Home Blog Pagina 249

Parole per un rap

4

Di Gian Pietro Fiorillo

 

io sono pazzo, pazzo / io sono pazzo tutto anzi strapazzo / se mi strapazzo troppo mi sollazzo /

ma poi mi giro e dormo o parto a razzo / io sono pazzo, pazzo / e parlo per parlare e mi sbarazzo / del mondo, e con che furia / gli faccio le boccacce / rendo pane raffermo per focacce / e gli spacco la faccia, sono feccia / e freccia sono e arco / non vado in nessun posto ma dove vado sbarco / occupo e sbanco e gioco / e prendo il banco / io sono a un tempo spendaccione e parco / spendo il mio tempo inutilmente e calco / come scena la vita come un palco / e per cortili inutili scorrazzo

fra i debosciati vivo del palazzo / ma dopo torno a casa e lì sferruzzo / con i libri proibiti e se mi faccio il mazzo / non te lo vengo a dire non capisci / che studio tutto il giorno e che m’ammazzo / che ci vuoi fare / che ci vuoi fare / che ci vuoi fare / sono pazzo, pazzo / sono solo un ragazzo / e sono sano / e sano / e sano / e sano / e sano / come un pazzo

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

e sono pazzo sono perché urlo / mi burlo dei cazzoni ma non ciurlo / nel manico e denuncio chi lo fa  / e sono pazzo pazzo se sul prato  / mi distendo e m’addormo anzi beato  / dopo avere affogato in piscina l’avvocato / e il giudice pirlato  / che venne ad interdirmi / l’ho frullato col girmi / e sono pazzo pazzo sulla spiaggia / non me ne frega un cazzo della pioggia / a dire il vero detesto la bambagia / perché mi fa venir la pappagorgia / e sono pazzo e sono pazzo e grido / e rido se il destino mi minaccia / con il suo ghigno spastico mi abbaia / come un mastino mastico la ghiaia / ma poi basta un festino ed è bonaccia / del grugno del destino me ne frego / dico a me gli occhi plìs così lo strego / e la morte per me è soltanto un segno / è finita la gara e incomincia il convegno / contegno / contegno / contegno / ragazzi / marionette / giovani donne e vecchi ve ne prego

/ mantenete il contegno / nel giorno del trapasso ad altro Regno

 

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

io sono pazzo e passo giù in cantina / perché quel topo nero si avvicina / l’avevo chiuso in frigo stamattina / mi porge qualche cosa una mentina / ma no non è una menta è medicina / io sono un pazzo passero lo vedi / sono solo una pezza per i piedi / sono il divanoletto su cui siedi / prendo le medicine e il corpo puzza / in pochi mesi moltiplica la stazza / e sono pazzo e pazzo anche di più

se prendo lo zyprexa e il risperdal / se mescolo la merda che mi date  / con la droga da strada e le fottute / che d’ogni tipo e prezzo voi spacciate / dietro la protezione della scienza / che serve solamente / per lavarvi la coscienza / son malato di mente / e di cervello / perché il cervello voi me lo ammalate / con l’aloperidolo e l’aripiprazolo / con altre terapie poi mi ammaliate / mi bidonate

ma con un po’ di coca mi riprendo / e vado al lungofiume quando è notte / preferisco le botte

a quei cancelli chimici che mi somministrate / cimici sottopelle che iniettate / che ci rendono bestie maltrattate / e che ci fanno urlare / urlare / urlare / urlare / e piangere e pisciare dentro al letto / scappare e rifugiarsi nella pancia dell’orsetto / pisciare con i cani sul muretto / se mi venite a prendere mi getto / da questi cinque piani ora mi butto / e non è ancora tutto nossignori / nostra dama è la donna di dolori

 

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

io sono pazzo cazzo / cazzo cazzo cazzo cazzo – e stracazzo / io sono pazzo tutto anzi strapazzo / se mi strapazzo troppo mi sollazzo / ma poi mi giro e dormo e vaffanculo al cazzo / io  sono pazzo pazzo / dico le parolacce sul terrazzo / le grido al tutto il mondo e non m’ammazzo

/ di vino ho sempre piene le borracce / rendo pane raffermo per focacce / e se mi stai sul cazzo io ti spacco la faccia / e sono feccia / sono letame e scarico di cuccia / se posso mi nascondo nel soppalco / quando vengono a prendermi / li scalcio e li scappuccio / e divento invisibile / come carta velina / e divento risibile / come carta di riso / e divento irascibile / come il vento che infuria / e che sfotte la gente troppo seria / e i poveri impiegati disgraziati / che credono d’averci ammortizzati / e i pavidi infermieri / che non lo sanno e sono / solo carabinieri / io sono pazzo cazzo / io per cortili inutili scorrazzo / fra i debosciati vivo del palazzo / frequento case chiuse per far piacere al cazzo / ma dopo torno a casa e lì sferruzzo / con i libri proibiti e se mi faccio il mazzo / non te lo vengo a dire non capisci / che studio tutto il giorno e che m’ammazzo / che ci vuoi fare / che ci vuoi fare

/ che ci vuoi fare / sono pazzo e cazzo / sono solo un ragazzo / e sono sano / e sano / e sano / e sano / e sano / come un pazzo

 

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

e sono pazzo sono perché urlo / mi burlo dei cazzari ma non ciurlo / e sono pazzo pazzo se sul prato / mi distendo e m’addormo anzi beato / io sotterro in giardino l’avvocato / dopo averlo affogato in piscina / e il giudice cretina / che venne ad interdirmi / l’ho frullata credetemi col girmi

