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Vincent Descombes su Castoriadis. Autonomia e autolimitazione

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vd-nantes  [Questa intervista è apparsa in forma più breve sul n° 34 di “alfabeta2” e sul sito www.alfabeta2.it; un mio intervento su Castoriadis qui]

Conversazione con Andrea Inglese

Iniziamo con una domanda di carattere biografico. Ancora oggi Castoriadis è un autore che sembra svolgere un ruolo strategico nella sua riflessione. Penso, ad esempio, al suo ultimo saggio, Les embarras de l’identité(1), che si conclude sul concetto di “potere istituente” così come è stato formulato da Castoriadis. Quando e come è avvenuto il primo incontro con lui?

Tre poesie

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di Maria Grazia Calandrone

da Serie fossile, inedito.

Philip Parham


(°) – seme 

hai una debolezza di spiga, 
muscoli di cavalla, un’arsura 
di sabbia calpestata 
nella spina dorsale 
e un solco di aratura,
la solitudine di una bestia santa all’angolo
destro della bocca, dove un’intelligenza 
appena nata ti sfiora
quasi senza svegliarti

metti il dito nel solco del tuo cuore, indicami

scopri la crepa tua da dove stilla
il mio sangue sulla foresta dei simboli e nel sonno che specie di amore 
trabocchi 
sugli oggetti intorno 

                                   (quanto eccede 
la misura del corpo finisce 
per agire tra i legamenti elettrici del mondo
come la bruciatura
del neutro – l’inizio 
dell’anonimo – poggia con tutto il peso
sulla Terra Straniera del tuo corpo – per favore
non dirlo, chiudi la bocca)

perché il tuo occhio destro sfiora le acque
di un mare sepolto
                                – seme,
profondamente
rovo e corona
di specie 
sconosciuta – 
                        apertamente tace come bronzo, cammina 
nel presente 
come in un tempio, come nella memoria – 

                                                                      fin che dal fondo
dal teatro del mare 
una creatura adulta disarmata
si alza in piedi, crede al tuo perdono

23.5.13

-

© – fossile 

metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi, 
colma la soglia di benedizioni, dopo che 
sei passata attraverso
l’oro verde dell’iride 
come un’ape regale 
e – pagliuzza
su pagliuzza,
d’oro e grano trebbiato – 
hai fatto di me 
il tuo favo di luce

una costellazione di api ruota sul tiglio
con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca 
dall’albero del miele

                                   – sarebbe riduttivo dire amore
questa necessità della natura – 

                                                    mentre un vuoto anteriore rimargina 
tra fiore e fiore senza lasciare traccia:

                                                              usa la bocca, sfilami dal cuore 
il pungiglione d’oro, 
la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana
in una qualche preistoria 

dove i pazzi accarezzano le pietre come fossero teste di bambini:

                                                                                                           avvicinati, come la prima
tra le cose perdute
e quel volto si leva dalla pietra per sorridere ancora

24.5.13

-

breve disamina del fenomeno amoroso in un soggetto umano non esemplare

la terra perdonata
espone i corpi come su un altare al magnifico niente
perché c’è dentro così tanto di vivo
che basta al cielo
per essere cielo

io benedico
questo tuo corpo buono come pane
nel fuoco verde dell’erba e benedetta l’aria che respiri, beato il pane
dentro la tua bocca,
benedetto lo smalto dei tuoi denti
e beata la crema, che chiara all’angolo della tua bocca
chiede luce alla luce. quando ti appoggi
alla corteccia nuova del tiglio
come un sintomo della dolcezza terrena
la pasta calda e morbida della tua bocca
prende luce diretta
dagli apparati radicali

poi quel corpo di cardo e catena
che dice all’altro fermati

data l’immersione del corpo incandescente Alfa nel liquido freddo dello sguardo di Omega e data la scrupolosa osservazione alla quale esso è stato sottoposto durante i ripetuti tentativi di affondamento, si evidenziano i primi risultati provvisori:
1. proiezione di schizzi in forma di corona irregolare, accompagnati da
2. sfrigolii e seguiti da
3. una produzione decrescente di fumo sottile di colore azzurrino.

si sottolinea che, per tutta la durata dell’esperimento, il corpo Alfa non ha collaborato: dimenandosi in maniera irragionevole, esso ha prodotto un costante fenomeno di autocombustione, che ha impedito l’ottenimento del risultato sperato, ovvero il silenzio e l’immobilità finale del corpo stesso.

si conclude che: il corpo umano Alfa è ostinato e tende a recuperare il suo stato di primitivo calore.
tende inoltre a esprimersi in modo incomprensibile nei confronti di Omega:

ricordo sempre
il contatto
fra il tuo viso e la terra e il tuo viso
diventare l’autunno, la primavera e il sole
sopra i campi del grano

indotti dunque, nostro malgrado, a una prima ispezione empatica dell’osservatore Alfa si rileva che:

per tutta la durata dell’incontro un impulso elettrico primordiale
stacca il cuore dal petto di Alfa come una foglia
e lo inoltra nel petto di Omega, nel suo corpo obbediente
come una residenza imperiale, che Alfa osserva ininterrottamente

mentre registra i continui lapsus del corpo di Omega, Alfa sorride internamente e dice: “tra poco avremo la fioritura dei mandorli, sarà bello”. poi abbassa gli occhi, non aggiunge:

io ricordo la mandorla del seno e la figura
che sporgeva una mano dal fondo
del tempo e della natura. io ricordo l’invito e la fusione
di minerali primari
e ricordo che tutto rideva
dal tuo sorriso-arco
baleno
e brillavi all’interno come una cosa che non ha paura e sta vicina

 

* conclusioni

a conclusione della presente disamina si nota che, da qualche tempo, l’osservatore Alfa non rivolge più all’osservato Omega espressioni quali: “ti prego”. si immagina che Alfa non preghi più.

pare altresì opportuno segnalare che, dal medesimo intervallo di tempo, l’osservatore Alfa si alza dal letto e cammina, nel sonno, in direzione della casa di Omega, obbedendo a un segnale di natura apparentemente magnetica. si può dunque ritenere l’omissione oratoria di Alfa quale semplice effetto di un’autoregolamentazione, operata al fine di non turbare l’osservato Omega con estrinsecazioni inopportune.

compiuti pochi passi, l’osservatore Alfa, tuttora addormentato, comincia a produrre un’abbondante misura di lacrime davanti alla porta per raggiungere Omega. si suppone che ciò avvenga perché la porta per raggiungere Omega è stata chiusa dall’osservatore stesso, in stato di veglia.

risvegliandosi nel cuore della notte invernale nelle condizioni descritte, l’osservatore Alfa si siede e aspetta. se richiesto di cosa stia aspettando, risponde: che infine sia l’alba

27.1.14

 

 

(Foto: Philip Perham)

Sarajevo 1984 Olympic Winter Games

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Sarajevo-1984-Olympics

di

Azra Nuhefendić

Articolo pubblicato sull‘Osservatorio  Balcani e Caucaso

Un metro di neve e 20 gradi sotto lo zero! Nessuno ci fece caso in Bosnia. La gente puliva le strade e scava trincee nella neve per collegare la casa o il portone alla via principale.

Talvolta cadeva già a inizio ottobre. Andavamo a cena al ristorante e, all’uscita, ci aspettava la prima neve. Tap-tap. Con scarpe leggere ed eleganti ai piedi, cercavamo di attraversare il tappeto bianco senza scivolare o cadere. La neve resisteva fino ad aprile, qualche volta oltre. Capitava che sulle montagne intorno a Sarajevo nevicasse anche in piena estate. I giornali locali ne davano notizia, ma nessuno si stupiva.

Succedeva che in primavera uno andasse per i boschi sul monte Bjelascnica, a sud-ovest di Sarajevo. Erano giornate di sole, ma in 10 minuti rischiava di trovarsi nel mezzo di una tempesta bianca. Anche quelli che conoscevano la montagna, talvolta correvano il pericolo di perdersi o rimanere intrappolati sotto la neve, come successe negli anni Sessanta a 11 giovani e bravi sciatori che persero la vita in una tempesta improvvisa sul Bjelasnica.

Nevicava sempre moltissimo, ma, a inizio febbraio 1984, l’assenza inspiegabile dei fiocchi ci tormentò per giorni. Circa quattro milioni di bosniaci ed erzegovesi scrutavano il cielo aspettandola, si svegliavano di notte per controllare se fosse caduta e la prima domanda al risveglio era: “Nevica?“. Accusammo i meteorologi di aver sbagliato i calcoli. Quelli religiosi pregarono che nevicasse, ma invano. Nei 100 anni che precedettero la quattordicesima Olimpiade nevicò sempre a Sarajevo e dintorni.

