Home Blog Pagina 247

Quattro poesie

10

di Matteo Fantuzzi

Da La stazione di Bologna, inedito.

strage di bologna

Questi testi sono dedicati a tutti quelli
che si trovavano a Bologna il giorno della strage.
Tutti tranne alcuni.

 

scoppia una bomba
nel cuore di Bologna.
due agosto ottanta
Se dalla Piazza ti incammini e prendi i portici
del centro e riesci a superare in un sol colpo
quella folla, i saldi, le vetrine, i tavolini delle firme,
se riesci a non fermarti davanti a quel barbone
inginocchiato a mo' di Cristo che chiede
le monete e prega tutti per i soldi, se ad un tratto
ti fai forza e inizi a correre smettendo di vedere
altrove ti troverai d'un tratto alla sinistra
il luogo steso a gambe aperte e in mezzo la ferita
che ancora accenna, che ricorda il giorno
in cui la gente stata tutta uguale per una volta,
                                                   e solo quella.
Tutti comunisti, preti. Tutti bolognesi. 

nei giorni successivi i taxi sono gratis per i parenti
delle vittime ricoverate dentro gli ospedali cittadini.

Come un padre che scava solo e a mani nude
un figlio fino a sanguinare e che non smette
se lo getta addosso e non lo lascia,
carne della carne, pure se una gamba resta
sotto le macerie e Marco non potrà più essere
mezz’ala e correre veloce sotto la tribuna,
oppure tra i distinti laterali proprio dove stanno
spesso i famigliari che applaudono comunque
qualsiasi cosa accada, perfino dopo una sconfitta:
come fa chi aspetta a casa con il fuoco caldo
sotto la minestra e che comunque resta.

L’esplosione della stazione coinvolse non solo le strutture della sala d’attesa ma anche i sovrastanti uffici amministrativi della Cigar. Euridia, Katia, Nilla, Rita, Franca e Mirella morirono nel crollo della struttura.

Crollano le travi, cadono le pietre e i calcinacci,
vola via l’età dell’innocenza ormai tradita
dalle cose, qui tutto ricordo: ogni palazzo,
strada, parco, ogni momento ha una sua storia
che preme ed urge come l’esigenza di memoria.
Di qua c’è un corpo immobile che cerca
ossigeno tra i cocci, alla sua destra
si intravede appena un piede senza scarpa,
un uomo grida e cerca la sorella, un altro
piange. Un padre copre con il corpo i figli,
li abbraccia come alla mattina si proteggono
dagli incubi, dai mostri che in fondo al sonno
vengono e devastano. È quotidiana questa strategia
della tensione, non abbandona mai davvero.

Da Bologna quella mattina buona parte dei treni sarebbero dovuti giungere in Romagna per il periodo estivo, lo stesso percorso che ho fatto anch’io definitivamente oramai da diversi anni.

Qui sarebbero arrivati
tra le zanzare mai addomesticate,
gli ombrelloni colorati, il caldo
le piadine, i padelloni
il pesce arrosto sulla griglia.
Sarebbero arrivati da queste parti
che un poco come stare dentro a una famiglia
con la zia un po’ matta, la cuginetta che si tira
su la gonna, qualche nonna
che prepara il sugo all’ombra della casa
e i padri sempre in giro a fare danni,
a bere forte, a bestemmiare gli uomini
e il governo che non apre pigli armadi
se ne resta sempre zitto come che non fosse
mai successo nulla, come se i cadaveri
ottenessero dei pesi differenti
sulla bilancia consumata della storia.

Il sole dell’avvenire, di Valerio Evangelisti

2

evangelisti2

di Andrea Sperelli

Semplificando, ci sono tre elementi principali nell’ultimo libro di Valerio Evangelisti: 1) i movimenti rivoluzionari di fine Ottocento, nati e cresciuti sull’onda lunga della Comune di Parigi e dei moti garibaldini; 2) la repressione dei governi monarchici filoliberisti (anche allora!), la violenza del potere schierato con le classi dominanti: violenza istituzionale, esercitata con leggi che vietano persino l’esibizione di una pochette rossa, o di fischiettare un motivetto “sovversivo”, e quella ottusa dei loro cani da guardia, gli “sbirri” che sparano sui disoccupati che reclamano pane e lavoro; 3) le storie romanzesche di tre personaggi portanti, le loro speranze, la loro miseria, la loro oppressione individuale e sociale.

Con tale premessa qualcuno potrebbe temere una poderosa opera ibrida, un mix didascalico di storia, saggistica e narrativa, quest’ultima posta su un piano accessorio. Di servizio per così dire, pertinenziale alla narrazione oggettiva degli eventi epocali.

Non è così. L’abilità di Evangelisti sta proprio nella fusione dei meta-argomenti nel racconto e nella scrittura. Con la nostra semplificazione potremmo suddividere l’opera in tre pesature: 15% storia/analisi dei movimenti operai, 15% rappresentazione del potere reazionario e bigotto, 70% storie romanzesche. Sono queste che “tirano”, che creano la tensione narrativa, ospitando sullo sfondo piccoli e grandi personaggi storici: Andrea Costa, i socialisti e gli anarchici romagnoli, nomi che vediamo scritti sulle targhette delle strade, Nullo Baldini, Gaetano Zirardini, Filippo Turati, Bakunin. E il racconto è avvincente, appassionante. Forse perché l’ideologia sembra assente, oppure è riscattata dalle vite semplici dei protagonisti, che sono spinti da bisogni primari, o primitivi: procurarsi un lavoro, uno qualsiasi, scarriolante, bracciante, facchino, garzone, pescatore. Il fine è il cibo, il vestiario, un tetto sulla testa. Bisogni che un potere ingordo e avido nega loro, rubando anche le briciole e gli stracci. E vietando non solo di protestare per la loro miseranda condizione, ma di esistere: vietato mendicare, discutere, chiedere il pane. Vietato cantare. Vietato riunirsi per discutere. Pena l’arresto, i pestaggi, la rovina economica, fino alla morte, coi soldati che sparano sulla folla addirittura col cannone, come avvenne a Milano nel 1898, dove ci furono più di ottanta morti e 500 feriti.

In questo scenario si dipanano le storie personali e famigliari dei tre protagonisti: il ravennate Attilio “Tiglio” Verardi, ex garibaldino che ha combattuto a Digione nel 1870, quando il generale era intervenuto coi volontari in camicia rossa in sostegno della Repubblica, contro i prussiani. Tiglio è un romagnolo purosangue, impulsivo, un po’ confusionario (o confuso), generoso. Non è escluso che sia anche un “contaballe”, perché, come ha detto lo stesso Evangelisti, se “il carattere romagnolo esiste”, la romagnolità è anche farla “grossa”, contarla da “sburoni”. Tiglio si arrangia con lavori saltuari, bracciante perlopiù, lavori che talvolta perde perché le opere pubbliche scarseggiano, o i padroni licenziano, oppure combina qualche guaio. E’ fidanzato con Rosa, che proviene da una famiglia di mezzadri, i contadini che vivono isolati nelle case coloniche, lavorando come animali per soddisfare l’esosità dei padroni. Benché sfruttati, derubati, umiliati, difendono il sistema contro i socialisti e i collettivisti, perché la mezzadria rappresenta “l’unione tra capitale e lavoro”. Oltre a Tiglio, Evangelisti crea dei grandi personaggi letterari, come il fratello di Rosa, il terribile “azdor” repubblicano antisocialista, reazionario e al contempo mangiapreti, violento quanto spaventato di fronte al padrone che lo ricatta, lo insulta; cambia persino voce, piega la schiena, perché ha paura; non tanto per sé, ma per la famiglia che deve mantenere. Tiglio e Rosa vanno a vivere in una stamberga a Ravenna, dove nasce il figlioletto Canzio (dal cognome di un generale garibaldino). Tiglio per sbarcare il lunario va a lavorare alla bonifica dell’agro romano, e qui lo perdiamo, perché il racconto ha una virata. Ora tocca a Rosa. E’ lei che riceve il testimone del racconto. E’ una donna timida, sola, spaventata. Per certi versi è irritante, perché torna a casa, nel podere a mezzadria, a vivere la sua condizione di donna che non può neanche mangiare a tavola con gli uomini (le donne mangiavano nel portico, o sulla porta). Continuano i sacrifici, le umiliazioni, la paura, con le incursioni del padrone ladro, sullo sfondo dei moti operai repressi dalla sbirraglia, i militanti arrestati, ricercati.

Come Canzio, che cresce solitario e scontroso occupandosi delle bestie, dormendo nella stalla. Canzio adora il padre, del quale mitizza il passato garibaldino, ma è costretto a seguire la madre, per una sentenza del tribunale. E’ lui ora, ragazzino appena tredicenne, già clandestino perché ha messo fuori combattimento il padrone-vampiro dalle buone maniere, a condurre la terza parte del romanzo. Cerca il padre, che nel frattempo si è ammalato nelle paludi mefitiche, si sposta da Ravenna a Bologna, protetto dalla rete dei socialisti rivoluzionari, lavorando come fattorino negli alberghi, o come tuttofare nella tenuta agricola di un possidente socialista. E’ un personaggio vitale, un ribelle adolescente, che chiude il triangolo formato dall’esuberante ma al contempo confuso Tiglio, e dalla sottomessa, ma tenace, Rosa.

Evangelisti riesce a calare il lettore nella Romagna di quegli anni terribili, anni di sfruttamento, di miseria, di sconfitte, ma anche di lotte senza quartiere, di speranze e di progetti. Non si permette mai filippiche o tirate ideologiche. I linguaggi sono semplici, anche quando si discute di strategia politica, nell’eterno conflitto anarchici-socialisti rivoluzionari. Tra le parole serpeggia l’amore per i personaggi, qua e là una sottile ironia, un’attenzione per i caratteri e i linguaggi romagnoli, che dimostra di conoscere a fondo (ha avuto la madre romagnola). E anche rabbia e indignazione, benché non si abbandoni mai a sfoghi, ma la lasci viaggiare per così dire in incognito, nella cronaca spietata delle violenze e dei saccheggi che sono costretti a subire gli ultimi degli ultimi, da parte di quei volgari ladri di polli che sono i padroni dalle belle braghe bianche e dei loro eserciti di sbirri assassini.

Valerio Evangelisti
Il sol dell’avvenire
Mondadori Strade Blu 2013, pagg. 540

Un avventuriero a Palazzo Chigi

19

[Articolo apparso sul sito Dinamo-press il 19 febbraio]

di Augusto Illuminati

Ha ragione Fabrizio Barca a dire che nel programma di Renzi ci sono slogan e niente idee e che il tutto è pericolosamente avventurista, al punto da scatenare sentimenti di angoscia in un onesto riformista, di tradizione Pd(s) e liberista moderato.

Il modo in cui Renzi si sta installando al potere (vedremo a breve gli esiti) non è irrilevante ed entra in singolare contraddizione non solo con le sue promesse precedenti (vizio “normale”) ma –e più grave– con le aspettative di cui si era nutrita la sua resistibile ascesa.

Un rapporto a metà

0

[Un passo tratto dal romanzo inedito Memorie di un rivoluzionario timido. Anche qui. E qui.]

di Carlo Bordini

mi ricordo quando andai al funerale della madre di Seb, era morta due giorni prima. Era estate. Ci andai con B. arrivammo in questo estremo quartiere di periferia, in mezzo al verde, dove c’erano le case che gli operai si erano costruiti con le loro stesse mani e che erano state sostituite da grandi palazzi medio-borghesi (o forse mi sbaglio, forse semplicemente la famiglia di seb si era trasferita da una casa costruita con le proprie mani in una casa medio borghese) il padre di seb faceva l’operaio del gas, ma non era neanche medio borghese, c’erano case che sembravano medio borghesi, e arrivammo e c’era una marea di gente che saliva e scendeva per quelle strette scale, sembrava qualcosa come un pic nic, tutti che salivano, e c’era quella confusione, il caldo, il padre di seb ripeteva che disgrazia che disgrazia.

Quattro frammenti

1

di Davide Orecchio

La mia specialità sono i gospel iposonici. Sono tristissimi, bellissimi. Ma nessuno se ne accorge; sono gospel iposonici.