/ e l’ho mandata / a cercare il nirvana con i vermi / e sono pazzo pazzo sulla spiaggia / detesto la violenza e la distanza / fanno cagare i medici con la condiscendenza / stampata sulla faccia / io faccio breccia / per quei pochi tatuaggi sulle braccia / per i capelli lunghi con la treccia / perché mangio il briccino e me la rido / del chimico frustino che mi danno / in vena e alla capoccia fanno danno / danno / danno / fanno / Gesù perdona loro se non sanno / non me ne frega un cazzo detesto la bambagia / perché mi fa venir la pappagorgia / e sono pazzo e sono pazzo e grido / e rido se il destino mi minaccia / con il suo ghigno spastico mi abbaia / come un mastino mastico la ghiaia

/ ma poi basta un festino ed è bonaccia / del grugno del destino me ne frego / dico a me gli occhi plìs così lo strego / e la morte per me è soltanto un segno / è finita la gara e incomincia il convegno / contegno / contegno / ragazzi marionette / giovani donne e vecchi ve ne prego / mantenete il contegno / nel giorno del trapasso ad altro Regno / io sono pazzo e passo / giù in cantina / perché quel topo nero si avvicina / l’avevo chiuso in frigo stamattina / mi porge qualche cosa una mentina / io sono un pazzo passero lo vedi / sono solo una pezza per i piedi / prendo le medicine e il corpo puzza / in pochi mesi moltiplica la stazza / e sono pazzo e pazzo anche di più / se prendo lo zyprexa e il risperdal / se mescolo la merda che mi date / con la droga da strada – e puttanate / che d’ogni tipo e prezzo voi spacciate / dietro la protezione della scienza / che serve solo per lavarvi / la coscienza / son malato di mente / e di cervello / perché il cervello voi me lo ammalate / con altre terapie poi mi ammaliate / mi bidonate

 

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

io sono pazzo e kazzo con la kappa / quando m’inkazzo picchio con la zappa / io sono un verme amici e datemi la pappa / in fondo sono solo lo smandrappa / sono un bambino piccolo che scappa

/ benché quello che vuole lui ce l’abbia / ma sa giocare solo a far castelli / di rabbia / rabbia / rabbia / rabbia / rabbi / rab / ra / r / rap / rapì / rapito

 

(coro) e rapirono il pazzo tra la folla / ne fecero un pupazzo con la colla / lo appesero al reparto psichiatrico / e dissero alla madre non è niente / è malato di mente / ne faremo un perfetto demente / ve lo restituiremo / entro quindici giorni / improrogabilmente

/ sapete, spiegava il dottore / non contano i sogni o il dolore / è solo questione / di neurotrasmissione / il giovane l’ha squilibrata / non gliela faremo bilanciata / i pazzi sapete non sono / del tutto diversi da un sano / è solo che sono malati / ma noi ve li diamo guariti / diciamolo fanno impressione / se sbavano un poco e il tremore / non deve turbarvi in eccesso / abbiamo dei farmaci adesso / che fermano il battito stesso / del cuore / talvolta il malato poi muore / però posso dirvi in coscienza / che questo prescrive la scienza / signora noi siamo soltanto / dei medici ancora il trapianto / non c’è del cervello / di certo sarebbe più bello / col bisturi e con il coltello / e il trapano appeso a tracolla / però con la chimica odierna / facciamo miracoli, senta / se ce lo dà in pasto due giorni / facciamo che il pazzo / non torni mai più / ad essere il pazzo che fu

/ / / / / / / / / / / / / / / /

/ / / / / / / / / / / / / / / /

/ / / / / / / / / / / / / / / /

/ / / / / / / / / / / / / / / /

/ / / / / / / / / / / / / / / /

/ / / / / / / / / / / / / / / /

/ / / / / / / / / / / / / / / /

/ / / / / / / / / / / / / / / /

 

 