Un giorno prima dell’ inizio dei Giochi, era il 7 febbraio 1984, sembrava di essere in primavera. Non era caduto un solo fiocco. Mi venne di piangere.

Sarajevo-Mappa_Montagne-copertina-800x540Tutto era pronto un anno prima che cominciassero i Giochi: venne costruito un villaggio olimpico, vennero aperti nuovi alberghi e ristrutturati i vecchi. Venne salvata e ricostruita l’antica parte ottomana della città, la Bascarsija, che era in rovina e rischiava di scomparire per fare posto a una <più bella>, dicevano. Le strade principali di Sarajevo vennero ristrutturate e allargate, le facciate dei palazzi vennero ridipinte, le rotaie dei tram elettrici vennero cambiate e la stazione centrale dei treni venne restaurata. Sui monti intorno a Sarajevo – lo Jahorina, il Bjelasnica, l’Igman, e il Trebevic – vennero costruite le strutture necessarie.

Alcune migliaia di giovani di tutta la nazione si esercitavano ogni giorno per imparare la coreografia dei cerimoniali di apertura e chiusura delle Olimpiadi. A proposito, il principale quotidiano  giapponese, “Yomiuri Shimbun”, domandava con un titolo in prima pagina: “Dove hanno trovato quelle ragazze bellissime e quei ragazzi così alti?”. Il sottotitolo ribatteva: “A Sarajevo sono tutti cosi”. Per evitare il rischio che qualcuno mancasse a causa dell’influenza, tutti si immunizzarono con vaccini forti, “quelli per i cavalli”, mi dice oggi scherzando Vanja. Lei e Svjetlana, due bosniache – triestine adottive – vi parteciparono. Trent’anni dopo, ancora belle e alte, rievocano con nostalgia quelle Olimpiadi.

Nella fase preparativa dei Giochi, piuttosto che la neve, ci preoccupava la nebbia. Anche quella è onnipresente a Sarajevo. Per far funzionare l’aeroporto locale, i nostri ingegneri prepararono delle sostanze chimiche, che, all’occorrenza, potevano – proprio come dice una canzona bosniaca antica (“duni vjetre, malo sa Neretve, pa rastjeraj maglu po Mostaru”) – far sparire la nebbia. Tutto era pronto e perfetto: migliaia di sportivi, innumerevoli giornalisti e decine di migliaia di ospiti erano già in città. Mancava solo lei. La neve.

Volevo essere parte di quell’evento, sarei stata contenta di fare un lavoretto: pulire la neve, indicare i servizi. Insomma, qualsiasi cosa. Mandai una richiesta per essere assunta come volontaria, ma nulla. Ci lavoravano già 30mila persone, di cui la metà era composta da volontari. Nella costruzioni delle strutture olimpiche sui monti, partecipavano giovani volontari, organizzati nelle “brigate lavorative”, le radne brigade. Nei giorni delle Olimpiadi, 400 camerieri provenienti da tutta la Jugoslavia erano al servizio degli ospiti.

La sera prima dell’inizio dei Giochi non volevo stare a casa: nella mia città si stava scrivendo la storia. Sarajevo splendeva, le strade erano affollate, i negozi, i ristoranti e i bar restarono aperti l’intera notte, stracolmi di gente. Migliaia di persone giravano su e giù, parlavano a gran voce, quelli che non riuscivano a comunicare in lingue straniere facevano amicizia a gesti. Si scattavano foto e si rideva così, senza un motivo. Ci pareva di essere al centro del mondo.

Poi cominciò a nevicare. Mi trovavo in via Vase Miskina (oggi Ferhadija) là dove inizia la parte antica della città, la Bascarsija. Alcuni saltavano di gioia, altri si tenevano per mano e ballavano, qualcuno urlava. Io ridevo, girando su me stessa. Volevo sentire i fiocchi gelidi sul viso.

Credo che quella volta molti comunisti, che da noi dovevano essere per forza atei, ringraziarono l’Altissimo.

Fu una notte dipinta di bianco. La neve cadeva bellissima, secca, quella che non si scioglie subito. I fiocchi erano grandi ed eleganti come farfalle. All’inizio, scese piano e poi sempre di più e più in fretta. Pareva che qualcuno, lassù, avesse aperto un sacco e che non riuscisse più a controllare la velocità con cui esso si svuotava.

Prima eravamo preoccupati, perché la neve non c’era. Poi, la situazione si invertì: in poche ore si raggruppò più di un metro di cotone gelido. Il problema fu livellare le piste sciistiche. Il presidente della Federazione internazionale per lo sci, Marc Hodler, preoccupato, domandò al presiedente del Comitato olimpico bosniaco, Branko Mikulic, come pensava di risolvere il problema. <Ci vogliono mille persone per spianare le piste, dove le troverete a quest’ora?>, chiese Holder. Secondo i testimoni Branko Mikulic rispose: “Secondo lei, potrebbero bastarne cinquemila?”.

I cittadini vennero chiamati ad aiutare e risposero in migliaia, lavorando l’intera notte. Soldati dell’Jna compresi. La mattina dopo, le piste erano perfette e la città pulitissima. “Fummo così entusiasti da acchiappare i fiocchi ancora prima che toccassero terra”, ricorda Meho S., tassista di Sarajevo.

Erano momenti magici, sembrava di vivere una fiaba. Infatti, la quattordicesima edizione dei Giochi olimpici invernali di Sarajevo poté, per molti aspetti, considerarsi un miracolo.

imagesNessuno ci credeva. Una volta, i Giochi venivano organizzati dai ricchi Paesi occidentali. La manifestazione che si tenne da noi fu di gran prestigio e costosa, una sorta di vetrina dove l’organizzatore fece vedere al mondo il meglio di sé. Proprio come accade ancora. Sarajevo, per vincere, dovette prima convincere prima gli scettici di casa. La candidatura doveva essere approvata dal Partito comunista, dal Governo della Bosnia-Erzegovina e, infine, da quello federale (SIV).

Le altre Repubbliche della Jugoslavia consideravano la Bosnia un “tamni vilajet” (un mondo tenebroso, retrogrado) una sorta di cugino povero che meritava simpatia e aiuto, ma non altro. Di conseguenza, la prima reazione delle altre Repubbliche fu di incredulità, ma Sarajevo ce la fece. La capitale della Bosnia dovette competere con la giapponese Sapporo e  la congiunta candidatura di due città svedesi: Falun e Göteborg.

Dopo aver fatto un’ultima visita a Sarajevo, Marc Hodler, riferì queste parole al Comitato olimpico: <La Bosnia-Erzegovina si sta sviluppando a vista d’occhio, la gente ci vive libera e felice>.

Prima della votazione, la giornalista inglese Pet Bedford scrisse: “Se sceglierete Saporo, i  giapponesi vi organizzeranno un aereo per visitare Tokio; se opterete per Falun e Göteborg, gli svedesi vi faranno di vedere i fiordi e gli iceberg. Se, invece, la vostra scelta cadrà sulla Jugoslavia e Sarajevo, ci troverete gente amichevole, con grande cuore e montagne”.

I Giochi olimpici invernali a Sarajevo si tennero dal 8 al 19 febbraio 1984. Fu la prima Olimpiade invernale ad andare in scena in un Paese comunista. Arrivarono partecipanti da 49 Paesi, 1272 atleti (274 donne, 998 uomini) che gareggiarono in 39 discipline, seguiti da 7393 giornalisti e visti da due miliardi di telespettatori. Gli organizzatori vendettero 250mila biglietti, guadagnando 47 milioni dollari e, grazie ai Giochi, vennero assegnati 9500 nuovi posti di lavoro.

Per la prima volta, alle Olimpiadi invernali i disabili gareggiarono nello slalom gigante e, per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, la coppia inglese di ballerini su ghiaccio, Jayne Torvill e Christopher Dean, ricevette il punteggio più alto fra quelli disponibili.

I Giochi invernali di Sarajevo lanciarono una delle icone sportive più grandi degli ultimi due decenni del ventesimo secolo, la pattinatrice della Germania dell’Est – che all’epoca era un Paese indipendente – Katarina Witt, la quale conquistò una medaglia d’oro.

