Maresco e Belluscone: colpi di grazia

di Giuseppe Schillaci

Berlusconi è solo un pretesto, una boutade, una trovata promozionale.

Il suo nome, storpiato in siciliano, evoca qualcosa di vago e di terribile: il colpo di grazia a un’Italia agonizzante, o più in generale a una certa idea d’umanità, o piuttosto al senso di fare cinema oggi o, ancora, al percorso radicale di Franco Maresco. Con il film Belluscone, una storia siciliana, l’autore tocca il fondo delle sue ossessioni, e infatti Tatti Sanguineti suggeriva d’intitolarlo, appunto, « il colpo di grazia ».

L’opera ha poi mantenuto il titolo originario, ma la proposta di Sanguineti, protagonista nel film di una sorta d’inchiesta sulla scomparsa misteriosa di Maresco, rende conto della caratteristica più interessante di Belluscone: la sua forza liberatoria e disperata, senza ammissione di replica. Una forza che è stata riconosciuta al Festival di Venezia, dove il film ha ottenuto il premio della giuria, sezione Orizzonti, e nelle sale cinematografiche, con la buona affluenza di pubblico delle prime settimane, nonostante le evidenti difficoltà distributive.

Belluscone è la storia di un fallimento, un film fallito su un Paese fallimentare, come fallito sembra essere Maresco, l’artista che urla l’abominio del tempo presente (o della realtà tout court). Con l’Italia, Paese in cui il mutamento antropologico è ormai metastasi, Maresco vuole farci i conti, nonostante sia evidente una certa nostalgia nei confronti di un mondo scomparso, più umano. L’autore prova a nominare il male o, più che altro, il suo feticcio: belluscone! E lo fa nella sua Palermo, nel ventre di una cultura popolare “telestupefatta” e “selfie-dipendente”. Il risultato è un non film, una non fiction, un non documentario. Qualcosa d’incompiuto e sfuggente, a tratti ridondante, una materia magmatica in cui si riflette il suo autore: uno dei pochi registi italiani a perseguire, prima in coppia con Ciprì, e adesso nella sua cupa solitudine, un’idea personale di cinema.

Le sue opere, dagli anni Novanta fino a oggi, da Cinico Tv a Totò che visse due volte, hanno rappresentato una boccata d’aria in un panorama asfissiato dall’appiattimento della commedia italiana, dai film dell’autore-narciso e dell’impegnuccio sociale, e ci hanno messo davanti alla radicalità di un linguaggio cinematografico dirompente, a una visione del mondo meravigliosa e devastata, seppur marginale.

Nel suo nuovo film, e nel tormentato processo che ha portato alla sua realizzazione, ci sono dunque tutte le ombre e le epifanie delle opere firmate insieme a Daniele Ciprì, e alla sua magistrale fotografia: c’è la musica napoletana neo-melodica e la Mafia, il sottoproletariato di Palermo e le icone del potere, l’analisi storico-antropologica e il ragionamento meta-cinematografico su realtà e finzione, c’è soprattutto il cinismo del tempo presente, ingurgitato e vomitato affinché ci si liberi, con una risata beffarda, di ogni ipocrita speranza.

E c’è il grottesco che, riprendendo la grande tradizione della commedia all’italiana, s’impone come chiave di comprensione della realtà, esorcismo contro i demoni dell’inconscio collettivo, e, infine, unica via di scampo alla tragedia.

In Belluscone, torna un sottobosco umano che Maresco, in coppia con Ciprì, aveva già raccontato nel magnifico documentario del 1999: ”Enzo, domani a Palermo”, ovvero quello delle feste rionali e dei cantanti neo-melodici napoletani. Ecco dunque Ciccio Mira, vecchio democristiano e berlusconiano doc, che come l’Enzo Castagna del precedente documentario, è organizzatore di concerti e personaggio “antico”, di dubbia moralità e frequentazioni mafiose. Ma in Belluscone, irrompono anche i “nuovi”, la generazione bellusconiana, ovvero Vittorio Ricciardi e Salvatore De Castro, in arte Erik, i giovani cantanti rappresentati dall’agenzia di Ciccio Mira, i neo-melodici che in un loro brano idolatrano Berlusconi e che non cantano neanche più in napoletano, ma in un italiano da reality show. Il corpo tatuato di Ricciardi, con le mèches bionde e le mosse da balletto pop, invade il mondo “antico” delle feste rionali di Mira, facendolo assomigliare a uno studio televisivo disastrato, a una passerella fluorescente in cui ormai la voce e la musica non contano più, ma sono le movenze erotiche a infiammare la folla.