Dolores Prato

1

Come una favola.
Nata e vissuta (tutta la vita) senza punti di riferimento (padre, madre, religione, amici….) scrivere fu giocoforza, fu improrogabile necessità dettata dal bisogno di ritrovare se stessa, di riconoscersi, di darsi nome, connotati, un’identità.
Il titolo del suo capolavoro, Giù la piazza non c’è nessuno, può apparire fuorviante, la scrittrice di fatto popola le settecento pagine incantate di una miriade di personaggioggetticosepiante. La totalità di una vita minuta, vista, osservata, scrutata con i suoi occhi estatici di bimba.
Era una necessità vitale scrivere della sua entrata nel mondo, dei suoi silenzi, dei suoi soliloqui incessanti intorno a personeoggetticosepiante.
Testimonia, riflette quanto osserva, implacabilmente o amorevolmente, senza giudizi di valore. Riporta tutto il tempo della Treja d’antan, tutta l’aria di Treja e tutta la sua gente (vista, sentita, intravista) che rivive o vive come forse mai ha vissuto. Non un tempo ritrovato quanto invece un tempo mai lasciato.
Nel grande, geniale, borghese ventaglio di Proust vi è lo scorrere ininterrotto, senza pause, senza momenti estatici, afasici o indicibili: sfilate militari, salotti bene, conversazioni brillanti e conversari inani, il Padre demiurgo e la Madre onnipresente…..
La Prato non deflette dall’ impellente necessità, necessità perdurata per tutta la sua lunga vita, di narrare mille e mille particolari di quel mondo osservato specularmente, o sorpreso oppure intravisto nella sua infanzia ammutolita, quasi la sua fosse l’infanzia del mondo. Treja: il mondo tutto.
In questa piccola città della mia morte aveva scritto il Leopardi di Recanati, una Treja poco discosta, analogo balcone sull’Adriatico. Il natio borgo selvaggio che ispirò il poeta per tutto l’arco della sua vita. E così Treja, la Treja dell’infanzia di Dolores riportata totalmente intatta ottant’anni dopo.
Che cosa hanno conservato gli occhi, le percezioni, le registrazioni minuziose e nello stesso tempo incantate di una bimba attonita, assolutamente partecipe e insieme avulsa dal mondo a cavallo del secolo? Treja assurgeva a simbolo e come si era conservato intatta…
La riproduzione, la conservazione non pedissequa ma sapiente, questo catalogo di usi, di gesti del quotidiano, il sapore non effimero di una vita minuta, velata, intensa, inesauribile, attenta, mai banale, suggellandosi all’eterno.
Una globale restitutio antropologica della vita di Treja e nello stesso tempo l’inatteso, la sorpresa: il dono dello scrivere, la poesia. L’antropologa, la sociologa, la psicologa….. la bambina insomma che ha immancabilmente tutto registrato con la memoria profonda, prodigiosa che tutto registra e che poi seppelliamo. Dolores affidò tutta se stessa allo scrivere, finendo per divenire in questa ininterrotta pratica, una scrittrice col dono dell’unicità.
E io che fui? una bambina un po’ dolorosa, un po’ curiosa potrebbe dire chi la guarda dal buco del Portone del Priorato, una bastarda dirà chi la guarda dal disincanto. Bastarda integrale dico io. Spuntata da un ramo di antichissima nobiltà, innestata con un poderoso ramo israelita, io che sono? Quel bocciolo di melanconia che era dentro di me sin da piccina, spuntato dal plurimillenario dolore ebraico…..un pudding di elementi millenari ed occasionali messi a lievitare nella piccola madia della madre…. Così concludendo scrive di sé nell’appendice.
Le storie tutte stanno lì appese e aspettano. Lo scrittore (di storie) buca l’involucro e’narra’. Sono involucri a diversa altezza, giusta la qualità della storia, il grado di conoscenza che la storia può dare. Gli involucri bassi sono piuttosto dozzinali, inutili, come la tele. Poi ci sono gli scrittori (pochi) che narrano (quando sanno narrare) sempre o quasi dei propri accadimenti. Kerouac ad esempio, anche ossessivamente. E la Prato? Di lei conosco solo questo libro unico del quale ho provato a dire qualcosa.

Homo Bulgaricus

1

popovdi Romano A. Fiocchi

Alek Popov, I cani volano basso, traduzione di Sibylle Kirchbach, Keller editore, 2013.

 

L’editore Keller ha un solo difetto: non pubblica autori italiani. Il suo essere un editore di confine (la casa editrice ha sede a Rovereto, Trento) sembra che lo spinga a guardare oltre questo confine, all’esterno, per portare all’interno nuove suggestioni, voci diverse dalle nostre, autori che parlano altre lingue e osservano con altri occhi. In ogni caso, da quell’editore puro che è, Keller pubblica ciò che ama pubblicare. E sceglie con gusto e grande competenza. Basti pensare all’uscita già nel maggio 2008 del romanzo Il paese delle prugne verdi di Herta Müller, premio Nobel l’anno successivo. Oppure, per quanto sulla scia della notorietà, a preziosi testi di nicchia come Il re s’inchina e uccide (2011) e Il fiore rosso e il bastone (2012), dove la Müller inventa un suo proprio linguaggio (le ombre di legno piallato, le frange del tappeto d’asfalto, il cielo della bocca, lo zucchero dei cadaveri, e così via). Oppure ancora gemme letterarie come Accadimenti nell’irrealtà immediata di un misconosciuto ma eccezionale Max Blecher, rumeno di origine ebraica morto di tubercolosi spinale a soli ventinove anni.

Detto questo, I cani volano basso del bulgaro Alek Popov (qui il sito ufficiale dell’autore) è sicuramente un Keller un po’ inconsueto. Popov è uno strano miscuglio di sarcasmo dozzinale e di intonazione letteraria, di formule da best seller e di derisione delle stesse, un alternarsi di pagine poetiche e di pagine piene di dialoghi al limite della banalità, ma anche un libro di acute analisi degli spietati meccanismi del liberismo americano e di denuncia delle macerie morali lasciate dal crollo del muro di Berlino. Il tutto attraverso una satira con battute di questo tipo: “Sembrava che lo spirito della cleptomania fosse evaso dalla tomba del comunismo come la maledizione di Tutankhamon”.

I cani, insomma, volano basso e alto. Non mi sono “rotolato sul pavimento per le risate”, come promette la citazione del Vormagazin sulla prima di copertina, forse perché tra le righe vi ho sempre letto una nota amara. Indubbiamente la scrittura di Popov ha spunti di sottile umorismo ma un umorismo alla Pirandello: i personaggi vivono un disagio interiore che impedisce di ridere di loro nonostante la comicità della situazione. È un disagio, quello raccontato da Popov, di natura sociale e storica. L’homo bulgaricus che appare via via come EBS, “Emigrante Bulgaricus di Successo”, FBC, “Fermento Bulgaricus Cialtrone”, oppure FBP, “Fermento Bulgaricus Paraculo”, è in tutti i casi succube del sogno americano e di quel vuoto culturale venutosi a creare tra la fine del comunismo e l’invasione del capitalismo.

