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Essere morti a Venezia

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Gery Geddes

 (trad. Angela D’Ambra)

La torre

 

A mio modo li ho amati, al punto
da pagare il fucile in moneta sonante,
studiare la strategia l’intera notte.
Non mi lamentai per il vento freddo
o l’estenuante ascesa alla torre;
neanche la lunga attesa e il rancido afrore
dei piccioni fiaccarono la mia pazienza.

Quando, dopo un po’, apparvero,
nel fulgido sole d’inverno, a mezzogiorno
non lesinai sforzi per calibrare il fucile,
posizionare la delicata croce del mirino
in linea con le loro tempie o i petti.

E quando si misero a correre, dopo che il primo
crollò stecchito nella neve molle,
mai persi la calma, ma li presi
uno a uno, come un gatto coi gattini.

 

 

Terra Promessa

 

Quando andai a esplorare il paese
portai parastinchi, maschera antigas,
gomme da neve con borchie in metallo,
radar, bazooka, aerei da ricognizione,
borotalco, filo interdentale, fucili
FN, passaporto falso, tessera sanitaria
e un sospensorio con coppa di metallo.

Nel viaggio d’esplorazione del paese
mi procurai fumetti di Batman, walkie-talkie,
bombe a mano e baionette, uno yoyo,
il ricordo d’una madre che sventola calzini
e biancheria pulita, assicurazioni sulla vita,
l’Enciclopedia Britannica, la benedizione
di Mosè, una cassetta, un quarto di whisky,
antistaminici, alcuni indirizzi,
tamburi bongo, Playboy, congegni
per intercettazioni, sacchi da rifiuti verdi,
Kleenex, lassativo, gommone gonfiabile,
pemmican, razzi, cerotti anticallo,
biglietti di ritorno, batterie di ricambio,
contraccettivi, un atlante.

Sapevo che questo era il posto giusto:
smerciai l’intero lotto il primo giorno.

 

 

Verbo

 

Mi feci carne;
Nuotai, impaziente,
in acque placentali.

Guanti di gomma
diressero il mio cranio letale
nella breccia, mi lanciarono
in mari più sottili.

Un quarto di buon champagne
mi schizzò lungo i fianchi,
un motore minuto
mi sospinse avanti.

Navi affondarono, una dopo
l’altra, le urla degli uomini
non valsero a nulla.
Cantai nell’aria,
il mio canto
infranse un pensiero di bambino.

Mi piantarono nei campi,
sotto ponti, nessuno
raccolse i pezzi.
Mi lanciarono su città;
la carne bruciata mi s’impuntò
in gola.

Mi svecchiarono, mi resero
slanciato, bello.
Divenni vanesio. Inesausta
era la mia brama.
Li osteggiai.

Menzionarono dio, l’onore.
Mi pulii la bocca
sulla manica.

 

 

Le Piante

 

Ci reputiamo
stabili, concrete.
Nessuna rilevante caducità,
pure avemmo la nostra quota
di arrampicatori sociali.

Fummo ciò che fummo,
su noi si poteva sempre contare
per restare ferme
a produrre, o riprodurci.

Conservatrici in politica:
né avide né ribelli,
solo noiose. Che accadde?
Fu ambizione o vanità,
volare troppo vicino al sole
quasi a scrollarci di dosso
questo dedalo di radici,
lo stigma del posto?

Sia come sia, ci bruciammo.
Ci fu un’esplosione,
una luce accecante.
Saltarono i trasmettitori
si sciolsero. Uno squarcio
s’aprì nel firmamento
e con noi sparì
tutto ciò che esiste.

 

 

Pausa per la Coca-Cola

 

Marlon Mendizabel accende la TV
dopo un duro giorno di trattative. I bambini
giocano ai suoi piedi, la partita di football in onda
sul canale americano. Tutta la mattina

incontri coi dirigenti alla fabbrica di Coca-Cola
per risolvere lo sciopero. La Società
ne ha assunti tre nuovi, ufficiali dell’esercito,
a dirigere stoccaggio, risorse umane, sicurezza.

Sei occhi lo vogliono morto, sei nuovi occhi laser
negoziano la sua scomparsa pezzo a
pezzo. Prima a svanire è la voce che tenta
con passione, con logica, ma nulla di quel che

dice sembra avere il minimo effetto.
Poi le mani, riprendendo la discussione,
in sostegno alla voce, vacillano,
sconfitte a un soffio dalla meta.

Presto le sole braccia che possiede per arrendersi,
quelle pure svaniscono. S’adagia sullo schienale, uomo
invisibile, un desaparecido, ma la famiglia
non lo nota. Niente di quanto fatto o detto

gli farebbe perdere la faccia, ma quella pure
svanisce insieme col resto. Non è il solo.
Ventisette leader sindacali
della Confederazione Nazionale del Lavoro

sono stati sequestrati; due mesi dopo
altri diciassette, omicidi confermati
dalla Conferenza dei Vescovi del Guatemala.
Marlon vuole vivere per i suoi figli,

ma è troppo tardi. Delle 208 ossa nel suo corpo,
metà sono tornate in casse da imballaggio.
La dieta di paura gli contrae lo stomaco.
I figli guardano lo spot della bibita analcolica

in TV, tifando per il camion della Coca
se quello rivale lo distanzia. Vorrebbe
dir loro che non si tratta di gusto, ma di etica,
che il camion contiene le ossa di 100.000

guatemaltechi ammazzati, trucidati da squadroni
della morte al soldo del governo e di grandi compagnie.
Invece, stende una mano invisibile sulle loro teste
e offre una muta preghiera per la loro salvezza.

Il cuore di Marlon si allarga tanto da colmare la stanza
finché anche quelli alla TV se ne accorgono
e interrompono l’attività per guardare e ascoltare
il messaggio di quel cuore in comunione

con Dio. I giocatori di football si tolgono i caschi
e restano in piedi a testa china; gli speaker,
per una volta, sono a corto di parole. Fuori
Dallas, il camion della Coca accosta, luci

lampeggianti. Si apre una portiera e quelle ossa
formano un ampio ponte che si stende fino
a Città del Guatemala. Bambini lo attraversano,
mani unite, cantando. Niente li può fermare.

 

 

Vetrinette

 

È difficile, adesso, parlare di queste cose.
Descriverei invece come la luce piove
nei cortili, al mattino, su panni
stesi ad asciugare.
Quel bimbo nel vano della porta
che si volge al suono delle persiane,
fra il ridente e il corrucciato.
E i capelli di Carmen
che colmano il finestrino di dietro
della Peugeot.

Quindici finestre nel poster di Lonquen,
un volto in tutti, tranne uno.
Campesinos dall’Isola di Maupu
torturati e sepolti vivi
nella calce. Padre
e tre figli.
Riquadri di testimonianza
dell’agente Valenzuela:
un gruppo ucciso alla base aerea,
altri gettati in mare
da elicotteri, stomachi squarciati.

Ogni affisso un micro-condominio,
inquilini che fissano giù in strada
qualche fatto, un corteo,
un tramonto. Altri otto a Valparaiso
che avrebbero dovuto guardare il mare.

Ho visto una buganvillea
nella vetrina di un ristorante
vicino al luogo dell’agguato;
e una vetrina con un cactus spinoso
in fiore, un maiale di coccio
e una sfilza d’uccelli in vimini
che con grazia roteano nel vento.

Perch・sorridono, queste facce in cornice
sanno qualcosa che noi ignoriamo?
Dietro loro bianco perpetuo,
luce brillante
al termine del tunnel.
Forse siamo noi i perduti
e loro vegliano su noi
da qualche mondo perfetto,
chiedendosi la ragione di tanto
scompiglio, perché
queste maschere di sofferenza.

Quando le rompono gli occhi
le immagini restano.
Il suono d’elicottero
si perde. Il mare lecca
il rosso dal suo stomaco.

 

***

 

The Tower

 

I loved them, in my own way,
enough to pay hard cash for the rifle,
to plan my strategy long into the night.
I did not complain about the cold wind
or the exhausting climb to the tower;
even the long wait and the rank-smelling
pigeons never taxed my patience.

When they emerged, after a time,
into the bright winter sun at mid-day,
I spared no effort to steady the rifle,
to bring the delicate cross of the gun-sights
into line with their temples or breasts.

And when they began to run, after the first
had settled to rest in the soft snow,
I never lost my cool, but took them
one by one, like a cat collecting kittens.

 

 

Promised Land

 

When I went to spy out the land
I took shin pads, gas mask,
snow tires with metal studs, radar,
bazookas, reconnaissance planes,
foot powder, dental floss, FN
rifles, forged passport, hospital insurance
and a jock-strap with a metal cup.

On my way to case the land
I took Batman comics, walkie-talkie,
hand-grenades and bayonets, a yoyo,
the memory of mother waving clean socks
and underwear, life insurance,
the Encyclopaedia Britannica, Moses’
blessing, a cassette, a mickey of rye,
anti-histamine, a few addresses,
bongo drums, Playboy, equipment
for wire-taps, green garbage bags,
Kleenex, laxative, an inflatable raft,
pemmican, flares, corn-plasters,
return tickets, spare batteries,
contraceptives, an atlas.

I knew this was the right place,
I sold the whole lot the first day.

 

 

Word

 

I became flesh;
I swam, impatient,
in placental waters.

Rubber gloves
guided my lethal skull
into the breach, launched me
into thinner seas.

A quart of good champagne
splashed down my sides,
a tiny motor
propelled me forward.

Ship after ship went
down, the screams
of men meant nothing.
I sang in the air,
my song
shattered a child’s thought.

They planted me in fields,
under bridges, no one
collected the pieces.
They dropped me on cities;
the charred flesh stuck
in my throat.

They updated me, made me
Streamlined, beautiful.
I grew vain. My lust
could not be glutted.
I turned on them.

They spoke of god, of honour.
I wiped my mouth
on my sleeve.

 

 

The Plants

 

We considered ourselves
stable, down-to-earth.
No appreciable transience,
though we had our share
of social climbers.

We were what we were,
could always be counted on
to stay in one spot
and produce, or reproduce.

Our politics were conservative:
neither greedy nor revolting,
only dull. What happened?
Was it ambition or vanity,
flying too near the sun
as if to shake off
this labyrinth of roots,
the stigma of place?

Anyway, we got burned.
There was an explosion,
a blinding light.
Our transmitters fritzed,
then melted. A rift
opened in the firmament
and with us went
everything that is.

 

 

Time Out for Coca-Cola

 

Marlon Mendizabel turns on the TV
after a hard day of bargaining. Children
play at his feet, a football match in progress
on the American channel. All morning

he has met with officials at the Coca-Cola
plant, trying to resolve the strike. The Company
has hired three new army officers to direct
warehousing, personnel and security.

Six eyes want him gone, six new laser eyes
negotiate his disappearance piece
by piece. First his voice, venturing out
passionately, logically, vanishes, as

nothing he says makes the least impression.
Then his hands, picking up the argument,
running interference for his voice, falter,
are brought down short of the goal.

Soon the only arms he has to surrender
are gone too. He leans back, an invisible
man, a desaparecido, but the family
hasn’t noticed. Nothing done or said

could make him lose face, but that went too
along with the rest. He’s not alone.
Twenty-seven union leaders
from the National Confederation of Labour

have been kidnapped; two months later
another seventeen, murders confirmed
by the Conference of Guatemalan Bishops.
Marlon wants to live for the sake of his kids,

but it’s too late. Of the 208 bones in his body,
half have returned to the packing-crates.
His abdomen shrinks from its diet of fear.
His children watch the soft drink commercial

on television, cheering on the Coke truck
as it falls behind that of its rival. He wants
to tell them it’s a matter of ethics, not taste,
that the truck contains the bones of 100,000

murdered Guatemalans, killed by death-squads
in the pay of government and large corporations.
Instead, he lays an invisible hand on their heads
and offers up a silent prayer for their safety.

Marlon’s heart grows so large it fills the room
until even those on television notice
and stop what they’re doing to watch and listen
to the message of that heart as it communes

with God. Football players take off helmets
and stand with heads bowed; the announcers,
for once, are at a loss for words. Outside
Dallas, the Coke truck pulls over, lights

flashing. A door opens and those bones
form a vast bridge that stretches all the way
to Guatemala City. Children are crossing, hands
joined, singing. Nothing can stop them.