Fu un trionfo anche per la stessa Jugoslavia che vinse una medaglia nelle Olimpiadi invernali. Era la prima. Lo sciatore sloveno Jure Franko, si aggiudicò un argento nello slalom gigante, portando l’intera nazione in “trans”. Durante la premiazione, di fronte al centro sportivo-culturale “Skenderija”, decine di migliaia urlarono: “Volimo Jureka, vise non bureka”, amiamo più Jure che il burek, ovvero il piatto preferito nazionale.

Erano tempi diversi, con valori diversi – racconta oggi Jure Franko. In caso di vincita – narra l’ex campione – promisero di regalarci un videoregistratore. Fra me e me pensavo di dover fare di tutto per portarlo a casa“.

Juan Antonio Samaranch arrivò alle Olimpiadi di Sarajevo per la prima volta in veste di presidente del Comitato internazionale olimpico (IOC). Nel suo discorso in occasione della chiusura dei Giochi, Samaranch disse: “Il movimento olimpico è stato arricchito. Per la prima volta i Giochi olimpici sono stati organizzati da un popolo”. Fra la città e il presidente si strinse un’amicizia che durò 20 anni, fino alla morte dello stesso Samarnch.

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Nel corso della guerra – nei primi mesi del 1992 – molti edifici olimpici vennero rasi al suolo, bersagliati di proposito, come tutto ciò che documentava la storia e la vita comune dei bosniaci ed erzegovesi. Il centro sportivo “Zetra”, con la magnifica sala di ghiaccio che fece da palcoscenico ai pattinatori e alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi, fu bombardata e incendiata. Rimasero integre solo le fondamenta. Il centro “Skenderia”, il Museo olimpico e gli alberghi sulle montagne vennero demoliti.

Già nell’aprile 1992, sul monte Jahorina, serbi armati di kalashnikov si fecero pagare con minacce il biglietto per lo ski lift. Il monte Trebevic – così vicino che la consideravamo essere un monte nel cortile di casa – una volta era più caro ai sarajevesi. Dopo il conflitto, molti non ci tornarono più. Là venne costruita pista di bob, minata durante l’assedio. Oggi è abbandonata, ci vagano coraggiosi  che raccolgono pallottole vuote da vendere agli artigiani, i quali ne fanno souvenir da vendere a loro volta ai turisti.

I villaggi olimpici Mojmilo e Dobrinja, vennero progettati per diventare nuovi quartieri della città. Sono due zone belle, grandi, contigue all’aeroporto, dove, dopo i Giochi, vennero distribuiti 2750 appartamenti a coloro che non ne avevano.

All’inizio della guerra che lacerò la Bosnia, il quartiere di Dobrinja venne bombardato e i serbi cercarono di occuparlo, ma invano. Dobrinja rimase assediata per tutto il conflitto e tagliata dal resto della città, subendo un assedio nell’assedio. Gli abitanti, gente mista di tutte le etnie e religioni, lottarono sempre e la loro è una storia di coraggio e resistenza esemplare. Oggi per Dobrinja passa la linea invisibile della Sarajevo divisa.

Nel 1994, a Lillehammer, in Norvegia, si tenne la diciassettesima edizione dei Giochi invernali. Samaranch abbandonò Lillehammer per raggiungere Sarajevo ed esprimerle la propria solidarietà, mostrando un coraggio e un grinta che mancarono a moltissimi politici dell’epoca.

“Con aria di sfida – narra il direttore del Museo Olimpico di Sarajevo, Edo Numankadic – come se non vi fosse alcun pericolo dalle colline, Samaranch stette fermo sulle rovine del centro sportivo “Zetra”, dove, 10 anni prima, dichiarò chiuse le Olimpiadi invernali. Fu un segnale che non ci avrebbero dimenticati, né abbandonati. Gli fummo molto grati – chiosa Numankadic – e la gente venne a salutarlo e a toccarlo con mano”.

In quella occasione, Samaranch promise che avrebbe fatto di tutto per riportare in vita il centro olimpico. Nel 1999, la sua promessa venne mantenuta e il centro “Zetra” venne ricostruito e riaperto.

In questi giorni, a Sarajevo stanno preparando i celebrativi per il trentennale dell’Olimpiade invernale del 1984. I festeggiamenti si organizzano anche nel mondo, dove, dopo la guerra, si sparse circa un milione di bosniaci. A Melbourne, in Australia, gli organizzatori invitano i connazionali a rivivere i giochi invernali, per stare insieme e accendere, per un attimo, la fiamma dentro di essi.

A Sarajevo, 20 anni dopo, i simboli dell’Olimpiade sono ancora vivi. La mascotte Vucko, Lupetto, oggi è il souvenir più venduto ai turisti e la sua immagine, ormai scolorita, si vede ancora sulle facciate di alcuni edifici. I segnali stradali indicano “la montagna olimpica”, la gente ne parla volentieri e con il sospiro, rievocando i tempi in cui eravamo felici e uniti.

Adesso, però, sul monte Jahorina sciano i serbi, mentre sul Bjelasnica i bosniaci.

“Nel corso della guerra, appostati sulle colline, i serbi decidevano della nostra vita e della nostra morte: non riesco più a guardarne una senza pensare al conflitto”, commenta la signora Suada K., esprimendo un sentimento diffusissimo.

 

 

Cinque poesie di Miguel Hernández

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traduzioni isometre di Raffaele Di Stasio


Me llamo barro aunque Miguel me llame

Me llamo barro aunque Miguel me llame.
Barro es mi profesión y mi destino
que mancha con su lengua cuanto lame.

La memoria del mondo

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Navigando con Calvino, Google e la NSA

escher

di Domenico Talia

«La nostra organizzazione garantisce che questa quantità di informazione non si disperda, indipendentemente dal fatto che essa venga ricevuta o no da altri. Sarà scrupolo del direttore far sì che non resti fuori niente, perché quel che resta fuori e come se non ci fosse mai stato. E nello stesso tempo sarà suo scrupolo fare come se non ci fosse mai stato tutto ciò che finirebbe per impasticciare o mettere in ombra altre cose più essenziali, cioè tutto quello che anziché aumentare l’informazione creerebbe disordine e frastuono. L’importante è il modello generale costituito dall’insieme delle informazioni, dal quale potranno essere ricavate altre informazioni che noi non diamo e che magari non abbiamo.» Al contrario di quello che si potrebbe pensare, questo brano non è tratto da un discorso del generale Alexander, direttore della National Security Agency americana, ma da un breve racconto che Italo Calvino ha scritto nella metà degli anni ’60 e al quale lo scrittore delle cosmicomiche ha dato un titolo che sicuramente piacerebbe al capo della NSA: La memoria del mondo.

Zona d’ombra

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di Nicola Fanizza

Percepire la civiltà greco-romana partendo unicamente dal suo mitico passato rimane un’abitudine tenace che è dura a morire, tanto è vero che è tuttora presente. Basti pensare all’Europa mediterranea immaginata dai teorici dell’école barisienne e da alcuni intellettuali della destra radicale. Un’entità mitica che non esiste poiché sia gli uni che gli altri confondono la rappresentazione della realtà – la sua immagine – con la realtà stessa.

Il Sud, oggi, appare come un’ombra, che, a sua volta, è coestensiva alle tenebre trasparenti che coprono il Mediterraneo, in cui signoreggiano da sempre i demoni meridiani. Il Mediterraneo assomiglia sempre più a una frontiera, che si estende da levante a ponente per separare l’Europa dall’Africa nonché dall’Asia Minore. Non è in alcun modo possibile considerare questo mare come un «insieme». Infatti, non si possono non tenere presenti sia le vecchie fratture e le antiche divisioni determinate dagli eventi storici del passato sia i recenti conflitti che lo dilaniano: in Siria, in Libano, in Palestina, in Egitto, in Libia, a Cipro, nel Magreb, nei Balcani.

Il Mediterraneo si è sempre configurato come un luogo di incontri, e, insieme, di scontri. Certo, sulle coste di questo mare hanno avuto luogo rare – ma anche significative e, a volte, preziose – coabitazioni fra culture diverse: la Sicilia normanna, la Spagna dei mori e la mitica civiltà catara. Nei porti di questo mare la «dimensione erotica» delle merci ha consentito, a dispetto delle scissioni e dei conflitti, di riannodare i rapporti fra i diversi popoli producendo contaminazioni nonché modi di essere e maniere di vivere comuni o avvicinabili. In questo senso, «i tenui prezzi delle sue merci» – dicono Marx ed Engels – sono diventate «l’artiglieria pesante con cui la borghesia abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero».