È questo l’aspetto più interessante de I cani volano basso. I fratelli Ned (Nedko) e Ango (Angel) Banov – quasi sdoppiamento di un unico personaggio – sono lo strumento che permette a Popov di insinuarsi nei perversi meandri del potere finanziario sia in America che in Bulgaria. In un casuale scambio di ruoli, l’EBS Ned Banov torna in Bulgaria su incarico dell’azienda per cui lavora, mentre Ango Banov atterra in America e senza volerlo, con un’altrettanto casuale attività di dog sitter, raggiunge il successo a cui il fratello rinuncia deliberatamente. È Ned, con la sua graduale presa di coscienza, che permette a Popov di denunciare le nefandezze del sistema. Un sistema che quando chiede sacrifici di posti di lavoro addita il colpevole ora nella faccia dell’uomo crudele “con l’accento da Far East europeo”, se il sacrificio avviene in America, ora in quella dell’uomo crudele con l’accento angloamericano (il collega Kurz), se avviene nel lontano Est europeo. È Ned, per tramite dell’invettiva di Kurz ormai passato dall’altra parte della barricata ossia dalla parte dei lavoratori in sciopero, che fornisce la vera chiave di lettura di un mondo che asservisce chiunque ne faccia parte. Riporto qui di seguito il punto saliente del discorso di Kurz che la penna di Popov costruisce con semplicità ed efficacia:

“Ecco l’essenza dell’economia del libero mercato. Il tempo è denaro. Ma il denaro non si può trasformare in tempo. L’alchimia viaggia in un solo senso. E quando arrivi a capirlo, il tuo tempo è ormai scaduto. Ti resta solo la magra consolazione che, volendo, puoi comprarti una Ferrari. E la soddisfazione è che la maggior parte degli altri invece non se la può permettere. Però sei stato fatto fesso esattamente come tutti gli altri. Ogni persona che si ritrova a dover vendere il proprio tempo è un proletario. Anche il sottoscritto”.

Alla successiva domanda del collega Kurz su cosa vorrebbe essere tra altri dieci anni, l’EBS Ned Banov risponde che gli piacerebbe prendersi una vacanza a tempo indeterminato, in una casa sul lago, con una donna di cui essere innamorato, e una barca a remi.

“Caro ragazzo, – gli dice Kurz – fra dieci anni, ammesso che il mondo esista ancora e non sia ridotto in cenere, sarai senior partner e in tutti i miei trent’anni di lavoro non ho mai visto neanche un senior partner prendersi una vacanza a tempo indeterminato. A meno che non fosse stato costretto per malattia o morte. E non ti auguro né l’una né l’altra. Ma in un punto hai ragione: non siamo proletari. Eppure neanche nomadi. Siamo servi della gleba. In senso figurato, non concreto, il che è anche peggio. Perché da questo nasce il nostro destino esistenziale… Non è di un lavoro che siamo schiavi ma di uno stile di vita. E del denaro che ci permette di condurlo! Non importa da quale fonte provenga. Puoi cambiare il lavoro un’infinità di volte, alla fine ti ritroverai comunque a fare sempre la stessa cosa. Vorresti ritirarti in una casa sul lago? Una con tutti i confort scommetto! E vorresti al tuo fianco una donna da amare? Immagino che la vorrai bella e buona! E non manca neanche la barca a remi… Sei proprio sicuro di non nutrire in realtà pretese assai alte? Ma dai, torna coi piedi per terra! Vieni a vedere come vive la gente. Guardali bene, coloro che possiedono una sola cosa – il tempo. E il tempo non è vero che è denaro, il tempo è vita. Quindi quando lo finisci, resti a secco per sempre”.

Kurz, ovviamente, farà una brutta fine perché chi parla così sta appunto dall’altra parte della barricata, quella senza potere. E dà fastidio a chi il potere ce l’ha e vuole mantenerlo ad ogni costo.

Interessante, tra gli aspetti letterari, è la struttura del romanzo suddiviso in quarantaquattro capitoli con tanto di prologo e di epilogo. Nei capitoli si alternano le voci narranti in prima persona dei due fratelli, salvo nel capitolo trentatré dove subentra inaspettata la voce di Diane, evanescente personaggio femminile che cambierà più maschere e finirà per innamorarsi del più innocente dei due, Ango. L’alternanza delle due voci principali è evidenziata dall’utilizzo di due tempi diversi: il presente per Ned e il passato remoto per Ango. Non solo, il tempo del romanzo scorre nella stessa direzione ma con due punti di partenza diversi a seconda del protagonista. Il primo capitolo si apre con Ned che si riprende dal coma, ossia nelle battute finali del romanzo, mentre il secondo capitolo vede l’entrata in scena di Ango appena atterrato negli Stati Uniti, ossia all’inizio del romanzo. La narrazione di Ned sarà infatti una sorta di incessante flashback che avrà la soluzione di continuità appunto nel risveglio dal coma.

Il prologo si ricongiunge invece all’epilogo attraverso il tema della scatola di plastica nera che contiene le ceneri del padre di Ned e Ango, matematico, morto in circostanze misteriose negli Stati Uniti e rispedito in patria per ben due volte: false ceneri nella prima consegna, presunte autentiche nella seconda. In Popov il tema del contrario, del tutto non è ciò che sembra, è decisamente uno dei temi portanti. Non per nulla l’arrivo delle ceneri di Mr Banov senior in Bulgaria sarà il pretesto per una delle definizioni più belle, quella di patria: “Un luogo nel quale tornano i morti e dal quale scappano i vivi”.