*

Overbooking: Francesco Trento

0

1898077_10151953720361918_298225747_n
In occasione della presentazione “torinese” del bel libro di Francesco Trento La guerra non era finita, I partigiani della Volante Rossa (Editori Laterza) ho chiesto all’autore di darci un’anticipazione per Nazione Indiana. Pubblichiamo qui di seguito le pagine dedicate ai convulsi giorni che seguirono l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. effeffe

dal capitolo La rivoluzione mancata
di
Francesco Trento

“Tornate a casa”

La notte del 15 luglio la Volante Rossa è all’Innocenti, assieme a duecento operai. Lì giungono notizie su quanto sta accadendo a Torino, a Genova e nelle altre città: “Allora”, ricorda ancora C., “ci siamo riuniti per decidere cosa dovevamo fare. Se attendere o iniziare immediatamente il movimento di trasformazione della lotta in lotta armata”
Secondo il piano predisposto il giorno precedente, il 16 luglio la Volante Rossa decide di attaccare la più importante caserma dei carabinieri della città, quella dove sono tutti i mezzi corazzati.

La Volante Rossa era quel giorno al completo, una cinquantina di uomini. Coi panzerfaust chi ci fermava? Distruggevamo mezza caserma. […] Chi poteva tenere in una lotta a Milano erano i mezzi corazzati e noi ci eravamo attrezzati per batterli. Partiti noi, sarebbero poi partiti tutti gli altri. Comunicato che partivamo, erano già partite le staffette in direzione dei diversi centri della città

L’ora X sembra dunque arrivata: un camion carico di partigiani si dirige verso la caserma dei carabinieri. Le staffette avvisano la Federazione milanese del partito: minuti di caos puro. Che fare?

12034_orig

Dalla Federazione parte immediatamente una macchina, ma intanto i partigiani sono in marcia. L’auto del Pci corre, mentre il Dodge, lasciata la Casa del Popolo, supera Lambrate e arriva al Campo Giuriati. Proprio lì la vettura della Federazione riesce finalmente a intercettare l’autocarro. A bordo, secondo la testimonianza di Finardi, c’è proprio Alberganti. Dice agli uomini di Paggio che non è il momento: gli americani interverrebbero, si finirebbe come in Grecia Lo sciopero è finito, bisogna rientrare. Il dirigente comunista è inamovibile. Guarda il camion carico di armi e scuote la testa: “Ma siete pazzi a girare con tutti questi esplosivi? Potreste saltare in aria da un momento all’altro. Tornate a casa”
La Volante Rossa obbedisce, non senza rimpianti: “Se arrivava cinque minuti dopo”, ricorda C., “Milano era un fuoco solo” Certo, l’assalto alla caserma non coinvolge solo gli uomini di Paggio, ed è anzi assai plausibile ipotizzare un piano comune, concordato con altre forze armate collegate al partito, con altre “organizzazioni paramilitari”.

Anche perché, nonostante il ricordo dell’anonimo testimone di Bermani, sul camion quel giorno la Volante non è assolutamente al completo. Walter Fasoli ad esempio, non ricorda l’intenzione di attaccare i carabinieri , e nemmeno Leonardo Banfi:

No, no. Assolutamente. I carabinieri si erano rinserrati nella caserma, ma non abbiamo mai pensato di… la preoccupazione principale è stata quella di occupare le fabbriche a Lambrate. Di piazzare sulla pensilina dell’Innocenti la mitraglia, questo è vero. Infatti c’era la camionetta della polizia che girava per Lambrate per verificare cosa succedeva: fu accolta da una raffica di mitra, rientrarono in caserma e si chiusero dentro. Ma noi restammo lì. Restammo lì.

Banfi e Fasoli non sono i soli della Volante a rimanere dentro l’Innocenti occupata, quella mattina del 16 luglio. Tuttavia anche Sante Marchesi ricorda l’intervento della staffetta:

eravamo in 30 sul camion… ma eran più le armi che noi… poi è arrivato il compagno Alberganti: “basta, lo sciopero è finito, tornate a casa”…

Le parole di C. sembrano abbastanza chiare: “partiti noi, sarebbero poi partiti tutti gli altri” (le “non meno di trecento persone” e i “molti armati” di cui C. parlava in un altro passaggio). Paolo Finardi (“Pastecca”) ricorda ad esempio che quel giorno con la Volante ci sono “molti gruppi. Il più grosso era quello della Breda di San Giovanni” .
La testimonianza di Arnaldo Cambiaghi, responsabile della Commissione dei Giovani comunisti alla Pirelli, conferma le parole di Finardi:

Guarda che la miriade di gruppi ce n’erano tanti. […] Io per esempio ero armato lì alla Pirelli, durante l’attentato a Togliatti, e siamo riusciti a tenere la maggioranza dei lavoratori dentro. […] E noi abbiamo detto al partito: “assaltiamo le caserme della polizia!”. C’è stata questa proposta: andiamo là, occupiamo, prendiamo le armi e prepariamoci per, non dico l’insurrezione, ma la resistenza. Ma i dirigenti massimi han detto: no… Alla Pirelli va poi Giancarlo Pajetta, per convincere gli operai a smettere l’occupazione e tornare al lavoro

12033_orig

Dal 15 luglio, in effetti, il Pci è all’opera per sedare la rivolta. Al di là delle motivazioni di facciata, legate alla fedeltà del partito alle istituzioni repubblicane e all’“impegno democratico assunto con l’approvazione della Costituzione” , la molla principale di tale scelta è rintracciabile in un sano realismo. Pietro Secchia, poco dopo l’attentato, aveva già espresso i suoi dubbi sulla riuscita di un’eventuale azione di forza: “L’America certamente interverrebbe: primo perché ha da noi le sue basi, secondo perché non le mancherebbe una giustificazione politica. Non dimenticate compagni che siamo a soli due mesi e mezzo dalle elezioni che hanno dato una maggioranza assoluta al governo” Il pomeriggio del 15, tra l’altro, ci si rende conto che lo sciopero generale sta fallendo. Dai telegrammi dei prefetti, scrive Walter Tobagi, emerge, oltre all’“Italia che sciopera”, una “seconda Italia”:

è “l’Italia che non sciopera”, vuoi per indifferenza, vuoi per convinzione politica; e sono milioni di persone, quasi intere regioni […] che non scendono in piazza, però costituiscono quel potenziale di riserva, che ha garantito alla Dc il trionfo del 18 aprile.
E questa “seconda Italia” […] è strettamente collegata ad una “terza Italia”, l’“Italia dell’ordine pubblico”, dai prefetti fino al carabiniere del più sperduto paesino di campagna. Anche questa Italia fa sentire il suo peso sociale e politico: […] è convinta di battersi per una causa che sente giusta; e perciò interviene con la stessa, durissima decisione per rimuovere un blocco stradale come per garantire la libertà di lavoro.

L’ala sindacale democristiana, inoltre, di fronte al protrarsi dello sciopero, minaccia la scissione . Non c’è più scelta: nemmeno l’obiettivo delle dimissioni del governo è più raggiungibile senza arrivare a uno scontro frontale. Secchia, nel Comitato centrale del 15 luglio, mette in guardia i compagni meno convinti: l’Italia del Sud non si è mossa, in alcune città non si è riusciti a fare nemmeno un comizio, e anche al Nord un’insurrezione avrebbe delle chance di riuscita solo nelle grandi città, mentre le campagne non sono affatto sicure: “i compagni riflettano: per ora né la polizia né l’esercito sono intervenuti, se lo faranno disporranno di cannoni e carri armati contro cui non si potrà resistere”.

Non bisogna fare grandi sforzi di immaginazione per prevedere un simile scenario: nella vicina Grecia, i partigiani sono tornati sui monti nel 1946, ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno appoggiato la monarchia, sostenendola in una feroce guerra civile. Inoltre, se anche vi fossero mai stati piani d’appoggio a una rivoluzione italiana da parte dell’Urss, ora, consumatosi nel giugno lo scisma nel blocco sovietico con l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, tali piani non sono neanche lontanamente ipotizzabili.
A fugare ogni possibile dubbio, una telefonata dell’ambasciata sovietica proibisce agli italiani ogni tentativo rivoluzionario.
Tutti i maggiori esponenti del Pci si trovano infine d’accordo sulla necessità di evitare la “prospettiva greca”. Inoltre Togliatti sta meglio: l’operazione è andata bene e il leader del Pci si sta rimettendo. La Cgil, sostenuta dal Partito comunista e da quello socialista, dichiara la fine dello sciopero per mezzogiorno del 16 luglio.

Presa la decisione, tutti i dirigenti sono mobilitati per portare la linea del partito nelle fabbriche occupate, nelle piazze incandescenti. I membri della direzione ancora a Roma vengono spediti d’urgenza nelle loro rispettive sedi nei capoluoghi di provincia. Spano corre a Genova. Negarville vola a Torino su un aereo messo a disposizione dalla Fiat, per trattare il rilascio di Valletta. È un compito non facile, quello che aspetta i dirigenti: bisogna convincere i militanti a smantellare le barricate, togliere i blocchi stradali, liberare gli ostaggi e tornare ordinatamente al lavoro. Ed è un compito ingrato: a Milano, piazza particolarmente calda, è quasi impossibile farsi ascoltare dai militanti. Ricorda Luciano Gruppi:

Dovevamo dire: “attenti, compagni, questo è uno sciopero politico, che ha come obiettivo le dimissioni del governo. Questo e niente più di questo. Attenti! Non siamo alla vigilia dell’insurrezione”. Andai nella mia sezione, quella di Porta Volta. I compagni accolsero le mie parole piuttosto freddamente.

Raffaele De Grada, di fronte agli operai infuriati che gli impediscono di portare le direttive del partito, è costretto a mettere sul tavolo la pistola e a ricorrere alla sua autorità di ex comandante partigiano. Infine, però, anche i compagni più riottosi vengono convinti: lo sciopero termina senza aver raggiunto alcun obiettivo.

volanterossa2

Tuttavia, nota Bocca, “privato del capo a cui si rivolge per le grandi decisioni, il partito ha perso per qualche ora l’orientamento, si è mosso in modo sentimentale, ha lasciato andare, se non allo sbaraglio, allo scoperto, la sua organizzazione paramilitare, ha dimostrato agli italiani che essa non è una invenzione propagandistica di Scelba, ma una realtà”. Anche Leo Valiani si dice certo che “l’apparato armato” del Pci “agì dopo l’attentato a Togliatti del ’48: ma evidentemente allora ricevette un contrordine e tutto rientrò”.
In quest’ottica, probabilmente l’assalto alla caserma dei carabinieri (uno dei punti strategici della città) risponde a un piano preordinato che il Pci o il suo apparato di sicurezza tengono pronto “in caso di bisogno”, e a cui infatti il partito rinuncia non appena diviene chiaro che l’attentato al suo leader non corrisponde a un tentativo di colpo di Stato.

Finita l’agitazione, in ogni caso, cominciano le speculazioni della Dc e dei suoi alleati. La stampa “indipendente”, i settimanali illustrati, la “Settimana Incom” (il cinegiornale dell’epoca) si impegnano subito a fondo nel descrivere con dovizia di particolari il “piano K” dei comunisti, la ferocia degli insorti, l’eroismo delle forze dell’ordine. Nel pomeriggio del 16 luglio, la polizia sbarca in forze ad Abbadia San Salvatore, munita di autoblindo, artiglieria e addirittura di un aereo. A coadiuvare le forze dell’ordine c’è anche un intero reggimento di fanteria, il 78° Lupi di Toscana. Avviene un vero e proprio rastrellamento, casa per casa: la popolazione è selvaggiamente picchiata, mentre la “Settimana Incom” monta un clamoroso falso documentario che mette in cattiva luce i “ribelli del Monte Amiata”.

È solo l’inizio: nei giorni seguenti una campagna serrata da parte dei mezzi di informazione crea terreno fertile per il durissimo intervento del governo. Settemila lavoratori vengono arrestati o denunciati. A Milano finisce in carcere anche il padre di Ferdinando Clerici, l’ex partigiano Edoardo (“Nan”) La repressione antioperaia degli anni a seguire è durissima: tra il luglio 1948 e la prima metà del 1950 si registrano 62 lavoratori uccisi, di cui 48 comunisti; 3.216 feriti, tra cui 2.367 comunisti; 92.169 arrestati, di cui 73.870 comunisti. Pallante, l’attentatore di Togliatti, resterà in carcere meno di sei anni: condannato a 13 anni e 3 mesi in primo grado, a 7 anni in appello, a meno di 6 anni in cassazione.