 

 

Little Windows

 

It’s difficult now to speak of these things.
I’d rather describe the way light falls
in morning courtyards, on clothes
hung out to dry.
That child in the doorway
turning to the sound of the shutter,
half smiling, half indignant.
And Carmen’s hair
filling the entire back window
of the Peugeot.

Fifteen square windows in the Lonquen
poster, a face in all but one.
Campesinos from Isla de Maupu
tortured and buried alive
in lime. Father
and three sons.
Windows of agent
Valenzuela’s testimony:
a number killed at the air-base,
others thrown into the sea
from helicopters, stomachs opened.

Each poster a small apartment building,
tenants gazing into the street
at some event, a demonstration,
a sunset. Eight more in Valparaiso
who should have looked out on the sea.

I saw bougainvillea
in a restaurant window
near the place of ambush;
and a window with a spiky cactus
in full bloom, a pottery pig
and a string of wicker birds
turning gently in the wind.

Why do they smile, these framed faces,
do they know something we don’t?
Behind them perpetual white,
bright light
at the tunnel’s end.
Perhaps it is we who are lost
and they looking out at us
from some perfect world,
wondering what all the fuss
is about, why
these masks of suffering.

When they break her eyes
images remain.
Sound of the helicopter
recedes. Sea is a window
above him, water tongues
the red from his stomach.

 

 

*

 

Gary Geddes, nato nel 1940 a Vancouver, Columbia Britannica, è poeta, critico, autore di teatro, scrittore di viaggio e nature writer, curatore di antologie ed editore. Tra le sue opere di poesia ricordiamo: Poems (1971), Rivers Inlet (1972), Snakeroot (1973), Letter of the Master of Horse (1973), War & other measures (1976), The Acid Test (1980), The Terracotta Army (1984; 2007); Hong Kong (1987), No Easy Exit (1989), Light of Burning Towers (1990), Girl by the Water (1994), The Perfect Cold Warrior (1995), Active Trading: Selected Poems 1970-1995 (1996), Flying Blind (1998), Skaldance (2004), Falsework (2007); Swimming Ginger (2010). I testi qui inclusi sono tratti dall’antologia inedita Being Dead in Venice.

Quel che passa il convento ovvero opinioni di un disadattato

5

di Giorgio Mascitelli

Uno degli avvenimenti più emblematici della vita culturale del nostro tempo è stato l’articolo, apparso sul Guardian nel 2011, del grande collezionista e gallerista londinese Charles Saatchi sul mondo dell’arte contemporanea, nel quale  esso veniva denunciato come luogo dominato da volgarità modaiola e superficialità in tutte le sue componenti: artisti, galleristi, critici e pubblico.  La novità non era certo nelle tesi, tutto sommato formulata con maggiori perspicuità analitica ed eleganza intellettuale da altri prima di lui, ma nel fatto che fossero sostenute da uno dei principali protagonisti di questo stesso mondo e, per così dire, da uno degli artefici di questo stato di cose. Insomma ciò che una volta sarebbe stato argomento di una tavolata di cinquantenni artisti falliti e pieni di ressentiment in una qualsiasi osteria della Rive Gauche globale oppure di un numero monografico di qualche rivistina di marxismo accademico, di quelle che sopravvivono grazie al sussidio pubblico perché il mercato le stroncherebbe subito, ora alligna tra le opinioni autorevoli di uno dei Gran Signori del nostro tempo.

Naturalmente questa uscita di Saatchi è stata accompagnata da una ridda di ipotesi sui motivi reconditi della sua esternazione, da chi alludeva a una raffinata operazione commerciale a chi pensava a un ravvedimento autentico a chi a un suo riposizionamento nel timore dello scoppio della bolla speculativa nell’arte. Siccome non sono certo in grado di scrutare le intenzioni e le motivazioni dei Grandi del nostro tempo, mi limito a constatare che Saatchi non è l’unico ad aver fatto qualcosa di questo genere.

Due esempi ancora più autorevoli, se possibile, sono quelli del finanziere Warren Buffet, che ha criticato a più riprese la politica liberista dei governi statunitensi soprattutto sul piano fiscale, e dello speculatore monetario George Soros, che ha denunciato  i grandi rischi per la società democratica o aperta, secondo la terminologia popperiana usata dallo stesso Soros, provenienti dalla speculazione finanziaria. In un certo senso si potrebbe dire che lo stile dei Grandi del nostro tempo prevede un loro posizionamento critico rispetto a quel mondo di cui sono se non i responsabili, gli indubbi protagonisti.

Non bisogna ovviamente sopravvalutare la portata di queste critiche: se si legge un critico autentico del liberismo o del mercato dell’arte risulta evidente che i rilievi mossi da un Saatchi o da un Buffet sono oltremodo circoscritti e semplicistici. Sul piano però della tonalità emotiva dominante oggi, quest’ultima considerazione più tecnica ha poco peso a fronte dello stupore per il fatto apparentemente inaudito che una parte, la più intelligente,  di coloro che detengono il potere esercita una critica sulle conseguenze che comporta il potere da essi stessi esercitato.

La conoscenza dell’analisi critica e rigorosa farebbe giustizia di questo stupore, in verità fuori luogo, ma essa è per così dire incomunicabile non soltanto in ragione della sua difficoltà intrinseca, ma anche della scarsa appetibilità in termini di prestigio sociale: il raggiungimento di una consapevolezza culturale e politica poco spendibile sul piano della riuscita sociale è un ben misero premio e anzi rischia di essere il marchio di un’esperienza marginale, se non addirittura di disadattamento.

Un mondo in cui il potere denuncia se stesso ( e il discorso critico è oscuro e poco attraente) fatalmente genera una sensazione di dejà vû e di noia anche in chi per la precarietà della propria vita non dovrebbe avere molto tempo per simili stati d’animo. Così analogamente la correlativa convinzione di aver già letto tutti i libri e di conoscere tutto ciò che va conosciuto spesso alligna in coloro che meno hanno letto e meno hanno conosciuto. Non si tratta di una forma di protervia o di quell’arroganza che pasolinianamente si potrebbe attribuire a una piccola borghesia globalizzata, ma più semplicemente la gratificazione che nasce da quella sensazione e da questa convinzione è l’unico schermo protettivo contro la disturbante percezione che le numerose libertà di cui godiamo siano sempre meno esercitabili in un mondo senza vie d’uscita possibili.

Ma per tornare a Saatchi, se analizzassimo la sua denuncia in un’ottica dadaista ( solo per amore di ipotesi perchè non credo che questa fosse la sua intenzione mancando nel suo scritto quella platealità ludica e il gusto per la provocazione tipiche del dadaismo), si potrebbe dire che essa contiene un paradosso per cui la denuncia da parte di colui che dovrebbe essere denunciato rende non credibile ogni ulteriore denuncia; in un’ottica giansenistica invece la sua denuncia non sarebbe credibile se non seguita da un immediato abbandono dell’attività di gallerista; in un’ottica politicizzata sarebbe il segno dell’assoluta sicurezza delle èlite, il cui dominio non trova contestazione nemmeno sul piano simbolico.

Insomma quel che passa il convento oggi è questo e proprio perciò si apre lo spazio per  un’arte ( e per una letteratura) non più di contestazione, ma di evasione.

Mondi offesi

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mondo_offesodi Romano A. Fiocchi

All’inizio di via Rovello, a Milano, c’era un’antica libreria antiquaria gestita da un bibliofilo per eccellenza, Mario Scognamiglio, presidente dell’Associazione Internazionale di Bibliofilia Aldus Club. La libreria ha chiuso i battenti il 29 dicembre 2012, i locali a tutt’oggi sono ancora vuoti. Poco più in là, nello stesso periodo, ha chiuso la Libreria di Brera (su Google Maps si può ancora vedere l’insegna). Al suo posto c’è un negozio di camicie. Se prosegui per corso Garibaldi, nell’interno suggestivo di un cortile trovi la vecchia sede della Libreria del Mondo Offeso. Ora è occupata dallo showroom di una piccola azienda artigianale di abbigliamento. La libreria ha traslocato più in periferia, verso l’Arco della Pace, dove insieme ai libri offre un servizio di caffetteria e tavola calda. Andando oltre, sull’angolo con via della Moscova, sino a poco più di un anno fa c’erano le vetrine della Libreria dell’Utopia, ora trasferita in zona Lambrate. Non reggono nemmeno i remainder: quello storico delle Librerie Riunite, nella centralissima via Dante, ha cessato l’attività nel febbraio scorso. Affitti e spese fisse li stanno decimando. Non solo a Milano, la sensazione è che il fenomeno sia generalizzato. A Pavia, la mia città, la Libreria il Delfino ha lasciato la prestigiosa piazza della Vittoria per una piazza più caratteristica ma più nascosta. I nuovi locali sono ora abbinati a un esercizio di bar e ristorazione. Il tutto con affitto inferiore, si intende.

La domanda è: cosa sta succedendo? Questa non è la crisi, è qualcosa di epocale, è la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Colpa dell’e-book, dice qualcuno. Ma il libro digitale non c’entra, è soltanto un supporto diverso, e poi è appena partito, non ha ancora i numeri per poter influenzare il mercato. Colpa dell’abolizione delle licenze avvenuta nel 2006, dice chi ha l’occhio del commerciante, così finisce per comandare il dio denaro: le multinazionali arrivano e si comprano gli spazi che vogliono. Le librerie, con il loro modesto giro d’affari, non possono competere. Il fatto è che la libreria non è un negozio qualsiasi. È uno spazio per le idee, è l’habitat della cultura e degli strumenti che la diffondono. Certo, si possono vendere libretti più o meno erotici e best seller di grido sia in un negozio di intimo che tra i banchi di frutta del supermercato. Ma la libreria, quella dove c’è un libraio con cui parlare, dove anche i piccoli editori hanno il loro spazio, dove il successo di un libro non si misura dal numero di copie vendute, ebbene, la libreria è qualcos’altro. E questo qualcos’altro sta evolvendo. Verso quale forma, è ancora da capire. Ma prima di qualsiasi ipotesi bisogna rispondere a una domanda ineludibile: cos’è la libreria.

Sono allora entrato in una delle “sopravvissute” citate più sopra: la Libreria del Mondo Offeso. Tra un’autorizzazione e l’altra è passato un anno, ma da alcuni mesi ha finalmente la nuova insegna. Tre vetrine, angolo caffetteria (in realtà quasi metà locale), un pianoforte, sedie, sgabelli, tavolini, tavoli espositivi, poster in bianco e nero sulla sezione alta delle pareti: Chaplin, Sordi, scene di vita ritratte dagli Alinari, e così via. Il resto, scaffalature e libri, compresi quelli per bambini. Prima, quando si trovava in corso Garibaldi, era libreria e basta, solo una macchinetta per il caffè accanto alla cassa. I muri con i mattoni a vista creavano un’atmosfera bohémien in perfetta sintonia con il nome, il Mondo Offeso, preso in prestito da Vittorini. Da qui ecco lo spunto per il primo tentativo di definizione: la libreria è un centro di materializzazione di fantasmi letterari. I personaggi che popolano la Libreria del Mondo Offeso sono appunto quelli di Conversazione in Sicilia. C’è l’arrotino, con la sua grande bocca da magro, la faccia nera e gli occhi scintillanti sotto il vecchio copricapo da spaventapasseri. C’è la faccia paffuta dell’uomo Ezechiele, gli occhi piccini che guardano intorno con tristezza. C’è l’immenso uomo Porfirio, occhi azzurri, barba castana e mani rosse. E poi Colombo, il nano delle miniere di vino. E poi gli uomini che cantano seduti su una panca. E i due giovani senza vino che piangono seduti per terra, nonostante il vino, in questa libreria, sia ampiamente disponibile.

