Ma io non mi fido e certo non diventerò uno zombi di Big Pharma.

Le bustine a ogni modo giacciono sul ripiano dell’armadietto in bagno, anche se non le prenderò mai.

Poi bisogna stare attenti ai falsi amici, dal momento che qui siamo tutti amici e fratelli che si danno del tu, che non è nient’altro che l’abbreviazione di tutum, il rumore della zanzata che ti arriva nei denti, non appena voltato l’angolo. Basta un attimo e i cosiddetti amici ti fanno fare la fine di Compare Salsiccia. Mi risulta che ci siano dei ministri degli esteri di vari paesi che chiamavano per nome  i primi ministri di altri paesi, che pochi mesi dopo sarebbero stati  bombardati per ordine di quegli stessi ministri degli esteri. Almeno una volta, quando c’erano ancora i conoscenti, uno stava sul chivalà. Adesso con tutte queste interfacce amichevoli, con questo continuo darsi un cinque, con questi bacini e bacetti, con gli emoticon d’amicizia e affetto, con pacche e scappellotti  siamo in pericolo. Occorreva che il galateo degli hippy e dei fricchettoni vincesse affinché continuasse a comandare il soldo. E Big Pharma.

Qualcuno potrebbe anche dire che sono un sognatore o meglio un illuso ( perché per sognare dovrei dormire), ma preferisco un mondo in cui perfino i fidanzati si danno del lei, almeno fino alla prima volta in cui copulano assieme, e ci sia la sanità gratuita per tutti, che un mondo in cui tutti fanno gli amiconi e Big Pharma riempie i giornali di annunci che tra pochi anni saremo immortali o comunque giovani fino a cento anni. Qualcuno potrà dire che sono un illuso, ma così dandosi del lei nel mondo ci sarebbe molta più armonia.

Forse sono davvero un illuso e dovrei semplicemente andare in bagno, aprire l’armadietto e prendere una di quelle bustine. Questo sarebbe una forma di sano pragmatismo: basta con i pensieri, le ansie, le angosce, finalmente dormire. Se, però, un pragmatismo riesce a esprimere tutta la sua sanità solo attraverso l’assunzione di medicinali che probabilmente hanno qualche effetto collaterale a seguito di un uso abituale e danno dipendenza c’è nelle cose oggettivamente come un’amara ironia, che ai tempi di mia nonna non si coglieva e che non dipende da nessuno stato d’animo soggettivo. Alla fine, la percezione di questa ironia è l’unico baluardo che mi trattiene dal mandar giù una bustina.

Contravvenendo a una prassi consolidata, questa notte ho posto una sveglia, anche se non carica, sul comodino e dunque vedo che sono già le due.  Immagino allora la mia calotta cranica che balugina nell’oscurità ( m’immagino sempre più cose del necessario). Magari aveva ragione la nonna di un tempo, non la mia, non una in particolare, ma la nonna per antonomasia, che la causa dell’insonnia nasce dal fatto di non sapere che fare durante il giorno. Gli onesti lavoratori dormono profondamente, essa pensava,  un sonno senza interruzioni perché se lo sono guadagnato con il sudore della fronte. Ora a me non sembra di battere la fiacca, anche perché ho paura che non mi rinnovino il contratto, eppure non prendo sonno. Non sono un lazzarone, non sono un perdigiorno che va a zonzo, non sono uno zuzzerellone, non sono un turista della vita, però anch’io in un certo senso non so che fare durante il giorno perché quest’idea che si lavori duramente per ottenere il diritto al sonno grazie al quale ci si rifocilla per poter sostenere un’altra giornata di lavoro non mi sembra una strada percorribile.  O meglio ci vedo l’ironia della cosa. A me l’ironia m’ha rovinato: invece di rigirarmi nel letto, e sono già le tre, a quest’ora se non c’era l’ironia, ero a Londra e avevo già musicato tutto l’orario musicale, come quel tale.

Adesso magari viene fuori che, se ho l’insonnia, è colpa mia e che se fossi veramente zelante e desideroso di venirne fuori prenderei le bustine senza perdermi in tanti ragionamenti contorti. Infine mi si chiede soltanto di barattare un po’ d’ironia per la felicità o almeno la serenità; cioè in realtà nessuno mi chiede o mi ha mai chiesto nulla, ma le cose si mettono sempre in modo tale che nella realtà avverti una sorta di pressione come se tutti le chiedessero ( e le idee dominanti continuano a essere quelle delle classi dominanti).  Ciononostante nella notte della mia insonnia, e vedo le cinque  sul quadrante e sento qualche uccellino cantare ( è strano che succeda a Milano eppure succede), nella notte della mia insonnia in cui mi conosco nuovamente come insonne mi sembra di essere più vicino a qualcosa che grosso modo all’incirca più o meno si potrebbe chiamare la verità.

Forse anche il vitello e il maiale di un allevamento bio sono più agitati, ma più veri di quelli degli allevamenti industriali. Non lo so. So soltanto, in questa notte della mia insonnia, che finché il fisico regge è giusto che vada avanti così. All’alba non vincerò o crollerò, andrò  avanti così senza bustine. Come fanno gli uomini, come hanno sempre fatto, compiendo milioni di cose e raccontandosene ancor di più finché il fisico  regge.

(5,fine)

Francesca Borri, La guerra dentro

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di Mario Sechi

Free Syrian Army fighters run for cover as a tank shell explodes on a wall during heavy fighting in the Ain Tarma neighbourhood of Damascus Foto: Goran Tomasevic
Free Syrian Army fighters run for cover as a tank shell explodes on a wall during heavy fighting in the Ain Tarma neighbourhood of Damascus
Foto: Goran Tomasevic

Diciamo giornalisti free lance, o giornalisti embedded, e ci interroghiamo magari sulla nuovissima specie dei citizen journalists, e proviamo a farci un’idea di come si sia evoluta nel caos delle guerre asimmetriche la figura del reporter. Mi riferisco soprattutto al fronte arabo, in quella enorme mezza luna tra terra e mare che parte dal Mali e arriva all’Afghanistan, con le note propaggini caucasiche. Guerre su guerre, da molti decenni ormai, guerre civili interne a ciascun paese, oppure più spesso guerre esogene, scatenate dalle grandi potenze occidentali contro nemici dichiarati unilateralmente tali, contro minacce o pericoli talora inventati di distruzione totale, contro fantasmi sfuggenti di nuovi soggetti, che sono di certo reali ma paiono entità. Guerre di qualcuno contro qualcun altro, e alleanze di volenterosi, coperte all’ultimo dall’ombrello dell’ONU o della NATO, in accordo o con la tacita connivenza della comunità internazionale.

Ciò che è cambiato rispetto all’epoca eroica di Remarque e di Hemingway, per fare solo due nomi, non sta tanto nella sovrapposizione e nella confusione del conflitto fra eserciti e fra combattenti irregolari, che finisce per polverizzare l’idea stessa di una linea del fronte, dove il giornalista dovrebbe stare per presidiarla e misurarla, quanto nella perdita di credibilità dei tradizionali schemi di interpretazione e di gestione dei conflitti, fondati sui più collaudati modelli di strategia militare e di geo-politica. Il caso della Siria oggi è il caso in cui più clamorosamente si evidenzia una vera e propria impotenza delle organizzazioni e degli osservatori internazionali, sia sul piano dell’analisi delle situazioni sul campo, sia e tanto più nella costruzione di percorsi di pacificazione e di equilibri possibili per il futuro.

Come in un avvitamento continuo di fattori imprevisti, nei tre anni trascorsi dalle prime rivolte di piazza contro il regime dittatoriale di Assad si sono innescate reazioni a catena di movimenti e di eventi, che hanno fatto emergere sempre nuovi attori, confusi nel perseguimento di obiettivi spesso non chiari, e tra di loro in aperto conflitto: dalla Coalizione Nazionale, che è il rassemblement dei gruppi politici siriani operanti all’estero, all’Esercito Libero dei ribelli della “primavera”, occupanti alcune regioni centrali del paese e impegnati nella interminabile battaglia di Aleppo, agli islamisti di al-Qaeda radicati nelle moschee e contigui ai ribelli nelle stesse strade e quartieri, ma con ben altri piani politico-militari, alle potenze regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita) e ai paesi limitrofi (Iraq, Libano, Israele, Palestina), gli uni e le altre intrecciati fra loro in un’inestricabile ragnatela di interessi e di alleanze: e si pensi a Hezbollah o ad Hamas, soggetti politico-militari di importanza non primaria, e tuttavia decisivi nell’interdire e nel bloccare vie d’uscita dallo stallo di una situazione incancrenita, destinata forse a un’irreversibile implosione.