La storia di questo mare è costellata anche di scontri che hanno avuto come protagonisti sia gli Stati con la loro violenza organizzata sia gruppi di privati dediti alla pirateria. Di fatto nel Mediterraneo occidentale gli atti di pirateria – sia dei pirati tunisini e algerini sia dei corsari maltesi – sono terminati solo nella seconda metà dell’Ottocento in seguito alla colonizzazione europea delle coste settentrionali del continente africano.

La colonizzazione di quelle terre, col suo carico mostruoso di sfruttamento e di etnocidi, ha prodotto un risentimento che è tutt’oggi presente. Basti pensare all’attacco dei Senussi al consolato italiano di Bengasi del 17 febbraio 2006, in seguito alla provocazione messa in atto dal ministro leghista Calderoli. In quell’occasione, i Senussi si scagliarono contro un simbolo italiano poiché memori del genocidio compiuto nel 1930-31 dagli Italiani nei confronti del loro popolo. D’altronde, non va dimenticato che in Libia, dopo trent’anni di dominazione italiana, vi erano solo tre diplomati!

L’accelerazione della modernizzazione capitalistica, il conseguente venir meno dei vincoli sociali, l’esigenza di ricomporre il tessuto delle relazioni sociali e di ripristinare la comunità infranta, sono queste le situazioni che hanno contribuito a creare, nei Paesi che si affacciano sulla riva sud del mediterraneo, lo sfondo da cui si è originato il processo – innescato dalle insurrezioni della «Primavera araba» – di islamizzazione della modernità (fascismo islamico), che porterà alla compressione dell’effervescenza sociale.

Per di più, sulle coste africane del Mediterraneo è presente una popolazione in crescita, la cui età media è di appena venti anni e, viceversa, sulle coste europee del medesimo mare la popolazione ha un’età media di quaranta anni. Va da sé che gli abitanti della costa sud, visto il processo di desertificazione che investe le loro terre, cerchino una via di salvezza attraverso la migrazione in altri luoghi e, in particolare, attraverso i porti dell’Italia meridionale.

Qui la modernizzazione capitalistica ha ormai da tempo dissolto le forme di sociabilità della civiltà contadina. Il fantasma della merce signoreggia sulle altre ombre; combatte contro lo scambio asimmetrico; contrasta le attività ritenute inutili; dà valore solo al lavoro produttivo, a ciò che è omogeneo e commensurabile; cerca, infine, di trasformare gli individui in monete viventi. Si tratta di situazioni che costituiscono la struttura portante dell’immaginario che regna in modo sovrano nel mondo occidentale. In questo senso l’identità latino-mediterranea non è in alcun modo diversa dell’identità italiana in generale, poiché non ha alcuna attitudine autonoma ed è, comunque, riconducibile all’area della cultura occidentale.

Un giudizio questo che può imporsi con la sua limpida evidenza solo se si fanno i conti con il composito immaginario del Meridione: ossia col modo in cui la popolazione del Nord guarda al Sud; con il modo in cui gli abitanti del Meridione si autorappresentano; e, infine, con l’autentico modo d’essere del Mezzogiorno.

Gli abitanti del Nord ritengono che il Sud non appartenga alla modernità. Rappresenta ciò che di per sé è arretratezza. Il Sud è colpevole di: aver prodotto la mafia e la camorra; scarsa produttività; assenza di senso civico; familismo amorale; ignoranza; mancanza di pulizia sia fisica che morale.

Viceversa, gli abitanti delle regioni meridionali – pur riconoscendo i disservizi nella pubblica amministrazione e nella sanità – affermano che il senso della famiglia, dell’onore, della solidarietà e dell’ospitalità fanno parte della loro essenza. E pertanto perché dobbiamo, si chiede la gente del Sud, insieme ai suoi intellettuali, rinunciare a noi stessi? Dobbiamo vergognarci della nostra identità? D’altronde, fuori dal nostro mondo c’è solo l’individualismo che regna sovrano nelle regioni del Nord!

Da questo complesso di inferiorità e, insieme, di superiorità, scaturisce la coscienza latino-mediterranea. Un proverbio siriaco afferma: «Dimmi ciò di cui ti vanti e ti dirò ciò che ti manca!». Ebbene tanto più la gente del Sud rivendica sul piano fantasmatico gli ideali di solidarietà e di ospitalità, quanto più vuol dire che quegli ideali vengono negati nella vita reale. Di fatto non è in alcun modo vero che le pratiche sociali che signoreggiano nello spazio pubblico meridionale stazionino nell’atmosfera della solidarietà, dell’ospitalità e del dono. Gli abitanti del Sud, al pari di quelli del Nord, non avvertono alcun obbligo morale nei confronti degli altri e informano i loro comportamenti all’etica dell’utilitarismo e dell’individualismo.

Già agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando ormai la civiltà contadina iniziava il suo definitivo declino, Rocco Scotellaro – il poeta contadino, sindaco socialista di Tricarico – denunciava la deriva utilitaristica con queste parole: «Ho perduto la mia schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà».

Contrariamente a quanto si pensa, il termine «comunità», in origine, non indicava l’appartenenza, ossia ciò che è caratteristico di un gruppo di individui, ma al contrario, il debito, la mancanza, l’obbligo, ovvero ciò che era non specifico, aperto alle influenze che arrivavano dall’esterno. A sua volta, il termine «libertà» non rimandava alle istanze più personali e individualistiche, ma a ciò che legava ciascun individuo agli altri, al legame con gli altri, all’obbligo nei confronti degli altri.

Il poeta lucano poteva dire di aver perso la propria libertà proprio perché la identificava con ciò che lo legava agli altri individui. Il rito del bere il vino assieme ai suoi contadini aveva ormai perso la sua capacita di addomesticare la distanza con l’altro da sé. Scotellaro, infatti, era disperato proprio perché coglieva nelle pratiche rituali del mondo contadino l’insinuarsi del germe dell’utilitarismo e dell’individualismo borghese, che sortiva una prossimità che diventava sempre più distanziante. Insomma abbiamo perduto l’obbligo nei confronti degli altri, ciò che sta a fondamento del legame sociale. Ciò che, invece, abbiamo conservato è il fantasma del nemico: ci consente di avere una ragione per vivere!

Ad Auschwitz non c’era il mistero

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di Giacomo Verri

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“Che cosa restava ad Auschwitz di questa società, di questa gerarchia? Oh, c’erano gradi e ranghi – nel senso ignobile. Le condizioni erano tali che sussisteva, in un certo senso, un simulacro di società, con le sue prostitute e i suoi criminali alla guida di un macchinario organizzato in modo tale che la morte fosse il solo esito”.

Così Charlotte Delbo nella lucida perizia intorno all’universo concentrazionario che si legge in Spettri, miei compagni (ora tradotto da Andrea Pioselli, introd. di Elisabetta Ruffini, Il filo di Arianna, pp. 78, € 10), lunga missiva che l’autrice progettò di inviare a Louis Jouvet e che mai terminò per la sopraggiunta morte dell’attore nel 1951. Ma nonostante la dichiarata incompiutezza, Spettri è tra le meglio delineate e disarmanti riflessioni sull’esperienza della deportazione e dell’internamento, non perché narra i gesti, i luoghi orrendi, le cose fuori pietà che laggiù si provarono, ma poiché indaga come e quanto (al perché non v’è chiosa) la barbarie nazista seppe asportare tutto ciò che alimenta la vita psichica dell’individuo.

Delbo, classe 1913, famiglia di origine italiana, è oggi tra le donne simbolo della Resistenza nel padiglione francese del Museo di Auschwitz. Assistente di Henri Lefebvre, segretaria di Jouvet, sposa nel 1936 Georges Dudach, allora tra le guide della Jeunesse communiste. Proprio sui «Cahiers de la Jeunesse», firma le prime recensioni letterarie e teatrali che la condurranno a quei profondi e laceranti percorsi nell’immaginario, alla base anche di questa ‘lettera filosofica’. Il 2 marzo 1942 è arrestata col marito (frattanto divenuto il braccio destro del leader comunista Pierre Villon), nel quadro dell’affaire Pican. Dudach è di lì a poco fucilato, mentre la Delbo, schedata nella rubrica ‘Notte e Nebbia’ tra i prigionieri politici, sale su un treno diretto al campo di Auschwitz-Birkenau, che giunge a destinazione proprio il 27 gennaio 1943. Con lei, tra le altre donne, c’è Viva, Vittoria Nenni, figlia di Pietro.