Volante_Rossaa

Il tramonto del “doppio binario”

Con il no del Pci all’insurrezione, si chiudono i sogni di molti militanti. E tramonta per sempre l’idea, assai diffusa, che il partito si stia muovendo su un “doppio binario”. Il rifiuto di trasformare in rivolta armata lo spontaneo sollevamento della base rivela “alle masse e agli avversari politici la patente contraddizione tra il linguaggio massimalista usato per tenere viva la combattività delle masse e la reale volontà d’azione rivoluzionaria”
La sconfitta elettorale da una parte, e il rifiuto del metodo rivoluzionario dall’altra, precludono al Pci nel breve periodo ogni prospettiva di conquista del potere. Nella base la delusione è cocente: in molti abbandonano il partito o, senza rompere apertamente, si ritirano ai margini della vita politica. Chi ha ancora delle armi nascoste si affretta a sbarazzarsene, per amarezza, o perché vista la nuova ondata repressiva diventa troppo rischioso tenerle. Fucili, mitra, bombe a mano vengono abbandonati in aperta campagna, gettati nei fiumi o nel mare. Per evitare conseguenze giudiziarie, interi depositi sono segnalati alla polizia. Anche la Volante Rossa nasconde le armi: Paggio si reca a casa di Luigi Colnago, in campagna, e vi sotterra una cassa di fucili. Non è difficile immaginare il disappunto degli uomini di “Alvaro” di fronte alla mancata insurrezione. Il ricordo più amaro è senz’altro quello di Sante Marchesi:

“Tornate a casa”, ci ha detto la staffetta della federazione, proprio come il proclama di Alexander ai partigiani in montagna. Per me è stato un errore, però… siamo sempre dentro a ’sta politica del cavolo […]. O non si doveva uscire, allora si stava tutti calmi, oppure quando una volta uno è uscito, armato soprattutto, o vai o spacchi, eh.

Secondo “Santino”, nella Volante il disappunto è tale che qualcuno vorrebbe andare avanti ugualmente, fare la rivoluzione nonostante il divieto di Alberganti. “Ma noi cosa facciamo se tutti gli altri si tirano indietro, se dopo c’abbiamo addosso anche il partito, o tutto?” Anche il tono divertito della rievocazione di Fasoli non riesce a celare una certa amarezza:

È stato bello dopo, a venir via quando è finito tutto… venir via dall’Innocenti a piedi, alla spicciolata, con le armi dentro ai pantaloni. Sembra una stupidata, ma infilati un mitra o un fucile dentro, nei pantaloni. Ohé, mica potevi venir via con le armi in spalla. Eravamo in luglio, faceva caldo. Avevamo su i pantaloni da sci, coi giubbotti, e il fucile infilato dentro. Una mano in tasca per trattenerlo… eh, insomma… c’è stata una certa delusione. Dopo praticamente siamo tornati alla normalità, come se non fosse successo niente.

Secondo C., invece, tornare alla normalità è impossibile, perché il 16 luglio segna il crollo di tutti i sogni della Volante Rossa: “Ci siamo resi conto che la rivoluzione non era possibile, mentre noi si era pensato di essere alla vigilia della presa del potere da parte della classe operaia”

È una vera e propria “mazzata”, che “chiude un ciclo” e apre un periodo di grande crisi all’interno della formazione di Lambrate. C., deluso dalla politica del partito, giunge addirittura a chiedersi se abbia un senso continuare C’è anche chi paga duramente i due giorni di lotta: la sera del 16 luglio, Paolo Finardi torna a casa per cena e ha un litigio furibondo con i genitori: “Dove sei stato fino a adesso?”. “Eh, han sparato a Togliatti, son stato alla Casa del Popolo…”. “Bravo, allora adesso vai a mangiare là”. La discussione degenera, e “Pastecca” torna a via Conte Rosso, dove rimarrà a dormire per vari mesi. Intanto, all’Innocenti, le direttive del Pci vengono lungamente discusse da un’infuocata assemblea di tre-quattromila operai. Mario Muneghina, in questo caso portavoce della direzione del partito, sostiene che occorre rientrare e utilizzare la grande forza di cui si è data prova nelle battaglie sindacali a venire. Lo stesso Banfi, pur facendo parte del nucleo dirigente della Volante Rossa, spalleggia l’ex comandante partigiano
Alla fine, prevale la tesi di Muneghina: le armi vengono nuovamente nascoste nei cunicoli e il lavoro riprende. La lotta politica e sindacale all’interno della fabbrica riceve un nuovo slancio.

Quel giorno, tra gli operai che assistono al comizio, c’è anche il comandante della Volante Rossa, Giulio Paggio, che non si schiera. Tanto che Banfi non ricorda se fosse o meno d’accordo con la decisione di rientrare nella legalità: “Non gliel’ho mai chiesto… in realtà non si pronunciò mai”. Secondo Banfi, però, quella del Pci è una valutazione politica: non essendoci le condizioni per una rivoluzione, occorre operare una ritirata strategica, e “continuare con un’azione di massa ancora più vasta fino al momento della messianica ora X” Del resto, la Volante Rossa ha sin qui vissuto sull’equivoco del “doppio binario”, e quando scopre che il Pci ha scelto un’altra strada non tenta di portare avanti la sua attività rivoluzionaria in opposizione ad esso, né tantomeno di pungolarlo dal basso. La linea del partito è quella giusta o, comunque, quella accettata. […]

Effetto Čičiskov ovvero opinioni di un disadattato

4

di Giorgio Mascitelli

 

Spesso mi capita di chiedermi, e lo so bene che è una domanda oziosa perché non ha senso chiedersi come mai non sia successa una determinata cosa, ma spesso mi capita di chiedermi come mai la nostra epoca e la nostra società non abbiano prodotto una grande e gagliarda letteratura satirica. Se penso all’assessore che ha deciso di istituzionalizzare i propri rapporti d’alcova con la segretaria con una regolare scrittura privata,  se penso a certe carriere politiche che hanno comportato più cambi di casacca di quelli di certi calciatori che cambiano squadra ogni stagione ( i pedatori di ventura li chiamava Gianni Brera); se penso a certi esperti con domicilio nei paradisi fiscali che vengono a spiegare cosa l’Italia deve o non deve fare; se penso agli economisti e ai loro sicumerosi algoritmi che hanno previsto tutto tranne la crisi; mi dico che la realtà ci presenta già grandi personaggi e grandi situazioni pronte per essere semplicemente trascritti. Infondo Čičiskov, il protagonista delle gogoliane Anime morte, è un dilettante con la sua modesta truffa, che consiste nel ricomprare dai loro signori feudali elenchi di contadini morti, a fronte di un qualsiasi esperto di aiuti umanitari e ricostruzioni post terremoto.

Il fatto è che la letteratura satirica, più di ogni altro genere, abbisogna di un pubblico solidale con le ragioni che muovono la penna o la tastiera dell’autore. E la nostra, dico la nostra di noi lettori, indignazione è sterile, non produce versi. Non è un problema di intensità o di ipocrisia, siamo autenticamente indignati ma ci mancano i parametri culturali in cui incanalare l’indignazione.

La colpa è naturalmente tutta della società: essa si comporta con noi così come Čičiskov con i suoi clienti. Egli, a differenza dei truffatori della tradizione classica italiana, non gigioneggia, non fa il mattatore, ma è rispettoso, quasi silenzioso, quasi timido e come en passant propone la transazione. La nostra società dissimula con pari timidezza le proprie gerarchie e non ci costringe a fare nulla, se non a essere liberi, quindi di fronte a lei siamo disarmati come i proprietari terrieri davanti a Čičiskov. A causa di questo effetto, che si potrebbe chiamare effetto Čičiskov, la nostra indignazione gira a vuoto perché al di là della ripulsa per i singoli colpevoli non sappiamo nemmeno intuitivamente perché le cose vanno male e dunque non può sorgere nessuno scrittore satirico a esplicitarci le ragioni di ciò.

Insomma la nostra indignazione, al pari della nostra vita sociale, è frammentata, precaria e solipsistica; essa è priva di fondamenta solide e senza di queste non può esserci nessuna solidarietà con nessuno scrittore.

Nel mondo romano il poeta satirico stabilisce un patto con il proprio pubblico attraverso l’ethos tradizionalistico del mos maiorum, la legge morale che si basa sui costumi degli antenati, in nome del quale egli castiga i vizi del presente visto come decadenza causata dal distacco dagli aurei usi dei padri. Nel mondo moderno lo scrittore satirico e il pubblico trovano il loro terreno d’intesa nell’idea di emancipazione e cambiamento della società: i comportamenti oggetto di satira sono innanzi tutto dei crimini contro le leggi del progresso sociale. Oggi, invece, il massimo che si può trovare come terreno unificatore è l’auspicio che amministratori corretti e competenti si sostituiscano a quelli corrotti e incompetenti ossia un’ovvietà retorica e vaga, simile per precisione semantica agli auguri per l’anno nuovo.

Nella Critica della ragion cinica scrive Peter Sloterdijk che “la critica filosofica all’ideologia ci appare l’erede di una grande tradizione satirica, della quale sono armi da sempre:  lo smascheramento, il pubblico ludibrio e il denudamento”. Questa considerazione, che fa parte della polemica antilluminista in nome di valori vitalistici dell’autore tedesco,  è fortemente critica nei confronti della critica filosofica all’ideologia, che rappresenterebbe un tentativo di dare una veste filosofica, e perciò imborghesita e poco vitale, a quella critica dei costumi che nella satira più autentica è condotta in nome della vita stessa. Eppure possiamo leggere questa osservazione da un’altra angolatura, partendo dall’evidenza che oggi tanto la critica dell’ideologia quanto la satira latitano e versano in uno stato di crisi.

Questa circostanza ci insegna che lo smascheramento è un’azione che presuppone un sistema di valori comuni nella comunità in cui avviene. Questo è sempre possibile nell’antichità in cui è garantito da un riferimento mitico a un passato, quello degli antenati migliori, se non perfetti; mentre nel mondo moderno esso dipende dalla storia ossia dalla possibilità che la storia offre a una società di una speranza di miglioramento o di emancipazione. Oggi che manca anche un semplice spiraglio di speranza non è possibile o meglio non è condivisibile nessuno smascheramento.

Il mondo di oggi ha sostituito a una modernità che si offriva come un ventaglio di linee e di possibilità, magari in forma conflittuale, sia di emancipazione sia di oppressione un orizzonte unidimensionale di realizzazione completa di una società di mercato. E’ in questo senso che Guy Debord scrive che il celebre verso di Rimbaud “ bisogna essere assolutamente moderni”, emblema dell’arte modernista, è diventato lo slogan del tiranno. Oggi essere assolutamente moderni significa essere assolutamente omologati a questo stato di cose e chi non lo è allora è assolutamente disadattato ( lo dico con rimpianto, senza iattanza da purista, al contrario, finchè è stato possibile, nelle faccende di arte e letteratura la posizione più feconda è sempre stata quella di avere  un piede in due scarpe).

Queste ultime considerazioni, tuttavia, aprono un problema più ampio che non è possibile trattare qui. Per tornare alla questione della satira, infondo, tutto quanto ho scritto può essere riassunto così: per godere del riso satirico sia come lettori sia come scrittori dovremmo essere uomini più liberi di quello che siamo realmente adesso.

Poesie e prose

4

di Gianluca Garrapa

da Poevisioni [Io, l’amore e altre superstizioni], inedito.

cam archer places

3

crismi e tele angolari, sì. linee e triangoli babelici, sì. babilonie di generi diversi e caos, sì. purezza di spirito senza il pandemonio, sì. cerchi e perfezione, no. cenacoli di diffrazioni acustiche, sì. foglie poche e curve obnubilanti da un vento finto_proletario senza armi, forse. sottofondo adiabatico non_reciproco, sì. gatti e gufi intrecciati di canti e santi, sì. proiezioni ancastiche precisione d’immagine apparenze sguaiate, no. falsi compromessi giochetti di strada cormorani mormoranti e stagni di lapislazzuli decisamente azzurri, sì. menefreghismo indifferenza fascismo omologazione maschilismo santa liturgia omofobia pedofilia e stato di polizia, no. godimento desiderio gioia_e_rievoluzione, forse.

