“La ragione e i suoi eccessi”

Paolo Costa [Presento qui uno stralcio del capitolo introduttivo di La ragione e i suoi eccessi, uscito per la collana “Campi del Sapere” di Feltrinelli. Il suo autore, Paolo Costa, è un filosofo e si è occupato tra gli altri di Hannah Arendt e Charles Taylor. Ho letto il libro con interesse e passione, come non mi capita spesso con i lavori dei filosofi italiani contemporanei. a. i.]

di Paolo Costa

Introduzione

1.
Chiunque si occupi professionalmente di filosofia – più brutalmente: chiunque venga retribuito per “fare il filosofo” – sa che c’è un non detto che aleggia nell’aria quando si conversa con persone che non hanno nessun rapporto né professionale né episodico con la disciplina, Erving Goffman l’avrebbe definito uno “stigma”. È una domanda allo stesso tempo prevedibile e imbarazzante che suona più o meno così: “scusi l’ignoranza, ma che cosa esattamente fa un filosofo?” (Come in un film di Woody Allen, il suono delle parole conta meno dei sottotitoli che recitano: “che cosa fa di utile un filosofo?”)

Finché un filosofo si limita a insegnare, la sua stranezza rimane confinata nella dimensione, pur sempre enigmatica ma in genere non problematizzata, della formazione della persona e del carattere (la misteriosa transustanziazione della prima nella seconda natura), ma non appena fuoriesce dalle aule scolastiche e si infila tra le strade o nelle case delle nostre città la sua presenza suscita perplessità, se non aperto sconcerto.

Nell’estate del 2012 il corrispondente da Roma del quotidiano inglese “The Guardian”, John Hooper, ha raccontato ai lettori d’oltremanica, con un tono per metà accondiscendente e per metà ammirato, l’ultima stravaganza italiana: l’apertura, a Corigliano d’Otranto – proprio nel bel mezzo della Magna Grecia – di uno sportello per la consulenza filosofica creato per “aiutare le persone a pensare chiaramente”. I commenti dei lettori, oscillanti tra l’ovazione e il sarcasmo, erano concordi nell’esprimere stupore di fronte a una simile scelta. Ma questo tipo di reazione non è un’esclusiva inglese. Anche in Italia, uno dei paesi tradizionalmente più ospitali nei confronti del sapere filosofico, da alcuni anni la curiosità giornalistica intorno all’introduzione della figura del “consulente filosofico di quartiere” o del “filosofo in corsia” si accende e si spegne ciclicamente secondo uno schema consolidato: repentino scoppio d’interesse, moderato approfondimento, vago scetticismo, indifferenza finale.

D’altro canto, come si può argomentare a favore dell’utilità della filosofia? Nell’epoca della proliferazione dei saperi specialistici, che si giustificano in genere per la quantità di informazioni affidabili e utilizzabili che riescono a fornire alla comunità scientifica e, di riflesso, alla società nel suo insieme, non è facile spiegare in che cosa consista la “specialità” del filosofo. C’è qualcosa di sospettosamente eccedente, persino di eccentrico, in una forma di conoscenza che sembra essere sopravvissuta per motivi imponderabili alla fine della sua missione storica.

Non si tratta di un problema nuovo, ovviamente. E il punto non è che il prevedibile miscuglio di ammirazione e sarcasmo che viene riversato oggi sulla pratica della consulenza filosofica potrebbe essere facilmente interpretato come l’ennesima reincarnazione storica del riso della servetta tracia di fronte all’inettitudine di Talete. Più importante è che negli ultimi duecento anni i filosofi si siano spesso fatti trascinare in una lotta all’ultimo sangue per giustificare la propria esistenza e il proprio valore.

Dopo Hegel, che per motivi non facilmente decifrabili – in genere attribuiti al suo ruolo storico epigonale – non aveva esitazioni a difendere la supremazia della filosofia alla luce della superiorità del suo oggetto di indagine (il “Tutto”), i filosofi occidentali hanno dovuto dare fondo a tutta la loro immaginazione dialettica per difendere il proprio status di nobili decaduti.

Si pensi per esempio a chi, come Marx, ha scelto di fare leva sull’alleanza naturale tra filosofia e rivoluzione. Dal punto di vista del fondatore del materialismo storico, la non specializzazione della filosofia, la sua disfunzionalità rispetto alla logica autoconservativa dell’ordine sociale esistente, avrebbe dovuto facilitarle l’assunzione di un atteggiamento critico, radicalmente riflessivo verso le pratiche sociali e le opache relazioni di potere su cui esse poggiano. Il problema, come afferma la citatissima undicesima Tesi su Feuerbach, è convincere i filosofi che, se finora “si sono limitati a interpretare diversamente il mondo, è venuto il momento di cambiarlo” e, cosa ancora più complicata, a riconoscere nel proletariato, come scrisse provocatoriamente Engels, il vero “erede della filosofia classica tedesca”.