La lettera, come un bisturi, incide inesorabilmente l’umanità di chi legge per chiamare in superficie non tanto la cognizione del dolore provato, ma l’atroce estinzione della paura e del senso del mistero. Prima di Auschwitz, la Delbo è detenuta a Romainville. Lì inizia la deriva, lì il viaggio della coscienza guadagna il deserto dove l’umana “sensibilità è ridotta allo stato di ricordo”. Lungo la rotta dell’annullamento, mentre la compagnia delle persone vere si perde, resta quella degli amati personaggi di teatro (la cui essenza giunge attraverso “il comportamento nell’azione”) e di romanzo (che, scrutati fin nelle crepe ultime del cuore, guadagnano “l’universalità umana”). Essi sopravventano quello “sforzo della coscienza per afferrare la propria esistenza che Proust chiama la ricerca del tempo perduto”. Appaiono allora Fabrizio del Dongo, l’eroe della Certosa, e altri spettri, ognuno dei quali educa in qualcosa Charlotte. “Il personaggio raggiunge, a seconda dell’ambiente in cui lo si cala, un grado di esistenza più o meno alto. In prigione”, e chi poteva starci meglio di Fabrizio?, “si anima con una vivacità particolare”. Del Dongo le insegna ad annoiarsi, ché in cella, nonostante il tempo a disposizione per pensare, il futuro decade “a causa del tribunale che decreta solo condanne a morte”. Il sentimento dell’ineluttabile estingue la paura, “la conoscenza esatta del pericolo paralizza l’immaginazione”. Ma come vivere senza paura, senza il mistero della paura? È Ondine, l’eroina della pièce di Giraudoux, a offrire la risposta: lei, ninfa vaga dell’umano Hans che la tradisce, destinata a sprofondare nel buio, è metafora della franante oblivione di Charlotte, della propria dimenticanza terribile eppure necessaria. Sopravvivenza significa oblio, “quella facoltà della memoria di rigettare nell’insensibile il ricordo di una sensazione calda e viva”. Charlotte impara dunque a dimenticare (“poiché mangiavo, dimenticavo, poiché respiravo, dimenticavo, poiché pensavo a ciò che sarebbe stato domani, dimenticavo”).

Sul “vagone oscuro dove le forme erano ancora più fantastiche che quelle dei sogni”, compare il misantropo Alceste, a lei germano per la sete d’assoluto. Non c’è Don Giovanni (che arriva più tardi), nonostante le belle ragazze “che scuotevano i capelli per far cadere le pagliuzze che ci si erano attaccate”; non Amleto, troppo filosofo, troppo “poco dotato di esistenza”; non Ermione, non Rodrigo. C’è l’Elettra di Giraudoux, che s’erge infine tra le paludi di Auschwitz: “che la verità divampi”, dice. E la verità è la gemma della rimembranza, il ricordo dell’amore: “valeva la pena tutto soffrire per riportare la memoria dell’amore assoluto che si era vissuto”.

Ma anche il ritorno è disgregante. Il 23 giugno 1945 Delbo sbarca all’aeroporto di Bourget. “Tutti , tra la folla di cui sentivo il fluire intorno a me, tutti erano pronti ad aiutarmi, erano lì per aiutarmi, ma si proponevano coi loro propri mezzi, senza relazione con ciò di cui avevo bisogno”. E scopriamo allora che il bisogno di chi ha fatto quella esperienza è di avere tempo per risalire la superficie, tornare a illudersi che non tutto è così “a lato dell’essenziale”, riconquistare tra le lacrime il senso della nostalgia: quanto “mi circondava non erano che spigoli taglienti e brucianti di oggetti, di colori, di reminiscenze, di associazioni, di evocazioni che testimoniavano che G. aveva vissuto, mi aveva amato, che l’avevo amato”.

(Pubblicato su L’Unità il 5/2/2014)

Su “Sangue”

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di Marco Rovelli

Ancor prima di essere proiettato al festival di Locarno, il film di Pippo Delbono Sangue ha ricevuto numerosi attacchi da molti giornali italiani per il solo fatto di contenere la testimonianza dell’ex brigatista Giovanni Senzani. Ma non si può liquidare così Sangue, un film estremo: estremo perché vive di una tensione estrema verso i confini di vita e morte attraverso le storie parallele della morte della madre di Delbono e di Senzani; perché è stato girato con un cellulare (dispositivo che riduce la minimo la distanza tra il soggetto e l’oggetto); perché non si basa su una sceneggiatura, ma campiona pezzi di vita, li riquadra, li mette in sequenza, li monta in una costellazione di senso.

Sangue è essenzialmente la messa in scena di un teatro interiore. La messa in scena, sia chiaro, per prima cosa di fronte a se stesso. Davanti alla mente passano come nubi le forme delle cose, la forma della vita: e si tratta, semplicemente, di osservare. Come si fa nella postura meditativa, semplicemente osservare. Osservare le cose come sono, e in questo atto conseguire il distacco.

La luce prima, il turbamento poi

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LA-LUCE-PRIMALettera a Emanuele Tonon scritta da Alessandro Chiappanuvoli

 

Caro Emanuele,

è quasi un mese ormai che ho finito di leggere La luce prima, ma finora ho aspettato a scriverne, seppure una reazione me l’abbia scatenata il tuo libro. Ho aspettato perché ho avuto un po’ di paura, lo confesso. Molti occhi in questo momento sono puntati su di te e il tuo nome circola sempre più spesso sulle bocche di esperti del settore e non ho voluto espormi. Mi spiego. Non è che abbia paura di dire che il tuo libro non mi è piaciuto, non è questo il punto perché sono convinto che La luce prima non sia un’opera scritta per piacere, ho avuto paura di ammettere che mi ha turbato, profondamente.

Ho cominciato l’anno passato a ricordare il tuo nome, letto qua è là su internet, con l’uscita del tuo ultimo lavoro. Non fu l’argomento Marco Simoncelli (I circuiti celesti) a incuriosirmi, ma i post lusinghieri sui social network di tante conoscenze, per te amici, che abbiamo in comune. Lessi così un tuo racconto sul primo volume della rivista Watt Magazine e, devo dire, quell’estratto proprio da La luce prima, però decontestualizzato, non mi impressionò particolarmente. Mi promisi però di leggerti meglio. Nei giorni immediatamente precedenti all’ultima edizione della fiera Più libri più liberi, diverse persone mi dissero che sarebbero venute alla tua presentazione e mi avevano invitato a partecipare. Non riuscii a venire quel venerdì, fui presente a Roma solo il sabato e me ne andai in giornata. Passai tuttavia allo stand della Isbn Edizioni e presi questo tuo libro, lo scelsi istintivamente, loro mi consigliarono pure di partire da Il nemico ma non volli sentire ragioni, ormai avevo scelto. Lessi inoltre, a ridosso del Natale, il tuo scambio di lettere con Moresco, fu la svolta decisiva che mi fece prendere in mano La luce prima.

Le pagine iniziali, devo ammetterlo, sono state difficili per me. Mi sono sentito fuori luogo, come una persona estranea presente per caso a un momento familiare decisivo, o peggio, a un delicato scontro d’amore. Sulle prime non ne coglievo correttamente il senso del testo e ti rivelo che mi sono anche interrogato sul perché delle tante parole d’elogio spese in tuo elogio che avevo letto. Mi sono detto più volte di andar via, di chiudere il libro e di nasconderlo tra gli altri nella libreria, non con rancore però, sia chiaro, avrei voluto farlo con tacito riserbo, invece, come se non avessi voluto disturbare il tuo mondo, umano e letterario. Ogni volta però, la sera, aprivo di nuovo La luce prima e ne leggevo qualche pagina. Ti giuro, non ho continuato per la curiosità morbosa di sapere di più su te e su tua madre, né per interesse critico, per carpire insomma qualche segreto dallo scrittore alla moda di turno, e poi, confesso che ho avuto subito l’impressione che il tuo libro non volesse dimostrare nulla, tantomeno il tuo talento, ma che fosse piuttosto, e avevo ragione, un gorgo, un vortice centripeto che ingoia dai piedi. Ho continuato a leggerlo, invece, proprio per quel turbamento cui accennavo e che prendeva sempre più forma in me, e poi perché, come te, amo mia madre, e mio padre, e mi spaventa l’idea di perderli, e ancora perché, più di tutto, mi spaventa l’idea di perderli prima che abbia potuto esprimergli tutto il mio amore, e la mia gratitudine, e pure i rancori e le paure legate così visceralmente al nostro rapporto. Sai, vivo in una terra dove la morte ha deciso di venire a vivere in pianta stabile, deve essersi affittata una casa in centro storico, credo, e questa presenza mi turba, mi turba tutta questa imprevedibile fragilità alla quale non ero mai stato abituato.