Un’ultima cosa: l’espressione i cani volano basso si riferisce alle quotazioni di un’azienda che produce cibo per cani. Ancora una volta il sottile umorismo di Popov.

Il boss in salotto, senza coraggio né fantasia

2

di Angela Bubba

Nei giorni in cui La grande bellezza riceve la nomination all’Oscar come miglior film straniero, in Italia entra prepotentemente in classifica Un boss in salotto, pellicola dai risvolti prevedibili quanto noiosi, la quale s’inserisce nel già parecchio frequentato filone dei lungometraggi a tema Nord vs Sud. La storia in questo caso è incentrata sulla fervente Cristina alias Carmela (Paola Cortellesi), meridionale di nascita ma settentrionale di spirito, molto più dei figli e del marito Michele (Luca Argentero), la cui vita viene sconvolta dall’arrivo del fratello Ciro (Rocco Papaleo), accusato d’intrattenere rapporti con la camorra e in attesa di giudizio: indicando la residenza della sorella come luogo in cui scontare la pena, infatti, l’uomo stravolge la routine domestica, ne invade senza rispetto gli ambienti e fa scricchiolare le abitudini e convinzioni più intime. Crolla così l’immagine della felicità salutista o per meglio dire orribilmente asettica dell’inizio, a favore di un ritratto umano che fotografa, in maniera però oltremodo banale, tutto il servilismo, il provincialismo e l’immaturità su cui viene fondata una famiglia.

La vita lunga

1

La Vita Lunga

Lo psica

8

[Ringrazio l’autore che mi ha permesso di pubblicare dei brani del suo romanzo inedito Memorie di un rivoluzionario timido. Precede il primo di questi brani una nota su vicende e temi del  progetto narrativo. A. I.]

di Carlo Bordini

°°° Questo romanzo totalmente legato all’autobiografia è una sorta di bilancio di circa vent’anni della mia vita. Poiché sono stati anni pieni di traumi, la stesura di questo libro è stata una lotta con me stesso. Per questo ci ho messo un tempo lunghissimo a finirlo. Un bilancio, un esame di coscienza su due temi fondamentali: il rapporto con la politica (sono stato a lungo militante di un gruppo trotskista) e i grovigli affettivi che hanno caratterizzato i miei rapporto col mondo femminile. Il tutto preceduto da un’adolescenza vissuta tra depressioni, cambi di facoltà, fughe in autostop e sedute dallo psicanalista. Una normale figura di disadattato, quindi, alla ricerca di un equilibrio. Scritto in periodi diversi e con stili diversi, abbandonato e ripreso, questo libro non poteva che assumere una struttura disordinata e barocca, che accettava, come inevitabile, un fluire profondamente disomogeneo. Terminato da poco, è inedito.°°°

Viola Amarelli – Cartografie della pura presenza

8

di Daniele Ventre

Mappe per solitari*: questo explicit nominale in corsivo chiude, come suggello e anti-titolo, Cartografie di Viola Amarelli (Editrice ZONA, Arezzo, 2013): una trama di prose poetico-narrative dai titoli parentetici e parentetizzati che si presenta così con la facies di un testo implicitamente palindromo, in cui il tessuto del reale, riversato in un ordito disseminato di snapshots, diventa ologramma speculare di sé stesso. Dai postscripta che con quell’explicit si concludono, e che troviamo in clausula come potenziale fulmen e chiave di decrittazione del libro, è necessario cominciare nel tentativo di porre le basi di un’intelligenza del testo che vada al di là della retorica del critico diffusore, e cerchi di intuire, per quanto possibile, la sostanza del progetto poetico che l’opera definisce. La palindromia formale e concettuale di Cartografie si palesa, secondo il modo di vedere che abbiamo subito accennato e che tenteremo ora di illustrare il meglio possibile, in un punto focale dei poscripta, che recita: “il bello, il giusto. amenità avventizie per cecati. tu guarda, tu, il reale. e. il raddrizzo. tu guarda, tu, verso. il meglio che si possa. il meglio che ci tocca”. Campeggiano qui il tema dei fondanti assiologici, ridotti a trastulli fittizi per gli esseri umani fasciati di buio esistenziale (Il bello, il giusto –poco dopo “la verità: funzione. la classica o derivata…), e quello del reale, o per dirla in forma solo apparentemente ricompattata nell’esserci empirico, delle nudecrudecose della raccolta poetica della Amarelli che di poco precede Cartografie. Sul bello, sul giusto, sul reale, campeggia lo sguardo, Einblick, prospettiva di inquadramento, ma anche darśana, inneres Auge, occhio interiore e com-penetrante-si, fra riassestamento cognitivo, inquadramento corretto, ma non necessariamente quello della visione ordinaria e verso, versus come linea scritta e come “contro” opposto al raddrizzo. Si instaura così un rapporto riorientato fra realtà e rappresentazione letteraria, con a mezzo la pagina e la fruizione del lettore a fungere da diaframmi impropri e osmotici, e da specchi reciprocamente distorcenti: una rappresentazione implicita dell’esperienza del lettore, e dell’esperienza in genere come singolarità ermeneutica, sistema aperto in cui soggettività e oggettività si intersecano nel gomitolo inestricabile dei vissuti.

MICHAIL ROMM Il fascismo ordinario [1965]

8

di Orsola Puecher

Ho molto, forse troppo, evocato voci e storie a me molto vicine, ma a volte la malinconia chiede distanza, silenzio, cerca quiete nella dimenticanza, vuole addolcire la sofferenza individuale in un dolore comune, in una reazione ad esso razionale e “politica”.