Non è però indispensabile immaginare la filosofia come levatrice del cambiamento storico per difenderne l’utilità. Certo, schierarsi dalla parte del progresso era un buon modo per assicurarsi una solida rendita di posizione in un secolo galvanizzato dalle novità come l’Ottocento. A tal fine, Marx pretendeva dalla filosofia la rinuncia alla sua tradizionale predilezione per la vita contemplativa, ma le consentiva comunque di mantenere, nella sua veste moderna di critica sovraordinata (o metacritica), una posizione predominante rispetto agli altri saperi (e con essa anche una rassicurante dose di superbia). Si può però filosofare con il martello, tanto per citare una delle invenzioni linguistiche meno felici di Nietzsche, non solo nell’intento di rimuovere gli ostacoli che intralciano la marcia verso il futuro, ma anche perché ci si rifiuta di rendersi complici di una catastrofe culturale. E, in effetti, una porzione consistente della filosofia posthegeliana ha esercitato il proprio ruolo di avanguardia della riflessività umana non invitando a scommettere sul futuro, ma annunciando e deplorando l’avvento di una fase di decadenza della storia umana. La mediocrità, la grettezza e la superficialità della società borghese sono sempre stati un bersaglio facile per i nostalgici delle insondabili profondità filosofiche. Fine della metafisica e civiltà industriale potevano perciò essere facilmente abbinate e apparire come i sintomi di una trasformazione epocale il cui senso era difficile da decifrare e richiedeva un acume e un intelletto tutt’altro che ordinari. In una società che corre, è difficile negare l’utilità di chi mette in guardia con buone ragioni contro le sventure che si profilano all’orizzonte. E il ruolo di Cassandra inascoltata si addiceva perfettamente alla nuova figura dell’intellettuale militante la cui fortuna storica ha rappresentato un elemento distintivo dell’epoca della mobilitazione.

Dare voce alle frustrazioni e insoddisfazioni delle vittime della modernizzazione e – perché no? – dei suoi beneficiari non complici non era, però, la sola alternativa rimasta ai cultori dell’investigazione filosofica. Per i temperamenti meno inclini all’impegno politico o alla diagnosi del tempo era aperta anche la via di un’alleanza strategica con l’altra divinità ottocentesca: non la storia, in questo caso, ma la scienza. Sono non pochi i pensatori che hanno intravisto la soluzione al problema del contributo della filosofia alla moderna quest for certainty (come la chiamava Dewey) nell’impiego dell’immenso patrimonio da essa accumulato nel corso dei secoli in vista della chiarificazione dei fondamenti epistemologici dei progressi sempre più incontestabili delle scienze naturali (la fisica, in primis, ma anche la chimica, la biologia). In questa ottica, l’alternativa naturale al “negativismo” della critica sociale poteva essere solo il “positivismo” di una chiarificazione delle condizioni di possibilità della fecondità di un sapere prodotto al di fuori della cerchia dei filosofi. L’obiettivo in questo caso non era rovesciare l’esistente evidenziando le contraddizioni allo stesso tempo teoriche e pratiche dello stato di cose presente, ma favorire il progresso con una prestazione intellettuale all’apparenza modesta: making sense of science.

Fin dall’inizio, tuttavia, il problema principale di questo approccio è stato quello di trovare degli interlocutori. Se c’è una cosa che i filosofi della scienza sanno per certo è che gli scienziati rintanati nei laboratori sono poco interessati alle interminabili discussioni sui fondamenti e preferiscono aderire a un pragmatismo o a un realismo rilassato che agli occhi sofisticati dei filosofi possono apparire ingenui, ma che sono perfettamente adeguati allo scopo di far marciare le indagini scientifiche alla massima velocità. È superfluo sottolineare quanto possa risultare imbarazzante constatare il disinteresse di coloro sui quali contavi come principali partner e alleati in un processo di rinnovamento del pensiero e trovarsi invece condannati a discutere all’infinito proprio con quanti incarnano ai tuoi occhi il passato da cui desideravi affrancarti.