A causarmi quel turbamento penso sia stata la domanda che si è insinuata nel mio cervello, pagina dopo pagina, notte dopo notte. Trovarle risposta mi pareva che potesse essere il modo giusto per dargli pace, a quel turbamento. Ebbene, in queste settimane, ho capito che non è vero, che non è possibile quietarlo, trovare la risposta a quella domanda è solo un gioco al massacro, è infliggersi gratuitamente un dolore, è masochismo. Ecco, quella domanda: «Sono capace io – non solo come scrittore ma come uomo – di soffrire così tanto? Di causarmi tanta sofferenza? Sono capace di spogliarmi completamente di ogni riservatezza e di ogni artificio retorico per mettere a nudo il mistero emotivo e razionale che mi lega non solo a mia madre ma a qualsiasi altra persona?»

Tu ne sei stato capace, te ne devo dare atto, ed è questo il pregio principale del libro: la dimostrazione tua, di uomo e di scrittore, di saperti mettere totalmente in gioco, senza esitazioni, per certi versi, e al contempo con una paura fottutissima, umana, che traspariva in ogni parola.

Forse quel mio turbamento era mosso anche dall’invidia, chissà, l’invidia per il tuo coraggio, non lo escludo. Preferisco però, per un mio equilibrio psicofisico, pensare che si sia trattato di innocente ammirazione. Vedi, dal mio punto di vista, il valore di questo tuo coraggio, e quindi del libro, non si esprime tanto nelle immagini che hai scelto di raccontare, né nei dettagli che hai descritto, quelle piccolissime e preziosissime verità familiari che riveli prima di tutto a te stesso, e poi a tua madre, e poi a tutti noi, quanto invece nella capacità tua, personale, di far breccia, di riuscire a portare finalmente la luce nella buia vulnerabilità che ogni essere umano ha dentro di sé, e che poi scatena domande inquietanti come la mia. È come se, scavando dentro te stesso, avessi scavato e tirato fuori segreti inconfessabili, archetipi umani, dentro di me, e dentro ogni uomo che ha calcato la superficie del pianeta. È la tua confidenza col mistero che mi ha turbato. È stata non tanto la tua fede dichiarata, quanto la tua fedeltà al mistero stesso che mi ha illuminato, prima, e conquistato, poi.

Grazie.

Vorrei farti dono in cambio, perché è vero che il dono genera alleanze, il video di questa canzone, che mi ha fatto pensare a te e alla tua Luce.

http://www.youtube.com/watch?v=TPlQmBqtOjU

 

Castoriadis e il vocabolario dell’autonomia

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di Andrea Inglese

[Ho curato per il n° 34 di “alfabeta2”, con l’aiuto di Massimo Rizzante, un dossier dal titolo Rileggere Castoriadis. I materiali proposti non possono cogliere che molto parzialmente i contorni della figura di Cornelius Castoriadis (1922-1997), poliedrica e multidisciplinare, giunta alla filosofia e alla psicanalisi dopo un ventennio di assidua militanza nel collettivo politico Socialismo o barbarie (1948-1967) e un’esperienza professionale come economista. Sul sito www.alfabeta2.it è possibile leggere una scheda bibliografica aggiornata sia sul versante francese che italiano e un suo scritto, inedito in Italia, del 1981 (attualissimo oggi sopratutto). Quello che segue è il mio contributo.]

Note Movie : Venere in pelliccia

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Nota
di Sophie Brunodet

Ambiguo, no ambivalente
È come ritrovarsi nello spazio che si frappone, invisibile e quasi inconcepibile, eppure presente, tra l’immagine riflessa in uno specchio e colui che si specchia. Sono la stessa cosa e allo stesso tempo sono differenti; entrambi esistono. È un gioco di rimandi dall’uno all’altro tra riconoscimento ed estraneazione, identità e differenza, essere e possibilità altra d’essere. È un combattimento e una riconciliazione continua quella che si svolge sul palcoscenico di un teatro parigino tra Thomas Novachek (Mathieu Amalric), regista e sceneggiatore di un opera teatrale tratta dall’omonimo libro datato 1870 dell’austriaco Leopold von Sacher-Masoch (1836 – 1895) e Vanda (Emmanuelle Seigner), attrice scompigliata arrivata in ritardo al provino per la ricerca del personaggio femminile della pièce. È un incontro e uno scontro di vite, di ruoli di genere e di potere: mentre per Thomas la sottomissione descritta da Masoch è amore, per Vanda non è nient’altro che un porno. È una lotta tra opposti, anzi, di più. C’è uno scarto dalla semplice, antipatica e poco fantasiosa logica binaria e dell’antitesi: c’è piuttosto un’apertura fatta di andirivieni continui e senza fine di ogni figura, forma rappresentativa, livello comunicativo da e verso altri possibili.

Una delle espressioni più ricorrenti in Venere in pelliccia, adattamento cinematografico dello spettacolo teatrale di David Ives, presentato quest’anno a Cannes dell’ottantenne Roman Polanski, è “ambiguo, no ambivalente”, come continuamente Thomas precisa a Vanda, che immancabilmente si confonde. E proprio tale puntualizzazione ricorrente pare essere un indizio messo lì dal regista affinché lo spettatore si lasci trascinare non tanto in un limbo di incertezza e confusione, bensì in quello ben più affascinante del plurimo e del traboccante. Polanski, in effetti, non si limita a inscenare un gioco dell’equivocità delle identità dei protagonisti e neanche fa una controversia morale sulla sessualità masochista, ma si impegna nella ben più intrigante e complessa messa in scena della molteplicità insita in ogni anima umana, invischiata in viavai continui da ogni area dell’ispirazione, della fisicità, del sentimento, della virtù, dell’estetica dalle quali uomini e donne costantemente passano vivendo.

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Tutta la storia si svolge durante un temporale serale, nel ristretto spazio magico di un non meglio precisato teatro parigino. Non c’è un epilogo vero e proprio della vicenda, lasciata sospesa in una dimensione mitica e surreale alla chiusura del sipario, allo stesso modo in cui l’inizio si innescava nella nebbia di un viale alberato. Polanski ha creato nel suo film un’atmosfera di sospensione nel reale che ricorda quella creata da J.L. Borges nel suo racconto L’altro (Il libro di sabbia, 1975), in cui si trovano l’uno di fronte all’altro il Jorge Luis ventenne e ginevrino e il Jorge Luis settantenne a Cambridge, senza che sia possibile precisare se si tratti di sogno, fantasia o realtà, senza poter decidere inequivocabilmente chi stia sognando o immaginando chi, e che si chiude con una pacifica accettazione dell’assurdo, proprio come mi pare faccia Polanski. Entrambi giocano sul filo del doppio e dell’ambivalente con i loro protagonisti, Borges creando un racconto sullo spazio che separa l’uomo di ieri dall’uomo che è oggi, in un atmosfera incerta tra il racconto di un fatto e il sogno, Polanski muovendosi nel margine tra rappresentato, rappresentante, rappresentazione e realtà, entrambi regalandoci un’esperienza vivida, inusuale, forte.