Qualsiasi mezzo attraverso il quale lo spettatore è costretto a guardare inquadrature familiari come se non le avesse mai viste prima, o con il quale la mente dello spettatore si fa più attenta al significato più ampio dei vecchi materiali, questo è lo scopo di una corretta compilation.

[Jay Leyda (1964), Films Beget Films, London: Allen & Unwin.]


Il Fascismo ordinario, documentario del regista Michail Romm, assemblato nella Russia post staliniana con spezzoni di pellicola requisiti dopo la fine delle Seconda Guerra mondiale a Berlino, è una lunga meditazione sul fascismo, sul nazismo, sui fascismi e sulle dittature in genere, e quindi, in controluce, sullo stesso totalitarismo russo; offre molte immagini, alcune ormai familiari, altre ancora inedite, che riescono a sorprendere e ad aprire nuove prospettive di riflessione nella attuale, spesso un po’ ripetitiva e involontariamente retorica, ridondanza di commemorazioni e testimonianze per il Giorno della Memoria.


Il racconto è affidato principalmente al montaggio, ai fermo immagine significativi e alla contrapposizione mirata dei vari spezzoni d’epoca, materiale propagandistico di cinegiornali e Kulturfilm nazisti, fotografie, con l’aggiunta di alcune parti girate al momento, in tempo di pace, che ampliano la scala temporale e creano un effetto emotivo particolarmente efficace e proiettato nel presente.

Ho cominciato a raccogliere materiale secondo il seguente principio: quello più rilevante su Hitler è stato messo in un rullo, Göring è entrato in un’altro, un terzo rullo era riservato a gente che posava corone, un quarto alle parate militari, un quinto alle folle plaudenti, un sesto alla vita quotidiana dei soldati, e così via. Ho diviso il materiale fino in 120 possibili temi civili e militari, fra temi dal periodo pre-Hitler e del periodo di Hitler. Il materiale è stato organizzato in questi argomenti e poi messo insieme in singoli episodi.

[Romm 1965: 4]

Abbiamo montato il film come un film muto. Ho improvvisato il commento sezione per sezione, senza pensare alla sincronizzazione, senza perseguire effetti standardizzati «documentario», come fosse un monologo dell’autore, come se stessi pensando al materiale in quel momento, invitando lo spettatore a pensarci, contemporaneamente. A mio parere è stato proprio questo mezzo artistico – l’interazione fra la carica emotiva, il montaggio artistico e il monologo dell’autore – che ha dato al film la sua speciale qualità.

[Romm 1975: 279]



Il commento non è un testo scritto affidato alla voce fuori campo manierata di uno speaker professionale e impersonale, ma quella che si sente è la voce dello stesso Romm, che chiosa con tono discorsivo, a volte ironico, a volte solenne i singoli spezzoni, in presa diretta.

Il documentario inizia e finisce in un asilo moscovita. I disegni di alcuni bambini sono il simbolo della creatività naturale, innata in ogni uomo, che sempre viene brutalizzata dal concetto di massa inerte e non pensante, insito in tutte le dittature. L’individualismo borghese non era uno dei peggiori peccati, punito con il Gulag anche dal regime sovietico?
Attraverso l’analisi storica dell’ascesa del nazismo e della sua caduta, i filmati di propaganda, delocalizzati dal loro contesto originale, finiscono per essere rappresentazioni tragicomiche. Romm le commenta in prima persona, spesso riferendosi direttamente al suo pubblico con domande, e arriva a impersonare, nel Capitolo Otto, Hitler stesso che narcisisticamente sfoglia il suo album fotografico di pose improbabili.
Dopo la fabbricazione del monumentale tomo mistico del Mein Kampf, con pergamena e acciao, destinato a durare mille anni come il Reich, ecco le parate militari con svastiche e tamburi, prima ancora dell’avvento del nazismo, e le feste popolari con milioni di salsicce. Ed ecco che viene analizzato un’aspetto particolare della questione razziale: il tentativo di ottenere una razza pura attraverso l’inseminazione programmata di donne fertili ad opera di soldati e SS, per ottenere i perfetti pargoli “Doni al Führer”, con la buffa dotazione di culle portatili con cui i soldati venivano equipaggiati, quando andavano in licenza, per spingerli a fare il loro dovere di inseminatori ariani.
Non può mancare una fugace ma pregnante apparizione del nostro Mussolini, l’inventore della parola fascismo e del gesto, il saluto romano, che Hitler gli ha solo bellamente copiato con un angolo leggermente diverso, e campione assoluto per il martellamento della propaganda.
Qui è protagonista di un tipico filmato al balcone, con la solita gestualità demenziale, di cui Romm dice:

Il contenuto del discorso e’ irrilevante. E’ necessario vedere la sua faccia, piuttosto che ascoltare quello che sta dicendo.

Alla sua sinistra ondeggia una specie di fantasmatico alone nero, messo dal montatore per nascondere un certo tal personaggio che gli stava accanto e che, in quanto a lui particolarmente inviso, era stato cancellato se non dalla Storia, almeno dalla pellicola.
Il plagio e l’imbarbarimento della massa, che doveva essere pronta a obbedire agli ordini più terribili, inizia dall’infanzia e investe ogni aspetto della vita tedesca. Perfino i crani dovevano essere regolari e corrispondere a rigidi parametri ariani.
L’ordinarietà del fascismo, la sua quotidianità sta, quindi, sia nell’essere consapevolmente instillato e permeato in ogni aspetto della vita, stimolando gli istinti peggiori dell’essere umano, che nella conseguente convivenza di vita normale e barbarie, attraverso cui si acquisisce una stolida, ottusa insensibilità dei limiti dell’umano.