Ma c’è dell’altro. Sulla vetrina è applicata la sagoma presa dalla vecchia insegna di corso Garibaldi: un gentiluomo di spalle con cappello e ombrello. Se in origine anche lui era soltanto il personaggio di un libro, Tristano, ora incarna il ricordo di uno scrittore che la Libreria del Mondo Offeso ebbe ospite nella sua vecchia sede e che è ormai scomparso da un paio d’anni. O meglio, non è scomparso. Antonio Tabucchi è qui anche lui, seduto ad un tavolino dell’angolo caffetteria come se fosse alla Brasileira di Lisbona. Sorseggia un caffè, sfoglia qualche libro, magari scambia un’occhiata di intesa con l’uomo Ezechiele e con l’uomo Porfirio. Eh, a guardare ce ne sono di fantasmi usciti dai libri, maggiori e minori… Tra i tavoli, ansioso di sedersi per mangiare un boccone, si aggira persino l’ispettore Ferraro, scappato fuori da un librettino basso basso, quasi sentisse il disagio di trovarsi nelle mani di Dio e volesse prendere una boccata d’aria. Arrampicato su una scaffalatura trovi invece Cosimo Piovasco di Rondò. È chiaro, lui non posa un piede per terra. Ma c’è anche il fantasma di un’armatura vuota che cammina davanti al bancone dei caffè, nonché un tale Marcovaldo che cerca di barattare la sua salciccia con un piatto caldo. Insomma, la fauna narrativa di Calvino al completo. Non per nulla sugli scaffali sfila la sua opera omnia, così come quella di Pasolini, di Bilenchi, di D’Annunzio, di Sciascia, di Scerbanenco, di Gadda, della Romano, di Soldati, di Pirandello e di altri mostri sacri del Novecento italiano di cui la libreria è fornita.

Con un accostamento che lascia un po’ perplessi, la Libreria del Mondo Offeso è specializzata in zuppe, risotti, taglieri di salumi e di formaggi, dolci artigianali, presentazioni di libri, incontri con autori, piccoli concerti. Andrea Tarabbia, Giorgio Falco, Andrea Bajani, Piersandro Pallavicini, Giorgio Manacorda, questi soltanto alcuni tra gli scrittori che sono di casa o quasi. Ecco allora lo spunto (a dire il vero suggerito da Tabucchi) per un secondo tentativo di definizione: la libreria è luogo dove si manifesta una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia. Come a dire, una libreria che fa la libreria mette insieme un mucchio di idee così eterogenee da fare scintille. Per di più non le lascia latenti, ci soffia sopra in modo che le scintille diventino un fuoco sempre acceso: il fuoco della cultura.

Sono tempi grami, per la cultura, appiattita sempre di più dai mezzi di comunicazione di massa che sfruttano il loro potenziale non certo per diffonderla ma per inseguire il gradimento dei fruitori. Del resto è più semplice ed economicamente produttivo adeguarsi al ribasso piuttosto che educare verso l’alto. In questo scenario, dove l’immagine fa da padrona, tutto ciò che è parola e ragionamento è considerato noia, pesantezza, inutilità. Remare contro il dilagare – non diciamo dell’ignoranza, ma della non cultura – è una delle funzioni della libreria. La libreria oggi è quindi anche questo: una scommessa. Molto difficile, visti i tempi. Anche se va detto che per le librerie, come del resto per l’editoria, i tempi sono sempre difficili.

25 Aprile 1945

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25 Aprile 1945
 

Roderick Duddle – Michele Mari

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di Antonella Falco

mari_duddle

Ci sono romanzi che ci catturano fin dalla prima pagina e non ci lasciano più, romanzi che ci fanno perdere la cognizione di tutto il resto. Che ci riportano indietro nel tempo, alle fameliche e appassionate letture dell’adolescenza, quando leggevamo Il richiamo della foresta di London o L’isola del tesoro di Stevenson e venivamo completamente assorbiti da quelle storie e catapultati in mondi avventurosi dai quali ci riscuotevamo solo per sopperire alle basilari necessità fisiologiche della vita. Era a malincuore che ritornavamo alla realtà, sorpresi di come il tempo fosse volato e fosse già prossima l’ora di cena: ci sedevamo a tavola con aria assente e trasognata, sotto lo sguardo perplesso di nostra madre, e tra un boccone e l’altro continuavamo a fantasticare sulle storie e i personaggi del romanzo fin quando non ci era concesso di tornare nuovamente a inabissarci nella lettura.

Il romanzo che oggi, a distanza di tanti anni, mi ha permesso di fare questo piacevole salto indietro nel tempo è Roderick Duddle di Michele Mari. Della trama svelerò poco o nulla, per non rovinarvi il gusto della lettura. Vi basti sapere che il Roderick Duddle del titolo è un bastardello di dieci anni, figlio di una prostituta ed erede inconsapevole di un’enorme fortuna che fa gola a tanti loschi figuri, facendo di Roderick il centro di una fitta trama di intrighi che si dipana per oltre quattrocento pagine. Pagine che scorrono via leggere come la prua di una nave che col vento a favore scivoli su placide acque.

Mari si diverte – ed è un divertimento che per proprietà transitiva si trasmette dall’autore al lettore – a scrivere un romanzo meravigliosamente anacronistico che se ne infischia bellamente dei temi predominanti nella narrativa odierna e dei gusti del lettore, seguendo null’altro che la propria personale e travolgente ispirazione. Ci regala così un romanzo perfettamente dickensiano, ambientato in una Inghilterra ottocentesca della quale disegna con cura certosina una minuziosa toponomastica immaginaria (il romanzo si apre con una piantina che l’autore ha disegnato di suo pugno e che racchiude l’intero avventuroso mondo di Roderick). Ma non di solo Dickens si nutre questa storia, che non trascura di omaggiare – come già Mari aveva fatto nel racconto Otto scrittori, di certo uno dei più bei racconti degli ultimi trent’anni di narrativa italiana – i classici del romanzo d’avventura marinaresco quali L’isola del tesoro di Stevenson, Moby Dick di Melville e Gordon Pym di Poe. Questi i riferimenti più macroscopici. Ma non mancano suggestioni, e l’elenco non vuole certo essere esaustivo, da Conrad, da Steinbeck (leggendo del personaggio di Lennie come non pensare a Uomini e topi?), da Mc Carthy, dal marchese De Sade e dal Manzoni della monaca di Monza (per quanto concerne i personaggi di suor Allison e della badessa), mentre il silente Ram-Singa si ammanta di tutta l’esotica e lussureggiante musicalità dei nomi salgariani: se è vero, come diceva Borges, che lo scrittore crea la realtà nominandola, allora è vero che Mari facendo propria la capacità di Salgari di racchiudere l’esotismo in una parola, in un suono, in un semplice baluginio semantico, ci spalanca tutto un mondo di leggendarie avventure miniaturizzandolo nell’ammaliante potenza del nome Ram-Singa.

Nella vasta galleria di personaggi che affollano questa intricata storia almeno tre restano indelebilmente impressi nella memoria del lettore. Primi fra tutti il Probo e suor Allison. Del primo vale la pena sottolineare l’ambiguità semantica del nome che rimanda antifrasticamente alla virtù della probità laddove egli è in realtà uno spietato e preciso sicario. Ma Probo è anche abbreviazione di “proboscide” e quindi rinvia alla singolare anomalia fisica del personaggio. Difficile non pensare al John Merrick reso celebre dal film The elephant man di David Lynch, ma trattasi solo di suggestione fisiognomica, essendo ben altra la personalità del nostro. Il dettaglio della voce bassissima, quasi un sibilo, che lo contraddistingue, giova a renderlo ancora più inquietante.

Analogamente al Probo anche suor Allison porta impresso nella propria carne lo stigma della diversità: con le loro anomalie anatomiche ambedue sono espressione di quella teratologia da sempre cara a Mari. Sono loro i personaggi più affascinanti dell’intero romanzo: la scena del loro incontro costituisce uno dei momenti più sublimi di tutta la storia.

Ma se il Probo è figura inquietante e seducente fin dal suo primo apparire, diversamente accade per suor Allison, personaggio originariamente del tutto marginale che diviene strada facendo uno dei protagonisti, nonché degli strateghi, della vicenda: vera e propria maliarda, manipolatrice di destini. Suor Allison è la dimostrazione di come un personaggio possa iniziare a vivere di vita propria e imporsi all’autore, il quale sospendendo l’onniscienza che il suo ruolo di voce narrante gli attribuisce, sperimenta il piacere di scoprirsi spettatore e di osservare l’evolversi della storia senza tracciare schemi o programmi predefiniti, assistendo piuttosto giorno dopo giorno, con la curiosità propria del lettore, al corpo a corpo inscenato dai personaggi per sopravvivere e far valere la propria superiorità su tutti gli altri.

Completa la terna dei personaggi indimenticabili il signor Jones, sorta di cattivo simpatico che pur non lesinando trame e inganni suscita nel lettore uno sguardo indulgente e divertito: le sue innocenti perversioni ce lo rendono fin troppo vicino e umano, essendo riflesso irrefutabile del lato oscuro che alberga in ciascuno di noi, mentre il procedere della narrazione ci svela l’insospettabile candore del suo animo. È Jones a incarnare il vero doppio (poteva mancare questo tema in un romanzo di Michele Mari?) della storia, molto più della coppia di bambini identici Roderick-Michael. Ma il gioco degli alter-ego e dei doppi innerva anche il prologo e l’epilogo del romanzo dove Roderick, o forse dovremmo dire Roderick-Michael, trova un ulteriore alter-ego in Michele Mari figlio di Enzo e di Iela a conferma del gioco di specchi che lega questi personaggi all’autore.

Mentre leggevo il libro mi sono chiesta più volte come possa un romanzo che ricalca gli stilemi del feuilleton e ripropone tutti gli stereotipi del romanzo d’avventura ottocentesco, un libro quindi che non racconta niente di originale, tenere il lettore incollato alla pagina senza che abbia mai un calo di attenzione o un momento di noia, facendolo anzi vivere in apnea per tutto il tempo che suo malgrado è costretto a trascorrere lontano dal libro, divenuto ormai indispensabile serbatoio d’ossigeno mentale e linfa vivificatrice della sua fantasia troppo spesso mortificata dall’orrendo mondo.

La risposta è da ricercarsi nella maestria con la quale da sempre Mari maneggia i materiali della tradizione letteraria e nella passione, nel trasporto, nell’ardore oserei dire religioso con cui li ha letti e assimilati fino a renderli parte integrante della sua stessa persona: «certe cose non solo si possono continuare a dire bene e originalmente anche se sono state già dette» ha affermato Mari in un’intervista – «ma ci sono cose – anzi, la letteratura è proprio la patria di queste cose – che si possono dire solo perché sono state già dette, proprio perché sono state già dette. […] Se ti senti non esautorato in quanto tutto è già stato detto, ma una specie di ventriloquo attraverso cui quelle voci continuano a parlare, non sei più un pupazzo di legno, sei un essere vivo, un essere che senza nemmeno accorgersene se ne trova una tutta sua, di voce».

Qualcuno, certo maldestramente, incapperà nella tentazione di definire Roderick Duddle un romanzo di formazione. Ebbene, sappiate che nulla è più alieno a Michele Mari di una concezione formativa e pedagogica della letteratura: la grande letteratura è anzi il più delle volte diseducativa, un libro non necessariamente rende migliore chi lo legge, Mari al contrario è convinto che «i libri guastino, rovinino. Che i libri turbino. Seducano e perdano» e non manca di ricordare le parole dell’amato Manganelli secondo cui la letteratura non è autentica «se non ha anche addosso qualcosa di sporco, di fastidioso, di disgustoso», a conferma del fatto che «i libri che non danno disagio sono libri disertati dagli dèi».

Dunque non esiste grande libro che non sia contaminato dal veleno della vita («Fiorita dal male e sul male della vita la letteratura, come opera di vivi, non può fare a meno di compromettersi in continuazione con quel male», scrive Mari ne I demoni e la pasta sfoglia), ma proprio in virtù di questo contagio esso non tollera di lasciarci uguali a prima. E Roderick Duddle di certo non lascia il lettore che trova.

Lana e les biches

12

Tuffo di Riccardo Ielmini

 

Filava tutto liscio, alla fine dell’estate 1989: il Muro al suo posto, la Democrazia Cristiana primo partito, io spencolato sul mio futuro, in cerca del disperato amore eterno. Tutto liscio, quando mio padre mi disse che il giorno dopo lo avrei accompagnato a trovare «il senatore».

