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Il buongiorno che si vede stamattina

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di Lorenzo Declich

Scrivo all’indomani del primo attacco americano sulla Siria*.

1. l’U.S. Department of Defense ha diramato un dispaccio nel quale si afferma che:

The strikes destroyed or damaged multiple ISIL targets in the vicinity of Ar Raqqah, Dayr az Zawr, Al Hasakah, and Abu Kamal and included ISIL fighters, training compounds, headquarters and command and control facilities, storage facilities, a finance center, supply trucks and armed vehicles.

Aggiunge che, oltre ad altri attacchi sull’Iraq contro IS:

has also taken action to disrupt the imminent attack plotting against the United States and Western interests conducted by a network of seasoned al-Qa’ida veterans – sometimes referred to as the Khorasan Group – who have established a safe haven in Syria to develop external attacks, construct and test improvised explosive devices and recruit Westerners to conduct operations. These strikes were undertaken only by U.S. assets.

Anche Barack Obama ha affermato che gli attacchi sono stati portati all’IS (Stato islamico) e al “gruppo Khorasan”.

Aron Lund ci spiega che cos’è (sarebbe meglio dire cosa non è) il “gruppo Khorasan” in una serie di tweet, qui raccolti:

“Khorasan” would be a great name for a terror group, with nearly unlimited potential for ominous mispronounciation. Sadly, it is not. It’s a word used by al-Qaeda (& others) for the Afghanistan-Pakistan region, where its top leadership sits. What has happened, if US intel is telling the truth, is that a group of AQ veterans have relocated to Syria to support AQ’s local franchise, Jabhat al-Nosra, and (this is the newsworthy part) to develop its capacity for international attacks. All this, apparently, on the urging of AQ’s core leadership. The “Khorasan group” thing comes from them being sent to Syria from “Khorasan” – that is, by AQ’s leadership in Pakistan – and presumably taking their orders straight from there. It’s not the name of a group and they’re not an independent organization. As described in reports so far, they’re a specialized working group inside or otherwise attached to Jabhat al-Nosra that seeks to use the training camps, resources & recruits that Jabhat al-Nosra controls in Syria to run global attacks for which AQ can then claim credit.

2. Dipartimento della difesa e Obama non citano la Jabhat al-nusra nei loro comunicati. Ma da altre fonti emerge che questo gruppo è stato attaccato più volte.

Questo è il dispaccio dei Comitati di coordinamento locale:

By the end of Tuesday, LCC were able to document 123 martyrs including 8 women, 7 children and 2 martyrs under torture: 57 martyrs were reported in #Aleppo 50 of them from Jabhet Al-Nusra were martyred by International Alliance Combats’s airstrike on Al- Muhandisen Suburbs; 29 in #Idlib including 10 civilians and 11 from Jabhet Al-Nusra were martyred by International Alliance Air Combats’s airstrikes on #Kafrdryan; 22 in #Damascus and its Suburbs; 7 in #Homs including 6 Bedouins were martyred by by International Alliance Air Combats’s airstrikes on Shaa’r mount; 4 in Dier Ezzor; 3 in #Daraa and 1 in #Hama.

LCC has also documented 72 air strikes by the U.S. air combats accompanied with Qatari, Saudi, Jordanian, Emirati and Bahraini warplanes at several Syrian cities and towns. #Raqqa city witnessed 7 air strikes that targeted the Municipality Building at the center of the city, the Horsemanship Building and checkpoint western of the city, the Vanguards Camp southern of the city, the National Security Building, National Hospital of Raqqa City, 5 air strikes at the Tabaqa Military Airport, 3 air strikes at Tal Abyad city, 3 others that targeted the 93rd Brigade and its surroundings in Ain Essa area and also 3 air strikes at the National Hospital in Maadan. Moreover, there were 7 air strikes at the Mezra and Boghaz villages in Aleppo province, 2 others at Bafdeek and Jirin villages in Kobane and 4 air strikes at the Muhandiseen suburbs which targeted positions for Jabhat AlNusra militias.
In Idlib, the International Alliance air combats targeted the Kafar Daryan village with 3 air strikes whereas in Deir Ezzor they launched 22 air strikes at BoKamal city. Additionally, they conducted 7 air strikes at Tal AlMilih area in the village of AlTabny, 1 air strike at Tabous Mountain in Shmitiyeh area and 3 air strikes at the Shaer Mountain in Palmyra, Homs.

Tutto ciò fa dire a Mike Giglio, corrispondente di BuzzFeed da Istanbul, che gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra alla Jabhat al-nusra.

3. La Jabhat al-nusra è la denominazione di al-Qaida in Siria. Come forse saprete dal maggio del 2013 l’allora Stato Islamico di Iraq e Siria, poi divenuto Stato islamico, è stato espulso da al-Qaida per non aver seguito le direttive del suo capo, Ayman al-Zawahiri.

Già da tempo Jabhat al-nusra e ISIS combattevano l’uno contro l’altro, il dissidio risale all’aprile del 2013, in corrispondenza con la nascita dell’ISIS.

Costatazione: gli americani stanno facendo la guerra allo Stato islamico e contemporaneamente a un loro nemico. Nel migliore dei casi stanno indebolendo IS ma anche uno dei gruppi più efficaci per combattere IS sul terreno.

Riflessione: gli americani stanno facendo la loro guerra in Siria, stanno eliminando (sempre che ci riescano), quelli che ritengono essere i loro nemici, a prescindere dalla posizione che questi loro nemici occupano nel complesso campo di battaglia. Così facendo aggiungono dosi di caos a una situazione già ampiamente critica.

4. Passiamo all’efficacia degli attacchi. Già lo scorso 17 settembre Intelligence online, un sito francese il cui nome è autoesplicativo, raccontava:

According to our sources, Islamic State (IS), the former ISIS or Daesh, is girding itself for the US–led coalition offensive that it is expecting at the beginning of October. The organisation has begun building bunkers and, like Hezbollah and Hamas (IOL 717, IOL 718), it has been burrowing tunnels throughout the territories it currently controls. Lorries and construction equipment are in use round the clock in and around Mosul and in the Syrian province of Raqqa.

Meanwhile, some of the 30,000 Daesh fighters have been told to discreetly blend into the local population either side of the border. Islamic State is keeping silent about its defence strategy while trying to flush out rival rebel groups that could side with the coalition. The bomb attack in Idlib against Ahrar al-Sham (see p.2) and the assassination attempt against Ahmed Issa Zakaria, the chief of the Souqour al-Sham Brigade (the Falcons of the Levant) were part of this strategy.

La cosa mi riporta a un messaggio di Osama bin Laden rivolto agli iraqeni. Siamo nel 2002, ne cito un piccolo pezzo:

Vogliamo sottolineare l’importanza di impegnare il nemico in un combattimento lungo, corpo a corpo, logorante, vendendo a caro prezzo le postazioni difensive camuffate nelle pianure, nelle fattorie, nelle montagne e nelle città. Ciò che il nemico più teme è la guerra nelle città e nelle strade. Quello è il tipo di guerra nella quale il nemico si aspetta di subire gravi ed eccessive perdite.” nota bene “postazioni difensive camuffate

E anche uno del 2003, riguardante i famosi attacchi alle grotte di Tora Bora in Afghanistan:

Gli Americani ci colpirono con bombe intelligenti, bombe che pesavano migliaia di libbre, bombe a grappolo; c’erano anche le bombe perforanti [che esplodevano] nelle caverne. C’erano bombardieri come i B52 – uno di essi per più di due ore – sopra le nostre teste, che sganciavano dalle venti alle trenta bombe per volta. Aerei C-130 modificati ci attaccarono nella notte con bombe ad alto potenziale e con altre bombe moderne. Ma nonostante l’attacco terribile e una spaventosa campagna di propaganda – entrambi senza precedenti – concentrati su questo piccolo luogo, cinto d’assedio da tutti i lati, con in più le forze degli Ipocriti, che ci portavano attacco per due settimane di seguito e che tenemmo lontani giorno dopo giorno – con il favore a Dio Onnipotente ed Altissimo – li respingemmo ogni volta, li uccidemmo e li ferimmo. Nonostante tutto questo le forze americane non riuscirono a penetrare le nostre postazioni: non è forse questa la prova più evidente della loro codardia, paura e impostura, [la prova] che la loro presunta forza è solo un mito? La battaglia si concluse con una sonora disfatta per le forze mondiali del Male che avevano dispiegato tutta la loro forza contro un piccolo gruppo di mujahidin – non più di trecento unità – asserragliati in un miglio quadrato nelle loro trincee a temperature che si aggiravano attorno ai dieci gradi sotto lo zero. Le vittime della battaglia furono per noi intorno al sei per cento – speriamo che Iddio li accolga come Martiri – mentre i caduti nelle trincee furono circa il due per cento – che Dio sia ringraziato.

Intanto anche la Jabhat al-nusra sembra prendere contromisure.

Riflessione: sembra che gli americani non abbiano imparato niente. O, anche, che sappiano perfettamente quanto il loro intervento sia inefficace ma non se ne curino.

5. In Siria il variegato mondo di “ribelli”  reagisce un due modi:

  1.  c’è chi approva gli attacchi ma chiede che fra gli obiettivi ci sia anche il regime di Bashar al-Asad (e, da ciò che vedo, mi sembra che questa richiesta non verrà neanche presa in considerazione viste le evidenze di contatti fra regime e americani nell’imminenza degli attachi);
  2.  c’è chi non approva in base a osservazioni semplici: così facendo gli americani non aiutano la Siria a uscire dall’incubo. Anzi, peggiorano le cose (fra l’altro c’è il plausibile timore che i due gruppi colpiti dagli attacchi tornino sui loro passi e agiscano insieme dimenticando le ostilità del passato).

Fra coloro che si oppongono agli attacchi c’è anche l’unica formazione apertamente foraggiata dagli americani, Haraka Hazm. Nel loro comunicato si legge: Come osservava il 22 settembre  sul Washington Post la politica americana sulla Siria in questi anni aveva contribuito  alla frammentazione del fronte anti-Asad.

Tutto lascia pensare che ora, con questa strategia, ciò che rimaneva dei gruppi armati non islamisti anti-Asad verrà definitivamente schiacciato.

6. Intanto un’altra guerra, quella che c’era prima, continua.  Qui un comunicato di stamattina dei Comitati di coordinamento locale:

Wednesday started in Syria with 14 martyrs including 7 martyres were reported by toxic gases and a child: 7 martyrs were reported in Damascus and its Suburbs by airstrikes with toxic gases on Adra; 3 martyrs in Aleppo; 2 martyrs in Homs; a martyr in Idlib and a martyr in Hama.

 


* mi scuso con i lettori per aver lasciato non tradotte molte delle citazioni. Il tempo è tiranno.

Cesare Cattaneo, il ragazzo che volle farsi frate dell’architettura

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autoritratto giovanile di Cesare Cattaneo
autoritratto giovanile di Cesare Cattaneo

di Gianni Biondillo

A Como il mondo l’hanno salvato i ragazzini. Cento anni fa, circa. Architetti ragazzi, che non hanno mai conosciuto la vecchiaia, morti quando ancora i giovanili furori non erano stati sostituiti da un professionismo senz’anima.  Altri sono sopravvissuti al conflitto, hanno conosciuto l’euforia del dopoguerra, il boom economico; avrebbero potuto portare avanti gli ideali dei loro compagni di viaggio ma non l’hanno fatto. Tutto era cambiato, cosa sarebbe stato dell’architettura italiana se i maestri ragazzini avessero avuto una sorte differente noi non lo sapremo mai. Sappiamo però cosa sono riusciti a fare in vita, per quanto breve.

Sappiamo cosa aveva sognato per la città futura Antonio Sant’Elia, architetto futurista, visionario e romantico assieme. Socialista interventista, che ha conosciuto la morte a ventotto anni sul Carso e non ha lasciato nulla di costruito nella sua Como. Ma quale altro architetto è mai stato più influente nell’immaginario collettivo globale? Forse persino più di Le Corbusier. Come possiamo guardare, per fare un esempio, Metropolis di Fritz Lang senza pensare a lui?

asilo infantile ad Asnago
asilo infantile ad Asnago

Sappiamo cosa ha costruito Giuseppe Terragni, forse il più famoso dei razionalisti lariani. Sappiamo come da neolaureato, con un colpo di mano (un autentico abuso edilizio!), abbia portato l’architettura italiana nel dibattito europeo contemporaneo. Dal Novocomum alla Casa Giuliani-Frigerio, progettata mentre era al fronte russo, passano a malapena 15 anni. Riuscì in quel breve tratto di vita professionale a progettare e ritornare sui suoi passi, a ideare e mettere in dubbio, a creare e guardare oltre.

Fontana a Como Camerlata
Fontana a Como Camerlata

Sappiamo cosa ci ha lasciato Cesare Cattaneo, il più giovane di tutti, così talentuoso che era ancora studente al Politecnico e già lavorava assieme a Terragni nel gruppo che vinse il concorso per il nuovo piano urbanistico per Como (ovviamente poi disatteso). Poche cose: un asilo infantile ad Asnago, costruito appena laureato e negli anni lasciato andare alla malora (oggi è finalmente di proprietà della Fondazione Cattaneo, ma il costo di recupero è realisticamente esorbitante per un privato). Una fontana, disegnata assieme al pittore astrattista Mario Radice come ironico monumento al traffico, all’ingresso della città, essenziale e geniale come mai nessuna dopo, e sempre senz’acqua, con quell’ignavia tipica delle amministrazioni nei confronti dei monumenti moderni.