È a questo punto che una possibile via d’uscita dall’antagonismo senza sbocchi tra contestatori e fiancheggiatori dell’esistente, stretto tra il sogno del “compimento” del concetto di ragione e la sua “funzionalizzazione”, ha cominciato a prendere forma intorno all’obiettivo della “normalizzazione” della filosofia ed è diventata quasi senso comune con l’attenuarsi dei grandi conflitti ideologici del “secolo breve”. Per esprimersi in un lessico parapsicanalitico, l’intuizione sottostante a questa riformulazione dei fini e dei compiti della filosofia è che essa abbia anzitutto bisogno di essere curata dalle sue fantasie narcisistiche. In altri termini, ciò che le serve è, più di ogni altra cosa, un bagno d’umiltà. Bando dunque ai sogni fondazionalisti, e spazio a una visione della filosofia come terapia, anzi come autoterapia. La filosofia, in questa prospettiva, ha bisogno soprattutto di darsi pace e di esorcizzare le angosce a cui si condanna da sé, il più delle volte per un errore di messa a fuoco dei problemi.

Il nodo da sciogliere è, a seconda dei gusti, un problema di chiarificazione linguistica o una profonda revisione dell’immaginario metafisico. In entrambi i casi esistono dei tranelli e il compito del filosofo è solo quello di sistemare nei punti giusti dei segnali che mettano in guardia allo stesso titolo i dotti e gli ignoranti del rischio a cui vanno incontro. A tal fine, non c’è bisogno di approntare chissà quali novità teoriche, basta fare leva su cose che tutte le persone coinvolte conoscono già.

Nell’orizzonte dischiuso all’investigazione filosofica dal nuovo orientamento terapeutico hanno trovato spazio nuove parole d’ordine, tutte improntate a una forma vaga di quietismo teorico: decostruzioni di ogni genere, filosofie edificanti, pensieri deboli, analisi del linguaggio comune, nuove alleanze tra filosofia e letteratura. Ma, una volta curati dai loro disturbi comportamentali, dal loro egocentrismo, dalle loro paure ingiustificate, quali e quante vie restano aperte per i filosofi meno disposti a rinunciare alla funzione strategica degli argomenti rigorosi? A prima vista, quando non sfocia in una più o meno esplicita dichiarazione di fallimento, a malapena celata dietro l’etichetta apparentemente bonaria di “naturalizzazione” dei tradizionali interrogativi metafisici, la normalizzazione della filosofia ha significato essenzialmente (a) il suo frazionamento in sottodiscipline prive di aspirazioni sintetiche (la logica, la filosofia del linguaggio, la filosofia politica, la filosofia della matematica, ecc.), (b) l’assunzione dei criteri valutativi e dei metodi di lavoro diffusi nella restante parte della comunità scientifica e, laddove possibile, (c) l’applicazione delle virtù intellettuali sviluppate dalla filosofia nel corso dei secoli all’interno di quegli ambiti istituzionali che le richiedono per poter funzionare meglio. Le diverse tipologie di etiche applicate (dalla bioetica alla neuroetica, dall’etica economica all’etica animale) sono il primo esempio che salta alla mente. Lo si potrebbe anche descrivere come l’estremo tentativo di trasformare il filosofo in uno specialista affidabile. Ma per quanto possano divergere le opinioni personali sulla realizzabilità del proposito, non si può negare che gli esiti – almeno per ora – siano stati piuttosto deludenti.

La strada verso la normalizzazione della filosofia sembra ancora lunga. Persino più lunga di quella che conduce alla sua definitiva liquidazione.

2.
Quale lezione si può trarre dalla storia che, anche se solo per sommi capi, è stata appena raccontata?
La prima è che si tratta di una storia che procede secondo un’oscillazione costante tra eccessi e tentativi di mettere un freno agli eccessi. C’è, in proposito, una significativa simmetria con un’epoca – quella moderna – che su tale fluttuazione ha costruito il proprio inarrestabile dinamismo. Può apparire una contraddizione inspiegabile, ma è difficile sfuggire all’impressione che lo spirito della cultura moderna incorpori una scissione profonda – qualcosa di simile a un double bind – tra il desiderio di rimuovere ogni vincolo imposto dall’esterno e l’impulso a costruirne altri, ancora più costrittivi, secondo la logica non meno dispendiosa della scelta volontaria e dell’autodeterminazione. Per farsene un’idea, basta pensare all’evoluzione dei costumi sessuali, con la risaputa, ma non per questo meno sorprendente, alternanza tra liberazione sregolata e rimoralizzazione in chiave di autorealizzazione personale o autenticità. Oppure si può menzionare l’esito paradossale del processo di secolarizzazione, con la simultanea emancipazione dalle agenzie religiose tradizionali e il bisogno diffuso di inventare nuove forme di spiritualità perfettamente adattate alle esigenze e ai percorsi biografici individuali.