«Giovanni, fai una bella doccia» intimò. Eppure sapeva che i suoi quattro figli erano sempre puliti, perché mia madre, con la sua pervicacia cattolica, ci aveva educato ad avere cura della nostra igiene personale. Eravamo gente semplice, e la pulizia era una delle armi che avevamo a disposizione per dire la nostra. Perciò non capii subito quello che invece mi fu chiaro strada facendo, e cioè che a mio padre premeva molto facessi bella figura. Papà era un mite assistente sociale e non era mai stato il tipo del politico baciapile, impegnato a trovare improbabili sponde per garantirsi una poltrona: troppo idealista, mon père, troppo buono per arrampicarsi sulla ruota panoramica stando in equilibrio sopra una vasca di pescecani. Mi confidò che aveva solo bisogno di confrontarsi con «il senatore» a proposito di alcune scelte urbanistiche che lo angustiavano come sindaco della nostra cittadina: un gigantesco lotto vista lago Maggiore che i socialisti premevano diventasse edificabile. «Una porcata», commentò mio padre con inaspettata brutalità: ma eravamo nel 1989, e i socialisti da un pezzo stavano mandando tutto a ramengo. Io questo non lo sapevo, come non sapevo che proprio a partire dal parere del senatore le cose avrebbero smesso di filare lisce per papà e per tutta la famiglia De Ambrosis: altrimenti glielo avrei detto – papà, non ci andiamo, io non faccio nessuna doccia per nessuna bella figura.

«Va bene» dissi, invece, pronto alla mia abluzione, perché ero un sedicenne educato e rispettoso, e le mie brevi, intermittenti e velleitarie rivolte al suo nume sarebbero scoppiate troppo tardi.

 

Per quel che ne sapevo dai discorsi galleggiati a mezz’aria sulla tavola del pranzo domenicale in casa De Ambrosis, «il senatore» – non lo si nominava mai per nome, ed io, che a quel tempo mi ero invaghito di Morrissey, non sopportavo l’aura da ancien regime di cui era circonfuso – il senatore, appunto, era stato, per lungo tempo, capofila della corrente democristiana della Base, e vantava un cursus honorum di tutto rispetto, che affondava le sue radici nell’inviolabile mito della Resistenza e si librava, gemmando in varie direzioni, fino all’olimpo delle più alte poltrone dello Stato. «Il senatore». Saremmo andati a trovarlo nella sua villa dalle parti di Morcote, lago di Lugano, dove risiedeva dopo aver sposato, negli anni del boom, la bizzosa rampolla di una potente famiglia della Svizzera italiana. Dalle nostre parti, su, al Nord, dicevano avesse addomesticato la ragazza (i più maligni, invece, che fosse stato addomesticato da lei). Si erano conosciuti quando il senatore era stato primo firmatario di alcune leggi a tutela dei frontalieri, la categoria che aveva sempre sollecitato le mie fantasie – una miscela di terroni, fuoriusciti, contrabbandieri e avventurieri di ogni sorta. E poi «aveva attaccato su il cappello», come diceva, sprezzante, nonna Regina, l’arcigna matrona di casa De Ambrosis, gelosa del nostro milieu piccolo provinciale, tutto dieci comandamenti, cervello fino e maniche tirate su.

 

Il viaggio durò poco più di un’ora. Il senatore ci accolse al termine di un vialetto che avevamo percorso a bordo della nostra Fiat 131. Si presentò in puro stile lombardo: sorriso parco, stretta di mano gentile, voce rarefatta. Era diverso da quello che mi ero immaginato. Sembrava impossibile che quella figura dimessa, di altezza media e con capelli bianchissimi potesse aver raggiunto posizioni di vertice nel partito d’Italia: non con quella camicia ordinaria con le maniche arrotolate al gomito. Era diverso, ma non vinceva i miei sospetti. Nonna Regina e mia madre mi avevano tirato grande con l’idea che ricchi e potenti meritassero sempre, e a priori, gelido scetticismo, ed io ero un loro discepolo fedele.

«Ah, lei è Giovanni, il figlio del nostro sindaco De Ambrosis» disse, amichevolmente avvolgendo le mie spalle con un braccio per guidarmi verso l’ingresso della villa. Aveva detto nostro per sottolineare che era pur sempre venuto grande nella stessa cittadina in cui ero cresciuto. Fui infastidito da quell’accorciamento unilaterale di distanze.

L’abitazione era maestosa: bianca e su due piani, con tetti spioventi che venivano giù in ogni direzione. Ci portò dentro. Le grandi finestre al pian terreno erano spalancate: era una giornata afosa. Intorno a noi, la luce lattiginosa dei mattini di fine estate nel distretto dei laghi.

Il senatore chiamò sua moglie. La donna apparve immediatamente. Ora mi stringeva la mano: una distinta signora di mezz’età, snella, con un vestito leggero, verde, su cui era appuntata una vistosa spilla d’oro. I capelli, biondi, erano tenuti in ordine da un cerchietto che scopriva un volto di cerbiatta, chiaro e deciso. Conclusi che le voci su di loro erano tutte manchevoli: quei due si erano addomesticati a vicenda, come succede fra ricchi e potenti.

Ci fu un breve andirivieni di cortesie: la consegna di un bouquet che mia madre aveva avuto cura di far preparare per il mattino stesso e la finta meraviglia per il panorama del grande parco verde che scendeva raso fino ad un piccolo boschetto di tigli, oltre il quale c’era il lago. La moglie del senatore ci fece accomodare in salotto, che sembrava colorato con pastelli Caran d’Ache. Una domestica depose prontamente, su un tavolino basso di vetro, caraffe con succo d’arancia, e biscotti.

«Ti fermi a pranzo, De Ambrosis?» chiese subito il senatore. Mio padre accettò l’invito senza nemmeno consultarmi. La moglie del senatore comunicò con fervore che sarebbe andata ad «organizzare il pranzo» (un’espressione che mi fece toccare la distanza fra il ménage di quella lussuosa residenza e il nostro stile di vita, orgogliosamente arroccato ad un’aurea modestia). La sentii parlottare con la domestica che era apparsa poco prima: aveva un tono di voce fermo ed autorevole. La regina della maison. Poco dopo riapparve in salotto e venne verso di me.

«Lei si annoierà, Giovanni, in mezzo a questi due signori» disse scoprendo un sorriso pieno di civiltà e buone maniere. «Senta: mia figlia è giù, al lago. Vada là, oltre quel boschetto di tigli: vede?» disse, avvicinandosi e prendendomi dolcemente per il braccio. Aveva un profumo deciso, da donna di mezza età che abitualmente cammina sui parquet e sprofonda in grandi sofà. «Le chieda di farle fare un’uscita sul lago. Abbiamo una piccola barca, ormeggiata nella darsena». Mi dava del lei e mi usava formule di cortesia, ma ogni gesto comunicava che nel suo regno non c’era spazio se non per pragmatismo, ordine, sicumera.

Io feci un cenno a mio padre, come per avere da lui l’assenso. Sentivamo entrambi di non essere al posto giusto, ma mia madre, con il piglio della professoressa che era, una volta mi aveva citato una frase del Vangelo a proposito di volpi e tane: mi sembrava potesse andare bene per l’occasione, così trovai ragionevole dover mandare giù il boccone che mi veniva offerto. Mi avviai lungo la pelouse rasata, in mezzo alla luce prealpina, posata ovunque come l’annuncio di una prossima decomposizione.

 

La ragazza era distesa su un asciugamano, e indossava un costume bianco intero, con una fibbia argentata sulla vita. Aveva una sigaretta nella mano destra, occhiali scuri e ascoltava qualcosa da un walkman appoggiato sulla pancia, mugolando qualcosa da labbra carnose, troppo rosse. Il volto era quello di sua madre. Di fianco a lei un tavolino strapieno di libri, vestiti gettati alla rinfusa, bicchieri e bottiglie. Su un angolo libero occhieggiava un’audiocassetta fuji con una scritta in pennarello blu: Poulenc – Les Biches. Immaginai che la ragazza stesse ascoltando proprio quella: dondolava ritmicamente la gamba. Era longilinea senza essere alta, e le gambe e le braccia mostravano nitide linee muscolose, guizzanti sotto i colpetti ritmici che le percorrevano. Aveva gli occhi chiusi, probabilmente: non si accorse di me.

Mi sedetti sull’erba senza presentarmi. Guardai verso il lago: nemmeno un centinaio di metri al largo sfilò una piccola barca a motore, con lo scafo rosso e grigio. A bordo quattro ragazzi a torso nudo che si voltarono verso di noi, vociando forte qualcosa di sconcio. La ragazza non fece una piega. Io, invece, mi alzai, perché uno di quelli ancheggiava e, indicandomi, mimò un coito. Misi le mani sui fianchi, piantato come un giudice biblico, pronto a dire qualcosa. Avrei voluto protestare qualcosa sulla mia rispettabilità e sul mio onore. In campo sessuale il massimo di trasgressione fino ad allora era stato commettere atti impuri (aspettando il disperato amore eterno): come dopo aver visto un poster di Samantha Fox esibito dai miei compagni al liceo dopo una lezione di educazione fisica – lo stimolante per una gara sulla lunghezza del pene.

«Idioti» sentii dire vicino a me. «I soliti debosciati» aggiunse la voce. La ragazza si era tirata a sedere, aveva rannicchiato le gambe, strette nelle braccia muscolose, e stava attorcigliando attorno al walkman il filo delle cuffie. Debosciati. Una parola che non conoscevo e che non avrei dimenticato mai. La ragazza puntò una mano per terra, fece leva e si alzò in piedi. Senza guardare verso di me, alzò il dito medio e lo mostrò lungamente alla ciurma che stava allontanandosi dal nostro grandangolo. Lei sì, aveva l’aria di un giudice biblico.

«Tu sei il figlio dell’amico di mio padre, no?» aggiunse, le mani sui fianchi. La luce biancogrigia la straniva: era bella.

«Giovanni. Giovanni De Ambrosis» dissi, tendendole la mano come se dovessi stringere un affare milionario.

«Eliana» disse, senza ricambiare la stretta. Posò il walkman sul tavolino. «Ma è un nome da vecchi, no? Facciamo che mi chiami Lana, va bene? io mi faccio chiamare così, come la vecchia attrice, Lana Turner». Fece una pausa e poi, sorridendo, concluse: «Mi sa che non sei nemmeno chi sia: vero, ragazzino?».

«Le piogge di Ranchipur. Richard Burton e Lana Turner» recitai in un fiato. Era uno dei vecchi film che nostra madre – con il suo debole per i vecchi attori – ci aveva permesso di vedere in televisione, benché il quotidiano cattolico, che lei consultava per avere l’imprimatur, lo giudicasse «accettabile con riserva».

«E bravo il nostro Giovanni. Allora non sei un ragazzino da quattro soldi. Quanti anni hai?» chiese. Si era appoggiata al tavolino e mi fissava, ora. I capelli castani erano raccolti in uno chignon, le unghie porpora. Su tutto, le labbra eccessive.

«Sedici anni» risposi.

«Un ragazzino. Immaginavo» commentò. Sembrò voler dare un’aggiustata al disordine apparecchiato sul tavolino, mentre io traguardavo lo sguardo altrove e mettevo le mani nelle tasche dei miei bermuda, composto come uno stopper in barriera. Alla fine le cose sembravano esattamente nello stesso disordine, ma alla rovescia. Ripose la fuji nel contenitore.

«Sto preparando un balletto da Poulenc. Il musicista. Conosci?».

«No» risposi.

«Avevo ragione. Sei un ragazzino». Poi, finalmente, si levò gli occhiali scuri e mi guardò. Aveva occhi affilati e chiari. «È un balletto. Les Biches. È francese. Vuol dire le cerbiatte. È una storia erotica. Voglio dire: sesso, sai?». Estrassi le mani dalle tasche e mi misi a braccia conserte, come dovessi essere interrogato in latino.