Casa a Cernobbio
Casa a Cernobbio

La casa a Cernobbio, capolavoro assoluto, sorta di prototipo edilizio modellato fin nei più intimi particolari, unica delle sue opere conservata con cura, amore anzi. Perché invece l’ULI (Unione Lavoratori dell’Industria), la sua più grande realizzazione, alle spalle della Casa del Fascio, progetto che sapeva persino superare in astrazione geometrica il lavoro del suo maestro-amico, fu poi deturpato nel dopoguerra con interventi e superfetazioni volute da Pietro Lingeri, uno dei progettisti originari, con quel classico disinteresse che hanno avuto gli anni del boom nei confronti di una architettura che anche se edificata sotto un regime era tutto tranne che “di regime”. Nient’altro? Nient’altro. Otto anni di vita professionale, poi la morte improvvisa a trentuno anni. Come ha potuto essere così coerente, così potente, persino matura, fin dagli albori la sua visione dell’architettura?

sede ULI, fotografia dell'epoca
sede ULI, fotografia dell’epoca

Tutto il rigore di Cattaneo sta nella serie infinita di schizzi, disegni, dipinti, scritti, saggi, romanzi (sì, romanzi!), che fin da giovanissimo ha prodotto. Un vero e proprio laboratorio di scavo interiore, di pensiero curioso, di apprendimento vorace delle modalità e delle regole dell’arte. Il Cattaneo astrattista, purista, geometrico, esiste perché è esistito il paesaggista imberbe che disegnava indefesso tutto quello che i suoi passi incrociavano, o il giovane esegeta di Leopardi, assiduo lettore del recanatese al punto da vergare un lungo saggio sulla sua opera, o l’adolescente che nel chiuso delle sue stanze scriveva la sua autobiografia, sapendo che a sedici anni s’è vissuto ben poco (e non poteva sapere d’essere già a metà del suo percorso) e che quindi la sua sarebbe stata un’autobiografia “interiore”, “psicologica”.

Mi stupisco ogni volta dello stupore di chi immagina gli architetti disinteressati alla scrittura. È una visione piccina della cultura, fatta per compartimenti stagni, comoda per incasellare un personaggio in uno stereotipo, non certo per comprenderne la complessità. Letteratura e architettura, diceva John Ruskin, sono le uniche due discipline testamentarie di un popolo. Producono monumenti collettivi. Molti sono gli scrittori che hanno studiato architettura, molti gli architetti che hanno scritto. Dagli studi ad Harvard di John Dos Passos, passando per lo scrittore/architetto svizzero Max Frisch arrivando al Booker Prize Arundhati Roy, o al nostro Aldo Buzzi, coetaneo e concittadino di Cattaneo. Persino i Pink Floyd furono studenti al Politecnico londinese (e non dimenticarono i loro studi, basti pensare alla potente metafora del loro concept album The Wall).

uno degli infiniti taccuini di Cattaneo
uno degli infiniti taccuini di Cattaneo

Da vivo Cattaneo riuscì a pubblicare solo un libro, un saggio sui temi dell’architettura messi in forma di dialogo. Sapeva che attraverso i modi della narrazione sarebbero passati meglio i concetti che a cui teneva. Ma il suo Giovanni e Giuseppe. Dialoghi di architettura aveva appunto un precedente. Un (non) romanzo rimasto nel chiuso del cassetto per decenni, scritto ad appena vent’anni, Paolo Pons, che Gaffi è intenzionato a ripubblicare a breve.

È un libro dove la fantasia del giovane artista si scatena. Una sorta di guida di Como e dintorni, un viaggio, a piedi, fatto da Cesare stesso e dal suo alter ego Paolo Pons, colmo di dialoghi (appunto), di derive, mangiate, incontri surreali, battute fulminati, parodie, pagine di meta-letteratura e frammenti di ricordi autobiografici. Certo, un libro imperfetto, oggi si direbbe da “editare”. Ma dato che non era nato se non per gioco, un libro che sa raccontarci con chiarezza l’universo magmatico che pulsava nell’animo del giovane studente d’architettura.

ritratto fotografico di Cattaneo
ritratto fotografico di Cattaneo

Anche la prima pubblicazione di un altro protagonista del movimento moderno italiano, Edoardo Persico, fu un romanzo, La città degli uomini d’oggi (ripubblicato nel 2012 da Hacca). E anche Persico, altra figura inquieta di quegli anni, morì giovane, d’una morte sospetta che fu indagata da Camilleri un paio d’anni fa. Quando lo scrisse aveva ventidue anni. Sembra quasi che attraversare la narrazione fosse obbligatorio per questi pionieri del gusto che cercavano forse su percorsi differenti da quelli usuali il loro “passaggio a nord ovest”. Come viandanti, come pellegrini.

In uno dei suoi ultimi scritti Cattaneo immaginava un convento di un “Ordine di frati architetti”, dove poter esprimere la vocazione dell’architettura, a differenza dei colleghi “portati alle soluzioni pratiche”. A capo del convento ci vedeva Giuseppe Terragni. L’amico però morì troppo presto. Cesare lo seguì il mese appresso. Non fecero neppure in tempo ad assistere all’otto settembre del ’43. Ma questa è un’altra storia.

A noi resta il suo patrimonio. Quello edificato, da restaurare e valorizzare, e quello scritto e disegnato, da diffondere e condividere. Per stima, per affetto. Per non perdere i legami con la parte migliore di un’Italia che aveva vent’anni quando le menti migliori di quella generazione avevano vent’anni. Eternamente giovani.

(precedentemente pubblicato su L’Ordine, del 14 settembre 2014)

Idioletto (prima parte)

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Biagio Cepollaro, Kun, 2008di   Biagio Cepollaro

[Idioletto è una delle voci di quel dizionario della contemporaneità che circa venti anni fa Lucio Saviani aveva raccolto in un volume dal titolo Segnalibro (Liguori Editore, 1995). La contemporaneità di venti anni fa lasciava certamente presagire in parte quella attuale che ha caratteristiche ancora diverse. Per me si trattava di approfondire alcune considerazioni di poetica, legate alla scrittura di due libri di poesia, Scribeide  e Luna persciente, all’ interno di una visione più generale del rapporto tra linguaggi e mondo, delineando appunto una sorta di ‘condizione idiolettale’. Pubblico qui la prima parte.]

Nel Dizionario di retorica e stilistica di Angelo Marchese, alla voce «Idioletto», seguono definizioni che sottolineano più la problematicità della nozione che la sua efficacia. Si legge: « L’idioletto è l’uso della lingua proprio di ogni individuo, il suo linguaggio o “stile” personale, prescindendo dal gruppo in cui l’individuo è inserito; in questo senso molti studi contestano la liceità e l’utilità del termine. Più recentemente la parola è stata assunta, in sede di critica letteraria, come sinonimo di linguaggio particolare di uno scrittore, se non addirittura dello stile (e anche in questo caso non se ne vede la necessità)» (1).

Maresco e Belluscone: colpi di grazia

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di Giuseppe Schillaci

Berlusconi è solo un pretesto, una boutade, una trovata promozionale.

Il suo nome, storpiato in siciliano, evoca qualcosa di vago e di terribile: il colpo di grazia a un’Italia agonizzante, o più in generale a una certa idea d’umanità, o piuttosto al senso di fare cinema oggi o, ancora, al percorso radicale di Franco Maresco.

Blaxploitalian. Cent’anni di Afrostorie nel cinema italiano

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http://www.youtube.com/watch?v=N3TC_cMit00

Il regista-attivista Fred Kudjo Kuwornu sta iniziando in questi giorni le riprese del documentario “Blaxploitalian. Cent’anni di Afrostorie nel cinema italiano”.

The Architecture of Violence

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di Mattia Paganelli

Al Jazeera ha recentemente presentato un breve documentario sul ruolo dell’architettura e del territorio nel conflitto israelo-palestinese attraverso l’analisi di Eyal Weizman, direttore di ricerca nel dipartimento di architettura di Goldsmiths College (University of London). Se possibile, andrebbe visto leggendo in parallelo il suo libro Il minore dei mali possibili, direttamente ispirato alle riflessioni di Hannah Arendt.

The Architecture of Violence

Condominio Oltremare: Falco e Ragucci sulla riviera romagnola

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di: Francesca Fiorletta

Intorpidito dai pensieri, insensibile alla scomodità delle scarpe che paiono muoversi autonomamente, arrivo nell’atrio e mi rendo conto di non ricordare dov’è la cantina. Sono a disagio in quella parte comune, che si vorrebbe neutrale Per quanto sia improbabile, temo di incontrare qualcuno con cui parlare. Certo, qui non c’è nessuno, ma per alcuni versi è peggio, mi sembra di essere, se non un ladro, almeno un impostore, uno che è qui senza un motivo specifico: niente famiglia e figli, nessuna moglie o amante da cui scappare.

Radical kitsch: ti spunta un Flores in bocca

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http://youtu.be/-ANGKOqgJ9I

Le Fric c’est Chic
di
Francesco Forlani

In occasione del bell’incontro su critica e letteratura che si è svolto ieri alla Galleria Ostrakon di Milano, nell’ambito del generoso festival “Tu se sai dire dillo”, organizzato da Biagio Cepollaro, a un certo punto Luigi Bosco, tra i relatori, ha citato il dibattito di qualche tempo fa a proposito del numero speciale di Micromega dedicato al ruolo degli intellettuali e Albert Camus, pubblicato su nazione Indiana. A fine serata, quando ormai ci avviavamo verso Torino, tre cose facevano da rumore di fondo allo scorrere dei fotogrammi delle cose appena viste e sentite.

La prima: quando si stava per andare via un amico ci ha proposto di passare per la stazione Garibaldi e assistere almeno all’inizio del concerto, in Piazza Gae Aulenti, dei Blood Orange con la performance live di Chic feat. Nile Rodgers.
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Impressionante lo sfoggio di tacchi alti e scollature, tagli di capelli glam, mondanità a gogò e led impazziti tra trasparenze architettoniche e sinuosità ammiccanti. Come se non bastasse la scritta Replay, fiammeggiante marchio sponsor della serata, sembrava qui un ordine da schermo orwelliano, tipo Obey/obbedisci, dove il big brother intimava di ripetere a oltranza, all’infinito il noto refrain di una delle più celebri canzoni, prodotte proprio da Nile Rodgers. le freak c’est chic!.

Tutti abbiamo ballato almeno una volta su quelle note e per quelli della mia generazione ha significato, la disco in generale, la linea di separazione tra l’impegno sociale e il disimpegno nell’aria di rigore. Del resto la stessa canzone, soprattutto il motivetto, si è sempre prestata ad interpretazioni diverse e tra loro molto lontane. Dagli anglofoni il freak, mostro, stava per bizzarro, strano, e l’essere bizzarri voleva dire Chic, nome della band, ma anche glamour, elegantemente kitsch, se vogliamo, fidandoci delle apparenze, dei costumi di scena, per capirci. Per i francofoni freak veniva sentito come fric ovvero i soldi, la grana nell’argot d’oltralpe. Ecco allora che la grana la si definiva quanto meno cool.
Nell’articolo da cui ho attinto questa fonte si cita anche la più verosimile, a parer mio, delle interpretazioni, ovvero che per gli africani francofoni quel freak stava per Afrique.

A guardarsi intorno, a respirare l’ambiente anche se solo per una manciata di canzoni la mia percezione, da francofono, era che quella canzone celebrava il capitale della moda e chiunque si trovasse nel raggio di quel perimetro ne confortava il credo e la profezia. Per un attimo ho pensato che sarebbe stato molto situazionista catapultare l’incontro letterario a cui avevo appena assistito su quel palco e pur essendo testimone delle grandi virtù ballerine di molti dei poeti che conosco, dubito che si sarebbe potuto uscire vivi da lì. La domanda che mi sono posto è stata allora quale delle due realtà fosse più vera; la prima detta e contraddetta da un manipolo di trent, quarant, cinquant, sessantenni assiepati in una bella galleria dalle pareti bianche o la seconda danzata da una folla di trent, quarant, cinquant, sessantenni in pista? Una frase della canzone conteneva la risposta:

Big fun to be had by everyone
Come on along and surely can be done
Young and old are doin’ it, I’m told
Just one try and you too will be sold

Ian-Curtis1La seconda: si dovrebbe un giorno studiare a fondo la fenomenologia dei flussi artistici dal basso verso l’alto, del modo in cui, per esempio, un autore, ma anche una band musicale, un artista, accede alla grande festa del “riconoscimento”, principalmente da parte del pubblico e dei suoi manipolatori, in primis l’industria culturale. Ultimamente, per esempio, pensavo al caso dei Joy Division, a come la consacrazione avvenne attraverso il suo titolo più pop, Love Will Tear Us Apart, successo che seguì la morte di Ian Curtis nel 1980 due anni dopo Le freak, per capirci. Varrebbe la pena approfondire il discorso sulla qualità di un percorso artistico quando dall’underground si passa al Pop, e magari anche smontare l’idea che la celebrità arrechi danno; la storia dell’arte ci dimostra che non è così con un semplice ragionamento. Se le opere, soprattutto nel caso di quelle postume, valevano prima del successo, come si fa a dire che il successo tardivo ne sacrifichi qualcosa se a cambiare non erano le opere ma il pubblico e l’industria culturale che lo manipola?
Vero è che, come ricordava Pino Tripodi all’incontro di Milano, spesso case editrici o etichette indipendenti sono ricambiati dagli autori freak, mostri, da loro pubblicati con un arrivederci e grazie quando le fric, la grana, si fa portavoce di majors pronte a raccoglierne le opere anche se profondamente critiche dello stesso sistema, polemiche con quelle dinamiche e consorterie, in breve, ribelli. Conosco il caso di decine di autori che sui social network sparano a zero su Mondadori, Einaudi, un giorno sì e l’altro pure e che alla inattesa telefonata di un generoso editor della stessa si sono sciolti come candele in un incendio. Cosa che resta comprensibile ma alquanto problematica, detto tra noi.