Dal diario del dottore in medicina e filosofia, professore straordinario Josef Kramer:

Ho partecipato a una speciale attivita’ oggi.
Era piu’ terribile dell’Inferno di Dante.
Abbiamo dovuto ordinare nuovi pantaloni, stivali e una giacca da Berlino.
Abbiamo dovuto assistere nuovamente un’attivita’ speciale.
Questa volta, sono state selezionate donne denutrite per lo sterminio.
Sapevano cosa stava per accadere e le SS hanno un po’ faticato con loro.
Il menu del pranzo e’ zuppa di pomodoro, mezzo pollo, birra a volonta’ e gelato alla crema di vaniglia.
Di sera – una piacevole cena presso la casa del comandante.

 

Il lungo percorso attraverso le immagini e gli orrori della guerra finisce là dove era cominciato, con i bambini dell’asilo moscovita, perché:

Non esistono bambini cattivi.
Tutti i bambini del mondo sono buoni.
Tutto dipende da come formeremo i loro caratteri, da come li trasformeremo.

Il documentario termina con una piccola fiaba raccontata da una bambina:

C’erano una volta un vecchio e sua moglie. Avevano una gallinella maculata.
Un giorno la gallina depose un uovo, e non era un semplice uovo, ma uno d’oro.
Il vecchio cerco’ di romperlo e non ci riusci’.
Hanno continuato a cercare di romperlo, ma inutilmente.
Un topo corse e agito’ la sua piccola coda; l’uovo cadde e si ruppe.
Il vecchio pianse, e la moglie pianse, ma la gallina disse: “Non piangere vecchio,non piangere vecchia donna! Faro’ un nuovo uovo, questa volta non uno d’oro, ma semplice.

[trad. sottotitoli inglesi di Orsola Puecher]

Le bleu du malheur

1

Le bleu du malheur
 
di Augusto Petruzzi

“Ciò per cui troviamo le parole è spesso già morto nel nostro cuore.
Vi è sempre una sorta di  disprezzo nell’atto del parlare”

[Friedrich Nietzsche]

a Rileggi alcune note, sono trascorsi 10 anni, per una collana editoriale mai nata, “scritture del disastro”. Quel che ti separa da loro, lo ritrovi insieme ad alcune foto, è un tempo trascorso che ha già seppellito se stesso. Scegli soltanto di ricordare intorno a qualche frammento.

Alcuni uomini hanno scelto la scrittura come pratica d’impossibile, non per assecondare un tentativo o una tentazione ma alla stregua di esseri affetti da particolari disturbi dello spazio che possono attraversare unicamente a condizione di non toccare quei fili invisibili di cui, unici depositari, sono a conoscenza. Tra loro, alcuni hanno scelto, al posto di delimitate porzioni d’aria, il movimento instancabile accanto a quei fili. Percorsi dove il tempo e la materia sono soggetti a perturbazioni. Assistiamo dunque ad accelerazioni e glaciazioni repentine, la scrittura ne è contagiata, brulica, brucia o si arresta fino ai limiti di pura registrazione. Altri, provando talvolta a spezzare l’ordito di quei fili invisibili, scelgono volontariamente di esporsi al disastro…

Immagini sbiadite di altri, ascoltati in famiglia. Soldati tedeschi armati della loro lingua, anche… pane nero, fuga in campagna, mio padre piccolino con sua madre.

a Surriscaldato da forze centrifughe, il ‘900 si torce al centro intorno ad una catastrofe, l’unica vera tragedia del nostro tempo.

Quel che i documentari ci hanno mostrato dell’orrore dei campi non restituisce la verità perché nessuna macchina potrebbe. Anni fa hai avuto l’occasione di assistere ad alcune sessioni di montaggio di un documentario sui sopravvissuti toscani. Le parole filmate, ascoltate e ripetute tra impassibilità e commozione, continuavano solo a rivelare una verità che nessuno conoscerà mai. Alla presentazione c’erano alcune delle persone intervistate. Il loro sguardo, dopo la proiezione, lo ricordi bene. Ricordi cosa hai visto nei loro occhi, la prova del tuo non sapere…

Chi testimonia per il testimone ? 

Alcuni studi dicono che molti dei sopravvissuti riuscirono a superare quei giorni grazie al canto, ricordi “Abbiamo lasciato il campo cantando” di Etty Hillesum, che non ritornò. Ricordi il “Quartetto per la fine del tempo” eseguito per la prima volta nel campo di lavoro di Görlitz.


Messiaen ha cercato di esprimere qualcosa di umanamente impensabile, la scomparsa del tempo, un tempo che si estingue. Il tempo si estingue nell’esperienza interiore e come tale non può essere trasmessa.

a Qualcosa è successo…

Nomi… storie… troppi come i libri attraversati dai tuoi 19 anni su ogni aspetto di quel che accadde e poi voler ritrovare tra le pieghe di altre pagine le narrazioni. La coscienza dell’impossibilità di sapere segnò l’arte ed il pensiero nella ricerca della verità e Alcuni uomini… Pensi ad Ingeborg Bachmann che della catastrofe portò sempre con se un livido sonoro, il suono dei tamburi delle SS che sfilano a Klagenfurt, la sua città natale, per lei bambina fu un evento traumatico. Rievoca l’episodio in un racconto “Giovinezza in una città austriaca”. Pensi a Samuel Beckett che durante la guerra diventò null’altro che un anonimo raccoglitore di patate per aderire al paesaggio campestre nel miglior modo possibile… Ricordi quel che scrisse uno sconvolto Michel Foucault spettatore di “Aspettando Godot”.