«Comunque» continuò lei «è un balletto che sto preparando. Sono un ballerina classica» disse. Io continuavo a restare fermo, mentre Lana raccoglieva dal tavolino una polo inglese blu e la indossava. Decisi che nella mia vita avrei indossato sempre polo come quella.

«Allora, ragazzino. Cosa facciamo? Torniamo in casa?».

«Tua madre dice di portarmi a fare una gita sulla barca, quella che è nella darsena» risposi. Lei guardò il cielo, si rimise gli occhiali da sole e calzò delle scarpe di tela.

«Sai remare?».

 

Ci spingemmo al largo. La mia vogata era sicura. Per due anni avevo praticato canottaggio per allargare le spalle e diventare più armonioso, perché mia madre diceva che assomigliavo a George Peppard: un talento da non sprecare, diceva lei. Si trattava di una bella barca a remi, con gli scalmi lucidati di fresco e le sponde brillanti. Il sole era quasi a piombo su di noi, ma la nuvolaglia opaca e il vapore d’afa lo sparpagliavano dappertutto. Immaginai che la ciurma dei debosciati stesse bordeggiando le darsene in cerca di femmine.

«E cosa fai nella vita?» chiese lei all’improvviso.

«Il liceo» risposi.

«E poi?».

«E poi, cosa?».

«Cosa fai nella vita? Ci sarà qualcosa che gli altri non fanno e che fai solo tu. Io, per esempio, ascolto Poulenc». Non erano eccessive solo le labbra: ogni frase giganteggiava. Io, messo in un angolo, vergognosamente in adorazione. Ero un ragazzino di sedici anni e non avevo mai pensato che potessi fare, avere, essere qualcosa che gli altri non facessero, avessero, fossero. Però ascoltavo Morrissey, avevo visto quel film con Lana Turner; avevo un debole per le passioni brillanti, non mi piacevano i ricchi, e adoravo quelli con il talento. Forse era questo che sognavo di diventare. Passionale, povero, talentuoso – sì, avevo sedici anni.

«Intanto che ci pensi, ti va di fare il bagno?» interruppe. Non aspettò la mia risposta. Si alzò in piedi, levò t-shirt ed occhiali e si gettò in acqua, lasciando che la barca dondolasse al suo slancio. Io non avevo mai fatto il bagno nel lago: nostra madre ci aveva elencato la sfilza di malanni d’acqua dolce e di «giovani vite spezzate» (come diceva lei, teatralmente) dalle insidie del lago, e noi ce n’eravamo stati buoni al nostro posto.

«Allora?» incalzò lei non appena riemerse dall’acqua scura in cui l’avevo vista sparire. Si aggrappò alla sponda e fece dondolare la barca. Aprì la bocca in un sorriso biancoscarlatto e bagnato. Io afferrai i remi, deciso a presidiare me stesso. Lei rimase così, guardando chissà dove. Poi disse: «Aiutami a salire». Le tesi la mano. «No. Non così. Mi aggrappo alla sponda e mi afferri per i fianchi, d’accordo?», aggiunse, ma non era una proposta, e nemmeno una richiesta. Mi sforzai di non sembrare impacciato, e feci forza sulle braccia. Aveva un corpo leggero, con i fianchi compatti. Venne su con un colpo di reni preciso e veloce.

«Bravo ragazzino» commentò. «Un vero cavaliere». In un angolo della barca c’era un vano chiuso. Lo aprì e tirò fuori un asciugamano che avvolse attorno al corpo.

«Sai quanti anni ho?» chiese. «Ne ho venti» continuò, senza aspettare la mia risposta. «Ne ho troppi. Anche se ballo Poulenc, non ho quasi più speranze di carriera. Il senatore e mia madre hanno detto che è l’ultima occasione, questo balletto. Poi mi seppelliscono in una scuola di economia». Non c’era rimpianto nelle sue parole: solo dati di fatto. Anche lei diceva «il senatore». Io fissavo la linea del corpo e le rotondità zuppe dei seni. Il resto non contava più niente.

«Ti piaccio, ragazzino?»: mi spiazzò. Forse se ne era accorta. «Ti piacciono le mie tette? No, perché mi dicono che non sono un granché. Guardami bene» disse alzandosi in piedi proprio davanti a me. Aveva detto «tette». A me. Sulla pelle c’era una patina d’acqua, e mi arrivava l’odore del lago misto al profumo di crema solare. «Dai, mi piacerebbe un tuo parere» aggiunse, e dal vano da cui aveva preso l’asciugamano estrasse anche un pacchetto di sigarette e due lattine di birra. «Allora?» continuò, accendendo la sigaretta e stappando una lattina.

«Sei bella» risposi. Mi tese l’altra lattina, ma io feci un cenno per dire che no, non mi andava.

«Bugiardo. Dillo ancora» e diede una lunga sorsata di birra.

«Sei bella» mi affrettai a ripetere. Era bellissima, non bella. L’ultima volta che l’avevo detto ad una ragazza era stato su un treno delle sei del mattino verso la città, in prima liceo: una iniziazione cui i ragazzi più grandi ci obbligavano, assieme alla misurazione dei vagoni in fiammiferi.

Lana, allora, gettò per terra l’asciugamano, si mise in ginocchio e si avvicinò alla mia faccia. La prese fra le mani e mi baciò. Mi respirò in bocca fiato caldo. Sapeva di alcool.

«Morivo dalla voglia» disse, staccandosi da me. «Come sei diventato rosso. Proprio un ragazzino con la riga nei capelli». Si attaccò alla lattina, sdraiandosi lunga, con la testa appoggiata alle mie gambe. Io passai la lingua sulle labbra, la barca ferma in mezzo al lago, i remi ciondolanti in mezzo all’afa e un’eccitazione che faceva a pezzi i miei turbamenti, le gare di lunghezza del pene, i poster di Samantha Fox. Doveva essere il disperato amore eterno, questo.

«Accarezzami i capelli» intimò. Aveva sciolto lo chignon e i capelli lunghi e lisci erano stesi, bagnati, sui miei bermuda, come nastri di posidonia. Io li accarezzai una sola volta, sfilandoli fra le dita. Avevo paura. Lei finì di bere, poi disse: «Riportami a casa».

 

La darsena aveva una scalinata ripida, come quelle che infestavano i miei sogni adolescenziali. Lana procedeva davanti, la sagoma agile stagliata sulla luce che arrivava dall’apertura in alto.

«Sai come si sono conosciuti, mia madre e il senatore?» chiese all’improvviso. Si fermò: eravamo quasi al termine delle scale, dove la luce che arrivava dal giardino dava rilievo incerto alle pietre grezze delle pareti. Reggeva con una mano la lattina vuota e i vestiti. «Per caso, qui, ad una festa per quella famosa legge sui frontalieri». Ravviò i capelli umidi e sorrise. «Però noi due non ci sposeremo. Magari più in là, quando crescerai un po’, vero?». Io rimasi a guardarla, da sotto in su, prendendo sul serio ciò che non andava preso sul serio. Ma io ero fatto così: sui miei sedici anni poggiavano certezze assolute. Mentre camminavamo sul prato verde, appaiati, lei disse: «Ti manderò l’invito per assistere al mio balletto, vuoi?». Io dissi qualcosa di gentile, anche se mi sembrava che assistere ad un balletto classico fosse un cedimento, una cosa da ricchi.

 

Ma l’invito non arrivò mai.

Giunse, invece, l’autunno e con esso le lezioni liceali sulle rarefatte, inarrivabili dame dell’amor fou e dello Stilnovo, e con loro dimenticai cos’era baciare una ragazza che sapeva di alcool. E poi venne giù il Muro. La Democrazia Cristiana cominciò a flettere, mio padre perse le elezioni e poi tutto cambiò e smise di filare liscio. E Lana? Mi vergognavo a chiedere di lei. Un giorno colsi al volo una discussione fra mio padre e mia madre: dicevano che «il senatore» era un uomo distrutto, con quella figlia fuggita in quel posto di Zurigo. Intuii stessero parlando di Platspitz, quello che nonna Regina chiamava con ribrezzo «il parco dei drogati», ogni volta che mi metteva in guardia dagli amici che bucavano scuola per andare in Svizzera a comprare sigarette. Nelle mie fantasie salvifiche immaginavo di cercare Lana, tirarla fuori di lì e portarla al sicuro, afferrandola una volta ancora per la vita esile, i suoi seni bagnati che aderivano al mio corpo di sedicenne. Ma tutte le mie fantasie salvifiche duravano una stagione, come i balbettii del mio cuore.

Un giorno, però, passando per la Casa del Disco a Varese, entrai e acquistai Les Biches di Poulenc. Tornai a casa e, ascoltando il tripudio di note che folleggiavano nel magma dei sogni e dell’euforia tardoestiva, immaginai Lana come una cerbiatta che volteggiava, con i suoi lombi guizzanti, sulla inesorabile corruzione del mondo, della vita, di tutto.

 

Nel corpo della scrittura < = > Biagio Cepollaro

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di Antonio Sparzani

Biagio Cepollaro – Lingua-1. Dipinto su mdf, cm 40 x 150. Tecnica mista, 2010
Biagio Cepollaro – Lingua-1. Dipinto su mdf, cm 40 x 150. Tecnica mista, 2010

Biagio Cepollaro è assai presente su Nazione Indiana e quindi non ha bisogno di presentazioni, qui e qui, ad esempio, ho pubblicato due interessanti conversazioni con lui.
Ora il sito di Floema pubblica finalmente

Appunti di scena

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Plastico_teatro_big

(un mese fa Piero Sorrentino mi aveva spedito questi appunti. Per problemi miei non ho trovato il modo di pubblicarli, lo faccio ora e mi scuso per il ritardo. G.B.)

di Piero Sorrentino

L’ultimo, animato dibattito sullo stato del teatro, delle sue istituzioni e della critica teatrale risale solamente a qualche settimana fa, quando, al Piccolo di Milano, Luca Ronconi e Franco Cordelli hanno discusso in pubblico sul tema “I critici e i pubblici”.

Alcuni brandelli dei discorsi di quell’incontro milanese sono emersi anche in un altro dibattito, questa volta negli spazi della Fondazione Premio Napoli, nel corso di una conversazione a due tra Franco Cordelli e Andrea Cortellessa, nell’ambito del ciclo “Oligarchie implicite. La lingua morta della democrazia”, a cura di Gennaro Carillo.

Ancorché non cospicui, ricopio qui in forma di appunti sparsi e di note raccolte in corso di ascolto – un testo, dunque, per sua natura frammentario e poco organico, di cui mi scuso – alcune delle considerazioni dette da Franco Cordelli a proposito del teatro, della critica teatrale, dello spazio che le è riservata sui media. Non vaghe e generiche discettazioni sul senso o sull’attualità della critica, di cui abbiamo letto e sentito fino a sazietà, ma un ragionamento basato su esempi concreti e dati pratici che, per vie traverse, conduce ugualmente a faccia a faccia con le questioni che riguardano la legittimità, il senso e le finalità del lavoro culturale.

In Germania esistono circa 390 teatri stabili. In Italia, 18. Dunque, ogni media o piccola provincia tedesca finanzia, con denaro pubblico, istituzioni teatrali, compagnie, maestranze. Da noi, il circuito degli Stabili, oltre che minuscolo, ha creato una situazione pressoché autistica, in cui quei 18 teatri si scambiano vicendevolmente le produzioni, di fatto cancellando completamente dal panorama una massa enorme di compagnie, attori e attrici, registi, drammaturghi che non possono materialmente accedere alla platea degli Stabili, in pratica condannandoli all’oblio.

I direttori dei due principali quotidiani italiani, La Repubblica e Il Corriere della Sera, da qualche tempo in qua  hanno iniziato a non pagare più le trasferte – o, nel migliore dei casi, ne hanno ridotto sensibilmente le quote – ai critici e ai giornalisti culturali. Se c’è da andare da Milano a Castrovillari per assistere a un festival, il biglietto te lo paghi tu. Inoltre, i direttori impongono alle proprie firme di non accettare nemmeno le ospitalità offerte da Festival e teatri (di solito, viaggio, vitto e alloggio anche per più giorni). “È un discorso non del tutto privo di senso – dice Cordelli – Per quel che mi riguarda, non accetto mai le ospitalità dai privati, ma perché non dovrei farlo se a propormelo è un’istituzione pubblica?”