Ma a un livello persino più profondo la non fungibilità dei vecchi schemi è dichiarata dalla diffusa strumentalizzazione delle appartenenze religiose, nel contesto di un Islam che appare ormai deflagrato, scosso da vecchie e nuove eresie e fanatismi di origine oscura, per non dire sospetta. Assad appartiene al campo sciita ma nella sua variante alawita, è legato alla tradizione del Bahatismo laico (la stessa che fu di Nasser e di Mubarak in Egitto), e non molto ha a che fare sul piano culturale e ideologico con gli sciiti iraniani, che pure sono suoi alleati. I suoi primi oppositori interni sono sunniti laicizzati di nuova generazione, ma ad essi si sono aggiunti e sovrapposti gli jihadisti, che non alla Sunna si rifanno ma al Wahhabismo fondamentalista, foraggiato dai petrodollari della penisola arabica, dove sono insediati i governi più filo-americani del pianeta. La Turchia dal canto suo – membro della NATO e aspirante UE – è uno stato laico a maggioranza sunnita, che nel corso del conflitto siriano svolge un doppio gioco politico, ufficialmente sostenendo la Coalizione nazionale e i ribelli dell’Esercito libero, ma di fatto non contrastando i transiti di mezzi e truppe irregolari che alimentano il cosiddetto Califfato e che dal territorio del Califfato sciamano intorno, fino alle destinazioni europee. E non si può trascurare, attorno a queste realtà più compatte, il reticolo delle religioni pre-islamiche che sono praticate ad esempio dagli Yazidi e dagli Zoroastriani, schiacciati insieme ad ebrei e cristiani e sottoposti ad azioni di sterminio, in una deriva di emarginazioni che non ha tregua, e che punta in primo luogo al contenimento dell’indipendentismo curdo.

Al di là delle semplificazioni brutali della realpolitik, che passano sopra la realtà delle vite umane senza alcuna vergogna, come muoversi e come orientarsi in questo ginepraio di sangue e di distruzione? Francesca Borri è testimone diretta e coinvolta di questa lunga storia sbagliata, avendo vissuto e lavorato per quasi un anno nei luoghi e tra i pericoli di quella realtà. La sua attività di reporter non è nata però da uno slancio idealistico, e neppure dal gusto della scommessa con se stessa, in un progetto auto-centrato di addestramento e di crescita professionale. La sua esperienza sul campo cominciò infatti nel teatro balcanico, nel 2007, durante la guerra del Kossovo, sotto l’egida delle organizzazioni internazionali preposte alle operazioni di peace keeping: e fu allora un’esperienza nutrita e motivata da una fresca e solida formazione accademica, in ambito di diritto internazionale e di tutela dei diritti umani. E poi proseguì in Medio Oriente, dall’osservatorio di Ramallah guardando alla frontiera delle innumerevoli tregue fallite nella guerra israelo-palestinese, con la tenacia di voler riconoscere e censire, di qua e di là, i soggetti possibili e dispersi di una trama civile culturale umana, capace di risarcire ferite e di interpretare lo spirito di una intermediazione reale. Il mestiere di giornalista e di testimone Francesca lo ha imparato cioè a partire dalla fiduciosa adesione a una linea teorica e persino dottrinaria, e nella convinzione di poter contribuire a un grande piano di conoscenza e di regolazione dei rapporti di convivenza, di relazioni, di integrazione tra popoli diversi e storicamente nemici, attraverso l’analisi e la gestione delle situazioni e il riconoscimento attento e scrupoloso dei soggetti in campo.

Mideast Syria Cost of War Foto: Manu Brabo
Mideast Syria Cost of War
Foto: Manu Brabo

Il suo La guerra dentro, uscito per Bompiani non molti mesi fa, e ora in corso di traduzione per le edizioni americana e norvegese, dichiara e denuncia il dolore di una delusione, che lei stessa vive come crollo di ogni riferimento ideale, giuridico, politico, logico, di fronte allo spettacolo avvolgente, non distanziabile, di quanto accade dove nulla più accade ormai, o così sembra. Aleppo, che è il suo luogo di osservazione, è un paesaggio di rovine e di sopravvivenze umiliate, di fame e di malattia, dove si aggirano gruppi di combattenti con kalashnikov e con bombe rudimentali, spesso bambini, bande di cecchini di ogni specie, mentre dalla distanza piovono missili, raffiche, piogge di fuoco, a cui si sopravvive, se si sopravvive, per caso. E’ lo spettacolo del nulla, una distruzione di cose, edifici case strade, vissuti familiari e personali, senza possibili conforti né risarcimenti, poiché lì non c’è ONU non c’é Europa non c’è Croce Rossa e neppure ci sono ONG, se non quelle finte, emanazioni del potere governativo. Ci sono morti e profughi a centinaia di migliaia forse milioni, di cui si è sospesa anche la contabilità, e c’è lo scardinamento di ogni parvenza di civiltà. Chi abbia visto di recente le foto di Kobane strappata dai combattenti curdi alle forze dell’ISIS può più facilmente farsi un’idea di questo vuoto di realtà umana che sussegue agli spari, e richiamare magari alla memoria collettiva la irreale desolazione dei paesaggi carsici, dove la grande guerra europea raccontata da Emilio Lussu inaugurò la pratica dei massacri lucidamente programmati per contendere pochi metri di territorio al nemico, in un’ottusa coazione di morte.

Ma proprio qui, di fronte a questo spazio di civiltà suicidata, l’autrice del libro, un libro che è reportage ed è diario, ma è anche e soprattutto scrittura, oltrepassa il piano giuridico-politico e persino quello degli interrogativi etici, che pure pulsa al fondo di ogni pagina. E centra con crudezza il problema della verità: la costruzione delle notizie e la elaborazione delle verità, che sono il dovere del testimone e che tuttavia sfuggono, si sbriciolano in frammenti, si avviliscono in dubbi senza fine, in situazioni dove mancano i riferimenti certi del diritto internazionale o di una politica intesa come visione e narrazione plausibile di fatti e di scenari. Perché ad Aleppo non ci sono più neppure le grandi Agenzie di stampa, che pure continuano a produrre lanci e commenti da lontano, e non ci sono giornalisti all’altezza, non molti almeno, e dal terminale di Aleppo il sistema mediatico planetario esige una varietà appetibile di scoop, che sono poi stereotipi, fissati in fotografie e video, e stringhe di titoli in caratteri cubitali: dal “medico bambino” al “bambino soldato”, alla donna italiana jiahdista (col “fidanzato talebano”?), e così via.

Nessuno più si stupisce di questo funzionamento della cosiddetta informazione, da quando almeno Baudrillard analizzò e denunciò le tecniche di de-realizzazione della realtà sperimentate durante la prima guerra del Golfo, col supporto di tecnologie di ripresa sofisticate, messe a servizio di una rappresentazione contraffatta a fini spettacolari. Francesca Borri documenta anche con nomi e cognomi, con episodi e con date, lo scialo delle notizie fabbricate secondo questo metodo di produzione e riproduzione della realtà. E attesta ogni volta il proprio sconcerto, la propria delusione, ma allo stesso tempo si interroga sul proprio mestiere, sul senso del proprio stare lì. E si trova a un certo punto a raccontare la guerra non come “guerra degli altri”, ma come una guerra che lei stessa vive dentro di sé, nello specchio infranto dei propri pensieri e delle proprie emozioni, mescolando e tenendo in equilibrio istinto di sopravvivenza, lucide analisi dei fatti e interrogativi senza risposta, che diventano appelli al lettore, ai suoi corrispondenti dispersi nei più diversi angoli di mondo, lontani e ravvicinati in una sorta di doloroso abbraccio.

In quanto libro pensato e costruito, La guerra dentro è un tentativo di narrazione, è documento, è diario, ma è allo stesso tempo letteratura. Perché Borri sa bene come la ricerca di verità, per non soggiacere del tutto ai modi di riproduzione delle verità di comodo, debba rischiare una qualche forma di racconto, montando voci e spezzoni di scritti altrui, descrivendo immagini e fotografie, e riprese video fatte con la fotocamera, e non sottraendosi a una certa esposizione della propria figura, del proprio attraversare la scena in corsa, in fuga, ma anche in ascolto, in attesa, e poi partire, andare via per un po’, fino ad Amsterdam, fino a casa in Italia. Prendere fiato, recuperare distanza, per tornare, ed è quel che lei fa. Questo sforzo di narrazione, sia pure frantumata, sia pure a flash, vuol essere da parte sua una protesta contro i tanti che – riprendendo e banalizzando nel chiacchiericcio quotidiano delle redazioni quello che fu il leit motiv del grande romanzo europeo d’avanguardia e di post-avanguardia – sostengono l’inutilità del racconto, anzi l’evaporazione, l’inesistenza di temi narrabili: “Ma che ci fai ancora lì? non c’è niente da raccontare”. Ma il dolore, come la fame, come lo sterminio, come la distruzione, esigono di non essere invano, pretendono voce e parola. Da lì, da quella linea sottile che separa e congiunge la radicalità dell’esperienza umana e il castello infinito delle parole e degli schemi mentali, cognitivi, ideologici, torna a suonare la campana, per quei tanti o anche pochi che – come lei scrive – abbiano la forza di non aver paura.