La terza: Quando esattamente un anno fa sono stato contattato dall’addetto stampa di Micromega per chiedermi di leggere il dossier da loro pubblicato su Albert Camus ed eventualmente recensirlo su Nazione Indiana, non vi nascondo che ne rimasi lusingato, lusingato e sorpreso. Lusingato, perché un’importante rivista della sinistra intellettuale del paese, mi attestava un micro riconoscimento intellettuale; sorpreso perché tra quella sinistra e la mia, c’era una mega distanza difficilmente colmabile, a conti fatti. Ricordo anche che dopo un breve ma gentilissimo scambio con Paolo Flores d’Arcais, mi ero convinto che nella ricognizione del dibattito, polemica sviluppatasi essenzialmente tra il Foglio per voce di Berardinelli e Micromega, la mia posizione sarebbe stata netta e decisa al fianco di questi ultimi. Le cose però andarono diversamente. Nelle conclusioni della mia micromega inchiesta mi sono ritrovato in una terra di mezzo, una sorta di no man’s land presa tra due trincee e da cui sarebbe stato molto difficile uscirne con un plauso qualunque; degli uni, intellettuali di sinistra e degli altri, intellettuali di sinistra. In altri termini ennesima chiusura di porte da parte dei guardiani del piano di sopra delle lettere e dello spirito e ritorno alla cantina,underground, si badi senza ripensamenti ma con una maggiore consapevolezza di certi meccanismi.
Così, quando mi è capitato tra le mani l’articolo pubblicato da Micromega, sesso e tecnica, della porno attrice Valentina Nappo, mi sono immediatamente ricordato di uno dei miei post più fortunati,Etica del Pompino e perché non sarà mai un’arte nonostante Houellebcq. In esso, tra le altre cose ricordavo come la parola usata in italiano per la pratica (e tecnica) fosse poco elegante:

“Perché diciamocelo pure e non a denti stretti, la parola pompino- della fortuna del termine gemello, bocchino, in un’epoca popolata da ex fumatori ed ex fumatrici, non vale la pena occuparsene- non é affatto bella.(…) In francese fare un pompino si dice tailler une pipe, all’origine nel significato di rouler une sigarette, che per l’ennesima volta dimostra la superiorità del popolo francese sul nostro per le cose che contano, supremazia che non s’impone sul resto del mondo visto che in inglese si dice blowjob, tattica del respiro. E in tedesco?”

Man Ray, Hand on lips
Man Ray, Hand on lips
Dell’articolo di Valentina Nappi che ho apprezzato nel suo tentativo di svelamento di uno dei più bei misteri della vita sessuale degli umani, in un atto che si svolge con un’idea di reciprocità asimmetrica e per certi versi antiutilitarista, very Mauss, la sola cosa che non ho capito era la sua funzione nell’economia e linea editoriale della rivista. C’est chic? C’est radical? C’est radical kitsch? A illustrazione di quel mio articolo su l’affaire avevo utilizzato la magnifica fotografia di Man Ray qui riprodotta.E ho pensato a Paolo Flores d’Arcais. Che faccia lui avrà mai fatto quando si è trovato quell’articolo fra le mani?

Essendo il dentro un fuori infinito #1

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di Mariasole Ariot

DIE FAHNEN wahren den Schein – LE BANDIERE salvano l’apparenza.
P. Celan

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Julia ha una macchina incastrata nello sterno. Dal collo dell’utero a metà cuore, da cuore a collo,
da collo a sinapsi : condannata all’iper-reale di due voci : la prima dice you will die till you go out
from here, la seconda intona come una cantilena you are a bitch : we will find you alone.

 

Gennaio 2014, Nigeria

 

Julia sogna il sogno proibito dei falsi profeti mezzi alieni mezzi umani – il Presidente degli Stati
Uniti d’America e un uomo con l’abito bianco a cerimonia che viaggia di chiesa in chiesa palpitano
nella notte, annunciano il vero di una nascita oscurata.
Julia ha una ferita nel cielo, un grido che le taglia le braccia, i polsi, i raggi di buio che non sono
porta, Julia scalpita, Julia corre dalla bambina, come una bambina inciampa sulle sincronicità
scivolose. Ora deve pagare il pedaggio, ora Julia deve parlare.

Tutto il silenzio gravita sotto la sabbia, le porte si aprono : nella solitudine vede i due soli spaccarle
l’utero, entrarle dentro per innestare il macchinario.

Il sogno dice : The Pope is a false prophete.

 

***

 

I mesi si oscurano.
Senza sonno raccoglie le bocche ingurgitate per la partenza, la voce della madre, e dei padri, e delle
madri : raccoglie i fratelli, li incarta uno ad uno nella valigia, parte per il nord di un altro continente,
in uno stato che non è più stato. I medici esaminano le carte : le dicono : è tutto regolare.

Prima di partire digita il sogno del mondo al mondo: The Pope is a false prophete.

 

***

 

Marzo 2014, Italia

L’arrivo in città è bianco : ci sono le strade vecchie, gli abiti più corti e i capelli più lunghi. Il marito
è già nella città della valle, lei lo segue, il marito la bacia, prende Naomi sulle spalle, e come un
fasciatoio si piega sulla moglie per dirle eccomi, usami, non scusarti.

Eppure il mondo vacilla.
Di notte gli incubi le tremano le gambe, tutte le figure si disperdono, i muri cedono, la ruota del
silenzio non riesce a più a dissimulare : ora deve
pagare il pedaggio. Ora
Julia deve parlare.

 

***

 

Giugno 2014, Sotterranei

Il delirio accade sempre in una notte : perde inizio, non contempla fine.
Un medico inviato dal Vaticano le ha inserito una macchina nel cuore della sua piccola tomba : è un
corpo, è una tomba, è una gabbia. L’hanno pagato bene. Era un parto cesareo. Se la condanna non
sarà morire in pieno giorno, la vera pena sarà fare i conti con i due piccoli umani che le dicono :
you will die as soon as possibile. Julia urla le Letture nel fondo, prega mille volte, strappa le pagine
dei diari, non può più ascoltare le foglie.

 

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L’uomo fasciatoio la carica sulle spalle, piange, la porta nei sotterranei, le danno un camice verde, le
strappano la lingua, le premono la medicina nera nella gola : qui l’inglese non è concesso. Impara
l’italiano : sei tu che sei venuta da noi. Impara l’italiano.

Julia addormenta la parola nella voliera, finge di non sentire anche quando ci sente. Julia diventa
una voliera.

 

***

 

Lui torna a trovarla ogni sera, le bacia il copricapo e il capo, il cibo dei piccoli ricordi. Julia
cammina avanti e indietro con una flebo sul braccio, non riesce dormire, spinge il cadavere del letto
sulle piastrelle sporche dei sotterranei, copre la testa con un foulard di seta : they don’t trust me :
they will kill me. It is not a joke.

Nel rione delle Porte Chiuse ridono gli infermieri :

La nigeriana si è messa a dormire come i negretti.
Dalle qualcosa, chiudile la testa.

Dalle cosa.
Dalle un silenziatore.

 

***

 

Julia ha smesso di parlare. Le figlie cadono sul pavimento, quando cerca di cantare i boschi afferra
la nota sbagliata. Noi ridiamo, noi cantiamo le sirene, noi apriamo le faglie.

I neurolettici fanno il loro dovere : si trascina nei corridoi, l’odore di fumo le invade le narici fino al
cervello.

Restano le voci : true human voices, two human voices, it is not a joke. La costruzione di una
metafora resta perfetta, una strategia per chi non ha femori abbastanza forti da poggiare sulla terra.
Il farmaco fa il suo dovere : ci dice non ascoltare, chiede non sentire.
Dice non sentire : noi non vogliamo ascoltare.

 

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dunque cos’è un delirio quando delira, quando ha il coraggio delle pietre, dei profondi e delle
soglie – quando non fa luce e non fa grida / cos’è un delirio quando indugia, cosa non è
concesso nel secondo arrivo di un asilo : gli esiliati che non siamo
se non sigilliamo l’ora che non abbiamo siglato.

 

 

 

Non deprime il cuore né lo stomaco: Ermanno Cavazzoni, La valle dei ladri

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di Francesca Fiorletta

“Io me ne intendo. Quelli che dava agli altri erano baci di superficie, senza mordente, senza che ci fosse l’anima dietro, mentre a me era l’anima che mi suggeva; e io altrettanto.”

Esce per Quodlibet Compagnia Extra, uno dei migliori romanzi di Ermanno Cavazzoni, La valle dei ladri, già edito da Einaudi nel 1999 come Cirenaica, e recentemente rimaneggiato e rivisto dall’autore, che ha voluto anche ripristinare il titolo originario. 
Sulle prime, la scelta mi ha dato un po’ da pensare. Cirenaica è infatti il nome dell’unico film proiettato nell’unico cinema del Bassomondo, questa sorta di limbo-città in cui il protagonista si ritrova a bighellonare senza un vero perché, e da cui proverà a fuggire, seppure con poca convinzione, aspettando treni fantasmatici e miracolosi che, forse, difficilmente arriveranno.
Mi sembrava proprio un ottimo titolo, Cirenaica, perché nel leggere questo libro si ha esattamente la sensazione di rivedere con costanza le stesse identiche scene, slabbrate e riproposte in sequenza circolare, frantumate e ridisposte in fila sotto gli stessi quarti di luce, che è invero un alone diafano, il surrogato di una luna opaca che è sempre sull’orlo di scomparire, catturata e resa immortale, impressa sulla pellicola di carta, prima che il suo pallore inconcusso venga soppiantato dalla ben più pervicace luce elettrica, ossia dal sempre nuovo che avanza.

Paterson – La deriva del continente (Transeuropa 2014)

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Elisa Davoglio /
Viola Amarelli*

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…A Paterson è consentito accendere per l’ultima volta un computer, per togliere il suo salvaschermo.

Gli concedono di raccogliere semi, travasare terra dai grossi vasi che ornano ancora l’ingresso, monumentali.

La cura del verde, la predisposizione all’ordine, alla santità.

La purezza di ogni peccato. Piangendo una sola volta.

Da “Lunga un anno”

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tutto-potrebbe-esser-trasformato-in-oro.-125x83-acrilico-e-matita-bianca-su-tela-su-tela-2011di Francesco Accattoli

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1. Quanto pesa la neve

Da queste altissime finestre si vede il bianco,
la coltre sopra quella linea retta
che in precedenza era traiettoria.

Tu se sai dire dillo ( terza edizione)

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18.19, 20 settembre 2014

spazio Ostrakon, via Pastrengo 15, Milano

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Lo Spazio Ostrakon ospita, tra il 18 e il 20 settembre 2014, la terza edizione della rassegna Tu se sai dire dillo, dedicata alla memoria del poeta Giuliano Mesa (1957-2011) e ideata da Biagio Cepollaro. Anche quest’anno l’attenzione è rivolta a poeti importanti e radicali del ‘900, ancora poco conosciuti, come Gianni Toti (1924-2007), tra l’altro pioniere della video poesia in Italia, di cui viene presentata per la prima volta, a cura di Daniele Poletti, l’intera opera in versi; Emilio Villa (1914-2003), precursore delle neoavanguardie,in nome del quale si sono svolte nel corso dell’anno molte iniziative promosse da Enzo Campi, a partire proprio dalla galleria Ostrakon, e Paola Febbraro (1956-2008), poetessa prematuramente scomparsa intorno alla cui opera parleranno Anna Maria Farabbi ,Viola Amarelli e Giusi Drago.

Ad arricchire il programma vi è la presentazione dell’ambizioso progetto Phonodia, curato da Alessandro Mistrorigo della Ca’ Foscari di Venezia, relativo ad un archivio di voci di poeti di tutto il mondo. Sulla questione della critica letteraria oggi, infine, verterà una conversazione tra Luigi Bosco e Lorenzo Mari, redattori del blog In realtà, la poesia, e Luciano Mazziotta.