Due volti, innumerevoli personaggi
Due soli attori straordinari interpretano con grande abilità e credibilità un bouquet di personaggi incredibilmente variegato, riuscendo a confondere, a spiazzare e a sorprendere nel loro sfilare raffinato, istantaneo e senza posa, dall’uno all’altro. Mathieu Amalric è Thomas, un timido dalla vita sentimentale piacevole e ordinaria, che dà vita nella scrittura e attraverso la regia teatrale a quelle pulsioni e a quelle visioni cui non riesce a dare corpo nella sua vita. Thomas, però, si rivela anche abile attore, a dispetto della sua inesperienza, nell’interpretare il ruolo maschile della rappresentazione da lui scritta e diretta, quando viene trascinato sul palcoscenico dall’attrice ritardataria determinata a dar luogo al suo provino. E, allo stesso tempo, Thomas, è trasfigurato in Severin, il giovane aristocratico scrittore protagonista dell’opera teatrale, uomo che vive, all’ombra delle sue carte, fantasie erotiche masochistiche, che scorrono sul filo della dominazione – ma sarebbe meglio dire della contrattazione del dominio, aspetto tipicamente masochistico, assente nel sadismo – , abilmente travestito da schiavo mentre persuade ed educa la padrona che ha scelto per sé, Vanda Dunajew. Emmanuelle Seigner è, invece, Vanda, un donna energica, vitale, sprezzante e sboccata, che oltre a essere confusionaria ed eccentrica, è un’attrice professionista dalla memoria impeccabile e una donna solida, dominante nella vita amorosa come in quella lavorativa, intransigente rispetto a ogni sessismo maschilista. Vanda, però, è anche il nome della protagonista della pièce che Thomas vuole portare in scena. Vanda Dunajew è una nobile vedova di fine Ottocento, donna ricca e bella, dal portamento raffinato quanto la sua eloquenza. È passionale ed è fragile, dominatrice solo apparente. E, ancora, Vanda è la trasfigurazione di Venere, potente dea della bellezza e dell’amore, assunta a simbolo della carnalità delle passioni vissute nel momento e dei rapporti di dominio.
Non è possibile tracciare alcuna linea di demarcazione netta tra tutti questi ruoli. Polanski ha magistralmente giocato con la soglia che separa, unisce, ingarbuglia i differenti personaggi e le loro sfere morali, non solo lasciando lo spettatore sospeso e stordito di fronte al continuo slittamento tra l’attore e il personaggio, ma anche costruendo i differenti personaggi per cui le caratteristiche che in un certo momento si sarebbero certamente attribuite a l’uno si scoprono nell’altra, e viceversa.
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Un viaggio nel feticismo
Varcando il portone del teatro, magicamente avvolto dalla tempesta, e ancor più salendo – e scendendo – dal palcoscenico, è un po’ come avventurarsi nel mondo dell’assurdo e del non senso che però hanno assolutamente senso in quanto mondo. Nel film di Polanski realtà, rappresentazione teatrale e fantasia sono così inestricabilmente intrecciati che il passaggio dall’uno all’altro è crescente e inafferrabile. Attraverso un’operazione che riproduce pienamente le dinamiche masochistiche, laddove il masochismo è sospensione, fuga nel sogno, idealizzazione del reale, come già individuato da Deleuze in Présentation de Sacher-Masoch (1967), nel film di Polanski si è portati a sospendere la logica, e a vivere semplicemente questa incredibile esperienza liminare. Per esempio, i suoni di scena sono realistici, mentre i gesti che li accompagnano sono solo recitati sul palcoscenico da Vanda l’attrice e da Thomas durante il provino. Lei non ha davvero in mano un libro e non c’è nessuna tazzina con cucchiaino, eppure noi ascoltiamo il frusciare delle pagine girate e il cucchiaino battere contro il bordo della tazza; il personaggio di Severin si sovrappone progressivamente a quello di Thomas, l’uno diventa l’altro per poi trasformarsi ancora in Vanda, in una vertigine continua; c’è un momento in cui la certezza dello spettatore sul dove abbia inizio la messa in scena, quindi sul limite tra soggetto e oggetto, viene turbata. Succede quando in primo piano, e in controluce rispetto a dove si svolge l’azione, si vedono le sagome delle poltrone del teatro che, così riprese da Polanski, si confondono con i sedili del cinema dove è in corso la proiezione di Venere in Pelliccia, dando l’impressione che Vanda stia arrivando da noi spettatori con il suo passo di danza dionisiaco; tutto il film è intriso di eroticità – il libro di von Sacher-Masoch parla di una donna che accetta di diventare la padrona di un uomo in un rapporto erotico masochistico e Thomas e Vanda sono invischiati in una densa amalgama di attrazione e repulsione reciproca, dominazione e sottomissione continua – , eppure, sono molte di più le volte in cui i corpi “fanno finta di” piuttosto di quelle in cui “fanno esplicitamente”. Al di là del corpo in lingerie di Seigner – corpo felicemente bello e pieno, più simile a quello delle veneri dipinte e a quello delle donne realmente esistenti che a quelli reclamati oggi come modelli di femminilità – tutta la carica sessuale del film scorre sul filo ben manovrato del non detto, non mostrato, non toccato.
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In questo senso, quella di Polanski è una pellicola che adopera e onora il feticcio masochistico, proprio avvalendosi della sua qualità di sospensione tanto del reale quanto dell’ideale per creare un climax di eccitazione e curiosità capace di rapire e trasportare chissà dove lo spettatore. È affascinante perdersi in questa indeterminatezza continuamente riproposta nei vari passaggi della trama e nelle scelte registiche. L’opera di Polanski pare creare uno spazio sfumato dove non è chiaro quale sia il copione e quale l’improvvisazione, quale il personaggio letterario e quale la persona in carne e ossa, quale il palcoscenico e quale lo spettatore, portando sullo schermo una pellicola che riproduce perfettamente la dialettica propria del masochismo, la quale, rinviando nuovamente a Deleuze “non sta a significare semplicemente una circolazione del discorso, ma dei transfert o spostamenti tali da fare che la stessa scena sia svolta simultaneamente a diversi livelli, seguendo capovolgimenti e sdoppiamenti nella distribuzione dei ruoli e del linguaggio ”. È dunque impossibile determinare quale sia la mera rappresentazione e quale l’autentico, ammesso che ce ne sia uno.
Venere in Pelliccia è una sorta di pura assertività o immediata esperienza, dove pur non essendoci inequivocabilità e analiticità, né assoluzione o condanna definitiva, c’è davvero qualcosa di reale e di vivente.

Il trosco

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[Prosegue la pubblicazione di alcuni passi del romanzo inedito Memorie di un rivoluzionario timido. Prima puntata qui.]

di Carlo Bordini

E lì cominciò nel part. Una crisi profonda e siccome io la voglio raccontare poi

 

Parte finale

 Così ci spaccammo. Ci disintegrammo come un melograno maturo, o un jet che supera la barriera del suono, o un vietnamita che incappa in una granata, o un corteo di studenti. Improvvisamente ce ne andammo tutti e ciascuno per la sua strada.

Quattro frammenti (misericordia del tempo)

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di Fabiano Alborghetti

Quattro frammenti (misericordia del tempo)

per Giovanni Orelli

I
Poi talvolta ci si perde.
Non che il cuore svuoti, no: le distanze
forse, altri luoghi o troppi anni

gli affanni concentrati in tutti i giorni
a fare un muro. Il nostro eterno imperfetto.
Bisognerebbe insistere, non essere affiancati

solamente. Sconfiggere le geografie, quando si può.

II
Avevi ragione tu a dire
che se nulla c’è da dire, allora è meglio
un buon tacere. Troppe rane

concertini. Troppe cene di cretini.

III
E quanto pesa infine una frattura
o un pensiero. E una poesia?
Rinunciare agli alfabeti mi dicevi

ed io annuivo, ti capivo. Al Venezia
nei silenzi a tavolino
troppa altezza e una vita da cambiare:

troppo ufficio a darmi addosso e poco spazio
oltre i doveri. La mia valanga:
ogni giorno una discesa

nella gola maleamata, lo strozzarmi
del pietriccio. Quanto pesa una teoria?
Quale resa è più adiacente

e chi risponde, ti chiedevo, a tanto peso?

IV
Un’altra versione . Una suggestione
forse, arrivata l’indomani
traversando il Cassarate: da mondo a mondo

quanti poli, quanti capi della fune e pietre
e prati. Ogni anno è un anno feroce
disperso e spartito, è vero. Ma ogni giorno

è ringraziamento e festa
(nonostante le incisioni).
Ha un fiato buono (e talvolta è capitato)

vertiginoso
quando capita l’altezza. Una quieta grandezza
e ci difende dai randagi.

Poi divaga, ma è sinossi universale.

 

NdA. I Quattro frammenti sono stati scritti appositamente in onore degli 85 anni di Giovanni Orelli: ripercorrono una serie di incontri avvenuti negli anni e in ognuno dei frammenti è incorporato il titolo di una poesia dell’Orelli. Queste poesie sono parte dell’Antologia Sempre, senza misura, curata da Fabio Pusterla e Pietro De Marchi e di imminente pubblicazione per le Edizioni Sottoscala di Bellinzona (Svizzera).

 

Minotauro – minatore

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di Davide Orecchio

Il Minotauro. Antica medaglia attica. © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons / CC-BY 2.5
Il Minotauro. Antica medaglia attica. © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons / CC-BY 2.5

Only connect!
E.M. Forster

Per distrazione delle connessioni del mondo non mi ero mai accorto che “Minotauro” e “minatore” fossero vocaboli quasi identici. Eppure non hanno, che io sappia, alcuna affinità etimologica.