La filosofia degli ultimi duecento anni si è analogamente destreggiata tra un desiderio indomabile di affermazione di sé e un bisogno intermittente di autodisciplina e normalità. Tra la tentazione di porsi alla guida del cambiamento storico e la volontà di rientrare rapidamente nei ranghi i filosofi moderni si sono dannati l’anima per capire quale fosse il loro posto nella comunità scientifica o nella sfera pubblica e tale sforzo continua ancora oggi. Col senno di poi, può far sorridere la pretesa di sottoporre ogni espressione dello spirito umano al giudizio preventivo del tribunale della ragione o a quello, ex post, della Storia intesa come un processo teleologico di chiarificazione delle finalità che guidano, per lo più a loro insaputa, le scelte degli attori in carne e ossa. Eppure un simile esprit de système, l’esigenza di regolare i conti con la totalità dell’esperienza, l’incapacità di resistere al richiamo delle “ragioni”, ovunque esse si manifestino, sembra consustanziale a quella particolare forma di pensosità che va sotto il nome di filosofia. Se dobbiamo dare retta a Wilfrid Sellars, il suo scopo, formulato nei termini più astratti, non è altro che capire “come le cose nel senso più ampio possibile del termine stanno insieme nel senso più ampio possibile del termine”.

È da questo desiderio smodato di espansione e inclusività o, per usare le parole di Novalis, dall’“impulso a sentirsi a casa ovunque” che traggono origine i fenomenali sforzi sintetici dei filosofici i quali, non importa se strampalati o giudiziosi, sono comunque sempre destinati a vedere frustrata la loro ambizione di pronunciare l’ultima parola, di chiudere una volta per tutte il cerchio. Alla base del fascino dell’investigazione filosofica – di quella euforia del pensiero che, come notò maliziosamente più di un secolo fa William James, assomiglia pericolosamente agli effetti del gas esilarante – vi è proprio la compresenza di questa aspirazione sintetica e del rispetto/curiosità per l’infinita varietà dell’esperienza. In questo senso, l’interrogativo circa l’utilità o lo scopo ultimo della filosofia non può prescindere dal problema di tale eccesso, non può esimersi dall’esprimere un’opinione su questa eccedenza.

A suo modo, questo libro, con tutti i suoi limiti, vorrebbe essere un argomento performativo in difesa degli eccessi della filosofia: dell’idea, cioè, che l’utilità dello stile di pensiero filosofico vada ricercata esattamente qui, nella sua natura eccedente. I suoi capitoli si offrono perciò al lettore come esercizi di comprensione (o thought-trains, per evocare un’immagine molto amata da Hannah Arendt), in qualche caso funambolici altre volte più convenzionali, che, pur nella consapevolezza di appartenere a una conversazione interminabile, hanno comunque lo scopo di trasformare la vita intellettuale di chi accetta di condividerli. Il loro compito primario, cioè, è infittire la rete del setaccio con cui vengono filtrate le ripercussioni cognitive dei nostri commerci con il mondo esterno e interiore, affinando al contempo la nostra capacità di riconoscere in maniera non stereotipata ciò che avviene attorno e dentro di noi. Vale per essi quello che ha osservato in un’occasione Richard Bernstein a proposito degli itinerari mentali arendtiani: sono ragionamenti che si sviluppano indipendentemente fino alle estreme conseguenze e che, come tali, talvolta s’intrecciano e si rafforzano l’uno con l’altro, altre volte contrastano e possono persino contraddirsi, ma alla fine producono un’unica ragnatela di pensieri al cui centro troneggia la vita – che è pur sempre una e come tale va vissuta – di chi li ha pensati.

Si tratta, nondimeno, di una difesa qualificata. È essenziale, infatti, distinguere tra differenti tipologie di eccesso. Volendo, si potrebbe anche tracciare una linea tra eccessi viziosi e virtuosi, ma non ha poi molto senso distribuire in maniera manichea pregi e difetti che, in realtà, si trovano sempre mescolati, in proporzioni diverse, in tutte le investigazioni filosofiche autentiche. È più utile ragionare per tipi ideali e identificare aspetti della forma mentis del filosofo di cui c’è o non c’è molto di cui andare orgogliosi. Il riferimento è a cose come:

(a) l’aspirazione/inclinazione alla saturazione cognitiva, a dire troppo velocemente l’ultima parola cedendo a un sintesi affrettata e prematura, che ha come conseguenza primaria il distacco dall’esperienza vissuta, dai fatti “densi” dell’esistenza. La filosofia dà il peggio di sé quando si rifugia in immagini del mondo o visioni ideologiche che proteggono dall’urto della realtà e svolgono la stessa funzione assolta dai cliché nella vita comune.