La manifestazione pone a contatto diretto alcune radici novecentesche della ricerca in poesia e le riflessioni critiche dei più giovani che operano prevalentemente in rete.

 

18 SETTEMBRE, GIOVEDÍ

 

ore 19.00

Biagio Cepollaro legge Giuliano Mesa

 

Buffet e aperitivo

 

ore 21.00

Gianni Toti e la Casa Totiana

a cura di Daniele Poletti  e con la collaborazione della Casa Totiana

 

Invitati e interventi:

Daniele Poletti, Ermanno Moretti, Daniele Bellomi, Pia Abelli Toti, Dome Bulfaro, Giovanni Anceschi, Pier Luigi Ferro, Raffaele Perrotta, Giacomo Verde, Giacomo Cerrai

 

Pia Abelli Toti parlerà della Casa Totiana e di Gianni Toti.

Daniele Poletti e Ermanno Moretti presenteranno [dia•foria e il libro TOTILOGIA

 

E’ la prima antologia completa dell’opera poetica di Toti, corredata da interventi critici, creativi e da un inedito. Il libro è stato pubblicato, con il sostegno de La Casa Totiana, da [dia•foria, edizioni Cinquemarzo.

 

Giacomo Verde presenterà il video Fine Fine Millennio, che partecipò all’UTAPE del 1987, con Gianni Toti in giuria

 

Proiezione di 2/4, video di Gianni Toti

 

19 SETTEMBRE, VENERDÍ

 

ore 19.00

La critica letteraria: In realtà, la poesia

Luigi Bosco e Lorenzo Mari dialogano con  Luciano Mazziotta.

 

Invitati:

Francesco Forlani, Vincenzo Frungillo, Andrea Inglese, Giorgio Mascitelli, Luigi Metropoli, Davide Racca, Italo Testa, Pino Tripodi

 

Buffet e aperitivo

 

ore 21.00

Progetto PHONODIA Ca’ Foscari di Venezia

a cura di Alessandro Mistrorigo

 

20 SETTEMBRE, SABATO

 

ore 19.00

La poesia di Paola Febbraro

a cura di Giusi Drago

 

Intervengono:

Viola Amarelli e Anna Maria Farabbi

 

Buffet e aperitivo

 

ore 21.00

Un anno per Villa

a cura di Enzo Campi

 

“Il Clandestino”, video-intervento di Stelio Maria Martini su Emilio Villa

 

Saranno presenti alcuni degli autori che hanno collaborato alle imprese editoriali e performative del progetto Parabol(ich)e dell’ultimo giorno,  Dot.Com Press – Le Voci della Luna.

Il libro raccoglie, oltre ai testi villiani, contributi critici e operazioni verbovisive di:

 

Daniele Bellomi, Dome Bulfaro, Giovanni Campi, Biagio Cepollaro, Tiziana Cera Rosco, Andrea Cortellessa, Enrico De Lea, Gerardo de Stefano, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Ivan Fassio, Rita R. Florit, Giovanna Frene, Gian Paolo Guerini, Gian Ruggero Manzoni, Francesco Marotta, Giorgio Moio, Silvia Molesini, Renata Morresi, Giulia Niccolai, Jacopo Ninni, Michele Ortore, Fabio Pedone,
Daniele Poletti, Davide Racca, Daniele Ventre, Lello Voce, Giuseppe Zuccarino, Enzo Campi

 

 

SPAZIO OSTRAKON

Via Pastrengo 15 Milano

Orari: mar-sab | 15,30-19,30

I poeti appartati: Andrea Leonessa

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Poesie

di

Andrea Leonessa

 

Tassidermia verbale

Non avendo che un tempo di curarsi, della bocca

aperta si fece spazio ad estrazione, a cassetto, vano

per Lego, d’un costrutto verbale la sede annacquata,

l’asporto delle braccia che non stanno all’incastro

Le voci dell’Olocausto. L’opera estrema di Charles Reznikoff

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A Roma, presso la Casa delle Traduzioni
(via degli Avignonesi 32)
giovedì 18 settembre, ore 17:15 – 18:30

Le voci dell’Olocausto. L’opera estrema di Charles Reznikoff
Charles Reznikoff, Olocausto, traduzione di Andrea Raos, Benway Series, 2014
http://benwayseries.wordpress.com/2014/09/09/charles-reznikoff-olocausto-holocaust-benway-series-6/

Partendo dalla recentissima traduzione di Olocausto, l’ultimo straordinario testo pubblicato in vita dal poeta americano Charles Reznikoff (1975), l’incontro cercherà di mettere a fuoco le particolarità e le difficoltà dell’opera di trasposizione di fronte a un tema così complesso e delicato come la Shoah e davanti a una lingua che assume tutta la responsabilità e, al tempo stesso, tutta la distanza necessaria per poterne rinnovare la memoria.

In dialogo sulla traduzione: Damiano Abeni e (via skype) Andrea Raos.
Interventi: Marco Giovenale e Giulio Marzaioli.
Letture dal testo: Michele Zaffarano.

https://www.facebook.com/events/616909615096122/

Charles Reznikoff (1894-1976) è stato uno dei maggiori poeti statunitensi, collocabile nell’ambito della seconda generazione di autori modernisti. Fu partecipe in prima persona (con Louis Zukofsky, George Oppen, Carl Rakosi) dell’idea e progetto “oggettivista”. È autore di numerosi testi di poesia, tra cui Jerusalem the Golden (1934), In Memoriam (1936), By the Waters of Manhattan: Selected Verse (1962), Testimony: The United States (1885-1890) (1965), Holocaust (1975). Holocaust, qui in prima traduzione italiana, fu scritto riprendendo in maniera diretta e senza alcun intervento autoriale le testimonianze delle vittime della barbarie nazista e quelle dei carnefici, così come riportate negli atti del processo di Norimberga (1945-46) e di quello a Eichmann (1961).

Andrea Raos (1968) ha pubblicato Discendere il fiume calmo (nel Quinto quaderno italiano di poesia contemporanea, 1996), Aspettami, dice (2003), Luna velata (2003), Le api migratori (2007), I cani dello Chott el-Jerid (2010) e Lettere nere (2013). È presente nel volume Àkusma. Forme della poesia contemporanea (2000) e ha curato l’antologia Chijô no utagoe – Il coro temporaneo (2001). Con Andrea Inglese ha curato le antologie Azioni poetiche. Nouveaux poètes italiens, in «Action poétique» (2004) e Le macchine liriche. Sei poeti francesi della contemporaneità, in «Nuovi argomenti» (2005).

Damiano Abeni (1956) ha tradotto dall’inglese oltre cinquanta libri e collabora con diverse case editrici e riviste letterarie. È tra i redattori di «Nuovi Argomenti» e della rivista online «Le parole e le cose». Ha ricevuto una fellowship del Liguria Study Center for the Arts and Humanities (Bogliasco Foundation, 2008) e una delle Rockefeller Foundation Fellowship (Bellagio, 2010). Nel 2009 è stato Director’s Guest presso il Civitella Ranieri Center. È cittadino onorario per meriti culturali di Tucson, Arizona, e di Baltimore, Maryland.

Il progetto editoriale Benway Series, indipendente e autoprodotto, nasce per iniziativa di quattro autori (Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli e Michele Zaffarano) con l’intento di formare un tracciato di scritture di ricerca straniere e italiane, appartenenti al passato più o meno prossimo o alla contemporaneità. Sino a oggi sono stati pubblicati testi di J. Ashbery, F. Ponge, C. Costa, M. Zaffarano e G. Marzaioli. L’Olocausto di Reznikoff è l’ultima traduzione della serie.
http://benwayseries.wordpress.com/

Per l’incontro, riservato ai possessori Bibliocard, è richiesta l’iscrizione, da inviare all’indirizzo casadelletraduzioni@bibliotechediroma.it entro il 16 settembre.

 

Reznikoff, Olocausto - Benway

 

 

Idiozia d’arte & d’integralismo

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Idiozia di Andrea Inglese

Non sono uno che ogni due minuti punta il dito sull’integralismo e si dispera per la fragilità della cultura occidentale. Cerco, con spirito non pregiudiziale, di portare uno sguardo il più possibile equilibrato sugli avvenimenti. I demoni, però, sono demoni, e come tali, ad un certo punto, vanno giudicati. L’integralismo è essenzialmente demoniaco, ossia va considerato come una forma di possessione, e quindi di riduzione, d’impoverimento, della natura complessa e multiforme dell’uomo. L’integralista religioso è un uomo posseduto, ossia un uomo monodimensionale, ossessivo, deficiente.

autocritica idraulica: Sergio Garufi

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fonte

Due cronopios: Cortázar e Jovanotti

di

Sergio Garufi

La critica idraulica, come la chiamava ironicamente Cortázar, è sempre alla ricerca delle “fonti”, dei libri che hanno influenzato il tuo libro, come se le idee non potessero sfociare che da lì. È un approccio che lui rifiutava, tipico di chi pone l’accento sul sapiens anziché sull’homo. E difatti, di fronte a un’opera complessa e adamitica come Rayuela, la dichiarazione d’indipendenza della letteratura ispanoamericana, molti critici restarono spiazzati, non trovando appigli per le loro dotte esegesi. In una lettera del 24 novembre 1964 a Nestor Lugones, un laureando che gli chiedeva le fonti di Los Reyes, Cortázar rispose così, fingendo di confondere le fonti con le fontanelle:

Le uniche che vedo con chiarezza sono quelle della Piazza del Congresso, dove io passavo spesso in quell’epoca a causa di una ragazza che viveva vicino alla Confetteria del Mulino”. E poi aggiunse: “Non creda che mi sto burlando di lei […] Gli investigatori del fatto letterario partono quasi sempre dall’errore di credere che non c’è effetto senza causa. Più che un errore è una semplificazione. Io non usai nessuna fonte (copio i termini della sua lettera); in ogni caso vai a sapere quali remote e multiple fonti usarono me. Un disegno di Cocteau, per esempio, con un giovane minotauro che guarda lontano. O qualcuno che fischiettava sotto la mia finestra, disegnando un labirinto nell’aria. Lei mi cita il nome di Asterione, ma io mi resi conto di questo nome molto dopo, grazie a un bel racconto di Borges. Per me il minotauro non aveva e non ha nome. Il personaggio di Axto, per terminare, è pessimo per una tesi, perché non ha alcuna origine.  Lei forse ammetterà che di quando in quando a uno scrittore capita d’inventare un personaggio traendolo dal puro nulla. È triste, ma è così. Probabilmente per questo Minosse mandò a tortura e a morte Axto; anche Minosse cercava fonti, aveva una forte vocazione da filologo. E concluse con un invito perentorio: “Entri da solo nel labirinto, i gomitoli non le servono a nulla”.

Cortázar è molto presente nel mio nuovo romanzo, Il superlativo di amare. Gino, il protagonista, non è solo il traduttore del suo epistolario, ma è un suo grande ammiratore, uno stalker postumo che ne spia le abitazioni e i rapporti sentimentali; eppure l’argentino non rappresenta una vera fonte d’ispirazione. Anche in questo caso, ha contato più una fontanella secca vicino a un monastero di Bevagna, dalla quale fantasticavo potesse sgorgare all’improvviso un’acqua miracolosa, che tutti i libri che ho letto. Cortázar volevo che fosse solo una presenza fantasmatica, una sorta di spirito guida, come Humphrey Bogart per Woody Allen in Provaci ancora Sam; niente di più. E da questo confronto, dal ripercorrere i passi dell’argentino a Parigi, il protagonista avrebbe dovuto infine trovare la propria strada, capire che casa sua stava altrove, che doveva seguire un’altra stella.

Sulle note di Come musica ho conquistato la mia donna, come ho detto l’altro giorno in un’intervista radiofonica. L’effimera eternità di ogni storia d’amore danza intorno a una colonna sonora, e siccome il rapporto fra Gino e Stella ha parecchi spunti autobiografici, se dovessi indicare un’altra fonte del mio libro segnalerei quel bellissimo pezzo di Jovanotti. Anche il rapporto fra Gino e Stella è costellato da “false partenze”, sospetti infondati, equivoci e fraintendimenti. Anche lui sa che “è successo già, che altri già si amarono non è una novità”, però fin dall’inizio vede in lei qualcosa di speciale, qualcosa che non ha nessun’altra. E alla fine, dopo una drammatica separazione, cercherà di riprendersela, consapevole che nella vita ben più dei concetti contano gli affetti, perché “solo l’amore rimane, tutto il resto è un gioco”. Nel poco tempo che sono stati assieme Gino e Stella “si sono attraversati fino nel profondo”, ma resta ancora da scoprire “al centro del suo cuore che c’è”, ed è questa insondabilità dei sentimenti ciò che più ci attrae in una persona. Ma forse Cortázar c’entra anche qui. Vedendo il videoclip di questa canzone ogni suo lettore riconoscerà immediatamente, nel balletto degli escavatori cingolati come docili elefanti davanti al domatore, l’estro e la follia stralunata di un autentico cronopio.

 

La mala ora dell’Ultraliberismo

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georges-vivianedi Romano A. Fiocchi

Viviane Forrester, Una strana dittatura, traduzione di Fabrizio Ascari, TEA, 2003.