589

avviene che. che in un attimo l’essere scivoli a vuoto. questo è successo. amor che a nulla servì l’averti amato. avviene che. che nell’eterno sbilanciarsi per affinare neo_simmetrie posturali. che nel passo ubriaco di stelle&fuoco indomito. che nel collasso di quelle stelle immense che eravamo. che nel conflitto erotico. avviene che. che il mondo si scrolli di dosso la polvere dei nostri sguardi ormai morti. rotolati e evaporati. fino alla quiete del riposo. cinetica azzerata. cinematica di affetti in bianco_e_nero. frusciante vino in. avviene che. e la sospensione coglie il respiro e lo precipita in alto. vino in svolazzanti scaglie di labbra. avviene che. che i nostri baci sboccino spine e rose appassite_immense. che. le rose catturino il volo ed eccoci. in solide ciminiere di metallo sfolgorante. il ricordo. oddio. di un amore, il ricordo più vivido e chiaro di un amore. quello che non è mai stato, che mai è finito, che mai più è tornato.

quello_che_continua ( 4/5 gennaio 2011)

78. lì che c’era? e poi da lì scrutavano le danze ininterrotte.
79. le plafoniere gobbe. le caruncole d’ascidie verdi.
80. l’imitazione limita l’originalità di un parto criogenico.
80. partorire un pro(dotto)_(con)gelato attraverso un condotto.
79. il neon scarificato. gli occhi hanno forme di luce.
78. ma cosa c’era lì? le danze interrotte che da lì ci scrutavano.

[21.00]

03. perché la fisica quantistica non può opporsi alla fisica qualistica.
05. due ragni tessono trame e drammaturghi in porticati scrivono.
07. epistassi da un braccio in libreria, sistemata in cataloghi di ferro.
09. lo specchio rivolto alla maschera nasconde un dialogo giornalistico.

da cui consegue che

06. qualistica e quantistica non possono imporsi l’una all’altra. Perché?
10. perché i ragni nel palco scalpicciano mossi dai drammaturghi.
14. dissanguato per scrivere ‘Marat’ sulla copertina di un libro.
18. le maschere le costruivamo alle scuole medie con fogli_di_giornali&colla.

[01.00]

04. cromatofori annichiliti contorcono sferoidi marcescenti.
06. placche sostituiscono tettoniche probabilistiche.
08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.

se e solo se

08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.
12. i vulcani pruriginano altre atmosfere di sodio.
08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.

allora

gli occhi ravvicinati e stretti trattengono il sole.
le caviglie sibilano come crotali lisergici.
pedisseque palme gongolano al deserto di lune incipienti.

[07.45]

a. lampi di afa contro le luccicanze di parassiti innocui.
b. tramortiti gliòmmeri stesi a prendere il gelo notturno.
c. cinestesi di gatti morti in mezzo alla via, come si dice.
d. colazione.
d1) banane,
d2) kiwi,
d3) spremuta d’arancia,
d4) caffè.
e. posizioni irraggiungibili da comuni immortali.

a+b+c+d+d1+d2+d3+d4+e = effemeridi tentacolari come rami, per l’appunto, di alberi affascinanti.

[09.41]

sembrava.
02, ed era proprio un sembiante.
03, mutevole l’anca del ponte sorseggiava rispecchiamenti e lucori.
05, ho lancinato l’orbita di Marte acuendo il fosforo di un cerino al mattino.
07, la ragnatela del mare sopporta gli aggravi edonistici di yacht.
11, l’ecumenico senso del decoro ha portato semi indeiscenti a partorire vipere.
13, il religioso controsenso riposto nelle cose che violentano i nomi.
17, eleganza di gruppalità abeliana in consonante vocalismo di vapore dalla bocca.
19, salmodiare.
23, dirimere. unire. liberare. coartare.
29, spedire.
31, ripetere.
37, svuotare macigni dalla gravità di Sisifo.
41, i ricami delle nuvole tessevano cuscini di turbolenze.
43, il pilota, bell’uomo, aveva occhiali a forma di girasole.
47, [10.41]
53, vedere una città dall’alto è come osservare intense ramificazione logiche di un cervello.
59, odore di frenesia sulle infiorescenze dai nasi aquilini e all’insù.
61, cerimonie.
67, querimonie.
71, monadi.
73, affitto troppo poco caro.
79, maschera dell’ossigeno.
83, tubi lunghi sottoepidermici e sotterranei.
89, omofobia.
97, diritti civili incatramati dentro bolle ipocrite e naziste come pulci invetriate di plexiglass.
101, [11.00]
103, paracetamolo o acetaminofene o N-acetil-para-amminofenolo
107, secondo la seguente equazione: 2 HO-C6H4-NO2 + 2 CH3COOH + 3 Sn → 2 C8H9NO2 + 3 SnO2.
109, acido L-ascorbico o vitamina C o (R)-3,4-diidrossi-5-((S)- 1,2-diidrossietil)furan-2(5H)-one o C6H8O6.
113, Fenilefrina o neo-sinefrina o C9H13NO2.
127, [12.37]
131, meschino e violento.
137, soldatini psicotici.
139, massa di gentaglia che vegeta.
149, marionette di stagno.
151, locuzione allibita.
157, induzione all’omologazione.
163, feticci parabolici.
167, amore. sesso. corpo_cuore. sistole_diastole.
173, intercessione di alberghi.
179, scatole piene di nulla.
181, [14.21]
191, siffatta panoplia di significanti multipli riferiti a un significato zero.
193, blandizia glottologica e parossistica nell’intorno delle 14e30.
199, succulenta porzione di cielo fraseggiata da effeminate nuvole.
211, terreni sottratti alla mafia.
223, punizioni esemplari da ripetere ogni volta che il caso necessita.
227, occorrono forbici e spago e ripieghi di gelatina gialla.
229, leggere le incrinature dell’umidità sulle lastre di metallo.
233, non fa freddo. la tanica di benzina.
239, un racconto smozzicato lascia resti interdentali.
241, la raccomandazione dei soliti geniali residui di intelligenza apatica.
251, l’arresto della profanazione tombale al casello degli immortali.
257, rumori fanno tremare i vetri di finestre interiori.
263, la televisione viaggia a velocità costantemente ignorata.
269, quindi, è l’ultimo numero primo della serie di numeri primi e

A B C D

A) rotto il vetro degli occhi.
sguardo tenuto colmo febbricitante
e lo sconosciuto sfiora il vapore
epidermico clona il buio interiore
– qui non si parla – corpo stupendo – ornamento essenziale
– l’animale segue curve cardio_sintetiche:
scimmie chimiche tamburellano sistole&diastole
creano protesi di finti battiti in gola. e poi
un elenco di passi non è amore
un indifferente prassi non è amore
un trittico di monadi non è amore
un tatuaggio di lucidi respiri non è amore

B) il peso del corpo perfetto. goduto. pensiero inetto. pagamento rateale di frasi.
rosario di ambra. di resina fossile. pentimento prematuro prima dell’accadimento attuale.
succede e accadrà spesso. compulsioni solitarie affollate di gente smorta. in certi ghetti moderni.
dove nascono e si struggono gemiti
clamore. questa nuova forma di amore è
sublime crudeltà deteriore dell’essere aff_amato
dell’essere affamato d’amore.
ma io ho predetto il futuro
e adesso sono capovolto in questo oscuro passato.

C) sul bordo d’ogni cosa senza limite s’affaccia l’aria di.
ed è semplificato adesso il gioco e la navigazione segue stelle
-marine, non lo sapevo.-
dalle scalette di un’improvvisata aria di festa scende l’abito del tuo corpo sessuale.
è in fine il piacere pornografico che inizia col moralismo d’abito che sai.
così alla fine del resto dei corpi sudati e che hanno goduto
così alla fine di ogni godimento non resta che il desiderio ultimo
quel tuo amore.

D) è bene il turgido del pene mentre vibra
l’animale recondito che detta un immorale desiderio
senza aver goduto.
lo sai? non devi far la spesa quando hai fame
e non devi parlar d’amore se il corpo non è già esploso
dilapidato sprecato e stanco
se prima non hai ammalato l’anima di bestia che sei
per voler l’angelico sentimento senza corpo che sai
non esiste. lo scandalo il sottofondo soffocato dell’ansimante contraccolpo
e poi stanchi esausti sfiniti dal porcile di sudore e liquidi
allora soltanto allora
inizieremo a darci un nome
inizieremo a spiegarci quel po’ d’amore
senza altro scopo che non sia speculare l’anima
che solo allora può darsi un dove.
credimi
è dopo aver massacrato il corpo che puoi sfiorare l’infinito.

(Foto: Cam Archer, Places.)

Notizie preliminari dall’Ucraina

19

Una lettera aperta e un articolo di Jurij Andruchovych

Kiev, 24 gennaio 2014
Cari amici e soprattutto giornalisti e cronisti stranieri,
kopyya-po-50dsc0033

Negli ultimi giorni molti di voi mi hanno chiesto di descrivere la situazione attuale a Kiev e nell’Ucraina più in generale, fornire una valutazione di quello che sta accadendo e presentare la mia visione sui prossimi sviluppi. Non avendo la possibilità di rispondervi singolarmente o per ciascuna delle vostre testate, ho deciso di preparare questo breve appello affinché ognuno di voi possa utilizzarlo a seconda delle proprie necessità.

Le cose più importanti che voglio dirvi sono le seguenti:

Meno di 4 anni dopo aver assunto l’incarico, il signor Yanukovich ha portato il paese e la popolazione ai limiti della sopportazione. Quel che è peggio, ha portato a una situazione senza via d’uscita, nella quale deve mantenere il potere a tutti i costi. Nel caso contrario lo attende una dura condanna. L’ampiezza delle frodi e delle usurpazioni supera qualunque immaginazione sull’avidità umana.

Psicogeografie

13

Screenshot psicogeografia

di Gianni Biondillo

A non volerci far troppa filosofia è che non ho la patente. Quindi o mi arrangio o me la faccio a piedi. Come al solito però quello che può apparire un limite può svelarsi una opportunità. Quella di scoprire – quasi con una perseveranza tignosa, dal vago sapore antimoderno, di chi vive in un mondo governato dalla velocità -,  anzi, di riscoprire il ritmo, il passo umano. Siamo animali strani noi. Non veloci, non potenti. Ma costanti. Possiamo camminare, fin dalla notte dei tempi, per giorni. Quattro, cinque chilometri l’ora. Più o meno tutti. L’abbiamo dimenticato, ma è così, dall’alba dei tempi, che abbiamo colonizzato il mondo. A piedi. E quindi, sì, facciamola pure un po’ di filosofia: non ho la patente non perché bocciato all’esame di guida, ma per scelta. Di vita, potrei dire vagamente tronfio. Scelta che negli anni ha assunto sempre più connotati etici, politici. Abbiamo dimenticato il paesaggio che ci circonda, l’abbiamo lasciato sullo sfondo, come una cartolina, come un album di fotografie stereotipate e nel frattempo abbiamo permesso lo sciupio del territorio. Ma in un viaggio, ogni autentico viandante lo sa, quello che conta non è mai la meta, quella magari immortalata dalle Polaroid (o Instagram che sia). È il percorso. Da farsi a piedi. È solo così che si scoprono tesori inattesi.

Tutto questo, se da ragazzo lo sapevo quasi inconsapevolmente, è diventato un campo del pensiero che ho attraversato di volta in volta con vari compagni (di strada, come è ovvio). Con Gianluca Migliavacca, accompagnatore di media montagna e coordinatore di Trekking Italia, che mi ha insegnato a riscoprire i sentieri nella loro complessità, col collega scrittore Michele Monina, col quale abbiamo ragionato a lungo sul camminare come esperienza estetica. Psicogeografia, così si chiama la disciplina nata con le avanguardie francesi del secolo scorso che tratta di tutto ciò. Anche se, come è ovvio, l’uomo cammina da sempre e da sempre ragiona su questa facoltà. Questa “storia del camminare” (citando il bel libro di Rebecca Solnit), questo interpretare i paesaggi attraverso il passo dell’uomo, restituendolo attraverso varie forme di narrazione (fotografiche, filmiche, artistiche, letterarie, etc.) è diventata la mia passione. Magari fatta di esperienze “al limite”, come quando nel 2009 con Michele abbiamo fatto il giro delle tangenziali di Milano a piedi, cercando paesaggi estremi, quelli che nessuno racconta, per restituire loro dignità.