(b) Quando questa propensione alla saturazione cognitiva diventa manieristica, inautentica, conduce in genere a una spettacolarizzazione del gesto filosofico che, parodiando la tradizionale arroganza del dotto, ben si accorda con le regole tacite della società dello spettacolo e del suo bisogno di sovreccitazione. I paralogismi, i castelli in aria, le involute argomentazioni dei pensatori alla moda, sono in genere la prova di un lavorio intellettuale che diventa autoreferenziale, si bea della propria radicalità ed eccentricità, ma ha smesso di avere un rapporto organico con la verità e si accontenta di intrattenere il pubblico colto con la propria “mostruosità” intellettuale.

Tra gli eccessi virtuosi si possono annoverare invece cose come l’impulso a un’espansione geometrica dei nessi argomentativi, in sintonia con il miraggio filosofico di una visione stereoscopica dell’esistente che presuppone curiosità onnivora, lentezza, sottigliezza, ostinazione, infaticabilità. Per non essere velleitario, tale sforzo dissennato dev’essere governato dall’ideale regolativo di un equilibrio riflessivo che, pur dipendendo dalla capacità della mente umana di distanziarsi ricorsivamente rispetto a qualsiasi contenuto determinato, non esime dall’obbligo di occupare un punto di vista riconoscibile. Se, come avviene in questo libro, tale vincolo viene interpretato nei termini del primato della responsabilità/responsività intellettuale, ne consegue la preferenza per un modello situato, e non volontaristico, di libertà 1. La plasticità regolata dell’equilibrio riflessivo si traduce così nella disponibilità a esporsi alle domande a cascata grazie alle quali il discorso filosofico si dispiega in tutta la sua eccedenza.

Il ragionamento svolto finora potrebbe essere riassunto dicendo che esistono due diversi tipi di eccessi della ragione: da un lato gli eccessi di arroganza (tra i quali includerei anche gli eccessi di erudizione), dall’altro gli eccessi di generosità. Questi ultimi, a differenza dei primi, sono compatibili con la responsabilità intellettuale e non impediscono alla filosofia di svolgere un ruolo nella comunità scientifica, a dispetto della sua eccentricità.

In quest’ottica, la filosofia appare come uno sforzo di riflessività radicale condotto con lo spirito dell’eterno principiante. In quanto “sforzo” è motivato da una serietà di fondo: a chi ha un temperamento filosofico preme sapere come cose così diverse quali quelle che normalmente si incontrano nel corso di un’esistenza (e tanto più nel corso di un’esistenza moderna, nell’epoca della “sovrabbondanza del senso”) possano davvero “stare insieme” e non semplicemente coesistere nella stessa istantanea, neutrale e obiettiva quale si pretende che sia ogni riproduzione fotografica degna di questo nome. L’esito dell’impegno concettuale, però, non è una guida rapida per la soluzione di problemi, quanto piuttosto un equilibrio riflessivo provvisorio che può avere soltanto effetti indiretti sulle vite delle persone (e non tutti necessariamente benefici). Più che a un manuale, assomiglia a una mappa mentale individuale, al “sapersi orientare” rispetto alla trama infinita delle cose che contano nelle esistenze umane.

Se questo ritratto è condivisibile, bisognerà essere cauti nel pretendere dalla filosofia un’attitudine costruttiva in senso forte. Al contrario, converrà comprendere anche le teorie filosofiche più ambiziose non come fini in sé, ma come esperimenti mentali il cui scopo ultimo è il raggiungimento di un livello di riflessività più ricco e articolato. Diventa così chiaro perché abbia poco senso considerare l’assenso universale come il telos che orienta gli sforzi di esplicitazione e sintesi del ragionamento filosofico. Il che non significa che l’ideale regolativo dell’intesa andrebbe sostituito con quello del dissenso (è difficile capire come uno possa argomentare sinceramente a favore di una determinata tesi e allo stesso tempo desiderare con tutto il proprio cuore che qualcuno ne dimostri la falsità). Il punto, piuttosto, è riconoscere che, quando ci si dispone a filosofare, non si può prescindere dall’aspettativa generale che qualsiasi riduzione della misura del disaccordo genererà contemporaneamente nuovo forme (produttive) di dissenso che alla fine condurranno a un ulteriore rimodellamento dell’equilibrio riflessivo.