A quanto pare, alla direzione del teatro di Roma andrà Alessandro Gassman, il quale, molto probabilmente, si vedrà costretto a rinunciare, visto che il budget previsto dal Teatro di Roma per il prossimo anno ha subito una decurtazione del 90% dei fondi stanziati appena l’anno prima (fondi, a loro volta, già pesantemente tagliati). Dunque, con qualche spicciolo in cassa, che programmazione si potrà mai attuare?

Morto Franco Quadri, La Repubblica non ha più assegnato il ruolo di critico teatrale di punta a nessun altro. Lo aveva proposto ad Alessandro Baricco, il quale ha declinato l’invito.

Il declino del teatro di regia ha una ricaduta sensibile anche sul lavoro del critico e del recensore. Manca ormai del tutto una regia critica,  una regia che sia anche una critica al testo: il regista è il primo critico del testo che affronta.  La recensione è diventata un mero racconto del testo, ha rinunciato a dire la sua sui moltissimi altri aspetti della messa in scena, perdendo qualsiasi ambizione totalizzante che onori la critica fin nel suo etimo, quello legato a una scelta, a una separazione del grano del buon teatro dall’oglio di quello mediocre

Lo stallo in cui versa la critica teatrale  si misura in maniera palmare con la diminuzione, che ormai  lambisce lo zero, del numero dei critici cui pubblicamente veniva riconosciuta una autorevolezza.  I critici parlano a piccole tribù, piccole comunità, che però a loro volta sono in guerra tra di loro, un insieme che si è sgretolato e la cui parcellizzazione è pienamente riflessa dallo stato della critica. Il discorso critico non passa più sui quotidiani, i quali riservano sempre meno spazio e attenzione al teatro. In Rete ci sono siti e riviste che fanno un buon lavoro, ed esistono buoni e ottimi critici giovani, tra i 30 e i 40 anni (Cordelli fa il nome di Simone Nebbia). 

Il gesto di Marta

5

[La versione francese di questo testo, a cura di Laurent Grisel, appare simultaneamente sul sito amico Remu.net]

di Beatrice Monroy

Non posso continuare. Continuerò.

S. Beckett

Esserci nei luoghi, permette di scrivere letteratura a partire dal tuo luogo e non dall’altro mondo il luogo degli altri, quelli di fuori.

N. Gordimer

Carissima,

mi porto dietro il pensiero di te sulle rocce, sui mari e sulle montagne, quello che mi chiedi è veramente molto difficile. Perché allora noi eravamo ubriachi e, sai bene, quando si è ubriachi poi si ricorda poco. Così ci ho messo circa dieci anni per capire il peso dell’avventura attraversata e per capire, poi, come proprio questa avventura mi abbia permesso di trovare il mio posto nel mondo.

Le occasioni della Reggia di Caserta

3

Musiche di Lamberto Curtoni
Video di Francesco Forlani

Nel parco di Caserta

Dove il cigno crudele
Si liscia e si contorce,
sul pelo dello stagno, tra il fogliame,
si risveglia una sfera, dieci sfere,
una torcia dal fondo, dieci torce,

e un sole si bilancia
a stento nella prim’aria,
su domi verdicupi e globi a sghembo
d’araucaria,

che scioglie come liane
braccia di pietra, allaccia
senza tregua chi passa
e ne sfila dal punto più remoto
radici e stame.

Le nocche delle Madri s’inaspriscono,
cercano il vuoto.

Eugenio Montale, Le occasioni

 

I sette savi

1

di Antonio Sparzani
Melotti sette savi - 7
Entrate dal cancello della villa Belgiojoso Bonaparte, la villa comunale di Milano, in via Palestro, dove una volta ci si sposava, almeno quelli che preferivano il sindaco al sacerdote, proprio di fronte ai Giardini Pubblici; entrate nel giardino in stile romantico e aggirate la villa dall’interno, costeggiando il laghetto. Dalla parte opposta dunque rispetto all’entrata spingete lo sguardo tra gli alberi e gli arbusti, risalite qualche balza di terra e vi trovate davanti ai Sette Savi.
Sono un gruppo omogeneo di sculture che ci ha lasciato Fausto Melotti (Rovereto 1901 ― Milano 1986) che andrebbe forse conosciuto meglio;

. . . con la solerzia languida di dita che controllano l’accordatura di un’arpa . . .

3

Gabriel Garcia Marquez
Gabriel García Márquez: Aracataca (Colombia), 6 marzo 1927 – Città del Messico, 17 aprile 2014.
Incipit de La mala ora, uno dei suoi libri più belli:

Padre Ángel si sollevò con uno sforzo solenne. Si stropicciò le palpebre con le ossa delle mani, scostò la zanzariera di tulle e restò seduto sulla stuoia spelacchiata, assorto per un attimo, il tempo indispensabile per rendersi conto di essere vivo e per ricordare la data e il suo riscontro nel martirologio. “Martedì quattro ottobre” pensò; e disse a voce bassa: «San Francesco d’Assisi».
Si vestì senza lavarsi e senza pregare. Era grande, sanguigno, aveva una pacifica figura di bue mansueto, e si muoveva come un bue, con gesti densi e tristi. Dopo aver corretto l’abbottonatura della tonaca con la solerzia languida di dita che controllano l’accordatura di un’arpa fece scorrere il paletto e aprì la porta del patio. I nardi sotto la pioggia gli fecero ricordare le parole di una canzone.
«”Il mar crescerà con le mie lacrime”» sospirò.
La stanza da letto comunicava con la chiesa mediante un porticato interno bordato di vasi di fiori e rincalzato con mattoni liberi; negli interstizi cominciava a spuntare l’erba d’ottobre. Prima di avviarsi in chiesa, padre Ángel entrò nel gabinetto. Orinò abbondantemente, trattenendo il respiro per non sentire l’intenso odore ammoniacale che gli spremeva le lacrime. Poi uscì nel porticato rammentando: “Mi porterà la barca nei tuoi sogni”. Sulla stretta porticina della chiesa sentì per l’ultima vo1ta il vapore dei nardi.
Dentro c’era cattivo odore. Era una navata lunga, pure rincalzata con mattoni liberi, e con una porta sola sulla piazza. Padre Ángel entrò direttamente nella base del campanile. Vide i pesi dell’orologio a più di un metro sulla sua testa e pensò che c’era corda ancora per una settimana. Le zanzare lo aggredirono. Ne schiacciò una sulla nuca con una manata violenta, e si ripulì la mano sulla corda della campana. Poi sentì, in alto, il rumore viscerale del complicato ingranaggio meccanico, e subito dopo — sordi, profondi — i cinque rintocchi delle cinque dentro il ventre.
Aspettò che l’ultima risonanza svanisse. Allora afferrò la corda con le mani, se l’arrotolò ai polsi e fece suonare i bronzi rotti con una convinzione perentoria. Aveva compiuto 61 anni. L’esercizio delle campane era troppo violento per la sua età, ma aveva sempre suonato messa di persona, e quello sforzo gli riconfortava lo spirito.
Trinidad spinse la porta di strada mentre le campane suonavano, e si diresse verso l’angolo dove la sera prima aveva preparato le trappole per i topi. Trovò qualcosa che le cagionò nello stesso tempo ripugnanza e piacere: un piccolo massacro.
Aprì la prima trappola, afferrò il topo per la coda con l’indice e il pollice, e lo buttò in una scatola di cartone. Padre Ángel finì di aprire la porta sulla piazza.
«Buongiorno, padre» disse Trinidad.
Lui non avvertì la sua bella voce baritonale. La piazza desolata, i mandorli addormentati sotto la pioggia, il paese immobile nell’inconsolabile albeggiare d’ottobre gli provocarono un senso di abbandono. Ma quando si fu abituato al rumore della pioggia intese, in fondo alla piazza, nitido e un po’ irreale, il clarinetto di Pastor. Soltanto allora rispose al buongiorno.
«Pastor non era con quelli della serenata» disse.
«No» confermò Trinidad. Si avvicinò con la scatola di topi morti. «Era di chitarre.»
«Hanno continuato per un paio d’ore con una canzone scema» disse il prete. «”Il mar crescerà con le mie lacrime” Non fa così?»
«E la nuova canzone di Pastor» disse la donna.
Immobile davanti alla porta, il prete era preda di un’affascinazione istantanea. Per molti anni aveva sentito il clarinetto di Pastor, che a due isolati da lì si sedeva a provare, tutti i giorni alle cinque, tenendo lo sgabello inclinato contro il sostegno della sua colombaia. Era il meccanismo del paese che funzionava a perfezione; per prima cosa, i cinque rintocchi delle cinque; poi, il primo tocco della messa, e poi il clarinetto di Pastor, nel patio della sua casa, che purificava con note diafane e articolate l’aria satura di porcheria di colombi.
«La musica è buona» reagì il prete «ma le parole sono sceme. Le parole si possono rovesciare a diritto e a rovescio ed è sempre la stessa cosa: “Mi porteranno i sogni nella barca”.»
Si girò, sorridendo per la sua trovata, e andò ad accendere l’altare. Trinidad lo seguì. Indossava una vestaglia bianca e lunga, con le maniche fino ai polsi, e la fascia di seta azzurra di una congregazione laica. Aveva gli occhi di un nero intenso sotto il nastro ininterrotto delle sopracciglia.
«Sono rimasti qui attorno per tutta la notte» disse il prete.
«Da Margot Ramírez» disse Trinidad, distratta, facendo risonare i topi morti nella scatola. «Ma stanotte c’è stato qualcosa di meglio della serenata.»
Il prete si fermò e le puntò addosso gli occhi di un azzurro silenzioso.
«Che cosa?»
«Pasquinate» disse Trinidad. E si lasciò scappare una risatina nervosa.

Da: Gabriel García Márquez, Opere, a cura di Rosalba Campra, vol. I, trad. it. di Enrico Cicogna, Mondadori, Milano 1987, pp. 387-89. Qui il testo originale.

Soggiorno a Zeewijk

2

di Marino Magliani

(un capitoletto dell’ultimo libro di M. M., “Soggiorno a Zeewijik”, appunto sulla sua cosmica Zeewijik, Amos Editore, ora in uscita)

Cosa fanno gli abitanti di Zeewijk quando non riescono più a essere indipendenti, come succederà tra non molto a Piet?

Il luogo si chiama bejaarden huis. Ce ne sono almeno tre. Sono a rotazione, anch’essi, come ogni cosa di Zeewijk: ora costruiscono il ricovero in un posto e fra vent’anni in un altro. In questo modo, l’abitante di Zeewijk non riesce mai a identificarsi con un luogo, ma solo con l’idea di un ricovero. Questa destinazione vagamente ignota mette addosso una certa apprensione, si passeggia tra le costellazioni e si indaga, sarà qui sulla piazzetta dell’Acquarius, sarà in cima alla Pegasus?

Di solito questi ricoveri sono molto ben curati, un giardino minuscolo di modo che l’anziano non fatichi, giusto l’angolino di verde “privato”, un premio alla carriera, e la vetrata dalla quale guardare il passaggio della vita. I vecchi dei bejaarden huis sono sereni, possiedono il loro monolocale e là dentro hanno tutto: l’infermiera che passa a sorvegliare, la cucina, il bagno con le maniglie alle quali appoggiarsi, e persino la vista sui ciliegi in fiore.

Li trovo a giugno, seduti sulla sedia di plastica, fuori, alla brezza nordica. Sembra che controllino le ciliegie verdi e raggrinzite, in attesa che maturino, ma non maturano mai perché siamo in Olanda e i vecchi lo sanno. Chissà cosa pensano questi vecchi.

Forse, ci ha ragionato Piet, è come da voi in Liguria, là, in quel posto dove sei nato, che era un ospedale e dove ora la gente anziana seduta sulle sedie bianche guarda con un po’ di desiderio i grappoloni di datteri che non maturano mai.

Non lo so, ho detto a Piet. Non gli parlo mai troppo volentieri o a lungo dell’idea di un ricovero. Non sono la persona adatta, lo confesso, discorrere di un inizio e della fine mi confonde. Vorrei vedere voi se foste nati in un posto che ora ospita il tramonto.