Viviane Forrester (qui in uno scatto di Jean-Marc Armani) è morta l’anno scorso. Era di nazionalità francese. E di origine ebraica. Conosceva Georges Perec. Ho saputo di lei grazie a una bellissima videointervista a Perec degli anni Settanta, tuttora reperibile in rete e già citata in un mio articolo cortesemente ospitato da NI. Qui i modi fascinosi della Forrester fanno da contrasto con la voce burbera di Perec, lei in un cappottino scuro con una cintura che le stritola la vita, lui con un montone dal bavero alzato, i capelli e il pizzetto da scienziato pazzo, il suo gesticolare ossessivo. Il video è girato nei pressi di rue Vilin, le prime inquadrature proprio davanti a quello che era stato il negozio di parrucchiera della madre di Perec, deportata e morta probabilmente ad Auschwitz. Dalla descrizione di quei luoghi, oggi completamente stravolti, Perec prende spunto per parlare del suo ultimo libro e per illustrare quello che sarà il suo progetto più grandioso: La vita istruzioni per l’uso. La Forrester sorride, ascolta, fa domande con voce cinguettante, non lo chiama né monsieur Perec, né Georges ma per intero: Georges Perec, dandogli del Voi (che è poi il Lei francese).

Ebbene, mai avrei pensato che una figura tutta delicatezza e femminilità potesse sfoderare gli artigli da leone in un pamphlet pieno di rabbia trattenuta, centottantasei paginette che sono una sorta di “j’accuse” moderno lanciato contro un’intera ideologia: l’ultraliberismo. Lo fa, la Forrester, con un linguaggio lucido e tagliente come un bisturi che non accusa nessuno in particolare se non l’instaurarsi di una forma mentis pericolosissima che si pone come unico obiettivo il profitto in sé, a scapito di tutto e di tutti, anche della distruzione dell’intero pianeta e del suo tessuto sociale.

forresterUna strana dittatura è un libro indignato e per gli indignati che ha come unico scopo far aprire gli occhi e mostrare la verità. Uscito nel 2000 per la Librairie Arthème Fayard, e lo stesso anno in Italia per Ponte alle Grazie, fa specie che le edizioni TEA – di cui a fatica ho reperito una copia – l’abbiano riproposto con una copertina bruttina e fuorviante, che sembra quasi uno di quegli Urania o di quei vecchi romanzi di spionaggio tradotti alla bell’e meglio e venduti in edicola. Il suo messaggio, condensato in pochi concetti che attraversano il libro come un leitmotiv incalzante, ruota intorno all’idea di una oligarchia che ha ormai in mano le redini del mondo e sta portando tutti verso il baratro senza che i più non solo l’accettino come un’irreversibile evoluzione storica, ma neppure si rendano conto della catastrofe, né – proprio per questo – tentino di opporsi.

Esagerazioni? Discorso da comunisti? Mire sovversive? È istintivo porsi domande di questo tipo proprio perché questo sistema ideologico fondato “sul dogma (o sul fantasma) di un’autoregolazione dell’economia di mercato”, questa “strana dittatura” che controlla ormai la globalizzazione, rende inverosimile la verità e condiziona a tal punto l’opinione pubblica da far credere storicamente inevitabile ciò che non lo è, dando per assodato il fatto che sia la cibernetica la causa di tutto e non lo sia piuttosto l’uso e il successivo sfruttamento a cui è stata sottoposta.

Ma partiamo da un termine abusato e che la Forrester definisce “perverso”: la globalizzazione. L’ultraliberismo è riuscito a trasformare questo concetto in un sinonimo di liberismo: “Quando parliamo di globalizzazione (definizione passiva e neutra dello stato del mondo attuale), è quasi sempre di liberismo (ideologia attiva, aggressiva) che in realtà si tratta; e questa confusione permanente consente di far passare ogni rifiuto di tale sistema politico, delle sue operazioni e delle loro conseguenze, per rifiuto della globalizzazione e dell’amalgama su cui essa poggia, il quale include i progressi della tecnologia. Facile allora, per i cantori del liberismo, liquidare i loro oppositori con un’alzata di spalle o un sorrisetto beffardi, farli passare per insopportabili retrogradi che, sprofondati nel ridicolo, infiacchiti nell’arcaismo, si ostinano a negare la Storia e a rinnegare il Progresso” (…) “Dimentichiamo che la globalizzazione non necessita di una gestione ultraliberista, e che quest’ultima rappresenta soltanto un metodo (del resto calamitoso) fra i tanti possibili. In poche parole, la globalizzazione non è la stessa cosa dell’ultraliberismo – e viceversa!”

Allo stesso modo la propaganda ultraliberista ha imposto termini ed espressioni che “hanno il dono di persuadere senza bisogno di discussioni”. Ecco allora il mercato libero (di fare del profitto, aggiunge la Forrester), le ristrutturazioni (smantellamenti di imprese o comunque disintegrazioni delle loro masse di lavoratori), o i deficit pubblici da combattere, che sono in realtà – sempre la Forrester – benefici per il pubblico: “Le spese giudicate superflue, addirittura nocive, hanno l’unico difetto di non essere redditizie e di essere perdute per l’economia privata, quindi di rappresentare mancati profitti per essa insopportabili. Ora, queste spese sono vitali per i settori essenziali della società, in particolare quelli dell’educazione e della salute”. La propaganda finisce così per legittimare deregolamentazioni, delocalizzazioni, fughe di capitali e un’economia di mercato costruita su forme sempre più speculative.

Il libro è stato scritto nel 2000. Prima pertanto dell’abbattimento del potere d’acquisto di stipendi e pensioni con l’entrata in vigore dell’Euro (2002), e prima ancora dell’inizio della crisi economica (2007/2008). Eppure l’ideologia ultraliberista era già avviata nella sua allucinante politica di fusioni e di licenziamenti finalizzati soltanto ad aumentare il profitto. La Forrester cita numerosi esempi, come il gigante della telefonia americana ATT che nel 1996 annuncia 40.000 licenziamenti e, subito dopo, vede pubblicato sui giornali lo stipendio del suo direttore generale, Robert Allen, con 16,2 milioni di dollari: triplicato rispetto l’anno precedente pur non avendo al suo attivo nessuna realizzazione di utili se non solo quei 40.000 licenziamenti. Oppure l’Alcatel, 15 miliardi di franchi di utili nel 1996, che annuncia 12.000 licenziamenti, portando a 30.000 quelli che ha effettuato in quattro anni. Oppure ancora la Michelin che durante il primo semestre del 1999 ha un rialzo di utili del 17%, con prospettive favorevoli, e contemporaneamente licenzia 7.500 dipendenti, cioè un decimo degli effettivi, scaglionato in tre anni. In tutti i casi, come negli altri citati dalla Forrester, i titoli in Borsa hanno rialzi prodigiosi: “Gli annunci dei licenziamenti entusiasmano gli azionisti, li stimolano ancora più degli utili”. La propaganda – per constatarlo basta seguire qualche telegiornale – giustifica tutte queste manovre, in Francia come in Italia, come nel resto del mondo. E le scandisce con frasi di rito: la globalizzazione obbliga… la competitività vuole che… e poi l’occupazione dipende dalla crescita, la crescita dalla competitività, dalla capacità di sopprimere posti di lavoro. Vale a dire: per lottare contro la disoccupazione, niente di meglio dei licenziamenti. Certo, questa sì che è una tesi coerente.

Ma la Forrester affonda sempre più il dito nella piaga: la scure dei licenziamenti pesa sui lavoratori superstiti e sulle poche nuove assunzioni a termine esasperando il gioco al ribasso del costo del lavoro e diffondendo nella stragrande maggioranza l’angosciosa minaccia di finire ad ingrossare le file dei disoccupati, spingendo ad accettare sottomissioni e costrizioni sempre più opprimenti. Si arriva così a quelli che già chiamano working poor, ossia lavoratori poveri. Gli Stati Uniti ne sono pieni, così come sono pieni di poveri e di senzatetto: da oltre trent’anni la prima potenza economica mondiale conta lo stesso numero incredibile di indigenti, più di trentacinque milioni di cittadini che vivono sotto la soglia di povertà, molti dei quali non risultano neppure disoccupati perché usciti dalle statistiche in quanto non più titolari di sussidi. L’economista americano Robert Reich, segretario al Ministero del Lavoro dal 1993 al 1996, sottolinea che negli Stati uniti ci sono milioni di working poor che lavorano a tempo pieno e non guadagnano abbastanza per uscire dalla miseria, e questo a causa della flessibilità concessa alle imprese e non ai salariati. Insomma, la prima potenza economica mondiale è anche la prima fra i paesi industrializzati per quanto riguarda il tasso di povertà della sua popolazione. Questo, dice la Forrester, fa riflettere sul senso, sulla qualità, sulla natura dell’economia mondiale.

Prima ancora del crollo borsistico dell’11 settembre 2002 e prima dello scoppio della bolla immobiliare dei Subprime che innescherà nel 2007 la crisi mondiale, la Forrester punta già il dito sull’economia virtuale e sulla speculazione, sui profitti originati da “prodotti derivati”, ossia non-prodotti che si negoziano come se fossero materiali. Si vendono rischi virtuali legati a contratti ancora in stato di progetto, poi si vendono i rischi che scaturiscono dall’acquisto di questi rischi, e così via. Si vende insomma il nulla speculando su ogni negoziazione, scommesse su scommesse su scommesse. A questo porta l’economia di mercato. I profitti sono folgoranti e immediati, a tempo di record. Ma la cosa più preoccupante è che se si produce profitto da utili senza produrre utili da vendita di prodotti reali, non occorrono neanche più lavoratori reali, se non quello stretto necessario per le manovre contabili. E se i prodotti da vendere non contano più nulla, significa che anche i consumatori – ossia gli acquirenti di questi beni – non contano più nulla. Contano piuttosto gli investitori, ossia chi acquista titoli di partecipazione per concorrere alla spartizione di questi enormi profitti costruiti dal nulla. Ecco dove siamo arrivati.

Così la Forrester: “Se la disoccupazione non esistesse, il regime ultraliberista la inventerebbe, perché gli è indispensabile. È quella che permette all’economia privata di tenere sotto il proprio giogo la popolazione di tutto il pianeta mantenendo la coesione sociale, cioè la sottomissione”. Ma se disoccupazione significa anche perdita di consumatori, come può un’azienda permettersi un mancato profitto? Soltanto se il suo carattere di impresa non fosse davvero cambiato, se il suo valore non si distanziasse sempre più dalla sua produzione per essere posto sempre più in relazione alla sua produttività. “Tale valore non dipende più tanto dai suoi attivi reali, dai suoi affari tradizionali, dai prodotti che propone, quanto dalla sua capacità di interessare i mercati finanziari. Ossia dal posto che l’azienda occupa nei fantasmi speculativi” (tradotto in termini nostrani, alla nuova FIAT non interessa più vendere auto ma constatare l’ascesa delle sue quotazioni di Borsa). E allora via con fusioni, incorporazioni, acquisizioni, con creazioni di colossi multinazionali che si muovono in regime di monopolio e con la vendita di prodotti differenziati dai marchi ma omologati in qualità e fattura. Anche il prodotto in sé non conta più nulla: su qualunque marca cada la scelta del consumatore, la multinazionale ha gli utili assicurati.

Un dubbio sorge spontaneo: se la disoccupazione è uno strumento indispensabile per il regime liberista, siamo sicuri che anche l’attuale crisi finanziaria non sia una sua invenzione? Non è forse un ulteriore pretesto per inasprire le sue politiche, sempre con il miraggio di una svolta positiva a favore di una fantomatica esplosione di nuovi posti di lavoro, che quasi certamente non avrà mai luogo? Sì, perché in fondo anche l’inquietante massa di disoccupati viene neutralizzata facilmente attraverso una propaganda adeguata. Basta dipingere l’assistenzialismo come una prassi vergognosa che grava sui contribuenti, i disoccupati stessi come ignobili pigri, incitandoli al lavoro senza offrirne. Un serbatoio di disoccupati in costante aumento per via di licenziamenti di massa effettuati con ragioni – diciamo la verità – che non hanno nulla a che vedere con il valore lavorativo e nemmeno con l’interesse specifico dell’impresa, con la sua produzione e suoi utili reali.

A questo punto ci si chiede chi possa tirare le fila di tutto ciò, chi sia a capo di questa “strana dittatura”, chi sia insomma lo spietato, l’Hitler di turno. Nessuno, questo è il problema. Certo, ci sono le lobby, ma quello che ci troviamo di fronte è un potere anonimo, astratto, fuori portata. Nessuno all’interno dei gruppi industriali vuole distruggere il pianeta o affamarne la popolazione. Non si tratta di una colpa individuale o di malvagità. È semplicemente colpa della logica detta realistica e ritenuta come l’unica moderna dai propagandisti. Se l’amministratore delegato della Michelin, persona per bene, non otterrà utili sufficientemente esorbitanti da attirare gli investitori, nel giro di poco tempo diventerà un’ex amministratore della Michelin. Insomma, responsabile di tutto è il meccanismo assurdo innescato da un mercato che non ammette regole se non quella di macinare profitti ad ogni costo. È un sistema cannibale. Chi non si adegua viene messo in disparte affinché la macchina ultraliberista continui a macinare guadagni.