Minotauro: (mostro attore di mostruosità e sacrifici) il toro minoico, Μινώ – ταυρος.

Minatore: (vittima di un lavoro spesso mostruoso) “che fa mine, che travaglia alle mine” (1764), dal francese “mine” (1314) che riprende il gallico “meina”, ‘metallo naturale, greggio’. (Cortellazzo-Zolli, Dizionario Etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1992, p. 757).

Prose rimate inedite

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di Sonia Lambertini

Spot

L’estate irrompe, troppa luce, il sole d’agosto vuole espansione – non ce l’ho – contrario di riduzione, contrazione. Spiaggia spritz splatter story, bordo piscina e tu sei la star, spalle dritte petto in fuori e tanti saluti da silicon Valley. Pelle dovunque, pelle al bar, pelle al discount, prugne secche tra mele mature in danza perenne tra ciao come stai. Borsa di paglia, cappello di paglia, capelli di paglia, secchi, morti sotto il sole, senza pietà il sapiens estivo, un solo pensiero: melatonina. Ritmo in calo nel caldo di agosto: caffè x 4 nicotina, vitamina, adrenalina. Io cerco l’ombra, il buio chiusura dove il pensiero è in salita, usura. Guardo il foglio, è quello di ieri, spoglio ingiallito pare abbia cent’anni, il caldo l’opprime e svuota pensieri, vuota parole e piene omissioni. Torno in piscina per respirare ed ecco abbozzare pance grosse, pance ovali persino appuntite, spalle incurvate che invadono l’acqua e rubano spazio, aria, il respiro. Snack Lucky secondo caffè ed ecco sul palco di nuovo la star, signora grassoccia dai piedi palmati che nuota dorsale con ventre all’insù. Colori d’estate la cuffia dorata, con fiori piumaggio, perline lampwork. Che abbaglio di luce nel cielo d’agosto, ho perso tre gradi, la calma e il bon ton. Lasciati andare, la natura chiama e chissenefrega il suo canto è maligno e schiaccia i pensieri di giorno, la notte con spot progresso e sbatte in faccia – Io esisto quindi sono / tu no. Amen.

Ricordo di François Cavanna

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François Cavanna se n’è andato. Ha segnato col suo humour dissacrante eppure felice un epoca, la seconda metà del secolo scorso e anche l’inizio di questo. Fondatore di Hara-Kiri negli anni sessanta, intorno al ’68 cambiò titolo alla testata che divenne Charlie Hebdo e tale è restata fino alla sua scomparsa mercoledì scorso per complicazioni polmonari.
Si sono scomodati un po’ tutti a rendergli sinceri tributi a cominciare da Hollande. Perché per oltre cinquant’anni è stata la voce a tratti caustica dell’intelligenza. E forse è da ascrivergli il merito di aver smantellato quanto rimaneva della pomposa retorica che aveva accompagnato la Francia nella prima metà del secolo.
Cavanna non è morto, è andato solo a prendere per i fondelli la morte, ma torna presto…
Su questo pianeta usato ci ritroviamo adesso con un po’ meno intelligenza e memoria e vita e parole vere…
Perché Cavanna è stato uno scrittore pas mal a cominciare dall’autobiografico Les ritals, come erano chiamati con un certo disprezzo i poveri italiani emigrati.
Un po’ di tempo fa la sede di Charlie Hebdo a Parigi era stata data alle fiamme a seguito di vignette ironiche sull’Islam. Attenzione ma proprio per la massiccia presenza di arabi nord africani, integrati nella società francese da mezzo secolo, per questo loro essere a tutti gli effetti francesi che Charlie Hebdo ha voluto dare un segnale in qualche modo definitivo, basta con il fondamentalismo religioso e i suoi eccessi. Certo vi sono stati disordini, interventi della polizia ma il segnale è stato dato e a quel basta dato da Cavanna non sono seguite le maledizioni e le minacce di morte dei tempi di Versetti satanici.
Journal bete et méchant recitava (ancora?) il sottotitolo (sessantottesco) eppure questo foglio ‘cattivo’ e ‘stupido’ ha attraversato impavido più di cinquant’anni di vita francese e non solo inducendo il Presidente della Repubblica ad ammettere che….per la sua impertinenza e le sue provocazioni ha scosso la società francese. Lui, Cavanna, diceva:..la Francia è mia madre, l’Italia mia sorella….

Poesia da Camera a Torino

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A Torino, giovedì 6 febbraio 2014, alle ore 18:30,
presso la Galleria Voyelles & Visions
[ via San Massimo 9/A ]

nel contesto della rassegna CameraIndy (con http://indypendentemente.com/)
a cura di Francesco Forlani e Giovanni Andrea Semerano

letture da tre testi
di Marco Giovenale
èditi dalla Camera verde :

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SOLUZIONE DELLA MATERIA
Politica delle variabili. (11 testi in versi, 1 in prosa, viceversa)
– Collana Calliope, 2009 –

SUPERFICIE DELLA BATTAGLIA
– Collana Cartoline d’artista, 2006 –

TAGLI/TMESI
– Collana Elzeviri, 2014 –

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Interventi critici di
Francesco Forlani

Sarà presente l’autore

https://www.facebook.com/events/650227121689796/

*

Una poesia da Superficie della battaglia:
http://www.absolutepoetry.org/IMG/pdf/una_poesia.pdf

*

Si parlerà anche di LIE LIE:
cfr. il video e gli allegati all’indirizzo
http://www.lacameraverde.org/internocamera.html

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programma completo:


9 gennaio 2014

Biagio Cepollaro
LE QUALITA’
(Collana Metra, 2012)

25 gennaio 2014

Andrea Inglese
QUANDO KUBRICK INVENTO’ LA FANTASCIENZA – 4 CAPRICCI SU 2001
(Collana Visioni dal Cinematografo, 2011)

4 febbraio 2014

Massimo Rizzante
RICORDI DELLA NATURA UMANA
(Collana Talìa, 2010)

Nikos Kachtitsis
PUNTO VULNERABILE – 14 POESIE DELLA GIOVINEZZA
A cura di
Massimo Rizzante
(Collana Metra, 2012)

5 febbraio 2014
Francesco Forlani
MANHATTAN EXPERIMENT – 1997 FUGA DA NEW YORK
(Collana Visioni dal Cinematografo, 2010)

6 febbraio 2014
Marco Giovenale
SOLUZIONE DELLA MATERIA
(Collana Calliope, 2009)
TAGLI/TMESI
(Collana Elzeviri, 2014)
SUPERFICIE DELLA BATTAGLIA
(Collana Cartoline d’Artista, 2006)

7 febbraio 2014
presentazione delle
29 Cartelle d’artista
Alfredo Anzellini, Franco Belsole, Umberto Bignardi, Alessandro De Francesco, Gerardo Di Fabrizio, Matteo Di Giamberardino, Francesco Forlani, Lugi Francini, Massimo Fusaro, Elisabetta Gazziero, Marco Giovenale, Matias Guerra, Aram Kebabdijan, Olivier Kervern, Andrea Inglese, Anna Macchi, Franco Mancini, Eugenio Marzaioli, Grazia Menna, Paolo Mussat Sartor, Raffaella Nappo, Gianni Nigro, Andrea Pacioni, Marco Perri, Nicola Ponzio, Ilaria Scarpa, Zeno Tentella, Francesca Vitale, Caroline Zekri

8 febbraio 2014
Toni D’Angela
IL CUORE DELL’ESSERE E IL PENSIERO SENSIBILE – L’ATTO DEL VEDERE DI STAN BRAKHAGE
Introduzione di
Nicole Brenez
10 tavole di
Matias Guerra
(Collana Il Cinematografo, 2013)

15 febbraio 2014

Giusi Drago
TEMPO NEGOZIATO
(Collana Calliope, 2014)

§

sempre
alle h. 18:30 presso Voyelles&Visions
Via San Massimo 9
(Torino)

da “Inventari” (2001)

4

di Andrea Inglese

RILIEVI

.

Belletrista dai nervi
scoperti sotto scossa
elettrica inarcato: stacco
dal silenzio un fumetto
per schizzo cinetico o furia
o soltanto facezia
lo allungo e lo gonfio con zeppe
lo taglio con chimiche scorie
quando scoppia è rumore bianco
copriti il volto: te lo spedisco.