“Le cose terrene”

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Alessandra Sarchi, “L’amore normale” Giulio Einaudi editore, Torino 2014
Alessandra Sarchi, “L’amore normale”  Giulio Einaudi editore, Torino 2014
Alessandra Sarchi, “L’amore normale”
Giulio Einaudi editore, Torino 2014

di: Francesca Fiorletta

[articolo apparso su: “Nuova Corvina” (N.26), Rivista di Italianistica dell’Istituto Italiano di Cultura per l’Ungheria – Budapest, diretta da Gina Giannotti]

 

È Wolfgang Goethe, nell’ormai classico dei classici, “Le affinità elettive”, (“Die Wahlverwandtschaften”, splendido romanzo del 1809) ad usare con precisione estrema l’espressione “le cose terrene”, per identificare i piccoli passi quotidiani compiuti dagli uomini e dalle donne di tutti i tempi, nel dare seguito, attimo per attimo, alle loro passioni sentimentali.

Passioni che, per quanto possano poi rivelarsi al loro epilogo come effimeri fuochi fatui, oppure invece al contrario come progettualità di coppia specificatamente ragionate, cito ancora l’autore, “c’inducono a immaginazioni tali che non hanno nessuna rispondenza nella realtà”. 

Da Via Ripetta 155 al futuro. Il nuovo romanzo di Clara Sereni

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di Giacomo Verri

Stile che ammassa e punge, e che aggancia all’uno l’altro argomento come un treno in corsa, o come i fogli del ciclostile. Frasi che da un particolare quasi lì gettato, con studiata noncuranza, compongono una scena, generano un microcosmo. Quello sconnesso dell’appartamento romano di Via Ripetta 155, “in quel tratto di strada che perfino molti autisti provetti ritenevano appartenesse già a via della Scrofa”, tra pavimenti a losanghe nere e rosse (ove dormiva chiunque arrivasse, purché in possesso di un sacco a pelo) e uno scaldabagno sghembo, in cui Clara Sereni ha vissuto per dieci anni, tra il 1968 e il 1977. Non un decennio qualunque, ma il doppio lustro dell’“orda d’oro” che cambiò il volto delle generazioni, segnando lo iato più caldo che la Storia abbia conosciuto dopo i conflitti mondiali.

Les infréquentables: Philippe Muray – cari jihadisti

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Philippe Muray

traduzione di Francesco Forlani

Cari jihadisti,
Voi sopravvalutate alla grande  la posta in gioco della battaglia in cui vi siete buttati a capofitto. Apparite come le prime vittime della nostra propaganda. Credete di mettere sotto attacco una civiltà e le sue tendenze profonde, secolarizzanti, seducenti, desacralizzanti, oscenizzanti e mercatizzanti. Vi sbagliate di mulino a vento. Non c’è nessuna civiltà. Accordate fin troppa fiducia, seppure con l’intento di odiarlo, al discorso comune dei nostri portavoce, innumerevoli, politologi, editorialisti, commentatori e osservatori, che dicono e non dicono che siamo sprofondati in una “guerra dei mondi”. Non ci sono più mondi. Il termine “mondializzazione” si è fatto carico lui stesso di eludere la sua scomparsa. Inoltre ci raccontano i nostri incantatori di serpenti, e su questo ci ritorneremo, che la Storia continua, ma non c’è più Storia; o per lo meno, proprio la Storia ha smesso di produrre Storia: produce innocenza, la nostra innocenza, e non produce ormai  altro che questa.

A troppo credere al nostro potere, avete finito con il convincervi che esistiamo. Prendete le nostre lucciole per lanterne. Vi precipitate contro specchi per allodole e manifesti che noi stessi abbiamo costruito a nostro uso interno, e vi riponete  quella energia inconsapevole da cui siete posseduti quando vi abbattete sulle nostre torri al comando di aerei imbottiti di kerosene. Ma lo sappiamo, noi, che questa civiltà presente che ci ostiniamo a chiamare Occidente e che non ne ha ormai più nessun lineamento, è incompatibile con la dignità umana la più elementare: è anche il motivo principale per cui saremo implacabili nella sua difesa. Le vostre risposte non faranno altro che nutrire la nostra determinazione. La vostra violenza per quanto sempre più folle e omicida, non smetterà di rafforzarci legandovi dialetticamente, e ogni volta più strettamente, a noi.

9782842056490_4_75La messa in rete dell’ umanità, di cui tanto si parla, e questa  dinamica d’interdipendenza  di cui ci si delizia,  lavorano soltanto in nostro favore. Le vostre ragioni religiose,  che non possiamo prendere in considerazione, tranne che per fornirvi delle ragioni, il  che equivarrebbe ad attribuirvi anche dell’ umanità, si perderanno nella fiabesca baraonda  del parco dei divertimenti di cui  siamo i creatori e che poco alla volta, soppianta il resto.
Male che vada, cari jihadisti, potrete rappresentarvi nel nostro nuovo sistema, come una sorta di opposizione provvisoria a Nostra Maestà lasciando credere ancora in un bipolarismo del pianeta, e in un’« alternanza » plausibile (per quanto temibile) dal momento che ad estendersi è  il nostro sistema planetario, senza controparte.

Nel nostro altro mondo senza l’Altro, potrete essere per qualche tempo quest’ altro posticcio che, in ogni caso, e con diverse vesti , ci sarà sempre necessario. Vi siete voluti scontrare con noi. Avete voluto entrare in gioco, nel nostro gioco. E ora bisognerà giocarlo questo gioco, e giocare a questo soltanto, e giocarlo fino in fondo, anche se vi ostinate a colorarlo con riferimenti pittoreschi al califfato, alla ummah, agli antichi splendori  di Granada, all’età dell’oro di Cordova e tante altre  turqueries che vi danno ancora nella vostra lotta l’illusione d’una sostanza, di un contenuto, di un’ autonomia, di un’origine e di uno scopo.
Eppure il vero segreto è che ciò contro cui ve la prendete è  senza contenuto. E se ci tenete a  rimanere all’altezza della situazione senza precedenti che avete creato, vi toccherà imitarci. Da questo momento, quindi, il vostro orizzonte  assegnato è l’assenza di significato.

estratto dal libro di Philippe Muray, Chers djihadistes, Mille et une nuits, 2002

il testo originale qui

 

Quello che brucia

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di Lorenzo Trombetta

Più per l’orrore che toglie il sonno per le atroci immagini del pilota giordano, Muaz Kassasbe, che si dimena abbrustolito nella gabbia, lo stomaco si contorce per l’indifferenza di molti europei di fronte all’uccisione da parte della polizia egiziana di Shaimaa Sabbagh, una giovane madre colpita a morte a piazza Tahrir al Cairo lo scorso 25 gennaio mentre tentava di deporre dei fiori nella piazza simbolo delle proteste di quattro anni fa.

Ferisce nel profondo la stessa indifferenza con cui in Europa è stata accolta la notizia che Mazen Darwish, giornalista siriano e instancabile difensore del diritto di espressione, è stato trasferito nei giorni scorsi dal carcere di Damasco a quello di Hama, città sigillata e militarizzata dalle forze governative, sancendo l’ennesimo rinvio di un processo per “terrorismo” che forse non comincerà mai.

Seguendo la carrellata di fotogrammi che ritraggono i tentativi disperati degli amici di Shaimaa di salvarle la vita in mezzo agli scontri di Tahrir, tornano alla mente altre immagini: quelle dei governanti europei accorsi alla corte del presidente egiziano Abdel Fattah Sisi a esprimere l’appoggio al suo potere.

In Egitto è in corso la restaurazione. E a molti, in Europa, va bene così. La visione è talmente manichea – o i militari o l’oscurantismo degli estremisti – che non c’è spazio nemmeno per indignarsi della vigliacca uccisione di Shaymaa Sabbagh.

Il suo gesto – tentare di portare dei fiori in un luogo simbolo della primavera egiziana – è dissonante, fuori fuoco rispetto alla convinzione, sempre più dominante in molti ambienti politici e intellettuali europei, che lo Stato islamico e le sue barbarie siano il risultato delle sollevazioni popolari del 2011.

Anche la vicenda kafkiana e terribile di Mazen Darwish – un essere umano trattato come un topo di fogna da un governo con cui in molti vogliono tornare a trattare – stride con il mantra per cui il potere siriano degli Asad sia l’unica alternativa ai roghi umani dello Stato islamico.

Dal febbraio 2012 il potere di Damasco ha di fatto tolto a Mazen Darwish l’occasione di vivere umanamente. E di lavorare  per lo sviluppo del suo Paese. E’ un fatto che non merita di essere sottolineato, raccontato a dovere, amplificato. Come invece si fa per ogni notizia truculenta riguardante le barbarie commesse dai jihadisti.

Da anni, Mazen lavorava a Damasco per una Siria migliore. Per una Siria dei diritti. Per una Siria di cittadini e non di membri di comunità confessionali, sudditi appartenenti a “minoranze da proteggere” dalla minaccia takfira.

Moltissimi dei giovani egiziani che, per 18 giorni erano scesi in piazza tra il gennaio e il febbraio del 2011, erano uniti a Mazen e a moltissimi altri siriani, tunisini, libici, yemeniti, iracheni, marocchini, algerini, del Bahrein, giordani.