Un altro modo di ribadire il punto è descrivere la varietà di intelligenza allenata e messa a frutto nella riflessione filosofica come una particolare forma di agilità mentale che si traduce in primo luogo nella disposizione a ricontestualizzare continuamente i problemi ponendo gli interrogativi che consentono di riconoscere aspetti della questione che precedentemente non erano stati messi a fuoco. Volendo, la si potrebbe raffigurare anche come una spiccata sensibilità o ospitalità alle ragioni (quelle degli altri non meno di quelle impersonali). Ciò implica, tra l’altro, una rettifica dell’immagine tradizionale della ragione che, anziché essere pensata come un gioco a somma zero (una proprietà che si può possedere o non possedere), andrebbe concepita piuttosto come uno spazio con cui ci si familiarizza. Analogamente, la principale virtù della persona razionale non verrebbe più ravvisata nella lucidità distaccata o nella ferrea consequenzialità del ragionamento, ma nella ricettività rispetto alle diverse “isole” di razionalità secondo le quali si articola lo spazio delle ragioni (che è poroso per definizione).

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NOTE
  1. Da qui in avanti impiegherò con grande libertà il concetto di “equilibrio riflessivo”, reso celebre da John Rawls in Una teoria della giustizia (§§ 4 e 9). Con esso intendo quella condizione di relativa ma soddisfacente coesione tra le intuizioni/credenze di partenza e la loro mediazione riflessiva, che richiede uno sforzo continuo di ricontestualizzazione e serve da criterio orientatore durante l’investigazione di questioni per le quali non si dispone di criteri indipendenti di validazione. Inteso in questa accezione lasca, l’equilibrio riflessivo può assomigliare a un pentolone in cui viene continuamente rimescolata una sbobba che non si assaggia mai e di cui si può gustare solo il profumo. In effetti, non è mia intenzione negare che il modello dell’equilibrio riflessivo offra un parametro esile e tutt’altro che infallibile per guidare il lavoro del pensiero. (Non consente, ad esempio, di escludere con assoluta certezza che il punto di approdo raggiunto sia semplicemente l’effetto di un’estenuazione accidentale o un capriccio idiosincratico.) Pur non essendo un criterio adeguato per placare le ansie fondazionalistiche della filosofia moderna, si avvicina, tuttavia, a un ritratto plausibile dello stile di lavoro filosofico. Se si accetta una simile visione esplorativa degli sforzi della ragione, dovrebbe risultare meno avvilente la scoperta che i problemi della filosofia non vengono propriamente mai risolti, ma periodicamente accantonati per consentire l’esplorazione di nuovi angoli dello spazio delle ragioni e nuove varianti di contestualizzazione delle domande fondamentali. L’equilibrio riflessivo è simile a un equilibrio omeostatico e la principale virtù del filosofo consiste più nella capacità di formulare le domande giuste che nella risoluzione rapida e incisiva dei problemi.

17 Commenti

  1. Il fiorire dei saperi filosofici in un quadro macro e` garanzia del fatto che la storia ha ingranato una marcia decisa in avanti. A riprova di cio` basta guardarsi indietro e vedere che nell`intervallo tra il periodo dei pensatori greci e il rinascimento c`e` stato solo il rimasticamento del materiale ereditato ad opera di poche figure carismatiche e tendenziose

  2. da “Le conseguenze del fuoco (Die fackel im ohr)e la televisione negli occhi” (saggio in progress e regress e progress e regress…)

    (…) La filosofia da sempre è stata la mia migliore amica e peggiore nemica. Al liceo, un professore di Democrazia Proletaria, (penso sia stato il mio uno dei 5 voti che ha preso quando si è candidato), un utopista che al confronto Thomas More era un truzzone, ci aveva fatto studiare per tre anni solo sui testi originali dei filosofi.
    Ora, non ne nego l’indiscussa genialità maieutica: ma il Keating della situazione non ci aveva fatto strappare la prima pagina del libro, ci aveva proprio fatto buttare metaforicamente l’Adorno dalla finestra. Eccheccazzo.
    A quindici anni sarai pure terreno fertile, ma pupparti Platone tutto, e la Scolastica, e Bacone e le sue manie di controllo planetario, quando ogni santo pomeriggio devi subirti una seduta di psicoanalisi, farti due ore di pullman e studiare la notte, perché sei la prima e misconosciuta anoressica di Torino e pesi 45 chili, beh, come minimo ti viene un desiderio smodato di cicuta homemade. Ziofa, quant’è bella giovinezza, un incubo che neppure Kafka si sognava di sognare, lui e i suoi timbri asettici”.

    Insomma, per tagliar corto, molto presuntuosamente, e con le balle strapiene di tutte le belle favole per adulti che mi hanno infagottato per decenni il brain, cari Drughi Indiani, dell’amica della sapienza salvo poche cose.

    “Sapiente è colui che sa di non sapere”. (Socrate, e vedi la fine che ha fatto);

    “Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur” (Lucio Anneo Seneca, e vedi la fine che ha fatto);

    L'”Etica” di Spinoza. http://it.wikipedia.org/wiki/Baruch_Spinoza (e vedi la non-vita che ha fatto);

    L'”Utopia” di Thomas More (e vedi la fine che ha fatto).