La propaganda, in questo caso, è subdola e inventa anche strumenti atti a coinvolgere la fascia direttiva dei lavoratori illudendoli di partecipare alla spartizione dei profitti. Esempio lampante i piani di stock option, beneficio accessorio in realtà unicamente speculativi che permettono al piccolo dirigente di acquistare azioni di nuova emissione a un prezzo più basso di quello di mercato e a rivenderle immediatamente realizzando la differenza, oltre tutto con una tassazione bassissima. All’azienda non costano nulla perché l’eventuale monetizzazione è scaricata sul mercato. Peccato che le azioni in circolazione aumentino di numero, il che comporta la necessità di profitti ancora più alti per mantenere inalterati i dividendi unitari, perché gli investitori che contano, è ovvio, vogliono inalterata la loro parte di profitto. Insomma, un altro circolo vizioso che finisce per spingere a tagliare ed economizzare anche a prezzo di una decadenza evidente. Così la Forrester: “Ma sempre e ancora lo stesso interrogativo: perché? A quale scopo? A beneficio di chi o di che cosa, se non del solo profitto?”

Al di là di tutto, la questione non è soltanto morale. Si tratta di un pericolo che è sempre in agguato e che si è concretizzato più di una volta nel corso della Storia: “Non lo ripeteremo mai abbastanza: accettare che esseri umani vengano considerati superflui e che loro stessi arrivino a considerarsi di troppo equivale a lasciare che si instaurino le premesse del peggio. Non è ridicolo affermare che tutti i totalitarismi hanno per base questa negazione del rispetto; questa apre la strada a tutti i fascismi”. Che si sono da sempre instaurati non con la forza ma per colpa di “un certo clima di indifferenza meccanica, di consensi taciti, e l’impressione condivisa da molti (che però spesso cambieranno idea) che la cosa non li riguardi”. Tutto ciò, lo prova la Storia, è una premessa ineludibile ai genocidi. “Opporsi virtualmente ai genocidi non basta. Non avvengono impunemente: hanno bisogno di un terreno preparato; è a monte che vi si deve resistere”.

Ecco che allora il ruolo dell’opinione pubblica diventa fondamentale. Nessuna dittatura ha potuto reggere il potere senza il consenso popolare, palese o tacito. Per questo la diffusione della consapevolezza che non c’è nulla di inevitabile e che l’economia di mercato non è l’unica strada possibile sono il modo più efficace per contrastare l’ultraliberismo. L’opinione pubblica, non dimentichiamolo, è l’unica in grado di influenzare le decisioni dei governi e di battere qualsiasi propaganda.

Dall’uscita di Una strana dittatura sono passati quattordici anni. È dei giorni scorsi la fusione Alitalia-Etihad con trasformazione in azioni di due terzi dei debiti. Le parole che circolano sono quelle ripetute dalla Forrester sino alla nausea: competitività, stabilizzazione dell’azienda, servizio di qualità (ma Alitalia da sola faceva poi così schifo?), costo del lavoro ulteriormente compresso (l’amministratore Del Torchio parla di “decisioni dolorose”, eppure nelle fotografia di gruppo sorride con entusiasmo). Il risultato di tutto ciò sono altre alcune migliaia di tagli di posti di lavoro. E un azionariato soddisfatto. L’ultraliberismo procede nella sua marcia apparentemente inarrestabile. Almeno per ora.

L’Ucraina e le icone della guerra necessaria

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di Giorgio Mascitelli

Il settantacinquesimo  anniversario della seconda guerra mondiale è stato ricordato dal mondo politico occidentale con una serie di paragoni e allusioni alla guerra civile in Ucraina e in particolare alla minaccia rappresentata dalla Russia: si può citare in questo senso il discorso a Danzica del presidente tedesco Gauck, sorprendente perché finora le dichiarazioni dei responsabili tedeschi erano sempre state molto caute, ma anche  una serie di dirigenti polacchi, baltici e anglosassoni ha evocato il ritorno di una minaccia nazista. Anche dall’altro lato non sono mancati riferimenti a quel conflitto: per esempio Putin con  esagerazione ha paragonato all’assedio di Leningrado condotto dai nazisti l’attacco delle truppe di Kiev contro Donetsk ( sia detto con il massimo rispetto per le sofferenze della città, che ha pagato un prezzo altissimo in termini di morti e distruzioni , paragonabili in Europa dopo la seconda guerra mondiale soltanto a quelle subite da Sarajevo).

E’ comprensibile che sia così non solo per la rilevanza storica di questo conflitto, che lo rende ancora sentito, ma anche perché la seconda guerra mondiale dal punto di vista di simbolico ha il pregio di presentare un nemico certo, aggressivo e contro il quale era inevitabile fare la guerra.  Sul piano retorico l’evocazione della seconda guerra mondiale e delle sue lezioni è quello che potremmo chiamare un’icona della guerra necessaria. Tra l’altro questo spiega perché la prima guerra mondiale, di cui pure cade il centenario, abbia avuto meno spazio nei discorsi ufficiali: si tratta di una guerra  le cui cause sono più articolate e riconducibili nella coscienza comune a un misto di veti incrociati, giochi diplomatici finiti male, nazionalismi e imperialismi reciprocamente diretti. Eppure, a volerle vedere con un po’ più di precisione anche le cosiddette lezioni della seconda guerra mondiale sono un po’ più inquietanti di quanto i richiami attuali facciano: infatti gli unici a dichiarare guerra alla Germania dopo l’invasione della Polonia furono Francia e Gran Bretagna ossia i paesi normalmente indicati come i portatori del funesto spirito pacifista europeo  che aveva lasciato la Cecoslovacchia a Hitler senza fermare il conflitto. Stalin era convinto che dopo il patto Ribbentrop- Molotov  Hitler non lo avrebbe più attaccato, nonostante l’anticomunismo fosse al pari dell’antisemitismo uno dei pilastri ideologici del nazismo. Gli Stati Uniti entrano in guerra nel dicembre del 1941, solo dopo che il Giappone aveva cominciato a minacciare i loro interessi diretti nel Pacifico, Churchill aveva respinto l’invasione dell’Inghilterra e iniziato a suonarle agli italiani in Africa e la Germania aveva aggredito l’URSS.  Tra l’altro senza l’attacco della Germania e dei suoi numerosi alleati nell’Europa centrorientale ( la Slovacchia, l’Ungheria e la Romania, oltre naturalmente all’Italia ), l’Unione Sovietica non avrebbe mai avuto l‘occasione  di sottomettere quella parte di Europa che le fu assegnata poi con gli accordi di Jalta.

Mi trovo costretto a ricordare queste ovvietà, visto che nel discorso politico e mediatico molti sembrano credere che la storia ci offra delle lezioni belle e pronte da applicare per ogni circostanza.  I fatti storici diventano delle icone che rappresentano un comportamento  o un valore da sostenere in quel momento e vengono agitati a quel fine per essere depositati nello scaffale una volta terminata la loro funzione, come i vestiti di carnevale.

Non che sia una novità: Valerio Massimo nel I secolo d.c. aveva scritto proprio una raccolta di exempla storici ( fatti e aneddoti che mettevano in luce determinati vizi e virtù morali) che dovevano servire all’oratore a seconda della tesi da sostenere, ma almeno nelle classi dirigenti romane c’era l’idea che questo tipo di uso della storia era puramente retorico e che per capirla veramente bisognava leggere Tacito.

Non sembra esserci nel nostro tempo una simile precauzione forse perché la fine della guerra fredda e l’inizio della globalizzazione sono stati percepiti nelle  classi dirigenti occidentali come una fine della storia, aldilà anche di quello che Fukuyama intendeva impiegando questa vecchia espressione hegeliana. La storia insomma è diventata semplicemente una serie di immagini utili tutt’al più utili a fornire motivazioni esemplari per determinati comportamenti nel presente;  così se qualcosa ostacola il processo di globalizzazione guidato dagli Stati Uniti, esso non può essere nient’altro che il passato che ritorna.

Per esempio, l’ex premier slovacco, nonché fondatore della Democrazia Cristiana in quel paese, Jan Čarnogursky in un’intervista concessa al quotidiano di Bratislava Sme del 16 agosto scorso dichiarava a proposito della crisi ucraina che la posizione di Putin era comprensibile e legittima. Tra le molte cose interessanti che quell’intervista contiene vi è anche una domanda degli intervistatori che chiedono a Čarnogursky come sia possibile che uno che come lui, che è stato dissidente e ha lottato contro il comunismo nella Cecoslovacchia sovietizzata, sia filorusso. Al che l’intervistato ha avuto un gioco fin troppo facile nel ricordare che essere anticomunista e antirusso non siano la stessa cosa. E’ chiaro che per quei giornalisti, e non solo per loro, l’unico motivo per cui si può comprendere la posizione dei russi è il desiderio che l’Unione Sovietica ritorni.

 

Anche il presidente Obama ha più volte parlato della Russia come di un paese fuori dalla storia ancorato al passato, alludendo in occasione della crisi ucraina alla sua incapacità a risolvere i conflitti se non con la violenza. Bisogna chiedersi allora  perché un uomo politico indubbiamente intelligente come Obama non si sia reso conto che questa sua dichiarazione si presti alla banale obiezione che negli ultimi venticinque anni nessun paese più degli Stati Uniti sia ricorso alla guerra.  L’unica risposta è che evidentemente Obama non considera quelle condotte dagli Stati Uniti delle guerre, sia che le consideri operazioni di polizia che servono a mantenere il nuovo ordine mondiale della globalizzazione, nato dalla fine della storia, sia che le consideri avvenimenti accidentali incapaci di mutare la sostanza di un mondo pacifico e globalizzato.

Negli anni ottanta Reagan prese a chiamare l’Unione Sovietica come l’Impero del male. Si trattava di una definizione fortunata non solo perché sfruttava il successo internazionale della saga di Guerre Stellari,  semplificando il messaggio ideologico della Guerra fredda, ma perché la gerontocrazia che dominava l’Unione Sovietica dette un suo contributo decisivo al successo dell’espressione, mostrandosi capace soltanto di invadere, reprimere e mandare in rovina l’economia dei paesi a essa soggetti. L’espressione usata da Reagan non costituiva soltanto una spettacolarizzazione dello scontro tra blocchi e dunque una banalizzazione politica, ma rispetto a formule di tipo più politico, che so impero totalitario o stato comunista  tirannico, spostava il confronto dal concreto tempo storico a quello indeterminato e rituale della saga. Del resto anche la sfumatura religiosa contenuta nella nozione di Impero del male contribuiva a portare il confronto su un piano astorico, sul piano dell’eterna lotta tra le forze del Bene e quelle delle Tenebre, arricchendo oltre tutto di un carattere di teodicea ( la vittoria finale del Bene)  questo tempo fuori del tempo.

 

L’Impero del male nel giro di pochi anni collassò, venendo sostituito secondo la spiritosa espressione dello scritto russo Pelevin, che si riferiva agli anni di Eltsin, da una repubblica delle banane del male, e quindi questo modo di dire cadde in disuso.  Tuttavia  la nozione di Impero del male non era una pura e semplice forma di propaganda, al contrario essa veicolava un modo astorico di guardare alle vicende storiche  che, nato dalla persistenza di vecchi archetipi  mitico-religiosi  presenti nell’inconscio culturale anche degli occidentali più laici, si sposava perfettamente con le matrici neoliberiste e neopositiviste della cultura e delle tecniche di governo statunitensi e poi occidentali. Infatti questo sguardo astorico è sopravvissuto al declino dell’Impero del male.

 

Prova ne sia che anche la globalizzazione è stata narrata preventivamente come fine della storia o come fase storica incommensurabilmente nuova di grande pace e prosperità, cioè con quegli aspetti paradisiaci che devono per forza seguire la sconfitta delle forze delle tenebre.  Non è un caso che proprio in questa fase storica prenda piede l’espressione Stati canaglia per indicare quelle nazioni che non accettano le regole del diritto internazionale scaturito dal nuovo ordine. E’ un’espressione che ha il suo apice, ricorda Derrida nel suo libro su di essi, con la presidenza di Bill Clinton.  Ora anche la nozione di Stato canaglia rimanda a un immaginario che non ha a che fare con la storia: la canaglia è quella fascia di popolazione criminale o connivente che vive in ogni epoca ai margini della vera e propria società. Si tratta di un metafora sociologica e moraleggiante che ancora una volta esclude la possibilità di una storicità.

 

Ancora più interessante è la definizione di Stato canaglia che uno dei collaboratori di Clinton, docente di studi internazionali, Robert S. Litwak ( cito sempre da Derrida) fornisce: Stato canaglia è qualsiasi stato che gli Stati Uniti ritengono tale. Se ci si pensa, una simile definizione attribuisce agli Stati Uniti un ruolo da Leviatano hobbesiano che è al di fuori delle leggi per farla rispettare e infatti coerentemente gli Stai Uniti non riconoscono la giurisdizione di quel tribunale internazionale dell’Aia, al quale pure hanno contribuito a deferire numerosi esponenti di Stati canaglia.  Il curioso è che una concezione del genere presuppone la fine del tempo storico, l’idea cioè di vivere in un’epoca che non porterà cambiamenti se non un perenne arricchimento grazia alla scienza e alla libertà economica. Dal punto di vista del divenire storico questa idea di un superstato controllore è pericolosissima perché porterebbe al conflitto non appena apparisse all’orizzonte uno stato di dimensioni tali da sottrarsi al controllo del benevolo Leviatano statunitense e che pretendesse che i propri interessi concorrenti fossero riconosciuti nei modi delle tradizionale diplomazia tra stati.