Per lunghi mesi, nel 2011 manifestanti pacifici e rappresentati dell’emergente società civile irachena si erano accampati a Mosul, ora capitale dello Stato islamico, così come a Ramadi, capoluogo della regione di al Anbar, culla dell’Isis. A più riprese, donne libere di Raqqa, ormai capitale siriana dei jihadista, fino a un anno e mezzo fa  col loro volto e la loro voce contestavano apertamente i jihadisti.

Chi si ricorda le manifestazioni a Piazza Perla a Manama, in Bahrain, represse nel sangue dalla polizia e dai militari del Consiglio di cooperazione del Golfo, emanazione del potere saudita? Chi si ricorda dei caccia dell’aviazione egiziana che, per terrorizzare la folla pochi giorni prima dell’uscita di scena del presidente Hosni Mubarak, sorvolarono piazza Tahrir gremita di egiziani?

Chi si ricorda delle manifestazioni a Tunisi, Sanaa, Tripoli, Algeri, Rabat, Amman? Chi si ricorda della piazza dell’Orologio a Homs, prima del massacro compiuto dalle forze siriane il 18 aprile 2011? E chi si ricorda dell’oceano di siriani riunitisi sotto la torre della piazza centrale di Hama?

Mazen Darwish il “terrorista” è ora in una cella nella prigione centrale di Hama, tristemente nota per le pessime condizioni in cui sono costretti a sopravvivere i detenuti. Il suo nome e la sua storia rimarranno nell’oblio. Shaimaa Sabbagh, “uccisa dal complotto”, è sotto terra. E il suo nome sarà presto ricordato solo dai suoi amici e da qualche irriducibile attivista. Chi voleva deporre fiori a piazza Tahrir, ormai non compierà più un passo. E tacerà chi voleva lavorare per la libertà di espressione a Damasco.

La restaurazione in nome della “sicurezza-e-stabilità” ha bisogno di silenzio. Della benedizione dei nostri sorridenti governanti. E dell’appoggio di tutte le forze reazionarie della regione. E’ una restaurazione che continuerà a produrre migliaia di altri invasati terroristi pronti a tagliare gole a giornalisti e cooperanti. Pronti a bruciare vivi prigionieri di guerra. Soprattutto pronti a uccidere vignettisti nel cuore dell’Europa.

Più delle bombe sganciate dai colleghi arabi del povero Kassasbe sulle teste dei jihadisti –  ma anche dei civili – in Siria e in Iraq, erano Mazen e Shaimaa il vero antidoto al cancro jihadista. Erano loro i membri di una più genuina ed efficace Coalizione contro l’oscurantismo, sia esso con la barba o in giacca e cravatta.

Questo articolo è apparso su SiriaLibano.

La creazione del lutto

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Marco Peano, L'invenzione della madre, Minimumfax
Marco Peano, L'invenzione della madre, Minimumfax
Marco Peano, L’invenzione della madre, Minimumfax

di: Alessandro Garigliano

Non so se durante la lettura de L’invenzione della madre di Marco Peano (minimum fax 2015) mi abbia commosso più la storia o lo stile. Non starò qui a rimuginare se ciò che si racconta sia biografia o invenzione, e in che percentuali. Si narra in terza persona con una voce vicina, quasi complice, al protagonista ventiseienne che ha nome Mattia (l’unico in tutta la storia a essere nominato, mentre gli altri sembra godano di una sorta di sacralità grazie alla quale i loro nomi resteranno impronunciati). Dirò subito che ciò che più mi ha coinvolto e stravolto non è né l’esattezza delle parole né l’essenzialità dei periodi necessari a narrare il decorso terminale di una donna malata di diverse forme di cancro; ciò che mi ha coinvolto e stravolto è la capacità di sottrarre pathos senza sottrarsi, senza disinnescare il dolore spaventoso scaricando la tensione con l’ironia o usando artifici inadeguati. 

Il marmo di César Aira

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marmodi Francesca Matteoni

Pietra splendente è il marmo, lavorato a lastre che trattengono l’esistenza trascorsa dentro una lapide cimiteriale. Certezza, chiarore, fissità: sono tutte caratteristiche facilmente attribuibili alla sostanza. Eppure ne Il marmo, romanzo dell’argentino César Aira, queste si sgretolano in globuli di poco valore, dati ai clienti nei supermercati cinesi per arrotondare il resto in mancanza di spiccioli. Si sgretolano, ancora prima, nell’incidente che dà inizio al racconto: attraverso un’immagine la solidità del marmo si cambia nella fluidità di un’epifania, che risveglia il protagonista in un presente dove ignorava di trovarsi, e a cui è giunto schivando (o utilizzando) le schegge di molte possibili storie.

“Cerco di spremere altri dati dall’unica visione o dall’unico momento che mi è rimasto impresso. (Da un po’ la mia penna ha ricominciato a posarsi sul foglio. Ho rinunciato all’attesa passiva.) Cerco il filo che mi porti al ricordo. Un solo dato, minimo, basterebbe … Ma l’unico dato che riesco a tirar fuori dal cilindro non potrebbe essere più intrigante: nel momento in cui mi abbassavo i calzoni ero seduto su un blocco di marmo”.

Come riporta Giuseppe Genna nella sua introduzione, Aira è uno scrittore di romanzi brevi, capace di finirne e pubblicarne diversi l’anno, seguendo un metodo: scrive ogni giorno almeno una pagina, seduto in un caffè, affidandosi all’improvvisazione e soprattutto andando sempre avanti, in una fuga che non permetta al racconto di voltarsi indietro. Proprio come nella vita, anche gli errori, i conti che non tornano, il superfluo, il nostro smemorarsi o attaccarsi perfino in modo ossessivo a dettagli irrilevanti, costituiscono materia narrabile, compongono l’immaginazione. Questa fuga è un incessante e progressivo ribaltamento di prospettiva che permette di immaginare l’ordinario quale sostanza nuova e bizzarra, lo turba, smascherandone il fulcro ignoto.

A dar l’avvio alla vicenda sono una serie di oggetti insignificanti come una molletta dorata, una macchina fotografica grande un centimetro, un cucchiaino-lente, una tavoletta delle proteine, che al protagonista vengono dati, insieme ai globuli di marmo, dal commesso cinese. Ognuno di questi oggetti tuttavia si rivela risolutivo nel succedersi degli eventi. Uscito dal supermercato infatti l’io narrante incontra la sua guida agli inferi o la sua nemesi: un ragazzino cinese dall’aspetto trasandato e lo spagnolo approssimativo, infarcito degli accenti del suo proprio idioma. Il mondo noto viene a questo punto sovvertito e così i generi letterari, che appaiono e si disinnescano nel viaggio rocambolesco dei due:  inusuale romanzo d’avventura, tutto svolto all’interno di mura innocue, non memorabili, della città; storia che vira al fantascientifico in un lasso velocissimo di tempo per mostrarci che gli alieni sono uguali ai cinesi – agli altri, che altri non sono, umani e mortali come noi, che ci invadono, controllano un numero crescente di attività commerciali, instancabili e indistinguibili all’occhio da conquistatore in pensione dell’occidente. Infine, macchina del ricordo dove lo sforzo del vagare a ritroso e la propulsione all’accumulo di frammenti narrativi si fondono felicemente, catapultando lettore e attori in un sogno trafelato tra i fatti e le immagini.

“Ma sono stati davvero i fatti? O tutto continuava a succedere sul piano delle mie supposizioni? Il pensiero si basa sempre sui fatti, li rende ‘fatti significativi’. E nel corso della mia avventura, che somigliava tanto a un sogno, ho scoperto che la carica di significato dei fatti si moltiplica in modo portentoso quando si tratta di fatti strani, imprevisti, per esempio quando come in questo caso, vi prendono parte degli extraterrestri”.

Assurdità e pregiudizi formano quindi il tessuto marmoreo di questo reale pronto ad esplodere per rivelare il suo premio o la sua mancanza ultima, ciò per cui davvero, pur senza saperlo, si affannano il protagonista, il ragazzo cinese, gli alieni  – una profonda nostalgia per qualcosa che è stato o che può divenire, sebbene i mondi conoscibili non facciano altro che rispecchiarsi identici, sebbene tutto l’esperibile sia solo un ripetersi del sé, la sensazione di esserci già stati. La variabile sta nello scivolamento delle cose dentro una mente o una memoria, nel moto nostalgico verso l’origine o la prima ragione – prima del fatto concreto, dell’universo codificato, quando la scrittura e le sue storie  non sono ancora nulla, si manipolano in tasca come amuleti, si affrancano dalle verità e dai fini nella pura, splendente invenzione.

 

César Aira, Il marmo. Prefazione di Giuseppe Genna, Traduzione di Raul Schenardi (Edizioni Sur, 2014)

 

Bestiaire

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5+Pedrazzini_detail.12Le bestie da successo

di

Livio Borriello

le illustrazioni utilizzate per questo articolo sono di Andrea Pedrazzini ( tratte dal libro De bestiarum Naturis e altri disegni)

 

                                                 allez annoncer partout que l’homme n’a pas encore été capturé!