    “Il Potere logora chi non ce l’ha”. (Mephisto)

    Poi ci sono i Sanpietrini, quelli che tirerei volentieri sui denti esattamente a:
    Aristotele e Hegel (il primo filofoso da personal computer, tutto un alfa alfa beta beta gamma gamma, con un delirio di onnipotenza da paura). Sant’Agostino (Carlo Verdone ne fa un ritratto perfetto nel famoso prete con l’occhio sbilenco).

    A Kant concedo un’attenuante, non lo lapido, glielo tiro sulla mano, il sanpietrino, perché scriveva come un cane semianalfabeta, altro che Kirkegaard. Però non ragionava male, come una puttana ottimista e quasi di sinistra.

    Vostra disperata ed erotica. Stop, Druga Indiana,
    Anna G.

      • grazie caro Andrea. Mi sono divertita, a scriverlo. Ma adesso vado sul serio. Ci avete mai pensato? la filosofia come “costruzione di un sistema che dia senso al tutto” non esiste praticamente più. Ma UNO SOLO, UNO SOLO, ha goduto di un successo planetario da paura. Lui. Quando lo incontrerò negli Elisi, non farò Didone davanti ad Enea, muta. Gli sputerò in faccia, lo dilanierò con le unghie e con i denti. Gli mangerò il fegato con un buon fiasco di Chianti, alla Lecter. Pure quel suo cervello atrofizzato. Sì, parlo dell’unico filosofo che NON MI ERA PERMESSO LEGGERE. Sigmund Freud.
        La storia è più o meno questa: il sonno è il momento più sacro e intimo dell’essere umano: è la sua tregua. COME CAZZO SI FA AD INTERPRETARE I SOGNI? Ma lui non era uno sciamano, ennò, lui ci andava giù col bisturi chirurgico. Secondo me a Freud non gli tirava. Non ha mai goduto come una bestia per un pompino ben fatto. Non ha mai sbavato godendo col corpo e con l’anima. FREUD ERA MENGELE TEORICO.
        Infatti lo zio Sam l’ha capito per primo, quanti pìccioli si potevano fare con uno così, e con lo stress luddista henryfordiano che le sue povere masse trapestate e trappiste. E vai giù di brutto, l’invidia del pene! ERA LUI CHE C’AVEVA UN’INVIDIA FOTTUTA DELLA FIGA!!!!! Tristo, asettico, bastardo dentro, con quella bastardaggine sadica che hanno solo gli austriaci ;-).
        MORALE, anzi, IMMORALE. E vissero tutti sul lettino, paganti e coglioni ed illusi. SUCCESSO PLANETARIO, manco Hollywood. And the money kept rolling, rolling rolling rolling…
        Ma la cosa più bastarda di tutti è oggi. Oggi che gli psichiatri (oh, quel nome greco che crdo in Gracia NON esistesse), sono il cellophane, la pellicola su cui si reggono gli interessi delle più grandi multinazionali farmaceutiche, quelle che hanno gli introiti maggiori.
        Il problema è uno solo, che le vittime, qui, non hanno voce. Non sono la classe operaia che picchetta e urla e magari mette anche bombe, quando sclera di brutto. Non sono persone, sono matti. E i matti non li ascolta nessuno. NESSUNO. Sono gli esseri più fragili dell’universo, cristalli infranti che non possono ricomporsi perché hanno sofferto troppo.
        Se parlano, non li capiscono. E possono fotterli meglio, sempre meglio, sempre meglio, sempre meglio. Caramelle neurolettiche. Camicie di forza non più fisiche, che uno diceva guarda quel povero cristo, sarà anche matto, ma non farlo muovere, insomma! No, adesso la CAMICIA DI FORZA è MENTALE. è INVISIBILE.
        Datemi retta, andate in una sala d’aspetto di un qualsiasi DSM pubblico, li riconoscete subito, i sommersi silenziosi di oggi, quelli che passano per il camino ogni giorno che fa Dio. Non sanno neanche quello che gli stanno facendo. Non ne sono consapevoli, proprio come i gemellini di Mengele. Questi sono gli agnelli da salvare, questo l’urlo che deve uscire da chi può urlare.
        Voi direte, ma tutte le istituzioni pubbliche sono marce, in Italia. Sì, è vero. Ma pensate alla scuola, lo dicevo ieri al telefono con un’amica insegnante. Basta che lo stato intervenga al posto giusto, che l’insegnamento ridiventi ciò che è, il lavoro più bello del mondo, che i testi siano opportuni e variegati e aggiornati, che gli insegnati più umili siano pagati IL GIUSTO e anche di più, perché un insegnante delle medie è molto più importante di un docente universitario. ALL’UNIVERSITA’ CI ARRIVANO POCHISSIMI, E MANCO LA FINISCONO.