Le passioni, quando sono autentiche, si possono anche trasmettere. Ed è quello che m’è accaduto quest’anno, grazie all’Accademia di architettura di Mendrisio, dove ho potuto tenere un corso semestrale di “Elementi di psicogeografia e narrazione del territorio”. Lezioni teoriche, come un corso accademico prevede. Certo, il mio saltabeccare durante le lezioni di disciplina in disciplina, citando antropologi, filosofi, artisti, architetti, scrittori, paesaggisti all’inizio può aver terrorizzato i miei studenti. Ma questo dove vuole arrivare?, sembrava chiedessero i lori sguardi muti. Poi tutto s’è fatto chiaro quando dalla teoria s’è passati alla pratica. Quando, aiutato dal mio “braccio destro” Francesco Rizzi, ci siamo messi in cammino. In un freddo sabato novembrino, da Riva San Vitale, sul lago di Lugano, a piedi fino a Cernobbio, sul  lago di Como. Neppure un quarto d’ora in macchina, probabilmente. Un’intera giornata, fra campi, strade poco battute, affiancando ferrovie o autostrade, costeggiando canali, perdendoci nei borghi o nei centri commerciali. In una sorta di terra di nessuno, avendo come partenza e arrivo due luoghi consolidati dell’immaginario, per svelare, in questa deriva, quanto di esotico, cioè proprio di estraneo, sconosciuto e lontano dal nostro sguardo, possa esistere “sottocasa”. Si è trattato, in pratica, di imparare a guardare con occhi diversi, senza pregiudizi, territori continuamente modificati, manipolati, spesso violentati dall’uomo. Battisteri paleocristiani accostati a complessi scolastici anni Settanta, campi coltivati e superstrade, edilizia residenziale e capannoni, persistenze storiche e postmodernità. Tutto nel volgere di una giornata.

Ed ecco che i ragazzi, dapprima riottosi, hanno iniziato a capire il senso delle lezioni teoriche. A prenderci gusto. Hanno fotografato, registrato, filmato, intervistato. Ora sarebbe troppo lungo raccontare tutti i nostri incontri inaspettati. La scoperta di architetture del Novecento di grande valore (dalla villa studio a Riva San Vitale di Durisch fino alla casa Cattaneo a Cernobbio), di pievi romaniche (e la relativa sagra di San Martino a Mendrisio), di “superluoghi mondialisti” come il FoxTown, di terrazzamenti coltivati a vite o ponti dei suicidi sulle gole della Breggia. Storie. Che parlano di economia, politica, umanità, di un territorio di confine.

Confine che abbiamo attraversato in un passaggio pedonale incustodito a Maslianico, dove una delegazione di ex alpini ci ha accolto rifocillandoci con pane, salame, vino e tanta allegria. E dove ci hanno mostrato il lavoro complesso che, da volontari, stanno facendo sui percorsi di ronda dei finanzieri ormai abbandonati da decenni. Camminamenti e scalinate radenti la “ramina”, oggi ricoperti di rovi che gli alpini stanno ripristinando, per rendere onore a storie di uomini e donne, di passatori e contrabbandieri, di povertà e di emancipazione. Percorsi che sono monumenti itineranti del territorio che consiglio a chiunque di ripercorrere, anche per tenere viva la memoria della nostra storia recente.

Quello che abbiamo fatto quella mattina oggi è diventato un luogo virtuale che può essere visitato da chiunque. Assieme ai ragazzi del corso abbiamo deciso di creare con i materiali raccolti un sito web dove ogni studente, con le sue peculiarità e la propria sensibilità, ha concentrato il suo lavoro su vari punti del percorso, realizzando video, fotografie, disegni, audio. Il sito (www.psicogeografia.com) è stato messo on line dal nostro web master, Francesco Mussi, il 25 gennaio. Adesso ognuno può idealmente ripercorrere l’esperienza fatta quel sabato novembrino. Sentire lo scorrere del fiume, le campane del mezzodì, vedere i campi coltivati, le panchine, le pavimentazioni, incontrare persone e osservare i paesaggi con occhi nuovi. Come abbiamo fatto noi. E come i ragazzi hanno compreso a fine del viaggio, quando – sul battello che ci portava a Como da Cernobbio, stappata una bottiglia di spumate (regalo degli alpini) per brindare alla fine del viaggio – qualcuno m’ha detto, con una semplicità disarmante: “grazie prof, è stato bellissimo”. Il regalo più inatteso per me.

(pubblicato su L’ordine inserto della Provincia di Como, il 16 febbraio 2014)

Le “Selve d’amore” di Gianni Celati

1

di Francesca Fiorletta

celati, selve d'amore
In questi casi tu diventi un rimbambito che non vede più niente di quello che ti succede intorno: il sole che si alza e tramonta, un inquilino al terzo piano che trasloca, il signor Pigogna che è portato in manicomio dentro una camicia di forza, tuo padre che fa urli da pazzo geloso perché non vuole più tuo fratello in casa, sospettando che possa avere amori segreti con tua madre. Ma tutto questo non conta per te, perché un dio ti comanda di pensare solo a una persona: e tu non pensi ad altro, solo alla tua regina Gezzi, che mettendoti le mani addosso ti dava dei tremiti.

Siamo a pagina 22 e Gianni Celati c’ha già detto più o meno tutto quello che si può realisticamente dire sul sentimento amoroso.
Non solo è già entrato nel fulcro della vicenda, ma l’ha fatto squisitamente alla sua tipica maniera: con descrizioni brevi, fulminanti, particolareggiate e sensibili.
Descrizioni che attingono lustro e vigore dal registro più confidente della vita quotidiana, e che, con un linguaggio (apparentemente) semplice e immediato, riescono a dipingere in pochi secondi uno scenario domestico dalle tinte più cangianti, sempre in perfetto equilibrio fra il lato fosco e quello limpido dell’animo umano.
Siamo a pagina 22, dicevamo, dell’ultima raccolta di racconti di Gianni Celati, Selve d’amore, pubblicato nel 2013 da Quodlibet, Compagnia Extra.
Quattro racconti compongono il libro, ciascuno particolarmente bruciante e allegorico nella sua stringente finitezza, per ragioni che andremo ad analizzare.
Innanzi tutto, le tematiche: nel primo, da cui prende il titolo l’intero testo, si racconta la passione adolescenziale del giovane protagonista per un’amica della madre; nel secondo, Il caso Muccinelli, seguiamo le indagini misteriose di un presunto investigatore, palesemente inadeguato al suo ruolo; nel terzo, Matrimonio Bellavista, ritroviamo i drammi della famiglia Marcocesa, ancora impigliata fra tradimenti e insoddisfazioni economiche e personali; nell’ultimo, La notte, protagonista è Pucci, il povero ragazzotto chiuso in manicomio, la cui passione è guardare gli alberi e sognare il ripetersi ciclico e concentrico del volo degli uccelli.
Fulcro dell’attenzione, dunque, sono i rapporti familiari, la loro delicata costruzione, il loro precario rimodellamento. Più di tutto, emerge una debordante e ossimorica sincerità di relazione, che si scontra con la pretesa messa in scena di uno spaccato di quotidianità della famiglia borghese media, tipicamente rappresa nel circolo vizioso degli infingimenti del quieto vivere d’occasione.
Esemplare, oltretutto, la sistematica differenza evidenziata tra le figure femminili e quelle maschili: nonni e padri si esprimono con un lessico appuntito e senza particolare clemenza, («Aurelio, noi ci capiamo anche se sei un idiota, vero?», dice il nonno di Pucci, nell’ultimo racconto) arrugginiti e disarticolati sulla pagina quanto nel ruolo che dovrebbero ricoprire in famiglia e negli affetti; madri e mogli, par contre, blandiscono e ammaliano il lettore, con scarti gnomici di pura maestria, che ondeggiano fra il rigore aulico e il dispetto grottesco. (Riprendo, da Matrimonio Bellavista: Detto questo, la madre si è levata il fazzoletto che le avvolgeva il capo e Cesa ha visto che aveva capelli grigi, volto di donna attempata, guance incavate, occhi un po’ miopi, e l’aria stanca di chi dorme pochissimo. È andata via con una battuta nel suo dialetto, che diceva così: «Non si può dare un pugno in cielo».)
La dicotomia dei tratti, comunque, si rovescia nello sviluppo ultimo delle vicende, dacché le donne, pure misteriosamente e sadicamente affascinanti, spadroneggiano sì nelle Selve della scrittura di Celati, ma secondo un criterio tutt’altro che disincantato: tutte oltremodo smaniose di seduzione e di auspicabili riconoscimenti sociali, ammiccano, perniciose e sospettose, persino ai loro stessi figli, si frustrano con relazioni extraconiugali banali e prive di pathos, rigettano e s’acquietano, enfin, solo nei rapporti più sbilenchi con l’altro sesso, pure continuamente mortificato.
Gli uomini, dunque, inquadrati fin dall’inizio come macchiette apotropaiche di una vita infausta, condotta continuamente sull’orlo del fallimento, sembrano paradossalmente riscattarsi, seguendo il corso delle narrazioni, proprio nella loro pretesa intangibilità; riescono quasi a salvarsi, potremmo dire, dalla bruttura del mondo, grazie all’atavica inettitudine che li rende tanto sterili e arrendevoli, al cospetto dello spietato e perturbante corso degli eventi. (Così li troviamo, ne Il caso Muccinelli: I tre sono sagome che buttano avanti i piedi con indolenza, ma sempre più scure là in fondo, in controluce, mentre scende il crepuscolo e loro vanno verso il loro destino.)
Tra le chiavi di lettura essenziali per la comprensione di questo testo, un ruolo dominante gioca lo sviluppo diacronico della giornata: la notte, fulcro esiziale di ricordi e disvelamenti insegue in un perenne contraltare il giorno, descritto come sotto una sorta di nube oscura, un limbo ibrido che tutto camuffa e che poco o niente lascia intravedere allo spettatore disattento.
Teatrali quanto plausibilmente oggettivabili, i racconti di Gianni Celati sanno indagare benissimo le strategie più recondite del pensiero analitico che alberga fecondo nella mente di ogni autore che si rispetti; ed è proprio l’autore stesso che alla fine, seppure vestendo i panni di uno dei suoi personaggi (a questo punto non a caso, direi, quelli scomodi di una donna!) esprime e materializza quello che mi sembra il senso estremo di tutta la sua scrittura.
O forse, invece, mente con orgoglio e si contraddice ancora.

Qui io invento tutto, si capisce ma so cosa succede in questi momenti. Tu sei come al solito nella tua prigione, guardi dalle inferriate e vedi una punta di luce che viene da oriente; allora vai col pensiero verso quella luce, che non è nessuna speranza, è solo un giorno uguale a tutti gli altri che sta per cominciare. Ma questo è il buono della faccenda: tu aspetti il giorno ancora una volta, senza aspettarti niente, soltanto perché ci sei, e sei lì da buon carcerato, come se fosse il mattino della tua liberazione.

I poeti appartati: Camillo Sbarbaro

2

Adesso che placata è la lussuria
Adesso che placata è la lussuria
sono rimasto con i sensi vuoti,
neppur desideroso di morire.
Ignoro se ci sia nel mondo ancora
chi pensi a me e se mio padre viva.
Evito di pensarci solamente.
Ché ogni pensiero di dolore adesso
mi sembrerebbe suscitato ad arte.
Sento d’esser passato oltre quel limite
nel qual si è tanto umani per soffrire,
e che quel bene non m’è più dovuto,
perché soffrire della colpa è un bene.

Mi lascio accarezzare dalla brezza,
illuminare dai fanali, spingere
dalla gente che passa, incurioso
come nave senz’ancora né vela
che abbandona la sua carcassa all’onda.
Ed aspetto così, senza pensiero
e senza desiderio, che di nuovo
per la vicenda eterna delle cose
la volontà di vivere ritorni.