                                                        Siamo tutti forzati del successo, bestie da successo.

Looking for Giuseppe Terragni

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di Gianni Biondillo

(Sta per essere pubblicato un libro, Negli immediati dintorni, nato dall’iniziativa di Viavai – contrabbando culturale Svizzera/Lombardia – in collaborazione con Edizioni Casagrande e con gli amici di Doppiozero. Nel volume c’è anche un mio testo, che qui vi allego. L’8 febbraio ne parlano Marco Belpoliti, Luigi Grazioli, Matteo Campagnoli e Alberto Saibene a Writers. G.B.)

Giuseppe Terragni, ex Casa del Fascio, Como, 1932-36, ph. Giovanna Silva 2015
Giuseppe Terragni, ex Casa del Fascio, 1932-36, ph. Giovanna Silva 2015

Le città non sono musei, c’è poco da fare. E meno male, viene da aggiungere. Sono organismi complessi, mutevoli, palinsesti su cui gli abitanti scrivono e cancellano segni di continuo. Anche per questo l’architettura è un’arte ibrida, sporcata con la vita quotidiana. È vero, molti architetti hanno segnato il volto di una città, e una persona, per fare un esempio, se volesse conoscere Palladio dovrebbe, soprattutto, girare per Vicenza. Ma le sue opere non sono di certo disposte una dietro l’altra, seguendo un ordine cronologico, così come appunto in un museo.

Penso a tutto questo mentre faccio la mia ennesima capatina a Como. Da Milano è poca roba col treno. In fondo è un viaggio che molte persone per lavoro fanno tutti i santi giorni della settimana. Ma per me venire a Como è sempre una specie di regalo, di piccola vacanza a portata di mano. Ci venivo da bambino con i miei genitori, quelle domeniche mordi e fuggi viaggiando sui treni delle Ferrovie Nord, ci sono tornato da studente d’architettura, ci vengo ora con le mie figlie. E non c’è volta che non provi a fare il mio personale pellegrinaggio razionalista, che non provi a capire come sia possibile che, dopo tutti questi anni, Giuseppe Terragni riesca ancora a stupirmi. Como è la sua città, lo sappiamo. Certo, ha lasciato in giro, fra Seveso ed Erba, fra Lissone e Milano, qualche manciata di opere, ma è qui che ha segnato il gusto di un intero territorio. E forse di un intero periodo, non solo in Italia.

A voler consigliare al turista volenteroso un itinerario seguendo l’ordine topografico, dovrei dirgli di iniziare dall’Asilo Sant’Elia. A sud, in via Alciato, fuori dalla città storica. Che però è praticamente la fine del percorso umano del progettista. L’edificio assolve ancora oggi alla sua funzione, con decoro. Sembra anzi costruito da poco. A guardarlo appare incredibile che, mentre nel resto del paese la tipologia di queste costruzioni era ancora tetragona e monumentale, qui Terragni, consapevole di ciò che si teorizzava nel resto d’Europa, elaborasse edifici bassi, d’un solo piano, candidi, a misura di bambino, fin nello studio degli arredi. Ma oggi non mi posso fermare, sono di fretta. Devo, risalendo, tornare indietro nel tempo.

Non c’è molto da fare, le città non sono musei, l’ordine d’apparizione delle opere è sempre topografico, mai cronologico. Occorre saper saltare di palo in frasca, riconnettere le discrepanze. Che nel caso di Terragni, sperimentatore indefesso, si fanno così evidenti che pare abbia operato per decenni, quando invece la sua parabola umana è stata tragicamente breve. Salto Casa Pedraglio, una delle sue ultime opere, incompiuta, in via Mentana, e punto senza indugi verso il suo capolavoro.

Giuseppe Terragni, ex Casa del Fascio, 1932-36, ph. Giovanna Silva 2015

Aggiro il centro, mi lascio alle spalle l’abside del duomo, supero la ferrovia e resto a contemplare la facciata della Casa del Fascio. C’è ancora qualche guida che la chiama, con un pudore che suona falso, Palazzo della Guardia di Finanza. L’adesione al Partito Nazionale Fascista determinò la sfortuna critica di Terragni, una sorta di onta incancellabile nella generazione storiografica del dopoguerra. Ridicolaggini. Non solo perché quella di Terragni fu una adesione imposta dall’alto, che accettò più per quieto vivere, all’italiana; non solo perché, nei fatti, anche promulgate le leggi razziali, non smise mai di frequentare amici, intellettuali e artisti ebrei; non solo perché, morto nel ’42 al ritorno dal devastante fronte russo, non poté come molti altri “ex-fascisti” riscattarsi vivendo gli anni della Resistenza, ma semplicemente perché, su tutto, la sua fu una architettura, qualunque fosse la sua intima ideologia politica, naturalmente lontana dalla retorica di regime.

Basti pensare che, mentre progettisti suoi coetanei (alcuni poi anche partigiani o deportati nei campi) riuscirono a edificare praticamente tutti in quel laboratorio di architettura fascista che fu l’Eur, l’unico progetto a rimanere sulla carta fu proprio quello del Danteum di Terragni e Lingeri: troppo poco retorico, troppo alto, troppo poetico per la greve propaganda di quegli anni.

Una Casa del Fascio così concepita, a ben vedere, poteva essere costruita solo qui, ai confini dell’impero italico, lontano da Roma, a pochi chilometri dalle brume calviniste. Neppure un balcone, un arengario, neppure un romanissimo arco, nessuna torre. Semmai una macchina formale perfetta. Un manifesto razionalista che sapeva essere autonomo, che guardava al mondo ma che conosceva perfettamente il valore del contesto, in polemica con le dottrine d’oltralpe. Lo dimostra il fatto che Terragni non ha rispettato nessuno dei cinque punti dell’architettura moderna che Le Corbusier imponeva a chi voleva essere à la page, riuscendo a trovare lo stesso, anzi proprio per questo, una sua lingua davvero personale, scabra e poetica.

Giuseppe Terragni, Hotel Metropole Suisse, 1926-27, ph. Giovanna Silva 2015

L’incarico glielo affidano nel ’32, penso, mentre mi muovo verso piazza Cavour. Aveva 28 anni. Poco più che un ragazzo. Il razionalismo, in Italia – che poi significa a Como –, è stato una “cosa di ragazzi”. Lo erano Radice, Rho, Cattaneo, Sartori. La sua prima opera da laureato ventiduenne era stata il rifacimento della facciata dell’Hotel Metropole Suisse, quello che ho di fronte ora. Certo, nulla a che vedere con quello che sei anni dopo farà con la Casa del Fascio. Eppure si vede già la sua voglia di novità, di slancio verso il moderno, che qui ha un’inflessione viennese, secessionista. Ma era ancora un esercizio di stile, da ex studente del Politecnico. Basta proseguire, andare verso il Novocomum, verso lo stadio, quartiere all’epoca di nuova edificazione, per capire quanto la sua fosse stata davvero una battaglia civile ed etica, persino integralista, per la modernità.

Nel ’27 consegna un progetto alla commissione edilizia che poi, in cantiere, sconfessa radicalmente. Due anni appresso, compiuti solo 25 anni, tolte le impalcature rivela ai suoi concittadini questa sorta di transatlantico pronto a navigare nelle acque del lago. Uno shock. I rifacimenti del dopoguerra hanno deturpato la tavolozza cromatica dei serramenti (e qui Terragni guardava all’Olanda neoplastica e al costruttivismo russo), ma la massa tettonica, confrontata col contesto, resta considerevole.

Proprio qui dietro c’è Casa Giuliani-Frigerio, la sua ultima opera, progettata lavorando sulle sezioni e non sulle piante, mentre era al fronte. L’inizio di un nuovo percorso che purtroppo non sapremo mai dove lo avrebbe condotto. Lo so, detto così sembra che io sia preso da sacri e romantici furori. Ma forse per comprenderne il portato rivoluzionario dovremmo pensare che, mentre Terragni lavorava al cantiere del Novocomum, la città celebrava Alessandro Volta, il suo scienziato più insigne, col tempio a lui dedicato che formalmente pare provenire da un’altra epoca, da un passato pacificato e irrealistico.

Attilio e Giuseppe Terragni, Monumento ai Caduti, 1931-33, ph. Giovanna Silva 2015
Attilio e Giuseppe Terragni, Monumento ai Caduti, 1931-33, ph. Giovanna Silva 2015

E proprio a pochi passi da qui, a pensarci bene, il cerchio si chiude. Il Monumento ai Caduti sul lungolago è la sintesi materiale che tiene assieme due generazioni di giovani talenti lariani. La sua storia è presto detta: un primo progetto, il risultato di un concorso, rifiutato; poi l’idea lanciata da Marinetti di lavorare sul disegno della Torre Faro di Antonio Sant’Elia, il giovane architetto futurista morto al fronte; infine l’affido dell’esecuzione proprio a Terragni. Un passaggio di testimone inevitabile. Guardo il monolite di granito e diorite e mi commuovo. Ragazzi. Che hanno cambiato il modo di vedere l’architettura. Qui è il mio approdo, oggi. Il mio punto d’arrivo di questa passeggiata nella memoria urbana. Quanto vorrei fosse, però, un punto di partenza, logico, naturale, per ogni architetto che voglia davvero scrivere sul palinsesto della città con consapevolezza, con etica, con responsabilità.