        Ma la psichiatria no. Qui non ho più l’ironia, e non è solo un fatto personale. Solo il pensiero di quella grande faccia di cazzo di filosofo, io lo ribattezzerei filotànato. Freud. LUI.
        Vi dico solo questo. Wordreference, il traduttore virtuale, per il nome tedesco FREUD dà tre significati: better – hell – meat.
        E io la penso come Ungaretti: l’inferno si sconta vivendo.

        Cari Drughi, documentatitevi nei DSM (Dipartimenti di Salute Mentale), o nei cosiddetti “repartini”, i reparti psichiatrici ospedalieri, io ho davvero le mani legate da troppi anni per poterlo fare.

        Vi abbraccio, cari Drughi. Fate ottimi “trattamenti”, come li chiamano gli psichiatri e le sciampiste. Io preferisco le sciampiste. MA FATEGLI TRATTAMENTI LUDOVICO VAN. BELLI POTENTI.

        Cari Drughi Indiani, tanti baci.

        Anna G.

  3. “nell`intervallo tra il periodo dei pensatori greci e il rinascimento c`e` stato solo il rimasticamento del materiale ereditato”

    l’ultimo miraculo della rete: il prêt-à-porter del pensiero, ovvero la storia della filosofia fai-da-te, edizione aggiornata delle dispense settimanali della scuola radio-elettra, ora in versione mp3

  4. Lalo, esattamente qual`e` il problema, visto che non mi ricordo di essermi mai travestito da gazzetta ufficiale e hai riportato l`unico brandello del mio delirio che e` un po problematico contestare? (incontriamoci al bar dello Sport e discutiamone civilmente. Ti do anche il vantaggio di giocare in casa)

    • da bravo, diamonds, shine on, continua ad occuparti di musica, non trascurare il tuo innato talento in materia mettendoti a correre, di punto in bianco, dietro a fole e sòle filosofiche
      poi, se vuoi, possiamo incontrarci anche al bar sport, così mi fai vedere quel meraviglioso jukebox d’antan che tieni bello lucido nel retro e mostri esclusivamente ai clienti di riguardo
      (nel frattempo, prova a fare un po’ di editing ai tuoi commenti, magari scopri pure qual è un altro (urgentissimo) problema da risolvere)

      ciao, tesoro

      lc

  5. Trovo divertente, si capisce l’allegra brigata intellettuale che qui si confronta. Apprezzerei anche qualche parere sul merito. E’ condivisibile per es. la tesi che ” l’utilità dello stile di pensiero filosofico vada ricercata esattamente(…) nella sua natura eccedente”?

  6. (io non ho talenti. Diversamente la mia esistenza sarebbe strutturata diversamente. E se sono a conoscenza del fatto che tra grecia e magna grecia fiorirono 500 menti speculative destinate a essere rimasticate e` solo perche` l`ho letto sul colosso di maroussi. Il resto della storia l`ho sentito in giro caro Lalo I latini, Seneca nella fattispecie, dicevano “Neminem pecunia divitem fecit”. E doveva averlo capito pure il vecchio Enrico Cuccia dal momento che a fine corsa cercava forse di recuperare il tempo perduto documentandosi sulla Beat Generation. E ora giuro la smetto di sparare cazzate senza soluzione di continuita` perche` sarebbe sleale levare spazio alla silloge luminosa e ridanciana di Costa e alle brillantissime divagazioni di anna destinate a colmare i vuoti della tavola periodica)Virginialess, spero che non ti riferissi a me, poiche` mi sono appena dispensato dalla causa. ho gia` troppi problemi con gli accenti e l`interpunzione

    http://youtu.be/pAPKQlJzcw8

  7. “Il riso fa buon sangue”, si sa, e deploro di trovarmi in difficoltà umoristica. Il mio ultimo nipote, undicenne, ormai si rifiuta di mettere mano ai commenti. Proverò a coinvolgere le amiche che ne hanno di più piccoli!

  8. Anna evidentemente era musica talmente selvaggia che non si e` lasciata imbrigliare in un mp3(probabilmente sta studiando da te)
    Lalo, pensa che sono cosi` all`asciutto di filosofia che per anni ha continuato a sostenere in perfetta buona fede che nell`eterno duello tra descartes e cartesio prediligevo il primo senza rivelare i particolari. L`estasi dell`ocra

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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