 

Nel concreto il richiamarsi al passato , sovietico o nazista o talvolta entrambi, evocato astoricamente come un’icona del male è stato il modo in cui l’occidente ha letto la vicenda ucraina. Ancora  una volta questa lettura richiama il tempo mitico della saga nella variante dell’Impero che colpisce ancora. Una prospettiva storicizzante invece avrebbe sconsigliato di sostenere in un paese composito etnicamente e il cui principale atout economico è di essere una porta per il mercato russo un movimento nazionalista antirusso: è chiaro che una scelta del genere significa condannare per decenni un paese così grande a un’instabilità politica e a una dipendenza dall’estero paragonabili o superiori a quella della Bosnia pacificata dopo la guerra civile. Ma tutto ciò per il tempo mitico nel quale nuotano le categorie politiche delle èlite politiche e culturali dell’occidente globalizzato non conta nulla. Non è un caso che in queste èlite gli unici a esprimere preoccupazione per il modo in cui l’occidente aveva approcciato la crisi ed era intervenuto in Ucraina sono stati due dirigenti novantenni come Kissinger e Helmut Schmid, e ciò non per saggezza senile, ma perché ai loro tempi era impossibile non avere una prospettiva storica nelle scelte politiche.

 

Se poi questo modo di vedere è pericoloso per gli Stati Uniti, che infondo hanno sempre come via d’uscita estrema la possibilità tecnica dell’isolazionismo, per l’Europa, in cui tutto ci condanna a essere dentro la storia, è una forma di autolesionismo addirittura letale.

Editoria indipendente a Ostia

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esoed

Ostia, sabato 13 settembre – alle ore 18:00
L’EDITORIA INDIPENDENTE AL FABER BEACH
Lungomare Paolo Toscanelli 199

Presentazione di alcune collane editoriali esterne ai grandi circuiti:
– Chapbooks (Arcipelago Edizioni)
– Benway Series (Tielleci Editrice)
– Syn (IkonaLiber)
– Le edizioni de La Camera Verde

e dell’antologia EX.IT – Materiali fuori contesto

Dialogo con alcuni curatori:
Marco Giovenale, Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli.

Incontro a cura di Simona Menicocci.

Su facebook: https://www.facebook.com/events/704204466320358/

Violenza, silenzio e barbarie: quello che ho visto io della Siria

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di Lorenzo Declich

Le cose, sul campo, erano già molto chiare all’inizio.

La violenza del regime ha iniziato a manifestarsi subito, anzi, la rivolta nasce simbolicamente come risposta “civile” a un atto di violenza: un gruppo di ragazzini, picchiati e torturati per aver scritto su un muro quello che pensavano di Bashar al-Asad.

La macchina della propaganda, allora, era già ben oliata, ma nessuno che avesse un po’ di senno pensò che video e immagini della repressione contro i manifestanti pacifici fossero dei falsi.

Cosa che, invece, diventò uno dei pilastri della disinformazione negli anni a venire.

Erano in divisa o in borghese, sparavano sulla folla inerme.

Al termine delle dimostrazioni rimanevano a terra in molti.

Qualcuno respirava, qualcuno si muoveva, altri no.

Alle dimostrazioni seguivano gli arresti, gli stupri, le torture, molte delle quali senza ritorno.

Gli attivisti lavoravano per far tornare a casa i prigionieri, o per avere loro notizie.

Nasceva il Centro di documentazione sulle violazioni in Siria, aprile 2011.

Documentavano le morti, le vessazioni subite dai prigionieri con racconti, fotografie, video di persone martoriate, smagrite, quasi in fin di vita.

Le proteste si organizzavano principalmente attorno a due eventi, uno programmato il venerdì, l’altro dipendente dall’intensità della repressione: i funerali.

***

Andò avanti così per un po’ e la rivolta, nonostante la repressione, si allargò.

Iniziarono gli assedi. Prima furono “morbidi”: blindati bloccavano le vie di fuga delle città ribelli.

La città di Deraa fu la prima.

Lo scopo del regime era silenziare le proteste, isolare i focolai di rivolta, non permettere il collegamento fra attivisti.

Quando c’era una manifestazione gli strateghi del regime mandavano l’esercito, i soldati dell’esercito di leva davanti a tutti, e ordinavano di sparare.

Se i soldati si rifiutavano di sparare venivano presi a fucilate alle spalle.

Morti e feriti aumentavano esponenzialmente.

Eravamo all’inizio di maggio 2011, le vittime erano centinaia.

Il regime parlava di “terroristi”, di complotto contro la Siria ma nessuno dalla parte dei manifestanti aveva ancora sparato un colpo.

A nulla servivano gli infiltrati, venivano isolati.

Si narra anche che la sicurezza lasciasse per strada armi da fuoco.

Era l’ennesima provocazione, i manifestanti erano dichiaratamente pacifici e lo rimarcavano continuamente nei loro slogan.

Ma lì si registrarono le prime defezioni di ufficiali dell’esercito.

Bashar al-Asad, il dittatore, decretò la prima di una serie di amnistie grazie alle quali mise in libertà criminali comuni ed esponenti dell’islam radicale.

Un cavallo di Troia utile a legittimare l’algoritmo della violenza che i suoi seguaci traducevano nello slogan: “O Asad o bruciamo il paese”.

***

Gli assedi si moltiplicarono nelle città che il regime ritenne essenziali dal punto di vista strategico.

Homs, Baniyas, Tafas, Talkalakh, Rastan, Talbiseh, Jisr ash-Shughur.

In giugno a Jisr al-Shughur, cittadina di frontiera con la Turchia nella provincia di Idlib, si registrò il primo caso di violenza da parte dell’opposizione.

La città era assediata dall’esercito governativo, uomini armati – secondo gli attivisti si trattava di soldati defezionari – attaccarono le forze della sicurezza e le postazioni della polizia.

L’assedio si concluderà la settimana seguente con una carneficina, almeno 120 manifestanti rimasero uccisi.

Fu un episodio premonitore, in tutti i sensi, ma prima ci fu il 22 luglio 2011, il venerdì delle manifestazioni di massa in tutta la Siria.

Il punto più alto della rivolta pacifica.

La cifra della rivoluzione siriana.

Le bandiere sventolate dai manifestanti erano ancora quelle ba’athiste, le bandiere panarabe della Siria degli Asad.

Successivamente i rivoluzionari, per segnare un punto di non-ritorno, adottarono la bandiera dell’indipendenza.

Le città coinvolte furono soprattutto Hama – città simbolo della repressione asadiana – e Deir Ez-Zor ma l’intero paese, dalla costa al nord-est curdo, pullulava di presidi e proteste.

L’esercito siriano venne dislocato al centro di Damasco, dove le manifestazioni vennero di fatto impedite.

Il 29 luglio, per iniziativa di un gruppo di ufficiali disertori dell’Esercito Siriano nasceva L’Esercito Siriano Libero, con lo scopo primario di difendere le manifestazioni pacifiche dagli attacchi delle forze di sicurezza, dei civili lealisti e dell’esercito governativo.

Due giorni più tardi, il 31 luglio, nel quadro di un’operazione di repressione su scala nazionale, l’esercito regolare entrava a Hama e a Deir ez-Zor con i carri armati senza incontrare alcun genere di resistenza.

Spararono sulla folla, a caso.

Poi piazzarono i cecchini appostati sui tetti.

Il “massacro di Ramadan”  fece 136 vittime.

Passarono le immagini di corpi ammassati l’uno sull’altro, corpi senza testa, bambini arsi vivi.

***

A fine 2011 ci fu il primo attentato.

Esplosero due autobomba a Damasco, 34 morti secondo le autorità.

La televisione di Stato, giunta in loco pochissimi minuti dopo le esplosioni, inquadrava pezzi di essere umani sparsi sull’asfalto.

L’evento, che giungeva il giorno dopo l’arrivo degli osservatori della Lega Araba, fu il primo del genere nel conflitto siriano, non fu mai rivendicato.

Ne verranno altri, le modalità sono le stesse, lo spettacolo anche.

A partire dal 3 febbraio 2012 l’esercito governativo bombardò con l’artiglieria la città di Homs – snodo economico e strategico fondamentale per il regime – in particolare i quartieri della ribellione.

L’offensiva terminò il 14 aprile successivo, quando il regime affermerà di controllare circa il 70% della città.

Alto il prezzo pagato dalla popolazione.

La città sarà infine rasa al suolo, la sua anagrafe bruciata.

A marzo 2012 il campo profughi palestinese di Yarmuk, divenuto nei decenni un vero e proprio quartiere di Damasco, si unì alla rivolta.

Iniziò la repressione, in un’escalation che porterà al blocco totale del campo.

Come in altre zone calde la strategia del regime sarà il blocco degli accessi all’area e il martellamento tramite artiglieria.

Due anni più tardi Yarmuk sarà di nuovo in mano al regime.

Le immagini parlano chiaro, fu presa per fame.

Bambini e vecchi morivano.

Quelli ancora vivi erano ridotti a scheletri.

La stessa strategia venne messa in atto nelle aree liberate di Homs, che alla fine caddero.

Oggi il regime si esercita nella stessa pratica in altri quartieri di Damasco e ad Aleppo.

***

Nell’aprile 2012 un doppio attentato dinamitardo scosse la capitale.

55 le vittime secondo le fonti del governo.

Per la prima volta l’obiettivo era civile.

Pezzi di corpi sull’asfalto.

Il regime accusò “i terroristi” e qualche giorno più tardi su internet comparve una rivendicazione della Jabhat al-nusra, gruppo armato estremista che più tardi scopriremo essere affiliato ad al-Qa’ida, che immediatamente smentì.

Fu il mese di inaugurazione della “stagione delle stragi”.

Avvennero in paesi, piccole cittadine attorno a Homs.

Il regime faceva “pulizia” nelle aree che riteneva strategiche.

Quella di Hula è la più conosciuta, ne seguirono diverse altre, fra cui quelle di al-Buwayda al-Sharqiyya e al-Qubayr.

L’esercito chiudeva le via d’accesso all’area, bombardava con l’artiglieria.

Poi entravano in azione i “reparti speciali”, formati da civili lealisti, che facevano irruzione nelle case e uccidevano chiunque trovassero.

Le immagini fecero il giro del mondo.

Case distrutte, corpi ammassati, messi in fila.

Gli eventi vennero definiti dagli analisti un “punto di svolta” del conflitto.

Ma l’atteggiamento degli attori internazionali non mutò.

Nei fatti la strage di Hula determinò la fine del “cessate il fuoco” che, mai davvero rispettato, era stato annunciato dall’inviato dell’ONU Kofi Annan il 4 aprile precedente.

***

Il 17 luglio 2012 partì una grande offensiva dei gruppi ribelli, fra i quali figuravano già un buon numero di formazioni di spiccato carattere confessionale.

Gli obiettivi erano le principali città (il 19 luglio inizia la battaglia per Aleppo, ancora in corso).

Iniziò la guerra, una guerra asimmetrica e sempre più sporca.

Iniziò a manifestarsi, anche, il gioco della guerra per procura.

Iran (e poi Hezbollah e milizie sciite iraqene) e Russia con Asad, gli arabi del Golfo e la Turchia con la ribellione.

Polarizzazione in senso confessionale.

Gli Stati Uniti e l’Europa rimasero nel limbo.

La Cina alla finestra.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite immobilizzato.

***

Il 3 novembre 2012 l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani denunciava l’esecuzione sommaria di militari dell’esercito regolare siriano catturati dai ribelli.

Questo e altri fatti avvennero nonostante l’Esercito Siriano Libero si fosse dato in agosto un “codice di autoregolamentazione” per impedire eccessi di questo genere.

Il fondamentalismo intanto montava, le brigate si radicalizzavano.

I combattenti non siriani, da ambo le parti, erano ormai una realtà tangibile.

Entrava in scena l’aviazione del regime, coi razzi.

Bombardavano scuole, ospedali, istallazioni civili.

Nel gennaio 2013 venne colpita l’università di Aleppo.

Era giorno di esami, fu una strage.

Nello stesso mese, nella stessa città, corpi senza vita emersero dal fiume Qweyq.

Erano circa 80 persone giustiziate dai lealisti con un colpo di pistola, legate mani e piedi e gettate in acqua.

Più avanti iniziarono a manifestarsi le evidenze di attacchi chimici, bombe incendiarie, gas.

Caddero anche bombe a grappolo.

Corpi martoriati, persone che scavano, persone intossicate e poi morte asfissiate.

Il flusso dei profughi e degli sfollati aumentava esponenzialmente.