 

Motus. Nella Tempesta

0

di Areta Gambaro

Teatro Valle
3-4-5 aprile 2014
uno spettacolo di Motus 2011>2068 AnimalePolitico Project
ideazione e regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
con Silvia Calderoni, Glen Çaçi, Ilenia Caleo, Fortunato Leccese, Paola Stella Minni
drammaturgia Daniela Nicolò.

Sei poesie

8

di Daniele Bellomi

Da Ripartizione della volta, Cierre Grafica / Collana Opera Prima, 2013.

bellomi_ripartizione_della_volta

da novae

potrei restare lontano dal luogo dell’osservazione, non farne mai più
parola per la parte in ombra con nessuno, valutare le distanze con occhi
abituati all’ipotetica esplosione, precedere come si procede fra variabili
e cautele, prossimità al collasso, ripassando il bordo già combusto
di ogni cosa vista e che si vive, simularne il pianto accelerato,
il suono ad ogni suo intervallo: guardo però a cosa rimane, se non ho
più nulla da ricordare oltre al rilascio di vestiti che sanno
solo di ciò che è ieri e che non torna, che sono lontani, sempre,
non riuscendo a variare il moto, il centro del battito, il ritmo
di ogni superficie, l’idea di corrispondere alle cose che si fanno
con le mani, quando è il caos a fare parte di parole indotte,
imposte dall’ambiente, dette o magari percepite,
appena ribattute sulla pellicola del mondo.

*

ìndico la causa del fenomeno, penso a ciò che non potrai più vedere
o salvare nella memoria docile degli altri, tenuta a parte, radente
al solco che non resta sul periodo corto degli anni che dimentichi
come si fa con tutto almeno una volta nell’esistere, riattivati al tatto
di una luce che arriva se percorre la materia, raggiunge terra,
urta la percezione esposta al flusso dei rovesci e degli incroci,
marea che scatta al suo passante, lo scavalca mentre varca il limbo
delle icone, il magnetismo di tutto ciò che si attraversa: indìco
cause e prove, fissazioni, tento di capire se è qui ed ora il lembo
del transito o se è il cervello la massa organizzata di quel no,
non posso, mi dispiace, l’impressione dell’ombra che fa muro
contro muro alla distanza, la scelta di una media percorrenza:
siamo ancora da spostare fuori dallo scoppio se interviene
in noi lo scavo, l’estensione chiusa e muta dentro l’orbita.

*

troverò sempre violenta l’idea di avere nomi, tirarli dietro come fossero
trofei per miste associazioni, in nervi, a fasci, setti e alloggiamenti,
pensando siano altro e non segnali di esistenza, se poi da questi
nascono germogli, sostanze inerti, ombre posteriori, realtà
non regolari e infette per passi traslati da una linea all’altra,
invalidati poi quando decidi che è il caso di riprendersi la vita
nei reticoli di azioni, i lati da cui mandano messaggi gli organismi,
le cellule che riconosci dentro ai fiumi più completi per scalpo
e dismisura, e poi perfetti, si lasciano chiamare dentro oceani
più saturi e volatili, se possono, da un giorno all’altro. col nome
si perde quel vantaggio che si lascia ai vivi, ci si dispone a prendere
oneri e colpe dal genoma, pronti a raggiungere i perduti
nella bocca della bestia, rendersi al vuoto più totale o selettivo:
la pace per come segue, inerte, disarticolata nella luce.

**

indice

gridano alle macchine la loro devozione, poi si danno
forza e foga per motivi di deissi: prendono le parti
indirizzate e poi colpevoli, contratte a generarsi
una sull’altra. la voce che sentono è la tua, costretta
a uscire dai ranghi del muro occidentale, dito che scatta
sul serramento, stando fuori dai legami. sarà tutto domani
e poi, se non risulta, se indicato a mani aperte, confermate.
se tocchi questo muro, se ti tocca di varcarlo tolta l’acqua
nera dalle fenditure sarai parte violenta e presa dentro
o sotto il nervo, base sacrale prima, poi sacra, sternale
di una cosa riparata. un giorno guardi e vedi e guardi
ancora e il giorno appare rivoltato dalla linea infetta
che si muove, che segue la propria veglia in fitte,
arrampicate che sorvolano gli estremi, i varchi sfigurati
nella rete. un giorno guardi e vedi e il giorno si ricorda
della propria lussazione, della luce sotto o dentro
questa curva che diventa il gomito, un bene che si spezza
o che si spezzi e trovi forza per mostrarsi dall’interno,
a tocchi e brani estratti dai fossati, stecchi, mancanze
della voce poi nei sacchi aperti che raccolgono quei resti,
rimasti che saranno frange, poi distratti da altre arcate
in cui rimane questa lingua che si stacca, poi parlata,
dopo, se c’è un dopo, o andata, per davvero, altrove.

** 

da s.n.r.

volta, che contrae la sistole dei nodi, costruita dove
non si può, dove non c’è l’arcosecondo, la recisione
vibrata che scocca dentro non-storie di anni più isolati:
è δια, che si dilata, prova lo iato, che non accenta, stola
che conserva, porta il gesto e il grado in cui si accetta
o rappresenta l’esistente senza uscita, mediato nella scena
di traverso: volta in tre, classe di luce, mappa al secondo
del processo quasi-radiale che portano le strade, quella
di lui e del maggiore, prima fratello, ombra, preposizione,
trovato appena esploso dall’interno, ancora adesso a muro
di ventre rivoltato, nel turno nascosto, che si apparta,
porta il termine, la forza, di distesa che resiste mentre
muove, radente se poi muore, sfiora il corto della lama.
sarà un taglio, a duello se può uccidere, tiro che rimane,
deflusso nel ristretto, sceso, periodico di questa linea
trasversale che ora sversa, resa facile per nota o nell’attesa
che ora apre, volta sola per non deflagrare, che accade
nel mezzo della chioma, testa che si espande, κομήτης,
che cresce perché rimasta a crudo, denudata, vista da destra,
collapsar, tentata a qualche blocco di distanza, che è sosta,
apertura che si ferma, se è selce o se è da sola, del mare

 *

volta, fase di visione della notte, intersezione nel lungo
della fibra, farsa esatta, modulata, siderale presa al punto
che si sposta verso il centro, struttura propria della nebula,
poi nebbia, calma indebolita, mai pronta a disconoscersi,
sintassi realizzata nelle cose, σύνταξις che mette a prova
il nervo più veloce, associa tutto ciò che porta ad arrow left
momento per chi stacca la materia inerte, suolo percorso,
visto più volte dalla parte del visore; ripartire per contar
i soliti superstiti, conoscere il futuro per attrito, solo modo
che diverge in percezione, l’evento che passa dal bersaglio
al detonare, linea ed energia riaperta in quota, che stalla
e sgrana giorni chiusi in altri giorni, regesti per gli equanti,
epicicli al mezzo delle postazioni. non c’è mira, o quadro
in prova a darsi avvio da solo, invalidando ciò che è vero;
terra che non trema, inverata, ridotta a calibri, cabrata
collimata per come tocca a tutti, quando accade, per quanti
potrebbero chiamarla a riconoscersi nel padre: ordine
preso su di sé, tiro costante e decentrato, ora disposto
ad acquisire tutto, porta che si illumina, rimane, svolta
a cui non essere presenti, nulla che faccia male agli occhi

Amarcord Poétique : Charles Bukowski

2

-1

Nota

di

Alida Airaghi

CHARLES BUKOWSKI –UNA TORRIDA GIORNATA D’AGOSTO – GUANDA -PARMA  2014 –  EURO 14 –  PAGINE 159 – Traduzione di Simona Viciani

 

sto usando questa poesia per riempire lo spazio/ mentre bevo/ il mio ultimo bicchiere di vino//stasera// è stata una serata soddisfacente: ho visto un/ eccellente incontro di pugilato/ prima//messo l’antipulci ai gatti// risposto a due lettere/ scritto quattro poesie./ certe notti scrivo diecinpoesie/ rispondo a sei lettere

 Quale fosse il rilievo che Charles Bukowski attribuiva alla sua attività poetica risulta evidente dai versi citati: scrivere poesie, o lettere, o i racconti che gli venivano sollecitati – e ben retribuiti – da editori di pornografia, gli richiedeva la stessa concentrazione e dedizione che occuparsi dei suoi amati gatti. Ironizzava molto sul suo essere un “grande scrittore americano”, simile a Norman Mailer nei “10 chili in sovrappeso”, e invitato a conferenze in giro per il mondo, quando in realtà si riteneva un poeta mediocre, e commentava sarcasticamente la produzione sua e di altri famosi colleghi:

gli stessi poeti che leggono e/ rileggono negli stessi posti; sono imbarazzato per/ loro e per/ me stesso:/ pensiamo davvero di forgiare la lingua in modo/ più in-/ consueto rispetto alle previsioni della borsa o/ del tempo?// tutte quelle parole – che scriviamo a profusione -/ ancora e ancora – la maggior parte di noi vive vite/ ordinarie e senza coraggio – siamo folli a pensare/ che i nostri/ discorsi siano eccezionali?

 Nessun rispetto per la tradizione letteraria, nemmeno quella classica, che volutamente tendeva a smitizzare:

metto giù Rabelais/ e gli strizzo l’occhio./ questo è quello che gli/ scrittori si fanno/ a vicenda.// al posto suo, mi/ prendo una pastiglia di/ vitamina C.//…Rabelais/ eri un/ ragazzo tanto tanto/ interessante.

Nello stesso modo sbeffeggiava lo stile tradizionale, con i suoi versi smozzicati, interrotti a metà, volutamente prosastici e ignari di maiuscole, sia all’inizio che all’interno delle poesie, quasi a voler sottolineare un polemicamente divertito understatement. Più interessato all’alcol, alle corse dei cavalli, al sesso, alla banalità della vita quotidiana, ai soldi facili, Bukowski esibiva anche rabbiosamente il suo sostanziale e motivato distacco dal mondo artefatto del sogno americano, e la sua assoluta, solidale preferenza per gli emarginati, gli ubriaconi, le puttane, le camere d’albergo, i bar più squallidi.

Be’, copuli e copuli./ lasci la casa di questa e/ vai nella casa di quella e confronti/ copriletto/ salviette del bagno/ televisori/ carta igienica/ e il contenuto dei/ frigoriferi//

 la mia lunga esistenza è sempre stata/ solo questo e niente di/ più//

 non c’era/ altro da/ fare/ se non scopare//

 Vicini ottusi e impiccioni, lavori sopportati a malapena e per poco tempo, riti-doveri-cerimonie borghesi (Natale, Capodanno, servizio militare, tasse, pulizia corporale, civismo farisaico) da rispettare per quieto vivere:

mi scoccio quando mi fotto con le mie stesse mani

se vuoi spedirmi in un inferno anticipato/ costringimi a passare una giornata intera a/ Disneyland.

Gli affetti familiari gli suonavano irrimediabilmente retorici e insopportabili (la moglie querula, la suocera che gli rimproverava le parolacce, un padre detestato che gli aveva rovinato l’infanzia):

i piedi di mio padre puzzavano e aveva il sorriso/ come un/ mucchio di merda di cane.// essere lo stesso sangue di quell’odiato sangue/ rendeva le finestre intollerabili,/ e la musica e i fiori e gli alberi/ brutti.// ma si vive: il suicidio prima dei dieci anni/ è raro.

 Cosa può salvare dallo sconforto, se nemmeno la scrittura offre più scampo?  Forse solo la magia di una “mattina strana”, come quella narrata in una lunga poesia che descrive lo spontaneo e immotivato adunarsi di una folla di uomini davanti a un bar: varia e inconcludente umanità che si ritrova solidale intorno al nulla di un mezzogiorno libero da qualsiasi impegno. Oppure la rara e rivelatrice consapevolezza che al puro esistere bisogna comunque e sempre rimanere grati:

trovi una sedia, ti siedi, accendi un sigaro./ di ritorno da un migliaio di guerre/ guardi fuori da una porta aperta nella notte.// Sibelius suona alla radio./ nulla è stato distrutto./ soffi fumo nella notte nera,/ sfreghi un dito dietro l’orecchio/ sinistro./ ehi bello, in questo momento, sei in cima al/ mondo.