Portarsi avanti con gli addii

9

francesco-tomadadi Francesco Tomada

Da L’infanzia vista da qui (Sottomondo, 2005)

 

Nelle campagne dietro Cormons

Quanta limpidezza d’aria che c’è oggi

se lo sguardo ha spazio siamo tutti viaggiatori

bastano i filari delle viti come rotta

e le scie di aerei a sostenere il cielo

 

 

Impercezione

Dormi e il tuo corpo si fa sottile

come un quadrifoglio tra le pagine

e non è carta ma stoffa di lenzuola

e non è libro ma tu portaci fortuna

in questa escoriazione fino al vivo

che per paura di essere banali

solo di rado chiamiamo amore

 

(a Stefania, finalmente)

Eri troppo minuta per essere donna e sorella maggiore

come sembrava impossibile che tu fossi madre

come sembrava impossibile morire di parto

nell’anno duemila di Dio

 

pesavi di meno di questo cognome che oggi

io porto da solo che se si potesse prenderlo

in braccio e sollevarlo come facevo con te

sarei un uomo diverso e avrei un sorriso

più facile da regalare ai miei figli

 

Da A ogni cosa il suo nome (Le voci della Luna, 2008)

 

Il terremoto del ‘76

Quando venne il terremoto del ‘76

era sera ed io avevo otto anni

uscimmo tutti di corsa nei cortili

così come eravamo, noi bambini già in pigiama

 

ricordo la casa che tremava nel buio

e non ho mai pensato che potesse cadere

ma avevo paura, paura per il rumore

e perché si muoveva la terra

e restava ferma l’aria

 

una cosa sconosciuta

 

il contrario del vento

 

 

A mia madre

Guardo la casa dove vivi sola

la stessa dove anch’io sono nato

e ho vissuto

 

dici che più niente ti lega a questa terra

che verrai ad abitare più vicina a me

non si sa mai, un’influenza

o soltanto un mobile da spostare

 

intanto hai rinnovato le stanze

cambiato la cucina lucidato i pavimenti

dipinto la ringhiera dello stesso colore bruciato

che ha sempre avuto

 

è come se prima di andare

tu mettessi in ordine i ricordi

 

e ho paura di pensare che hai più di settant’anni

e senza dirmi niente per non farmi preoccupare

ti stai preparando a qualcosa di più grande

di un trasloco

 

Tre diviso due

Ricordo che un giorno scherzavamo

se ci lasciassimo cosa sarebbe dei nostri tre figli

uno e mezzo a testa?

li taglieremmo a metà?

 

era un gioco stupido, ancora più stupido

adesso che sembra avverarsi

c’è una realtà dove tutti si perde

e tre diviso due fa zero

 

 

Da Portarsi avanti con gli addii (Raffaelli, 2014)

 

Mezzo vuoto mezzo pieno

Io ti osservo e penso sempre a tante cose

che vorrei avere più tempo

e più attenzione da te

che invece per i figli sei presente e ti consumi

come io non sarei mai capace

 

ma anche quando resto ai margini di te

comunque c’è bellezza nel vederti

in fondo

neanche i fiori fioriscono per noi

 

 

A conti fatti

Lo puoi vedere ancora nei miei occhi:

sono stato un bambino con poca gioia

 

invece il tuo sorriso esplode spesso senza alcun motivo

allora ho pensato che ne potesse avanzare per me

e anche per altri

 

per questo è nel tuo ventre

che ho cercato i miei figli

 

 

Izet

 

Devo cercare da qualche parte

una nuova sorella.

 

Perché io non posso

non essere fratello.

Izet Sarajlić

 

Non è così semplice

non essere più fratello

 

per anni continui a voltarti

aspettandoti la stessa faccia conosciuta

 

per anni ti viene da telefonare

a un numero che conosci ancora a memoria

anche se suona vuoto

 

pensi che a Natale devi fare gli auguri

a tutti i parenti e non

a tutti meno uno

 

non è così semplice

non esserti più fratello

 

e quando ti abitui

e quando poi ti abitui

capisci che i figli unici

soffrono sempre di solitudine

 

 Una forma di gelosia

Ti sei addormentata ancora nuda

adesso il tuo torace si muove lentamente

lo sento appoggiandoti le mani sulla pelle

penso al fiato veloce di prima

che era tuo e nostro insieme

mentalmente faccio la differenza

per capire quanta parte del tuo respiro

sia dedicata a me

 

[Una mia nota di lettura sul recente libro Portarsi avanti con gli addii si può trovare qui.

Di seguito una scheda bibliografica dell’autore presentato.B.C.]

Francesco Tomada è nato nel 1966 e vive a Gorizia, dove insegna Biologia e Chimica nelle scuole superiori. Dalla metà degli anni novanta ha partecipato a letture ed incontri nazionali ed internazionali, così come a trasmissioni radiofoniche e televisive in Italia e all’estero. I suoi testi sono apparsi su numerose riviste, antologie, plaquettes  e siti web in Italia, Slovenia, Canada, Francia, Slovacchia, Lituania, Austria, Messico, Spagna, Svizzera, Belgio, Bulgaria, Croazia. La sua prima raccolta, “L’infanzia vista da qui” (Sottomondo), è stata edita nel dicembre 2005 e ristampata nel marzo 2006. Nel 2007 ha vinto Premio Nazionale “Beppe Manfredi” per la migliore opera prima. La seconda raccolta, “A ogni cosa il suo nome” (Le Voci della Luna), è stata pubblicata nel dicembre 2008 ed ha ricevuto riconoscimenti in diversi concorsi a carattere nazionale. Ma i premi che non ha vinto sono molti di più. Recentemente ha curato un’antologia sulla produzione letteraria della Provincia di Gorizia dal 1861 ad oggi. Nel 2014 è stata pubblicata la sua terza raccolta, “Portarsi avanti con gli addii”, per Raffaelli Editore.

 

 

 

 

 

Abitare il romanzo

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di Roberta Salardi

A me pare che più che costruire un romanzo sia bello abitare un romanzo, una scrittura. Scrivere come abitare il tempo, racconto come un luogo da esplorare nelle sue diverse possibilità. Il verbo costruire presuppone un progetto ben definito, un procedere razionale, un tendere a qualcosa, perfino un elevarsi e un compiersi, che non sempre nella dimensione reale si verificano.

Tende a qualcosa il tempo? Fondamentalmente tende alla morte, quindi il racconto-tipo potrebbe consistere in questo avvicinarsi o palesarsi della morte, in questo rapportarsi con l’apparir del vero leopardiano. Magari stare in un racconto come in un diario non personale, non per forza autobiografico, preferibilmente di finzione. Oppure no. La questione è da esplorare: non soltanto trame puntiformi ma anche complesse.

Anziché costruire: abitare, esplorare, espandere. Orizzontalità anziché verticalità del narrare. Perché continuo a usare, nonostante tutto, la parola narrare? Se nulla si muove il racconto non nasce neppure, forse resta, ne migliore dei casi, un testo filosofico o saggistico. L’orizzontalità sarà mossa, almeno un po’ increspata, dal momento che inquietudini, tensioni e dinamismi interni non possono mancare.

Non vorrei qui elencare i primi titoli famosi che vengono in mente a proposito degli spazi mentali esplorati nei romanzi (La nausea di Sartre, La montagna incantata di Thomas Mann, La palude definitiva di Manganelli, Dissipatio H. G. di Morselli, Il deserto dei Tartari di Buzzati, L’uomo avanzato di Mariano Baino) piuttosto che brani della Recherche o dell’Ulisse. Mi piace supporre che lo spazio per il dispiegamento di varie forme di pensiero, da quello argomentativo/analitico a quello associativo/intuitivo, trovi il suo luogo ideale proprio nella forma romanzo genericamente intesa: luogo dello stare, appunto, del resistere o risiedere o insistere dentro un confine dato; e dunque sia una possibilità offerta a chiunque si accinga a scrivere un romanzo.

Non m’immagino un abitare particolarmente ricco di comfort. Come discreto comfort, raro sollievo, immagino frequentazioni e dialoghi con amici o letture di scrittori e filosofi.

