di Giorgio Mascitelli
Si narra che quando Walter Benjamin vide bocciato il suo fondamentale lavoro sul dramma barocco tedesco per il concorso di libera docenza all’università di Francoforte, uno dei commissari commentò che non esisteva una libera docenza in intelligenza. Non so se questo aneddoto corrisponde al vero, ma indubbiamente ha una sua verosimiglianza nell’evidenziare una mentalità di valutazione strettamente formalizzata per non dire angusta.
Naturalmente non occorre tirare in ballo esempi così illustri per incontrare errori di valutazione anche marchiani nella pratica scolastica. Uno dei più frequenti è l’assegnazione di un quesito o di un compito sproporzionati rispetto al tempo a disposizione o alla lunghezza richiesta nella risposta. Si tratta di un errore che rivela di solito nel docente una mentalità orientata alla richiesta di studio mnemonico o di un’acritica e asettica riproduzione di determinate abilità e che dunque non tiene in considerazione nessun tempo per la rielaborazione, ma solo per la riproduzione meccanica di quanto appreso. Un altro errore di valutazione molto frequente è quello dell’implicazione oggettiva: data l’affermazione A, il docente si aspetta che lo studente enunci l’affermazione B perché ritiene che A implichi oggettivamente B, ma tale rapporto di implicazione è molto meno evidente logicamente di quanto l’insegnante creda o addirittura è evidente solo in una prospettiva soggettiva.
Vi sono poi errori dovuti a vere e proprie superstizioni corporative come la credenza che l’insegnante severo sia più bravo di quello ‘buono’ oppure che l’emotività nei ragazzi durante una prova sia dovuta alla cattiva coscienza di chi non ha studiato molto. Insomma nell’attività della valutazione gli errori possibili sono molti. Le risposte che nella scuola italiana si sono date a questo rischio sono legate alla moltiplicazione delle prove di valutazione e dei valutatori. Se il giudizio di uno studente è affidato a parecchie prove e parecchi valutatori, il rischio di errore diminuisce e si stempera notevolmente. Si tratta naturalmente di misure che hanno una loro efficacia empirica, ma che certo hanno poca utilità per trarne qualche pubblicazione scientifica su qualche rivista universitaria di pedagogia o di economia.
Quando queste pratiche sono state messe in atto si pensava che la valutazione fosse più un’indicazione di lavoro nel processo di apprendimento che un giudizio definitivo e i voti fossero degli indicatori numerici e non dei misuratori di oggettive quantità. In altri termini voti come otto e sei indicano un rispettivamente un raggiungimento buono e minimo degli obiettivi prefissati in maniera del tutto tendenziale e modificabile, ma senza esprimere un effettivo rapporto quantitativo come quello che intercorre tra otto e sei chili di patate.
Oggi si assiste a una tendenza opposta, promossa dalle organizzazioni economiche internazionali come l’OCSE e in Italia rappresentata dalle prove INVALSI, in base alla quale si cerca di ottenere una valutazione ritenuta oggettiva sulla base di dati numerici certi e assunti come effettivi equivalenti quantitativi del grado di preparazione di ogni alunno. Questa tendenza si fonda sull’uso di un solo tipo di prova, il test a risposte multiple, popolarmente noto come quiz con crocette, che ha il vantaggio di presentare una correzione inoppugnabile ( c’è solo una risposta giusta su quattro proposte) e facilmente convertibile in numeri certi.
Il difetto maggiore, da un punto di vista didattico, di tale tipologia di prove è che sollecitano solo alcuni generi di abilità e conoscenze: in particolare vengono trascurate quasi completamente quelli che si chiamano, nel linguaggio specialistico, abilità di sintesi e rielaborazione che sono considerate le più alte e le più significative nella pratica didattica e che potremmo chiamare nel linguaggio comune le capacità critiche. Altri difetti sono che anche in prove strutturate così è possibile incorrere nella formulazione dei quesiti in alcuni degli errori di valutazione che ho citato sopra, e che favoriscono una didattica volta all’apprendimento di una reazione meccanica allo stimolo anziché all’approccio alla complessità. Anche il fatto che nella valutazione di questo tipo di prove sia impossibile valutare la gravità dell’errore compiuto rende difficile quel lavoro di recupero e correzione che è centrale nell’attività didattica.
Nonostante questi evidenti limiti, i quesiti a risposta multipla hanno un loro valore nel testare alcune abilità a patto che siano inseriti in un contesto plurale di prove. Oggi invece essi vengono proposti, non tanto all’interno della scuola, ma alla società come l’unico indicatore oggettivo della qualità della scuola stessa. In una situazione del genere è ovvio che l’uso esclusivo di queste prove rappresenta una banalizzazione dei processi di valutazione, che costituisce un errore molto più grave di qualsiasi altro errore della valutazione.
Vorrei sottolineare che questa non è una questione tecnica interna per addetti ai lavori perché un simile modello di valutazione presuppone un’idea della scuola e della valutazione stessa che hanno un interesse generale. L’idea che una presunta oggettività della valutazione sia l’obiettivo principale da raggiungere anche a costo di una sua eccessiva semplificazione e a detrimento di una serie di pratiche didattiche tipica di una buona scuola presuppone alcune idee sulla funzione della scuola stessa. Innanzi tutto presuppone che la finalità della scuola sia quella di esprimere una valutazione assoluta sullo studente anziché offrire una serie di saperi e abilità; a sua volta ciò implica che la scuola debba contribuire a determinare una selezione nella società; inoltre si basa anche sull’errata convinzione che i processi di apprendimento siano entità misurabili quantitativamente; infine che il valore educativo principale, se non unico, da trasmettere sia quello della competitività ( come evidenziato dal fatto che si pone al centro dell’attività scolastica la valutazione e segnatamente un tipo di valutazione che è particolarmente affidabile per formulare punteggi come in una gara sportiva).
Si tratta di idee non certo nuove, ancorché presentate sotto la speciosa immagine della valutazione oggettiva e dunque equa, ma la ripresentazione di idee ottocentesche sotto un vestito ipermoderno non è certo un fatto inedito in questi nostri tempi. I rischi maggiori connessi con l’affermazione di questo tipo di valutazione paiono invece essere la riformulazione dell’intero processo educativo sotto il segno esclusivo della ricerca della prestazione e la marginalizzazione di quegli aspetti relativi non solo alla formazione complessiva della personalità dell’individuo, ma anche all’autonomia nell’uso delle conoscenze acquisite che restano gli obiettivi principali di una scuola non asservita.