 

 

La stabilità del caos

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di Giacomo Verri

(Un estratto dal nuovo romanzo di Giacomo Verri)

Due alunne di Arturo hanno cercato il loro palpito di notorietà. “Che c’è?” chiede Àlice. “Una cosa. Me l’hanno data a scuola. Ambra e Barbara, dai, quelle che si fanno interrogare lo stesso giorno, sempre insieme”. “E allora?”. “Dicono che hanno fatto un video, lo devo vedere assolutamente. Volevano lo esaminassi con loro, alla fine delle lezioni, ma io…”. “Cosa ne pensi?”.

Il nuovo numero del Semicerchio dedicato a “Poesia del lavoro”

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semicerchio

È da poco disponibile l’ultima, doppia uscita della rivista di poesia comparata Semicerchio, dedicata al tema “Poesia del lavoro”.

La sezione della testata riservata all’Italia, curata da Fabio Zinelli, include un’antologia di 29 poeti chiamati a mandare un loro testo sull’argomento.

L’indice e la prefazione del numero sono leggibili a questo link.

Per chi fosse interessato, una prossima presentazione della monografia – con interventi critici di Niccolò Scaffai, Andrea Sirotti, Fabio Zinelli e Paolo Zublena, e letture poetiche di Franco Buffoni, Giancarlo Majorino, Edoardo Zuccato e Alessandro Broggi – si terrà a Milano giovedì 17 aprile alle ore 18.0o presso la Libreria Popolare di via Tadino 18.

 

Da “Una lunghissima rincorsa”

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Una lunghissima rincorsa - Cover 1   di Jacopo Ramonda
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L’APPARTAMENTO (cut-up n. 155)
.
Quando ne notava una la estirpava, ma di solito si riformava rapidamente, in un altro punto dell’appartamento. Una lotta impari. Ricrescevano come erbacce. Erano ragnatele sottili e perfette, costruite ad alta quota, agli angoli del soffitto. Vibravano per correnti d’aria quasi impercettibili. Come reti, trattenevano la polvere e alcuni dei pensieri sospinti dal calore verso gli strati più alti e rarefatti dell’atmosfera interna alla casa. Da terra erano visibili soltanto in particolari condizioni di luce, quindi piuttosto difficili da individuare durante le pulizie. Talvolta, prima di rimuoverle, Nina ne ammirava la perfezione. Per ragioni imperscrutabili, le sembravano opere incompiute: l’ossatura trasparente di un progetto più ambizioso.

L’arrivo dell’Uomo

1

di Marisa Fasanella

(Le prime pagine di Nina, il romanzo di Marisa Fasanella pubblicato da Editori Internazionali Riuniti, 2014)

nina

L’Uomo arrivò alla città dei due fiumi con la cremagliera delle diciassette e quaranta. I barellieri, quando scese dal treno, si portavano via i restituiti dal fronte sulle lettighe, tra i batticuori patriottici dei soldati, una folla oceanica, e il grido solitario di qualche anarchico irriducibile. Camminava indietro rispetto agli altri e nessuno avrebbe scommesso un pidocchio sui suoi gradi. Indossava una camicia pulita, un cappello di paglia, e aveva l’aria di un viaggiatore qualsiasi. Il suo passo zoppo, in contrasto con la fermezza dello sguardo, finiva col diventare un dettaglio di poco conto. Era più alto della media e sembrava possedere nelle braccia la forza che gli mancava nelle gambe. Attraversò la stazione e seguì i barellieri all’istituto chirurgico, dove era stata allestita una sala operatoria per i feriti più urgenti. Quando si presentò al distretto e dichiarò di essere l’ufficiale medico che aspettavano, il Superiore della compagnia lo guardò serio come un morto e concluse che aveva poco del soldato. Gli assegnò un letto in una camerata grande come una piazza e un cesso in comune, in uno dei convitti requisiti e trasformati in alloggi per un migliaio di soldati afflitti dalla blenorragia dalla diarrea e dalle cimici che per motivi di disciplina e di strategie militari, ignote alle truppe, stazionavano nella città.

Si portava dietro una valigia con la biancheria e due vestiti, pesante e leggero, il baule dove erano custoditi i libri, le lettere di sua madre e i ritratti di famiglia, un sacchetto di cuoio con la sabbia del deserto e delle vecchie pianelle di almeno tre numeri più piccole.

Il Superiore lo ragguagliò sui comportamenti che un ufficiale era tenuto a osservare, soprattutto in tempi di guerra e in una città che si era mostrata sin da subito ostile. “Un buon soldato gira armato, indossa l’uniforme e si presenta al comandante del distretto” gli disse. “Non si lasci abbindolare dalla folla che ha visto alla stazione, ci caccerebbero via a pedate, se potessero”.

L’Uomo gli rispose che amputare arti e sbrogliare viscere mal si adattavano alla costipazione di una divisa e in quanto ai rivoltosi, se avessero deciso di tendergli un’imboscata, di sicuro non li avrebbe fermati una giubba con le stelle appuntate sul bavero. Si sarebbe cercato un alloggio e avrebbe denunciato le miserevoli condizioni di vita dei soldati: in quell’ambiente ce n’era abbastanza per un’epidemia di colera, con tutti quei germi che galleggiavano nei cessi, i pidocchi e le divise lerce.

Il Superiore, quand’era fresco di studi, aveva partorito egli stesso un seme di rivolta, e sapeva come domarlo. “Accetterà come tutti gli altri quello che non potrà cambiare” gli disse, e lo lasciò al suo periplo.

L’Uomo si affacciò alla balaustra del balcone e lo seguì con lo sguardo nella piazza, dove si scaricavano discese e gradinate come lavine e le donne richiamavano dalla strada i figli svogliati e magri come chiodi e le porte delle botteghe si richiudevano sulla mercanzia. Gli mancò il letto della sposa bambina, morta il giorno dopo le nozze per il morso di una scarpa che le piagò il calcagno e nessuno curò a causa dei ricevimenti che prima della cerimonia nuziale erano andati avanti per giorni fino all’alba.

Gli venne in mente la biblioteca di suo padre e le cosce umide delle serve che lo avevano liberato dal piacere solitario. Un esercito disfatto invase l’edificio come uno sciame d’api e si riversò nelle camere in silenzio sui materassi fradici di sudori raffermi senza spogliarsi.

La caffetteria alle spalle della chiesa madre serviva ancora un goccio di rosolio e un caffè allungato agli ultimi clienti della notte: redattori e copisti che aspettavano la pagina del giornale ancora in stampa e commentavano le notizie. L’Uomo ordinò una tazza di acqua bollente dove sciolse una punta di tè, poi accese un mezzo sigaro e ascoltò i loro discorsi. Discutevano della necessità di chiudere le porte ai mendicanti, venivano dai paesi vicini e si azzuffavano agli angoli delle strade invocando il domicilio di soccorso.

Il proprietario del caffè si avvicinò al suo tavolo per dirgli che non avrebbe servito altro e l’Uomo gli chiese dove poter trovare un alloggio. “Ne ho necessità” aggiunse.

“E tu a me lo vieni a chiedere? Dopo che le autorità si sono accollate il peso di alloggiarvi persino nelle scuole e pure nei convitti, e gli studenti non trovano ricetto e finiscono nei ricoveri delle puttane pronte a sverginarli per pochi spiccioli”.

“Sono un medico” affermò.

“Ma pure un soldato”.

[…]

Aveva scelto quel mestiere per obbligo verso il barone suo padre, militare di carriera prima di lui e dopo suo nonno, e lo aveva umanizzato con gli studi di medicina. Leggeva Marx con la complicità di sua madre, suonava Strauss e amava la poesia. Unico figlio maschio, nato dopo cinque femmine, era cresciuto tra le sottane delle donne, ma aveva anche camminato scalzo e si era sporcato di fango con i figli dei coloni, conosceva i sudori acidi della terra rivoltata di fresco, le braccia nerborute doloranti per il peso delle vanghe che scavavano buche profonde come pignatte. Il barone suo padre, quando era tornato a riprendersi la proprietà e si era messo a complottare con i braccianti riformisti, lo aveva esiliato in un convitto riservato ai figli dei militari, dove forgiavano i futuri allievi delle accademie, e l’obbedienza alle regole era diventata il suo rosario quotidiano, una violenza che era riuscito ad arginare con i libri e la scrittura. Leggeva alla luce di mozziconi di candele e scriveva lunghe lettere alla madre. Il suo futuro era stato già deciso, e il giorno che era tornato a chiedere il permesso di studiare medicina, il barone aveva ceduto solo dopo la promessa di dismettere gli abiti civili e di non avanzare pretese sul patrimonio di famiglia.

La moglie bambina l’aveva conosciuta durante una delle sue brevi visite alla famiglia, era la figlia del guardacaccia e abitava in uno degli alloggi della servitù. D’estate quelle casette diventa vano un forno e le donne cercavano sollievo dalla calura nei corsi d’acqua annegandoci con tutte le sottane. Durante l’inverno sbattevano i denti anche col fuoco acceso. L’Uomo l’aveva vista la prima volta curva sotto un fascio di legni secchi, un metro e una noce di ossa e pelle bianca ammantata di capelli corvini, e aveva deciso di sollevarla da quei pesi.

L’annuncio del suo matrimonio aveva colpito il barone come una frustata, sradicò l’albero più bello del giardino, una magnolia di duecento anni che aveva abdicato alla vecchiaia e partoriva ancora fiori candidi e profumati, e al suo posto piantò sette cactus. Gli disse che non gli sarebbe bastato il gineceo di un sultano per sollevare dalla povertà le donne bambine che si prostituivano ai lati delle strade, o che morivano di stenti nei sobborghi della città: “Lì c’era la vera miseria, non qui, dove il medico viene a visitarle e hanno pane a sufficienza”.

Il matrimonio fu celebrato nella cappella della residenza, ma il barone non si presentò. C’erano circa duecento invitati tra nobili e meno nobili, e una folla di poveri che si accalcò già dalle prime ore del mattino sul piazzale antistante il palazzo per godersi la rappresentazione di una favola destinata all’eternità. La moglie bambina durò un solo giorno. I suoi piedi si erano dilatati nelle pianelle che le costruiva il padre con cuoio riciclato e senza nervature. Quando glieli chiusero nelle scarpe di pelle nuova di capretto non riusciva a muoverli e camminava sulle punte, provvisoria come una foglia secca. Il calcagno si coprì di pustole purulente e provò un dolore più forte della povertà, ma non trovò il coraggio di lamentarsi e la sepsi se la portò via prima dell’alba. C’erano già i fiori bianchi del matrimonio e i confetti che le serve avevano raccolto dai gradoni della chiesa, e l’accompagnarono al camposanto ancora vergine.

La seppellirono nella tomba di famiglia, e il titolo di nobildonna consolò il guardacaccia, che ritornò a mangiare zuppa di cicoria annegata di lacrime, a cacciare lepri e fagiani per il padrone e a sorvegliare i limiti della proprietà altrui. Il barone, per ingraziarsi i coloni, dispose che le venissero resi gli onori riservati alle persone di famiglia, listò a nero il portone e ordinò al prete le messe perpetue per salvarle l’anima, ma il corteo funebre si disperse come un nugolo di vespe quando apparve dietro il feretro.

Da “Sibber”

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Cover.Sibber.per.11.04.14.wn di Walter Nardon

 1.

            Questa non è una storia come tutte le altre. Non lo è perché io mi butto via ogni giorno e la storia l’ho cominciata proprio adesso. Quindi, almeno questo lo posso assicurare. Mi butto via in modo sistematico, un po’ alla volta. Apro il giornale, guardo le immagini, i titoli, il taglio della pagina, l’insieme come un’unica immagine. Mi alzo, mi muovo per la stanza: passo molte ore alla finestra. E andrei avanti sempre così, se fossi coerente, se solo ogni tanto non mi facessi prendere la mano dallo studio, che è rimasto la mia ultima risorsa.