Infatti, che cosa rende una casa, anche povera, una splendida abitazione?, si domandava Heidegger nello scritto intitolato Abitare, costruire, pensare, che prende spunto dalla penuria di alloggi in Germania nell’immediato dopoguerra. L’abitare, modo specifico in cui i mortali stanno sulla terra secondo Heidegger, si contrappone al puro e semplice costruire, tipico anche degli animali per quanto riguarda le loro tane. Il costruire è finalizzato all’abitare e lo coltiva già nel suo farsi. La questione è che cosa vogliamo mettere dentro alle case una volta edificate. Che cosa distingue e caratterizza l’abitare umano? Le relazioni, i legami con gli altri. L’abitare è un prendersi cura all’interno delle pareti domestiche, ma anche per ciò che sta fuori: Heidegger aggiungeva infatti i legami con la terra e con il cielo (il tempo). Con questi legami s’intrattiene l’abitazione umana, che per Heidegger significa soprattutto avere cura, prendersi cura. Esistono quindi un abitare autentico e un abitare inautentico, a seconda che siano vive le relazioni o meno. Per abitare il tempo s’intende vivere la pazienza, non avere fretta, essere lontani da ritmi produttivi frenetici. E per rispetto della terra che cosa s’intende? Rispetto e valorizzazione degli spazi circostanti, una variante della relazione con gli altri, cura di ciò che sta intorno.

L’abitare, stare al di qua di una soglia, ha anche a che fare con il limite, con il senso della finitezza della condizione umana. Sapersi accogliere, riuscire a stare nei propri limiti.

Una delle ossessioni della narratologia editoriale mi pare che sia la costruzione: che un romanzo sia ben costruito, che un racconto stia in piedi e così via. Questo confezionamento, forse finalizzato a un attraversamento veloce, senza intoppi. La casa dev’essere attraversata celermente dal lettore, senza perdere troppo tempo, dev’essere visitata sotto la supervisione di un’agenzia immobiliare che dice: questo funziona, questo muro sta in piedi, qui il discorso fila e così via.

E l’aspetto abitativo, che, dicevamo è l’aspetto fondamentale, è il fine?

Arriviamo a un elemento fondamentale dell’aspetto abitativo: il personaggio. Considerato che l’io è un altro, secondo le indagini psicanalitiche, o comunque in larga parte sconosciuto a se stesso oltre che agli altri (nel migliore dei casi, senza scomodare per forza Freud e Lacan, in un semplice approccio relativistico ormai in uso nella nostra epoca: composito, sfuggente, contraddittorio), a maggior ragione, il personaggio, creazione prettamente mentale, ben di rado potrà apparire ben definito e monolitico o tutto d’un pezzo o a tutto tondo, come si suol dire. I petali che costruirono la nostra anima, per dirla poeticamente usando un’espressione di Pablo Neruda, sono gli altri, le persone che hanno preso parte alla nostra crescita e formazione, le persone incontrate in una relazione costante che continuamente può condizionarci e modificarci.

Con quest’altro termine, condizionamento, si apre un’ampia parentesi relativa agli stereotipi, dacché sappiamo che i condizionamenti possono derivare pure dai mezzi di comunicazione, dal discorso mediatico che ci avvolge. Questi stereotipi, decisivi o molto significativi per esempio per Debord (“Lo spettacolo non è un insieme d’immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”, La società dello spettacolo) e Baudrillard (La società dei consumi, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?), in un racconto o romanzo a mio avviso sono comunque soggetti al vaglio della personalità, per quanto fragile e frastagliata sia, dei personaggi in questione. Il condizionamento non per forza deve essere fagocitante, completamente appiattente. In questo caso ritornerebbe, seppur riveduto e corretto, lo spettro del personaggio-monolite, della figura tagliata un po’ con l’accetta. Operazione che si può fare, certo, ma che rischia di apparire a lungo andare un po’ didascalica.

In una dimensione orizzontale si procede esplorando in molte direzioni. Anche testi dalla trama puntiforme come Dissipatio H.G. di Morselli oppure La palude definitiva di Manganelli indagano il più possibile la situazione in senso psicologico, metaforico, simbolico. Questa sensazione del non sapere esattamente dove ci si trova o che cosa sta succedendo, verso dove si sta andando è avvertita fortemente nella lettura; come non poteva succedere in opere più costruite, magari sulla base di trame prestabilite, con inizio, acme, scioglimento già nella testa dell’autore ancor prima d’iniziare il romanzo, magari infarcite di archetipi come l’agnizione, il ricongiungimento familiare, il matrimonio finale, la morte dell’eroe eccetera.

Di per sé il vocabolo impianto risente di un’eccessiva fiducia nella razionalità e di un riferimento implicito ai concetti di solidità, robustezza, progettualità messi in crisi già nell’Ottocento e nel Novecento.

Se proprio si deve pensare a un qualche tipo d’impianto, mi viene in mente un impianto idraulico, per il passaggio di fluidi… o un impianto elettrico, per quanto riguarda le libere associazioni, intuizioni e correspondances.

 

Dalle memorie di un insonne/4

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di Giorgio Mascitelli

Non sempre giova una vita densa di contatti umani, apparentemente cordiali, ma in fondo superficiali; non sempre giova abusare del proprio successo in società, come se un mondo che soffre non esistesse; non sempre posso addormentarmi alle cinque del mattino, dopo essermi coricato alle due e mezza, per essere svegliato alle sette dalla sveglia.

Allora mi convenne tornare a un regime serale più domestico e sono ricorso di nuovo a quelle procedure di addormentamento dalle quali ho spesso ottenuto benefici indiscutibili. Per rinfrancarmi e prendere l’esempio, soglio pensare a esempi di sonni illustri e profondi in condizione difficili come quello di Frodo in compagnia del fido Sam e dell’infido Gollum lungo la strada segreta, erta e scoscesa che tramite il valico di Cirith Ungol porta a Mordor oppure come quello di Macbeth quando ospita nel suo castello il vecchio re. Talvolta, bisogna ammetterlo, questi esempi non hanno su di me l’effetto auspicato, ma io non mi abbatto e anche quando l’obiettivo finale non è raggiunto, valorizzo sempre i risultati intermedi.  A un certo punto mi ricordai o mi fu ricordato che un rimedio antico ma salutare e sempre valido contro l’insonnia è quello di una passeggiata di un’oretta prima di andare a letto.

Scegliere questo rimedio significava fatalmente entrare in contatto con il mondo dei padroni di cani del quartiere, che conducono le loro creature all’espletazione dei bisogni prima del riposo. Non che io avessi dei cattivi rapporti con loro, anzi si può dire che i miei rapporti con il mondo della cinofilia fino ad allora erano improntati a una forse non del tutto commendevole, ma complessivamente corretta indifferenza reciproca, tuttavia essi per me rimanevano gente strana disposta a sacrificare un’ora delle propria sera per consentire ai loro protetti di scaricarsi con ogni agio in qualsiasi condizione atmosferica. D’altronde, chi va con gli zoppi impara a zoppicare. Se fossi stato stitico per esempio, avrei senz’altro incontrato altre persone e vissuto situazioni differenti.

Non che io abbia mai sofferto di questo tipo di disturbo perché al contrario proprio in bagno ho trascorso momenti felici e, per così dire, ho sempre assolto alle condizioni prescritte per poter intonare l’inno del corpo sciolto, ma ho sempre sentito in nome della comun madre una sorta di affinità elettiva con il mondo della stipsi. Se un ventre da svuotare e una notte da colmare non sono in alcun modo assimilabili e, piuttosto, conducono a esperienze, provvedimenti e conoscenze del tutto diversi, e un bacile di prugne resta per me un bacile di prugne, esattamente come per il fratello stitico e soprattutto la sorella stitica una pastiglia di valeriana resta soltanto una pastiglia di valeriana, e non posso  davvero dire cosa sia per loro davvero un bacile di prugne, reputo, nonostante tutto, che le loro tribolazioni non mi siano estranee perché siamo uomini. Non so quali ostacoli incontrino sulla loro via, ma vedo al fondo la medesima angoscia che per mezzo di una notte di veglia o di una pancia gonfia ci è comunicata dalla precarietà del nostro stare al mondo.

Sì, laddove le persone serie che sanno già qual è la loro strada non vedono  che insonni o stitici, io vedo l’uomo.  Spesso, nell’accingermi a raccogliere queste mie memorie, mi andavo ripetendo che con esse avrei voluto erigere un monumento forse modesto ma di marmo imperituro alla veglia forzata, ora che scorgo nella penombra di una lampadina accesa tutta la notte sopra un comodino o dietro le scatole ammonticchiate di beveroni ricchi di fibre e purghe naturali e chimiche le fattezze dell’uomo, mi accontento di lasciare trascritto su ghiaia fugace, come si conviene al nostro tempo, qualche palpito non insincero.

Dunque, fatalmente cominciai a prendere confidenza per via delle mie passeggiate serali con i passeggiatori di cani: la diffidenza era reciproca e i saluti brontolati e gli sguardi sbiechi. Dal canto mio, come già detto, non potevo che nutrire sospetto per chi trae piacere dal sacrificare le ore riservate al riposo o al diporto per consentire a un animale, una creatura, per quanto gli manchi solo la parola, di fare i propri sozzi comodi sul marciapiede in un silenzio imbarazzato e imbarazzante  come è del resto prevedibile in compagnia di una creatura priva della facoltà del linguaggio, impestando successivamente le suole di tanti onesti passanti.  Da parte loro, ammettiamolo, non poteva che suscitare diffidenza uno che per addormentarsi faceva una lunga passeggiata, una cosa che fa molto boy scout o proprietario terriero del secolo decimonono o poeta ermetico.  Certo non è che potessi diventare uno schiavo di Big Pharma in attesa, come un tossico, del nuovo sonnifero messo sul mercato per tranquillizzare i loro timori da borghesucci. Forse non avrò rapporti del tutto sereni con il vicinato, ma sono un uomo libero!