Camillo Sbarbaro, Raccolta / Canzoniere: PIANISSIMO (1914)

Frans De Waal e i macachi

0

macaca mulatta

(dal molto interessante e istruttivo libro di Frans de Waal, Naturalmente buoni ― il bene e il male nell’uomo e in altri animali, Garzanti, Milano 2001, pp. 230-232, traggo questo passo che riguarda due diverse specie del genere Macaca, famiglia Cercopithecidae, i loro comportamenti sociali e il loro modo di adattsrsi. a.s.)

«Poiché il mio scopo non era quello di curare scimmie anormali ma di vedere se avrei potuto far cambiare scimmie normali, parlerò di «precettori» invece che di «terapeuti». E così demmo a un gruppo di macachi orsini [macaca arctoides] la possibilità di fare da precettori ai reso [macaca mulatta, detta anche Rhesus]. Gli orsini hanno un carattere facile e tollerante,

Ὀδυσσεύς (Παίγνιον)

10

di Daniele Ventre

Χρή με φάναι μὲν ταῦτα, καὶ ἀτρεκέως καταλέξαι,
οὐ κεχρημένος ἦα θαλάσσης, εἶπερ ἔμοιγε
ἄλλο ἐπεκλώσαντο θεοὶ οἳ Ὄλυμπον ἔχουσι
θνητοί τ’ἄνθρωποι, καὶ ποντοπορεῖν μ’ἐκέλευσαν.
Ἀυτὰρ ἐγὼ νῆσον μὲν ὀρῶν κραναήν περ ἔουσαν
καί γουνοῖσ’ἐπὶ πᾶσιν ἐλαίας μῆλά τ’ἔχουσαν,
τὴν δὲ μάλιστα ἐγᾦδα φιλεῖν ἐν ἀγήνορι θυμῷ,
τὴν φρένεσιν δ’ἐν ἐμοῖς ἀγραύλων ἔργα φιλοῦσι,
νῆσον ἀρώτροισίν τ’αγαθήν γε καὶ ἄλφισι λευκοῖς,
-οὐ γὰρ ἔχουσ’ἀλιεῖς αὐτὴν οὐδ’ἴστια νηῶν-
τῇ μὴν ἀργυριᾶ τ’ἵδρως καὶ δῶρον ἀρουράς,
τῇ δ’ἐμοί ὧσπερ χρυσὸς ἔην οἶνος καὶ ἔλαιον.

Ἀλλ’ὅτε μὴν ἐς ὄρη ποτιδέρκεαι ἀντιόωντα,
δὴ τότε καὶ τόδε γ’οἶσθ’ὅτι ἔλκεαι οὖρος ἐς ἄλλο,
νήσου ἀπ’ἀμφιρυτῆς προυκλήθης νῆσον ἐπ’ἄλλην.
Εἰδώλοις μορφὴν τότ’ἐγὼ καὶ ὀνείρασι δῶκα,
καὶ νῆας ποίησα ἐυσσέλμους εὐπήκτους
εἰν ἁλὶ δ’αὖ κοιλῇς μέλαν’ἴστια νηυσὶ πέτασσα,
αὔτικ’ἀμειψάμενος βίοτον φίλον, αἶψά μ’ἔμαρψε
ἅλς ἀμελής, ᾔδειν δ’ὅτι εἰν ἁλὶ πότμον ἔνισπον,
ὡς τετελεσμένος ἔσται, ἀεὶ φρεσὶ μερμηρίζων
εἴ μοι ποντοποροῦντι ἅ ἔλπισα πάντα τελέσσει.

Αὐτὰρ δὴ πρὸ τ’ἔοισι καὶ ἐσσομένοισιν ἔοντα
συμμίχθη καὶ ὔδωρ τε καὶ ἅλμυρα θυμὸν ἔκαυσε
καὶ πάντεσσιν ὄδοισι νέα τοι ὔφανται ἀοίδα
καὶ μόρφαν ἐν ἀοίδᾳ ἀμείβετο πέρρατα γαίας
καὶ γεύσας τὰ μὴ εἶεν ἐοίκοτα ἆδύ γ’ὄλεθρος

Λευκοῖσιν δὲ πόρευσα ἐπ’ἤμασι μύδρῳ ὁμοίοις
ἡελίου, ἄνεμός τε χέρες τ’ἐρετῶν ἐκυβέρνων,
χεὶρ ἐπὶ πηδαλίου, αἰεὶ ἔχον ὄμμ’ἐπὶ πρώρην
νύκτα δι’ὀρφναίην ἐλθὼν καὶ ἐπ’ὄμμασι λεύσσων
ἄστρα τε λαμπετόωντ΄ἀργήν τε Λυκάονος Ἄρκτον,
ᾔειν ἐς πόλεμόν τε τύχην καὶ πότμον ἐπίσπον,
θυμὸν ἀτάρβητον μὲν ἔχων, ἴνα οἴκαδ’ἴκοιμι
οὐ κατὰ μαντοσύνας καὶ ἀθανάτων ἀέκητι.

Ἤλυθον ἠγαθέας τ’ἐπὶ νήσους ἠδ’ἐπ’ἔρωτας
ἄλλους θαυμασίους τε πόνους, ἐτάρους τ’ἀπέβαλλον,
νῆας ῥηγνυμένας τε -καὶ ἥματα πολλὰ μετῆλθεν
μηνῶν φθινόντων τε περιπλομένων τ’ἐνιαυτῶν.
Μνημοσύνη μίχθη καὶ λησμοσύνην παρέδωκεν.
Ποῦ δὴ Ναυσικάα, ποῦ Σειρῆνες λιγύφωνοι,
Κίρκη, τὴν ἀπέλειψα, Καλυψώ τ’; Αὖ δέ μοι αἰὲν
οὔασι φώνεε Ὄσσα μεμιγμένη ἐκλελαθόντι.
Οὐδὲ γὰρ οὐδὲ ἔειδον ἅμα πρόσσω καὶ ὀπίσσω,
ἀλλά με ἔκλαθε πηδάλιον τ’ἴστον καὶ ἐρετμόν,
ποῦ τε βόα Πολύφημος ὃν ὀφθάλμου ἀλάωσα,
οὗ ἄπο ποντοπορῶν ὑπερέκφυγα κῆρ’ ἀλεείνων.

Οὐ δ’αὖ κῆρα μέλαιναν ὑπέκφυγα κῆρ’ἀλεείνων
ἀλλ’αἰ πάντα σίγᾳ πέλεται, θάνατον μὲν ἐσέρπει
ἐκ πόντω, καὶ ἄρα γε τύχα, οὔ πῃ ἔστι δὲ λῆξις
-οἴος γάρ τοι ἔγων, τὸ πρὶν οὔ γε δὲ χεὶρ τρομέοιτο
καί τοι ἶσα θέοισι θέλον, πτέρυγές μοι ἔρετμα.

Ψευδεῖς μέν τοι ὁδοί τε θαλάσσιοι ἠδὲ κέλευθοι,
ψεύδουσιν πόντου γε πορεύματα, αὐτὰρ ἀοιδαὶ
νύκτα δι’ἀμβροσίην ὑπερέκφυγον, ὅστις ἄειδε
ἆθλα ἐμοῦ ἔπεσιν, δῶκεν κλέος ἄφθιτον αἰεί
ῤυθμοῖσιν φωναῖς τε, ἀοιδαῖς κῦδος ἕδωκε
ἀγνωτούς ὀρμοὺς τε θιγεῖν κοὐ γνωτὰ ἰδέσθαι.

 

[Pseudotraduzione:

Questo bisogna lo dica e lo affermi in tutta chiarezza:
io non sentivo mancanza del mare, anche se per me poi
hanno filato ben altro gli dèi che posseggono Olimpo
come le genti mortali, e vollero che navigassi.
Ecco che io rimirando quell’isola che era petrosa
e che ne aveva di olivi e di greggi sopra ogni colle,
sì, più di tutte ero conscio di amarla in quest’animo fiero
dentro il mio cuore che è amante delle opere dei contadini,
l’isola buona agli aratri, nonché alla bianca farina
(non la posseggono, no, pescatori o vele di navi):
erano là come argento il sudore e il dono del campo,
erano simili all’oro per me tanto il vino che l’olio.

Quando però con lo sguardo ti volgi a una vetta che è avanti,
ecco che allora lo sai che a una nuova vetta ti spinge,
d’isola cinta dal mare chiamato ad un’isola nuova.
Ecco che allora io donai una forma a sogni e illusioni,
e costruii quelle navi dai solidi banchi, ben fatte,
quindi alle concave navi spiegai vele nere sul mare,
subito la trasformai la mia vita, a un tratto l’incuro
mare mi prese, e sapevo che in mare inseguivo il destino,
come doveva compirsi, ma in cuore ero sempre nel dubbio,
se compirà nel mio viaggio ogni cosa come speravo.

Ma il passato si mescola insieme al futuro e al presente
l’acqua e i flutti salati nell’anima m’hanno bruciato
e per tutti i cammini si tesse una nuova canzone,
e cambiavano forma nel canto i confini alla terra,
e gustando di cose non debite dolce è la morte.

E per giornate abbaglianti e pari alla vampa del sole
quindi viaggiai, vento e braccia dei miei rematori a guidare,
mano al timone, ma sempre tenevo i miei occhi alla prua,
lungo la notte nerigna passando, e con gli occhi miravo
gli astri che splendono e sacra a Licàone l’Orsa lucente,
verso la guerra e la sorte andavo e seguivo il destino:
animo senza paura forgiai per raggiungere casa,
contro malie di indovini, a dispetto degli immortali.
Si mescolò la memoria e ci ha tramandato l’oblio.
Isole chiare di dèi io raggiunsi allora ed amori
nuovi, e mirabili imprese, e quei miei compagni li persi
e le mie navi spezzate -fuggirono via molti giorni
e declinarono i mesi, si volsero gli anni correndo.

Dove Nausicaa, dove il bel canto delle Sirene,
Circe e Calipso che indietro ho lasciate? E intanto a me sempre
pur nell’oblio, ritornava alle orecchie incerta la Voce.
E non lo vidi non più quel che unisce il prima col poi,
ma mi sfuggirono allora il timone il remo e la vela,
come gridò Polifemo che io ho privato dell’occhio,
lui, da cui io navigando fuggii, per sfuggire alla chera.

Né la nera mia chera fugii, nel fuggire la chera,
se ormai tutto in silenzio riposa e la morte serpeggia
dal mare, è maleficio la sorte e non c’è mai respiro
-solo infatti io rimango -né prima tremava la mano:
gesta degne dei numi cercai, ebbi i remi per ali.

Sono menzogne le vie del mare e così le sue strade,
mentono certo i cammini dell’onda -e così le canzoni
lungo la notte immortale fuggirono, chiunque cantasse
opere mie coi suoi versi, mi offrì gloria eterna per sempre
con i suoi ritmi e le voci, e mi diede il trionfo nei canti
sì da concedermi approdi ignoti e un ignoto mirare.]

Testo originale

http://www.youtube.com/watch?v=kuwj1S2d0Yo

Poesia da Camera a Torino: Giusi Drago

1

 

Pages from Drago_Libro_Layout 1
Torino, sabato 15 febbraio ore 18.30
presso la Galleria Voyelles & Visions
[ via San Massimo 9/A ]
nel contesto della rassegna CameraIndy (con http://indypendentemente.com/)
e della mostra di Biagio Cepollaro
a cura di Francesco Forlani e Giovanni Andrea Semerano
Giusi Drago
presenta 
Tempo negoziato
La Camera verde Roma 2014

Pratiche di rovesciamento. Una Carta per resistere e rivoluzionare le geografie esistenziali delle politiche migratorie

4

[Questo intervento è apparso sul sito Euronomade]

di Martina Tazzioli

Una Carta per rovesciare le geografie esistenziali e politiche inaccettabili inscritte dalle politiche migratorie, partendo dal presupposto che oggi le politiche di confinamento e di governo della mobilità giocano un ruolo fondamentale nella ridefinizione delle divisioni di classe e dei meccanismi di esclusione. Una Carta che tuttavia non è, solo, una carta: questo l’assunto condiviso da tutti coloro che si sono ritrovati a Lampedusa dal 31 gennaio al 2 febbraio per discutere, rielaborare e sottoscrivere la Carta di Lampedusa; e per iniziare a tracciare i percorsi futuri di lotte, pratiche e campagne di cui questo documento si propone di essere il motore propulsore e al contempo la cornice politica.