Quando poi scopriamo, dal notiziario di una televisione locale, che Ciccio Mira è stato arrestato per complicità mafiose, la realtà sembra superare ogni finzione, confermando il sospetto che le feste rionali “neo-melodiche” siano, in effetti, un rituale popolare della subcultura mafiosa.

A questo punto, l’inchiesta di Sanguineti sembra arenarsi, proprio come il film, e la storia si perde in mille digressioni “mareschiane”, per finire inevitabilmente in farsa, quando Maresco chiama Ficarra e Picone a dirimere la lite tra i due cantanti neo-melodici sull’utilizzo del brano « Vorrei conoscere Berlusconi ». Il ritratto del ventennio berlusconiano si dissolve nell’acido banale di una canzonetta, mentre la devozione per il miliardario milanese si rivela emblema di una nazione infantile e feroce, cinica e instupidita, vittima e carnefice.

Ma c’è ancora tempo per la cosa più bella del film, per il momento più importante, la confessione del personaggio che incarna la relazione profonda e oscura tra Sicilia e Berlusconi: il Senatore palermitano Marcello Dell’Utri. È lui a fissarci, seduto su un trono barocco, illuminato da un occhio di bue che lo rende ancora più inarrivabile. Il Senatore, braccio destro di Berlusconi, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, si presta con perfida intelligenza all’intervista di Maresco. Ma sul più bello, l’audio del Senatore, proprio mentre sta rivelando verità indicibili sul rapporto tra Berlusconi e Cosa Nostra, svanisce. Il microfono gracchia per un banale errore del fonico, il microfono gracchia come un rutto in faccia alla coscienza civile di questo Paese, di un’Italia irredimibile. Incombe così l’ossessione principale della più recente produzione di Franco Maresco: l’impotenza dell’artista, già presente nel meraviglioso Il ritorno di Cagliostro (2003), ancora in coppia con Ciprì, e soprattutto nell’ultimo documentario, Io Sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz (2010), in solitaria.

Il suo ultimo film raccontava infatti la parabola decadente dell’artista in una sorta d’identificazione speculare e catartica tra Maresco e il grande siculo-americano Tony Scott, figura mitica del jazz del Dopoguerra che finisce la sua carriera nella miseria e nel ridicolo, in Italia. Nel documentario Io sono Tony Scott, montato da Edoardo Morabito e purtroppo non distribuito in sala, tante erano poi le digressioni sulla deriva antropologica dell’Italia e sulla fine di un’epoca, che ritroviamo, forse con minore efficacia, in Belluscone.

Ma le ripetizioni e le ossessioni sono essenziali alla visione di Maresco, sono il suo profondo nutrimento, la sua fatica di Sisifo. E così il ritorno di Franco Maresco al grande schermo, grazie all’uscita di Belluscone, una storia siciliana, rappresenta un evento importante per il cinema italiano, un’opportunità per conoscere un autore prezioso che difficilmente trova spazio nel panorama contemporaneo.

Con questo film, Franco Maresco continua a scagliarsi contro il suo tempo e a farsi divorare dalla sua amata Palermo, in un corpo a corpo senza rassegnazione e senza speranza. Il suo cinema sopravvive così: mettendo in scena, come in una feroce farsa, ulteriori colpi di grazia.

 

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10 Commenti

  1. grazie! maresco (con ciprì) è stato per me un riferimento costante. senza di loro, forse, non avrei mai iniziato a fare cinema

  2. Io mi ricordo di quando si partì con alcune auto dall’università di Siena per andare a vedere “Totò che visse due volte” a Firenze, per la prima nazionale dopo che era stato censurato – ovvero tolto dalle sale cinematografiche (si era nel ’98, non negli anni Trenta). Ciprì & Maresco rappresentano l’apice della cinematografia italiana dell’ultimo ventennio.

  3. Bellissimo, Giuseppe : ulteriori colpi di grazia anche qui. Però ora voglio avere un cinema sotto casa per poterlo vedere.

  4. […] “Nel suo nuovo film, e nel tormentato processo che ha portato alla sua realizzazione, ci sono dunque tutte le ombre e le epifanie delle opere firmate insieme a Daniele Ciprì, e alla sua magistrale fotografia: c’è la musica napoletana neo-melodica e la Mafia, il sottoproletariato di Palermo e le icone del potere, l’analisi storico-antropologica e il ragionamento meta-cinematografico su realtà e finzione, c’è soprattutto il cinismo del tempo presente, ingurgitato e vomitato affinché ci si liberi, con una risata beffarda, di ogni ipocrita speranza. E c’è il grottesco che, riprendendo la grande tradizione della commedia all’italiana, s’impone come chiave di comprensione della realtà, esorcismo contro i demoni dell’inconscio collettivo, e, infine, unica via di scampo alla tragedia” (Giuseppe Schillaci, Nazione Indiana). […]

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