Infine l’abitudine, la Grande Ottimizzatrice, creò tra noi una situazione di fatto di mutua sopportazione, una sorta di modus vivendi o meglio videndi, visto che i nostri rapporti consistevano essenzialmente nel guardarci di sottecchi e subito dopo nello scambiarci saluti gutturali. Così pian piano, facendo ricorso al mio proverbiale spirito di tolleranza ( da bambino durante le colonie estive a Camogli presso i Padri Sefarditi mi chiamavano il piccolo Voltaire), mi convinsi che un uomo non deve essere giudicato per come trascorre il proprio tempo libero, anche se lo passa a curare che i suoi migliori amici espletino i loro bisogni; a loro volta essi si persuasero che non ero nient’altro che un innocuo stravagante col quale si poteva perfino scambiare qualche parola.

Addirittura un professore in pensione che portava il suo cagnolino al pascolo inverso prese a salutarmi chiedendo a che punto era la notte.  Se dapprincipio accondiscesi con simpatia al suo saluto come quello di uno che cercasse di vedere l’uomo e non l’insonne ( così  io del resto mi sforzavo di vedere in lui l’uomo non l’accompagnatore del cane), poi esso principiò a irritarmi perché mi parve una mancanza di rispetto, come se io fossi una volgare sentinella e lui un uomo preso da sofferenze interiori. Nulla di più falso, invece, perché ero io, con i miei tormenti che mi impedivano di prendere sonno, che con tutta chiarezza denunciavo una travagliata vita interiore, mentre lui era soltanto uno che portava fuori il cane affinché non gli cagasse in casa, a orari regolari, perdipiù, proprio come le sentinelle.  Le sue provocazioni divennero insostenibili, la situazione degenerò, lo sfidai a duello e lo schiaffeggiai.

Scegliemmo di incontrarci alle sei del mattino del sabato successivo in un prato presso la cascina Monlué, sarebbe stato più adatto qualche luogo nel parco della Villa Reale di Monza, ma lo scartammo sia per il timore di incappare in qualche pattuglia della polizia di stato sia di perderci. A lui in quanto sfidato toccava la scelta delle armi. L’unico problema furono i padrini, visto che lui aveva indicato altri due pensionati proprietari di cani; io purtroppo non conoscevo insonni affidabili per un incarico così delicato e poi francamente di restare ferito ( si era optato per un duello al primo sangue) davanti a uno che si metteva magari a sbadigliare mi rugava un po’.  Si decise allora che avremmo trovato i miei padrini tra coloro che andavano al vicino ortomercato per farsi ingaggiare come scaricatori di camion.

Confesso che quella sera tornai a casa vuoto e presi sonno con facilità, rinfrancato dal pensiero che la notte prima del duello avrei avuto tutte le giustificazioni per restare sveglio, come accade sovente a coloro che al mattino presto successivo avranno un duello.

Mi recai sul posto prescelto mezz’ora prima dell’ora stabilita, come è giusto per uno sfidante, aspettandomi di trovare lì per lo meno i suoi padrini. Restai per circa un’ora in compagnia delle sole zanzare che in quel luogo, un’ex risaia, non si peritano di sapere a quale punto siano la notte e il giorno.  Dopo circa un’ora il mio cellulare fu animato dal trillo che annunciava il ricevimento di un messaggio. Lo aprii e sul display apparve la scritta “Pirla!”.

(4,continua)

cinéDIMANCHE #13 “La regina delle nevi” di Lev Atamanov [1957]

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di Cristina Babino

 

  • Hai ancora freddo?
  • Si, ho freddo, e sento male qui dentro.
  • E allora non ti bacerò più.

Il Natale a casa mia non è mai stato un evento granché celebrato. Mio padre, ferroviere, nei giorni di festa era molto più spesso via per lavoro che con noi a riposare e a godersi, appunto, la festa. E Natale non faceva eccezione. Per cui quasi sempre si restava in casa, mia madre, mia sorella ed io. Mia madre un po’ contrariata, ma tutto sommato sollevata dal non dover indulgere in stressanti preparativi, io e mia sorella rassegnate, e nemmeno tristi. Andava così. In fondo i nostri regali li avevamo avuti. In fondo noi due si stava bene insieme, in quelle giornate, chiuse nella nostra cameretta con la carta da parati a strani motivi blu e arancio, molto anni ’70, e pochi giochi, rigorosamente da condividere: un paio di barbie, uno spiderman di gomma, un goldrake in gommapiuma grande quanto me, preso coi punti di qualche supermercato. Quello sì, meraviglioso.

Dei pomeriggi natalizi ricordo soprattutto, alla tv, un cartone animato. Uno di quelli che davano puntualmente in quel periodo dell’anno, sotto le feste. Un vecchio film di animazione russo, l’unico del genere che mi abbia lasciato un segno davvero forte nella memoria. Sarà per l’ambientazione glaciale che tanto bene si sposava al freddo che bussava allora alle finestre. Sarà perché era la storia di due bambini, amici e quasi fratelli.

De La regina delle nevi conservo negli occhi soprattutto una scena, che è per me l’immagine stessa del Natale, di quello della mia infanzia. Un bambino biondo, delicatissimo, nei lineamenti e nei movimenti, che gioca intento con dei prismi di ghiaccio. Li tiene pensoso tra le mani, ne valuta la consistenza, la perfezione gelata e lucente. Si accorge però, deluso, che non hanno profumo. Dice: «L’amore non ricordo. Però ricordo una cosa: Gerda».

Il nome del bambino è Kai, e Gerda è la sua amica inseparabile. Insieme vivono una fanciullezza allegra e spensierata, giocando al sole pallido del nord, ascoltando i racconti della nonna davanti al fuoco, e coltivando rose. Gelosa della loro felicità e indispettita dalle loro risa, la Regina delle Nevi, bellissima e spietata, scatena una terribile tempesta di neve. Una scheggia di ghiaccio incantata entra nell’occhio di Kai e il maleficio lo rende improvvisamente crudele, il suo cuore insensibile all’affetto della piccola amica. Non contenta, la Regina rapisce il bambino e lo conduce nel suo palazzo di ghiaccio, dove lo istruisce affinché dimentichi l’amore, la bellezza e tutte le gioie di cui ha vissuto sino a quel momento, per sostituirle con la quiete gelida e immobile dell’indifferenza. Inconsolabile, sola e senza scarpe, la piccola Gerda parte alla ricerca di Kai. Un viaggio difficile e pericoloso, lungo una terra fredda e spesso ostile, che ha tutto il carattere della quest, e costellato di incontri magici e più o meno salvifici: la vecchia signora che con un pettine magico vuol far scendere l’oblio su Gerda, così che non soffra più per la perdita dell’amico, il corvo parlante, la buona pescatrice e la maga finlandese che aiutano Gerda a giungere a destinazione, e il personaggio, di insolita ambiguità, della piccola ladra, che prima deruba e imprigiona Gerda insieme agli animali che sadicamente tiene in gabbia, quindi la libera – e li libera tutti – mossa a compassione dalla sua storia e dalla gentile purezza del suo animo. Raggiunto finalmente il castello, l’affetto profondo e indissolubile che lega i due bambini oltre ogni possibile amnesia o distanza spezza l’incantesimo e costringe l’odio della Regina a sciogliersi come neve al sole.

A questo film hanno rimproverato un disegno poco accattivante, meno fluido rispetto ai capolavori Disney, una lentezza poco vendibile nello sviluppo della trama. A me sembra di riconoscere nella staticità di alcuni fotogrammi, specie nella rappresentazione dell’algida Regina, un riferimento forse inconsapevole, ma ancora più autentico, a quella Uta degli Askani a cui già si ispirò Disney per realizzare la sua Grimilde. Riconosco nelle delicate gestualità di Gerda e Kay dei dettagli accurati e poeticissimi, una grazia quasi di antica miniatura, e nel personaggio di Ole Lukoje, dio dei sogni senza invero molto physique du rôle – piuttosto un incrocio tra un minuto nonnino e un folletto magico – una voce narrante/moralizzante che tanto mi ricorda il Grillo parlante. Solo più simpatico, senescente e antropomorfo.

Oggi che sono sulla soglia dei quaranta, e madre, e rivedo questo film con mia figlia, non so dire la soddisfazione quando mi dice, contro ogni pronostico e aggressione pubblicitaria, che lo preferisce al recente Frozen, rifacimento rutilante e rumoroso, in chiave pseudo-femminista, della medesima fiaba di Andersen. Qualcosa di me, del mio essere stata bambina, mi illudo di averle trasmesso.

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.