I poeti appartati: Massimiliano Damaggio

21

belgrado8_800

da “Edifici pericolanti”

 

 #

1) Sell in, sell out

#

 

 

 

Poesia della forza vendita

 

Esiste il tempo degli uomini in affitto

ripiegati in due dentro il contratto

nell’atto di spalancare la bocca

per ingoiare la moneta: Complimenti

mi dice il manager, Lei è in progressione

tuttavia non sa gestire le persone

ci vuole la carota, e ci vuole il bastone

 

Esiste il tempo dei ruminanti

che sanno l’intimo piacere del bastone

il Suo obbiettivo è essere una molla

caricare il significato dei corpi: Lei

deve scavalcare la catasta dei giorni

sopra cui sta un obbiettivo, che ci segna

 

 

La responsabilità del fatturato

 

Di notte invio i dati di vendita del giorno

nel silenzio dei condomini appesi nel sonno

lo stormo di cifre che trapassa il corpo

in ginocchio sulla statistica, e la paura

che chiamino, a quest’ora, per avere spiegazioni

 

Dino sta sotto budget da almeno tre mesi

ti dicono di dirgli che è un coglione

non è un insulto, ti dicono

 

è questo il risveglio

 

 

La cessazione del rapporto di collaborazione

 

Gianluca, hai il sorriso ferito

dalla forbice fra obbiettivo e fatturato

sulla sedia blindata della riunione

carichi in canna il resoconto ultimo

e ti si sente

attorno un largo silenzio, e nel rumore

del tuo dissesto interiore ognuno sta

nella posizione da contratto

 

Dietro questi piccoli quadri

si muovono gli uomini abbaiati

dal cane del credo quotidiano

 

 

Lei ora appartiene, ti dicono

all’archivio dei nomi in disuso

 

 

Maurizio il caposettore e il Rackjobber

 

Tutto il giorno ho allineato

i prodotti sullo scaffale

come fossero versi

 

e ora sto con l’ordine in mano

fra i carrelli abbandonati

dove dormono i bambini

consumati, nel silenzio

 

e in questa devastazione, Maurizio

stiamo, fra i carrelli abbandonati

 

 

È questa la semina del bulbo

per le voglie del margine

il campo defunto, e il feto coltivato

che sboccia sul ripiano e si apre in sconto

 

Questa la trincea per il significato

l’obbiettivo, e poi il punto

che l’orario ci mette al nome

 

 

2) Iperghetto

#

 

 

Parla Sankara

 

Certo, si scrive per la purezza

per questa cosa bianca fra le due virgole

per questo toccare le grandi questioni

dell’origine e della morte: si deve

tentare di essere uomini e

rivestire di parole il fatto

di esseri bipedi

 

Decliniamo in segni cose e avvenimenti

ma quello che interessa è la sintassi

per l’esatta definizione del mondo

il mondo altrimenti domani scompare

Ma è anche una parentesi di carne

in questo defluire di cognomi

digressione di ossa in movimento

non altro: sono i molti

dove le grandi questioni coincidono

con la data della nascita

e con la data della morte

 

Il bambino di quindici mesi

si è guardato in giro e ha visto

la sua propria immediata estinzione:

è passato di qui, come un caso

poi è subito morto in diretta

perché non c’era molto da mangiare

 

Si scrive non per salvarlo, poiché è morto

ma per farlo vivere, nella sua morte

 

 

Allo svincolo per l’autostrada

 

Ti trovo la sera seduto sulle parole

inefficaci dell’uomo evacuato

 

fra gli scarti della giornata

ti porto del pane

 

Ma sono gli allarmi a rispondere

questo vento che scende nel tuo silenzio

dove attendi nel fondo della notte

un suono riemergere dal fondo della carne

 

Faccio una battuta e sopravvivo

ma prendo per amore l’elemosina

e sosto, senza amore, perché è semplice

condividere del prossimo

il meno e non il più a me prossimo

 

 

Dissonetto novenario del simposio

 

Ritornando a piedi da Fàliro

perché s’era scassata l’auto

nel traffico di Kifissoù

che una volta era stato un fiume

mica facevo Apollodòro

o parlavo di ragazzini

o pederasti innamorati

 

Il solo simposio concesso

contrattare col pakistano

per l’acquisto di tre accendini

sotto il ponte dell’autostrada

fra i bambini vuoti e avariati

un tossico quasi cariato

un morto che ingoiava asfalto

 

3) Essere e benessere

#

 

 

Jeff Buckley

 

Siamo qui per la bellezza, ma

come rifugiati fra due porte

in attesa di un fuoco qualunque

che commuova il calendario

 

In questo venire e andare di corpi

non hai nemmeno il tempo di dargli un nome

lanciano sul tavolo poche parole, si alzano

 

Siamo qui per la bellezza, ma

come pieni di linee scure

che potevano essere albero, nuvola: attendiamo?

nell’apnea delle disattese

 

sul fiume galleggia un ragazzo

la sua acqua nella voce

modula una fiamma

per chi, liquido, sta

 

 

Coito interrotto

 

Affacciato sopra un foglio o

alla campana del vetro

dove giacciono i frammenti io

sto

 

nella scarsa alternativa

fra maneggiare segni

e segnarmi le mani

 

Per questo la pagina

è un brandello, per questo

io sono interrotto, come il coito

di un amore incompleto

 

 

Reparto gastroenterologia

 

Questo uomo sul fondo del letto

che a fatica riemerge, a fatica

ruba un pugno d’aria

è il tuo ritratto, nei ritratti infiniti

di ogni uomo sul fondo di ogni letto

 

È un dolore cordiale, una mezza allegria

regalare due gocce d’acqua

alle labbra spaccate, che sono state tue

che sono state d’altri

sepolte da luci diplomatiche

che non separano le ombre dalle ombre

nello scambio di respiri dell’ultimo minuto

 

 

Adesso è molto tempo che tutto questo vuoto è tuo

questo luogo

disabitato da un morto, abbandonato da un vivo

 

 

4) Epiloghi e simulazioni

#

 

 

Il sig. Lieto Neri Pellegrini

 

Nessuno sa dove sia, pare

non dorma più, roso

dai rimorsi, il ponočnik, il pomočnik

il luogotenente nottambulo, forse

 

nelle gole del Montenegro, in Grecia

murato in un monastero, rifugiato

in grembo alla Russia, banalmente

nascosto nel bunker di Pale, in Bosnia

si aspettano di trovarlo morto: era

dicono di lui, si chiedono: chi era?

 

*

 

Kara significa nero

Hadzi pellegrino

Radovan esser lieti

Sig. Radovan Karadzić

Lieto Neri Pellegrini:

 

settantacinquemila vittime civili

quattrocentodiciassette massacri

trecentosettantotto lager

novantatré fosse comuni

 

*

 

Pellegrini ragazzino rumina

la sua povertà, pascola capre

nei lunghi inverni, suona

la guzla, Lieto, immigrato sedicenne

scende dai monti, entra smarrito

a Sarajevo, apprendista poeta, ma

 

ha una pancetta borghese

la salute cagionevole

ama la vita comoda

è un codardo, ha paura

anche della moglie, soffre

di crisi umorali, ipocondria

la gente ricorda di lui

la vanagloria, il barare al poker, insomma

 

un piccolo innocuo cacciaballe, tipico

prodotto di un’allegra baracca

che si chiama Jugoslavia

 

*

 

Nel mille novecento ottanta quattro, non per le poesie ma per i soldi, è arrestato

per aver messo le mani sui fondi di edilizia allo scopo di costruirsi una villa

si fa undici mesi di carcere, viene assolto, è il segno

è già legato mani e piedi al sottobosco jugoslavo

 

*

Torna

completamente cambiato, si dà

al gioco d’azzardo, tira l’alba

nelle bische, in carcere

ha imparato a bluffare

ha sposato Liljana, così tetra

da noleggiare ai funerali

Lieto la decanta a gran voce

millanta di sapere l’inglese

ma entra in un negozio londinese

per acquistare dolci, ne esce

con scatole di carne per cani

 

*

 

Quando Belgrado lo mette a capo del partito democratico serbo

i bosniaci, serbi compresi dicono: questo chi è?

dopo, qualcuno dirà che fu una scelta mirata, che si cercava uno psichiatra

per costruire la guerra prima di tutto nei cervelli

ma

 

*

 

tutto è più banale, è una nullità

ambiziosa, ubbidiente, talmente

poco serio, nessuno

potrà credere che con lui

i serbi si preparino alla guerra

 

tanto più che in quel momento

nulla annuncia il mattatoio

Lieto non sente l’odore del sangue

Lieto sente il profumo dei soldi

coglie l’occasione per ambizione

o forse è costretto a coglierla

non sembra un manipolatore

ma un manipolato

 

*

 

Si arricchisce, e lo ostenta

gira in auto blindata

ascolta Bach, smette

di fumare, di vedere

film porno, di bere

whisky, si sottopone

a un corso intensivo

d’inglese, va in chiesa

per la prima volta

in vita sua, si dice

discendente di Vuk

Karadzić, padre

della lingua serba

falso, ovviamente

 

La moglie colleziona

centinaia di scarpe

usa l’elicottero

per portare il cane

dal veterinario

 

La figlia, direttrice

del centro stampa

accoglie i giornalisti

dipingendosi le unghie

 

*

 

Le radici, sempre negate

diventano un vanto

Sono un figlio del monte Durmitor

la galera per malversazione

diventa persecuzione

ingrassa, mente

sistematicamente:

 

facile con i contadini, tra cui diffonde un elenco di donne serbe

destinate agli harem dei musulmani

 

meno facile con i giornalisti, che convoca anche di notte

nella sua stanza all’Holiday Inn

 

*

 

Lo incontro, gli dico

attorno a Sarajevo

ci sono posizioni di mortai serbi

lui ride, ribatte non è vero

allora gliele elenco, una per una

farò controllare

gli parlo di serbi, mobilitati

con la forza da altri serbi armati

gli indico nomi e indirizzi

scuote la chioma

farò controllare

 

*

 

Ma appena comincia la guerra

scopre che il mondo se le beve

tutte

 

 

Altro materiale

 

I cadaveri sono molti

impossibile conversare

con un uomo e la sua tasca

dove si nasconde

 

quando incontra un altro uomo

che lo spia dal portafogli

 

 

Esiste il tempo degli uomini nascosti

nel fondo del corpo stanno

gonfie di istinti le cose incerte

 

Esiste il tempo in cui bisogna stare

complementari come accessori

oggetti che non sanno la sommossa

 

come un abbonamento

 

*

 

Molta la decomposizione, l’estinzione

in corso d’opera

in fondo all’acqua acida

perdiamo la sintassi

 

Insistiamo a camminare

come sintomo di esistenza

non vivere, ma qualcosa

 

 

È superflua la sintassi

al monosillabo di corpi in forma di dolore

confusi nell’urlo gutturale delle cose

 

frutti preoccupati del verme anticipato

che ancora tentano una rima

da accoppiare al corpo e alla sua durata

 

 

 

Alcune note

 

(Maurizio il caporeparto e il Rackjobber) Per un certo periodo, ho lavorato come venditore in una multinazionale che opera nella grande distribuzione organizzata. Durante un meeting (e non riunione) scoprii di essere diventato un rackjobber (e cioè lavoratore dello scaffale o meglio scaffalista). Questa figura è l’involuzione del venditore e del rappresentante. Il suo scopo è di presidiare lo spazio espositivo al fine di ottimizzare la vendita del prodotto.

 

 

(Dissonetto novenario del Simposio) Fàliro è esattamente la stessa Faléro citata da Platone nel Simposio. Durante il tragitto da Fàliro ad Atene, Apollodòro narra a un amico di quanto avvenuto al Simposio e dei ragionamenti sull’amore di Socrate e Diotima. Kifissoù, detta anche Potàmi (fiume), è chiamata l’autostrada che congiunge Atene con Lamìa e che, nel tratto urbano ateniese, scorre sopra il fiume Kifissòs (ital. Cefiso), che sfocia presso Fàliro.