Egitto

Permunian letterato aristocratico, dunque? Forse semplicemente letterato che ne va del suo essere letterato, del leggere il mondo con occhi da letterato, e di quel mondo essere “sfregiatore”. “Lei non è uno scrittore da portare al Campiello o nella buona società letteraria, se ne faccia una ragione, – lo apostrofa un funzionario editoriale – lei è un teppista da latrina!”. Sì, perché il sogno di Permunian sarebbe scrivere versi sui muri di un vecchio bagno della stazione di Desenzano, località dove abita. Trasformarlo in un gabinetto delle frasi d’autore, un posto dove ci si rifugia “quando i rumori e le voci diventano insopportabili”, un posto che sia boudoir ferroviario-filosofico, fabbrica e alcova delle sue macchine mentali. Insomma, sembra che Permunian ce l’abbia con tutta l’umanità: con i baroni universitari, con il padre della sfortunata Carmen Barriento, con i preti spretati della Casa dei Gentili, con i vecchi compagni di scuola, con i fantomatici editor affermati, con Zefirina la zingara, con il criminale nazista dalla voce di femminuccia. Eppure non tutto è negatività, il mondo di Permunian è popolato anche di persone e fantasmi positivi. Poeti soprattutto, ossia sognatori come lui, inoltre scrittori artisti pittori filosofi intellettuali, tutti confinati al di fuori della celebrità ma all’interno della cultura: Andrea Zanzotto, Lucio Piccolo, Cioran, Sebald, Bruno Schulz, Robert Walser, Pasolini, Mario Giacomelli, Sergio Quinzio, Maria Corti, Angelo Fiore, Guido Cavani, Antonio Delfini, Silvio D’Arzo, Dolores Prato, Lucio Mastronardi, Amedeo Giacomini, Umberto Bellintani.



Calcolo di aver posseduto sette computer primari. Il più vecchio dei file, Tesina.doc, storicizzato in un’era che precede l’avvento di Berlusconi e la morte di mia madre, ha compiuto sei traslochi e ancora “è”.







Pure Brunetta, la ragazza che lavorava da mia madre, bella mora con due tette generosissime, stravedeva per lui. Per lui e Boninsegna. Brunetta tifava l’Inter. Anche sua sorella Nicoletta tifava Inter, ma le piaceva Bordon. Ricordo che partivano i mercoledì di coppa con i loro fidanzati e seguivano la squadra dovunque. Non capivo, dall’alto dei miei pochi anni, come potessero, quei ragazzi, permettere alle fidanzate di andare a vedere giocatori di cui erano palesemente innamorate, e di cui tenevano spudoratamente i poster in camera. A volte Brunetta, quando tornava da qualche vittoriosa trasferta europea, diceva che forse Bonimba era più bello di Franco Gasparri, ma la cosa durava solo un giovedì, perché poi il venerdì tornava a sospirare sulle pagine dei fotoromanzi insieme alle clienti. A volte Brunetta mi diceva che da grande mi avrebbe sposato, nonostante Franco Gasparri e Roberto Boninsegna, e se mi lavavo i capelli in negozio era lei che me li asciugava, e questo era sicuramente un segno d’amore. Ma devi sbrigarti a crescere, concludeva. Io guardavo mia mamma per vedere se aveva sentito, come a farle intendere che stava a lei aiutarmi in quell’impresa, e mia madre ogni volta rideva e faceva sì con la testa, e diceva sempre chissà che fila di donne ci sarà che ti vorranno sposare. Io mi gonfiavo di orgoglio maschio, ché pure le clienti facevano sì con la testa e le davano ragione e mi sorridevano, e Franco Gasparri mi sembrava meno pericoloso, e certe volte ho pensato pure che saremo diventati amici e che ci saremo divisi equamente le fidanzate, perché i grandi uomini sono pure generosi.