Pestaggi, umiliazioni, stupri, accanimento su corpi esanimi, processi sommari, fucilazioni ed esecuzioni efferate da ambo le parti.

Un combattente di Homs la cui famiglia era stata sterminata dai lealisti strappò il cuore dal corpo di un militare di Asad, lo portò alla bocca nell’atto di mangiarlo.

La spirale della vendetta sembrava non conoscere fine.

E fecero la loro comparsa i barili bomba: ordigni ciechi, senza propellente, armi di distruzione di massa destinati ad uccidere indiscriminatamente.

Le vittime erano quasi soltanto civili, puro terrore.

***

Nell’aprile 2013 infine fece la sua comparsa lo Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS) che operava inizialmente a cavallo fra le frontiere siriana e iraqena.

La situazione, lo avrete capito, era già ampiamente deteriorata.

L’Esercito Siriano Libero soccombeva, mancava di logistica e coordinamento.

Diverse brigate avevano cambiato bandiera, si rafforzavano e si federavano le formazioni jihadiste, meglio equipaggiate e foraggiate.

Altre, lasciate a se stesse, si abbandonavano a razzie, gestivano i traffici di armi, agivano come veri e propri gruppi criminali.

A Qusayr l’aviazione lealista bombardò i civili in fuga dalla città dopo la conquista della cittadina da parte dell’esercito siriano e del libanese Hezbollah.

Nella Ghuta di Damasco il regime bombardò col sarin.

L’ISIS occupò l’est del paese, abbandonato dal regime, e guerreggiò a nord.

Mentre Asad teneva l’esercito nelle caserme, ISIS prendeva possesso del territorio e dell’amministrazione.

Combatteva contro i gruppi armati anti-regime, si accaniva contro gli attivisti, incarcerava gli esponenti della società civile, li uccideva in piazza di fronte alla popolazione e poi esponeva in pubblico i loro corpi crocifissi.

Si apriva un nuovo fronte per l’eterogeneo fronte anti-Asad, anche l’ISIS era “il nemico”.

***

Ecco, questo ho visto io in questi anni.

Un colpevole: il regime di Bashar al-Asad, spalleggiato dai suoi complici d’oriente e d’occidente, avallato dai silenzi di chi nel mondo voltava le spalle e chiudeva occhi e orecchie.

Una risposta: l’aumento esponenziale dell’esercizio della violenza.

Un esito: la barbarie.

***

Il 16 aprile 2013 l’ONU invocava la pace in Siria, usando le facce di ben cinque responsabili di agenzia (OCHA, PAM, UNHCR, UNICEF, OMS).

Una di queste cinque facce, quella del Direttore dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, che si chiama António Guterres ed è stato Primo ministro nel suo paese, il Portogallo, parlò con i giornalisti dell’Economist.

Spiegò loro che la guerra in Siria, secondo il suo modesto parere di uomo che di conflitti ne ha visti decine, era la più brutale dal 1989 – cioè dalla fine “dichiarata” della Guerra fredda – a oggi.

Lo era dalla prospettiva dell’impatto sulla popolazione e da quella della percentuale totale della popolazione in stato di bisogno.

In quegli stessi giorni tornava dalla Siria Amedeo Ricucci, cronista di guerra di lungo corso, una specie di Guterres italiano nel suo campo, dopo essere stato ostaggio di una brigata di qaidisti che, proprio in quei giorni, passava dalla Jabhat al-nusra all’ISIS.

La cosa più importante che disse, appena sceso dall’aereo, non riguardava la Siria in sé, ma il fatto che fosse diventato quasi impossibile raccontare la Siria.

Da una parte, già allora, c’era un regime che considerava “obiettivi militari” tutti coloro che entravano nel paese “illegalmente”.

Dall’altra un groviglio di fazioni armate che dimostravano di non aver più alcuna fiducia nel “potere della stampa” e di non farsi scrupoli di fronte alla prospettiva di qualche vantaggio economico (o nel caso dell’ISIS anche propagandistico).

In mezzo c’erano decine, centinaia di giornalisti, per lo più siriani “freddati con colpi di arma da fuoco alla testa, torturati a morte, sequestrati e mai più tornati a casa” (fonte).

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Bene, prendete in considerazione le due coordinate della “brutalità” e del “silenzio” e consideratele in atto su una scala temporale sempre più ampia o, se preferite, su una scala di potenza sempre maggiore.

Su un tratto temporale breve incontreremo il tiro a segno del regime sui manifestanti e, poco più in là, il massacro di Hula o i “massacri del pane”, quei “punti di svolta” che, se ignorati (cosa di fatto avvenuta), rendono ancora più clamoroso il silenzio.

Su un tratto di media lunghezza – ad esempio dall’inizio della rivolta fino all’aprile 2013 – troviamo 70.000 morti e 6 milioni e mezzo di rifugiati o sfollati.

Parliamo di numeri, qui, di numeri in progressione, ovvero di qualcosa che ci “risveglia l’attenzione” in occasione di cifre tonde (100.000!) o di salti di scala (1:10!).

E su un tratto lungo?

Sul tratto lungo c’è un crimine di inaudita brutalità reso possibile da un silenzio ormai definitivo, una cosa così spaventosa da renderne addirittura scabrosa la menzione.

Sul tratto lungo c’è una cosa che si chiama sterminio.

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Siamo arrivati a settembre 2014, è passato un anno e mezzo.

I morti sono triplicati.

Un terzo degli abitanti della Siria, 8 milioni di persone, è fuggita dal paese, vive la condizione di profugo.

Non si contano più gli sfollati interni.

Da gennaio, l’ONU ha smesso di contare i morti.

Noi però da queste parti parliamo solo dell’ISIS, e solo nella misura del fatto che l’Occidente “è in pericolo”.

E questo non lo dico per cercare di smuovere qualche coscienza.

Lo dico perché sono certo che a molti, oggi, sfugge un aspetto centrale del “problema mediorentale”: la Siria di Asad.

Però, per parlare dell’oggi, delle preoccupazione dei nostri Ministri dell’interno, dei tagliatori di teste anglofoni e delle teste mozzate in Iraq, uso le parole di Zanzuna (uno pseudonimo).

L’articolo, che qui riporto per intero, è apparso il 9 settembre su SiriaLibano.

Siria, in carcere chi chiede dei militari scomparsi

Non ha usato mezzi termini il presidente americano Barack Obama quando, nell’incontro Nato tenutosi venerdì a Newport in Gran Bretagna, ha parlato dei mezzi per sconfiggere lo Stato islamico. Non ha utilizzato l’espressione “linea rossa”. Né ha insistito sulla “necessità di trovare  soluzioni politiche”.

Obama è sembrato deciso e chiaro:  “Vi è una ferma convinzione che dobbiamo agire. (…) Lo Stato islamico è una grave minaccia per tutti. E nella Nato c’è una grande convinzione che è l’ora di agire per indebolire e distruggere l’Isis”.

Da Newport 2014 a Bruxelles 2013 è passato più di un anno. Allora, la tavola rotonda della Nato aveva altre priorità, e la situazione siriana presentava realtà diverse: la Nato respinse un “intervento nel conflitto siriano, nonostante il deterioramento della situazione”.

Non sembra essere molto utile mettersi a studiare cosa è accaduto in questo periodo per capire come mai la Nato abbia cambiato idea.

Non è stato per Raqqa, la prima città uscita dal controllo del regime nel marzo 2013 e capace di gestire la sua vita civile nel primo mese di libertà, prima dell’arrivo dello Stato Islamico. Non è  stato per il massacro della Ghuta con i gas nell’agosto 2013.

Forse il caos creato dallo Stato islamico in Iraq è diverso da quello creato in Siria.  Forse solo adesso “le minoranze del mosaico religoso sono a rischio”. Forse è stato a causa della morte dei due giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff, barbaramente uccisi dallo Stato Islamico. In questo modo il video game funziona e convince il mondo a unirsi per combattere contro i terroristi.

Anwar al Bunni, avvocato siriano da decenni in prima fila per la difesa dei diritti umani, scrive sulla sua pagina Facebook: “Non so perché il mondo vibra di panico quando centinaia di teste vengono tagliate dalla spada, ma non vibra quando decine di migliaia di persone vengono uccise dai barili esplosivi lanciati dagli aerei, o dai missili, o dalle armi chimiche, o sotto tortura (…). La risposta ha a che fare con l’identità dell’assassino? O forse con l’identità della vittima? Se l’assassino indossa l’abito laico gli è permesso forse di uccidere chi vuole e nel modo in cui lui vuole? Ma se il boia indossa l’abito religioso gli è vietato anche di urlare?”.

Due facce della stessa medaglia. Una uccide il popolo con il coltello. L’altra col veleno. Una uccide e dice “sto uccidendo e sono così”. L’altra consegna alla prima il popolo che deve essere ucciso.

Il presidente siriano Bashar al Asad ha imparato dall’esperienza americana: creare il nemico terrorista serve per diventare il baluardo contro l’integralismo da combattere con tutti i mezzi, leciti o meno. A dire il vero, Asad figlio ha imparato bene dal padre.

Per fare funzionare questo gioco chiede ai suoi militari di ritirarsi da alcune aree, lasciando scoperti molti luoghi del fronte contro lo Stato islamico. Molti suoi soldati sono così lasciati impotenti da soli ad affrontare l’attacco della marea nera dei jihadisti. Solo allora, servirà l’intervento salvifico delle truppe di Asad.

Nadin, un’attivista siriana, racconta la sua storia nelle località attorno a Tartus: “Non ci sono più uomini nei villagi alawiti. Questi villaggi sono ormai famosi perché le donne che vi abitano non hanno più un uomo al loro fianco. Gli uomini che tornano, tornano morti”.

#Wainun(“Dove sono?”) è una campagna Web gestita da attivisti siriani per chiedere che sia fatta luce sulle sorti degli scomparsi come Padre Paolo, Razan Zaytune, Samar Saleh, Mazen Darwish, Yehya Sharbaji e molti altri.

Su modello di questa campagna, i siriani fedeli ad Asad, hanno cerato una pagina Facebook in cui campeggia la foto del raìs e chiamata: “Le aquile dell’areoporto militare di Tabqa, uomini di Asad” in riferimento alla battaglia avvenuta a fine agosto nella regione settentrionale di Raqqa tra lealisti e jihadisti.

Di solito questa pagina incoraggiava i soldati a combattere nel nome di Asad. Soprattutto quelli rimasti nella base militare area di Tabqa ad affrontare lo Stato islamico. Ma quelle “aquile” sono poi state abbandonate. Senza nessun sostegno di Asad.

Ecco perché i lealisti, autori de “Le aquile dell’areoporto militare di Tabqa, uomini di Asad”,  hanno creato nella stessa pagina una sezione informativa chiamata #Wainun dove raccolgono notizie sulla sorte dei militari dell’esercito regolare scomparsi.

L’episodio di Tabqa non è stato certo l’unico. Ma è stato il più recente e quello più drammatico. Centinaia di soldati sono stati uccisi dai jihadisti. Il regime non solo non li ha difesi, non ha nemmeno parlato della loro morte nei canali televisivi governativi che hanno invece proseguito a trasmettere secondo il palinsesto regolare, con musichette e serie televisive.

I toni espressi nella pagina Web #Wainun dei lealisti mettono a nudo la rabbia e la delusione di molti sostenitori del regime: “Dove sono i nostri figli?”, hanno chiesto in molti. Come se questi seguaci di Asad si fossero accorti solo adesso del gioco e del fatto che il regime è capace di impegnare ogni energia per liberare dei rapiti russi o iraniani, ma è capace di lasciare al loro destino tragico centinaia di soldati semplici. Come carne da macello e niente più.

La pagina lealista #Wainun ha così superato la “linea rossa” indicata dal regime e dai suoi servizi di controllo e repressione. Ma non comprendete male: non è che gli agenti dei servizi sono andati a difendere i soldati di Asad al fronte contro i jihadisti. No… gli agenti sono andati ad arrestare l’amministratore della pagina Facebook e l’ideatore della campagna, Mudar Khaddur.

Khaddur è sempre stato un lealista. Poi ha perso uno dei suoi fratelli nella battaglia dell’aereoporto. E ha creato questa pagina per chiedere ad Asad e al ministro della difesa, Fahd al Frej, i motivi per cui i generali sono scappati, lasciando i soldati in mano allo Stato islamico, che prima li ha insultati e poi uccisi. Khaddur ha trascorso giorni e giorni per raccogliere informazioni sui soldati scomparsi e per dare la notizia alle loro famiglie.

Questa partita a scacchi il regime la vuole giocare fino all’ultimo. Ha capito di essere il re e di poter giocare col sangue. Non pensa di esser sconfitto solo perché fa la parte del cattivo. Non crede alle favole, dove i cattivi alla fine vengono sconfitti. A differenza di noi, il regime di Asad sa che non è “il protettore del Paese” e che non è “il protettore delle minoranze”. Lo sa bene e sorride di fronte ai proclami di Newport e Bruxelles, ai negoziati di Ginevra-2 e Ginevra-1, alle riunioni degli Amici della Siria e degli Amici del regime. Perché in questa partita a scacchi, nessuno vuole gridare “Scacco matto!”.