 

 

(Il sig. Lieto Neri Pellegrini) Poesia estratta dall’articolo “Karadzić, il prescelto”, di Paolo Rumiz, Il Diario, 1996. Questo è uno dei pochi testi sopravvissuti a un trasloco, e ritrovati per caso. Scritti fra il 1998 e il 2000, formavano un lavoro chiamato “Storie”. Si tratta di poesie composte partendo da un articolo di giornale da cui prelevavo le cose necessarie che potessero combinarsi fra loro secondo un senso ritmico, evocativo, o giocoso, ironico. Non utilizzavo le frasi che più m’interessavano per poi rimontarle a mio piacimento, seguendo un mio senso estetico e dando loro un significato diverso rispetto a quello del testo originale in cui erano contenute, ma l’esatto contrario: mi attenevo all’originale utilizzando quanto ritenuto essenziale e ridisponendolo poi nell’ordine esatto in cui si trovava. La differenza con lavori simili, cioè di poesia estratta dalla cronaca, sta in questo. La mia non era un’interpretazione di ciò che leggevo, ma un’elisione del superfluo per giungere a una poesia popolare, per sottolinearne il carattere narrativo, come le ballate dei cantastorie di un tempo. Ho ultimamente ripreso questo lavoro concentrandomi sulla pubblicità. Mi sembra che la pubblicità, nella sua pseudo poeticità, sia in realtà la forma evocativa che meglio racconta il nostro periodo storico.

Wall

0

Belpo(esce domani una sorta di “piccola enciclopedia del pensiero contemporaneo”: L’età dell’estremismo, di Marco Belpoliti. Ho chiesto all’editore e all’autore un capitolo che qui riproduco, ringraziandoli. G.B.)

di Marco Belpoliti

Tra il 2008 e il 2010 il fotografo ceco Josef Koudelka si è recato più volte in Israele e in Palestina. Invitato dal progetto «This Place: Making Images, Breaking Images – Israel and the West Bank», avviato dal fotografo Frédéric Brenner, ha ritratto il muro che separa lo stato ebraico dai Territori abitati dai palestinesi. Utilizzando una macchina di grande formato, Fujifilm 6 x 17 cm, Koudelka ha realizzato una serie di scatti delle zone dove sorge la barriera divisoria voluta da Ariel Sharon e dai militari israeliani. Si tratta d’immagini in bianco e nero di grande impatto visivo. Stampate in un libro oblungo intitolato Wall, ogni scatto ha le dimensioni di 72×24 e abbraccia un’ampia porzione di territorio: da un lato all’altro di una valle, oppure un’intera collina nella sua estensione da est a ovest; e ancora: una porzione di muro e le fortificazioni intorno; fino allo snodarsi, altro esempio paradigmatico, di un’autostrada che fende l’intero paesaggio.

Lo sguardo ampio sembrerebbe il solo che permette di capire il modo con cui la distesa di cemento, blocchi, plinti, cancelli, filo spinato, torrette interviene nello spazio per delimitare, circondare, difendere, escludere. In alcune istantanee, più simili a quadri che non a fotografie, appaiono in primo piano olivi secolari e dietro di loro un paesaggio brullo. Ci sono pochissime figure umane. C’è solo un uomo, nei pressi dell’insediamento di Qedar, in abito tradizionale arabo, in piedi sulle macerie di una casa, probabilmente la sua: blocchi di cemento divelti, macerie di ferro, armature, tubi accatastati; dietro, il cielo è una superficie grigiastra, mentre un filo taglia a metà la fotografia, stabilendo una divisione tra il sopra e il sotto. C’è qualcosa di claustrofobico in queste immagini, di aperto ma anche di chiuso: la chiusura dell’aperto e l’apertura del chiuso, un chiasmo. Ad Al-Khader, nell’area di Betlemme, la città più fotografata insieme a Gerusalemme Est, Koudelka ha ritratto una sorta di vallo, la terra di nessuno tra la cinta di cemento e un alto muro dalla forma arrotondata: una trincea inabitabile, sicuramente un dissuasore spaziale tra due territori. Chi e dentro e chi e fuori? Le foto lo dicono molto bene, e se qualcuno non lo capisse al primo sguardo non ha che da leggere le secche didascalie che descrivono la separazione tra i due popoli, e quella, anche peggiore, tra palestinesi e palestinesi.

Koudelka viene da antichi studi d’ingegneria, negli anni Cinquanta a Praga, e il suo sguardo mantiene qualcosa di quell’origine tecnica. Possiede infatti un talento nell’individuare alla perfezione i punti di vista, i luoghi e gli spazi da catturare dentro l’obiettivo. Di sicuro, nelle sue fotografie, in queste in particolare, emerge anche un aspetto teatrale che gli è proprio, come ha scritto la critica: una capacità di guardare l’interno come una scena, e insieme introdurre un aspetto introspettivo, scandaglio del teatro interiore. Per quanto si tratti di luoghi desolati, dove l’antica armonia è stata devastata dall’intervento bellico dell’uomo, c’è sempre qualcosa d’intimo in ogni luogo raffigurato da Koudelka. Anche negli spazi più angusti, chiusi, privi di qualsiasi piacevolezza, si coglie un momento, un attimo, di riflessione del fotografo: la crudezza delle immagini appare mitigata dal suo sguardo, e proprio per questo il contrasto tra l’ordine e il disordine risulta ancora più forte.

Se Koudelka avesse fotografato il punto dirompente, la rottura del paesaggio apportata dall’intervento militare, dal segno prepotente del Muro, la sua lezione di metodo, la sua riflessione, ne sarebbe stata indebolita. Guardando il caos della separazione all’interno dell’armonia dell’antico paesaggio mediorientale, mediterraneo, Koudelka ci fa apparire ogni cosa più lancinante, mobilitando la nostra capacita di cogliere quello che c’era, e che forse potrebbe ancora esserci: oggi, domani. Non c’è quindi in questi scatti un giudizio politico, bensì estetico, un’estetica che è politica, proprio attraverso la capacità che queste lunghe fotografie possiedono di suscitare i nostri sentimenti. I contrasti del bianco e del nero, mitigati da una vasta gamma di grigi, ci mostrano un luogo disperato che sembra dar voce alla propria disperazione, non a squarciagola, bensì in modo sommesso, come in una nenia mediorientale, senza fine, un suono reiterato che ti penetra nel cervello poco a poco, e non ti lascia più.

Dopo lo scoppio della seconda Intifada (termine arabo che vuol dire: «scuotersi di dosso»), nel settembre del 2000, i militanti palestinesi della Cisgiordania hanno cominciato a compiere una serie di attacchi suicidi uccidendo centinaia di civili in Israele. Una carneficina che è continuata per oltre due anni. L’Intifada era stata scatenata dalla visita di Ariel Sharon, allora leader dell’opposizione politica, al Monte del Tempio, Haram al-Sharif, a Gerusalemme Est, considerata dai palestinesi un affronto terribile, tentativo di sancire il controllo assoluto di Israele sul territorio. Israele ha reagito costruendo il Muro, per impedire ai kamikaze l’accesso alle città e ai villaggi ebraici. Eyal Weizman ha raccontato, in Architettura dell’occupazione, e nel successivo Il minore dei mali possibili, la storia complessa di questa costruzione, di come il Muro sia diventato il modo con cui lo Stato d’Israele ha condotto la sua guerra spaziale contro i palestinesi: molto più di un semplice sistema di difesa, almeno cosi come appare nella pratica e nella teoria di Sharon, diventato in seguito primo ministro di Israele, e ispiratore della costruzione della cinta difensiva.

Un cartello stradale che indica le direzioni Tomba di Rachele e Gerusalemme. Fotografia © Josef Koudelka / Magnum Photos.
Un cartello stradale che indica le direzioni Tomba di Rachele e Gerusalemme.
Fotografia © Josef Koudelka / Magnum Photos.

Nel capitolo Il migliore dei muri possibili Weizman racconta le vicende delle lotte legali intorno alla costruzione del Muro da parte di alcuni avvocati palestinesi, come Beit Surik, condotta attraverso la realizzazione di modelli e plastici esibiti davanti alla Corte Suprema di Gerusalemme in un duello giuridico con i rappresentanti delle forze armate israeliane. Questa disputa legale, come altre di quel periodo, ha prodotto innumerevoli cambiamenti del tracciato del vallo difensivo.

Weizman legge il muro come una vera e propria strategia di guerra. Scrive: «Il muro non può essere ridotto alla sua struttura fisica e al suo tracciato. Esso costituisce un insieme eterogeneo e interdipendente di sistemi di fortificazione interconnessi, costruzioni architettoniche (i ‘terminali’), tecnologie di rilevamento, armi automatiche, sistemi militari aerei e (nel caso di Gaza) marini, manovrati da una molteplicità di istituzioni, secondo procedure, calcoli, tattiche, etiche, scopi legali e umanitari variabili», che somigliano a ciò cui Foucault faceva riferimento quando parlava di «dispositivo».

Le fotografi e di Koudelka colgono proprio questo aspetto dell’apparato, il suo dispiegarsi sul territorio e la sua capacità di piegarlo alla propria logica. Il dispositivo, come lo aveva pensato Foucault, possiede una funzione strategica concreta e sviluppa in ogni caso una precisa relazione di potere. Negli scatti del fotografo praghese si coglie proprio la stratificazione del dispositivo, la sua capacità produttiva, la sua costituzione nel tempo, a partire da una urgenza di tipo militare. Nei bianchi e neri degli scatti si percepisce lo sforzo di orientare lo spazio, di organizzarlo. Le colline, le piane, le strade, i campi raffigurati da Koudelka, rendono conto di una battaglia che è avvenuta in quel luogo. Una guerra che ha fatto morti e feriti, ora invisibili, ma che ha lasciato nel terreno il segno vistoso del proprio passaggio: sbraghi, lacerazioni, cicatrici, suture, vuoti, troppo pieni.

Ci sono due immagini che descrivono questo spazio, il suo dispositivo, in modo perfetto. Nella prima appare un campo con l’erba alta; in mezzo si scorgono le sagome dei soldati, profili sottili, probabilmente di metallo o altro materiale duro. I militari, disseminati su una ampia superficie erbosa, rammentano che in quel luogo nel 1948, presso il kibbutz Yad Mordechai, a Gaza, e avvenuto uno scontro a fuoco decisivo. Nell’altra il paesaggio è dato dal sovrapporsi, in primo piano, di un intrico di fili spinati: rotoli e rotoli, fitti fitti, gli uni sopra gli altri; cosi fitti da rendere lo spazio retrostante simile a un rotolo di metallo: rocce, strade, vegetazione, diventano un secondo intrico, che si associa al primo rendendo tutto invisibile, e al tempo stesso perfettamente visibile: il muro di metallo aderisce ovunque, e niente ora ne resta escluso.

«Una volta completato, il muro misurerà circa 700 chilometri, il doppio dei 320 chilometri del perimetro della Linea d’Armistizio del 1949, detta Green Line, che separa Israele dalla Cisgiordania», cosi è scritto laconicamente sotto la prima immagine che apre Wall, dove è raffigurato il campo profughi di Shu’fat, con vista su Al-Issawiya: sulla sinistra si scorge il muro composto di pannelli di cemento che avanza sino a quasi la metà dell’immagine, dal piccolo al grande; sulla destra si apre, dietro al muro, in lontananza, l’agglomerato delle case; in mezzo una strada di terra battuta. Sembrano due foto accostate una all’altra, invece è il medesimo paesaggio visto all’altezza del muro. Sono due paesaggi diversi, il muro e le case, costretti a convivere, segnando due spazi e due tempi differenti, eppure terribilmente complementari.

La viola

7

di Giorgio Nicolai

metro-station-bastille-gary-tinnes

Il Metrò di Parigi era una grande città sotterranea con negozi di ogni tipo: alimentari, vestiti, souvenir. Ogni giorno i corridoi erano affollati dai parigini dalla mattina alla sera: andare al lavoro, tornare a casa. I volti dei viaggiatori erano molto simili: aggrottati, preoccupati, stanchi. C’erano anche dei turisti perlopiù impauriti e disorientati dalla rete dei corridoi.
C’erano molte persone che vivevano alle fermate del Metrò: disoccupati, stranieri, tutti alla ricerca di qualche moneta per mangiare.
Il Metrò era a tutti gli effetti la città di questo piccolo popolo dimenticato e la vita degli abitanti di questa città dipendeva dal buon cuore di tutti i passanti indifferenti e affrettati.