Le blue du malheur…

Tradotto potrebbe divenire L’azzurro della catastrofe, impossibile restituirne le molteplici sfumature. Accostamento simbolico tra il titolo, “L’azzurro del cielo”, di un celebre romanzo di Georges Bataille e malheur, un termine caro a Simone Weil che nel suo pensiero evoca  sconfitta, catastrofe, disastro. Nel romanzo, il personaggio di Lazare è Simone Weil. Rileggo, dopo tanti anni, alcune pagine, la prima parte, le pagine dove appare Lazare e le ultime due; quando a prendere il posto dell’oscena depravazione dei corpi è l’oscenità sonora di una parata di giovani in divisa. L’atmosfera torbida, che pagina dopo pagina ha violentato le vite dei protagonisti, alla fine si dispiega nei segni premonitori dell’imminente disastro…

Un tempo dove “le macerie non hanno più tempo di diventare rovine” come afferma Marc Augè, rendendo profetiche le parole che Alfred Jarry fa pronunciare alla sua creatura in Ubu incatenato “non avremo distrutto niente finche non avremo distrutto anche le macerie”.

“…attraversare il male senza prendersi per una incarnazione del  bene”

    (Tzvetan Todorov)

 
Credits Immagini
Senza titolo – Studio su Fallimento I – V di Samuel Beckett (tecnica mista su carta 2003)

Senza titolo – Studio su Fallimento I – V di Samuel Beckett (tecnica mista su carta 2003)

Senza titolo – Studio su Fallimento I – V di Samuel Beckett (tecnica mista su carta 2003)
 

Dieci poesie

0

di Luciano Neri

 

da Figure mancanti, inedito.

 

(…)

(infanzia delle figure)

Il becchino e il giardiniere
nella perdita ad occhio delle loro immagini
(dalle fosse comuni al giardino botanico).
Intenti a trafugare a espiantare
le voci mancanti nel foro scoperto
che li unisce nel comune lavoro di scavo:
il campo vocale, uno, delle ellissi, due.

(…)

(visite all’Evangelico)

A D.

Nessuno ci chiedeva più il nome
e restavamo al palo di obici
piantati (al Tacheles) e come intrusi
nella corsia degli incurabili…
Ognuno cambiando ago
nel sangue – appesi al filo
dell’ossigeno – senza frontiere
ai tubi del respiratore –
da lì passa la voce –
da OranienburgerStrasse
alla periferia di Marzahn

(…)

(pagina senza luogo a Jajce)

Arrivano e trovano il terreno bruciato,
l’ufficio del turismo chiuso e nessun affittacamere
che li ospiti. Intanto gli umori cambiano
in quelli delle comparse e si fermano al centro
di un parcheggio deserto. Di sera vagano
come sorveglianti ai rumori del fiume,
nudi e intatti, disincantati verso il fondovalle
e ormai quasi invisibili, senza più contorni.

(…)

A B.

Preda nel movente dei lupi
nelle tagliole sotto le foglie del bosco
ricoperto interamente di garze…
Bastava che il soldato muovesse
il labiale, facesse un cenno.
Così ti è mancato un soffio al dirupo
degli invisibili (la sorte in mano
a un telefono da campo…):
l’unica strada quella minata
delle campagne, intorno solo l’ignoto, invalicabile
ad ogni incontro.

(…)

(primo viaggio di Leonardo)

Sei in ogni bambino, nei parchi con la mamma,
dentro un aneddoto a colori dell’Haggadah
(della Creazione o dell’Esodo), al Consiglio di Jajce:
comunque diretto a una terra lontana.
Tra le memorie adulte un sonno pesantissimo,
i passeggeri a fissare lo scafo. Vedeva la rotta marina
irreale nelle loro pagine deserte, come un fantasma
alla ricerca di luce. Il labiale degli insonni era la lettura
scomparsa che meglio riusciva a seguire,
inconsolabile, privata di corpi.

(…)

(incerte zone)

Non si guardano chi chiede di vedere
e chi concede il visto. Nessuno
nelle immagini a quel punto.
Ignoti e scorporati senza luogo.
Dopo km alla fine spariscono
una terra abbandonata a destinazione,
per quei residui si riducono in ossa

(…)

(procedure del campo aperto)

Respinti, allontanati, nelle aree
più isolate del paesaggio
corpi sonaglio, bambini-lepre.
Ogni cammino allo stesso vuoto
concentrico. Sono figure
alla tempia delle immagini:
sia sogno o veglia essi vivono
gli stessi desideri abitati
nel loro corpo rifatto
sempre uguali, ripetuti.

(…)

(l’equipaggio di U.)

Ognuno cerca di ricompensare
la memoria alla fine dei suoi anni,
fa un calcolo in eccesso
o sommario delle cose da salvare
o si appiglia a una vita
laterale o smarrita o lontana.
E anche dopo tenta invano
nelle acque ferme del porto
e ammainate le vele.
Mentre la nostalgia è dolore
appurato alla destinazione
e presto si decompone,
ha poca durata toccando le rive
di una bocca sperduta.
S’infrange nell’altro mondo
delle pagine, tracciato da qualcuno
disabituato alla terra.

(…)

(museo di Sarajevo)

Ad A.

Senza inizio né fine nella camera oscura,
le mani immerse nell’acqua piovana
del fotoreporter. E’ l’immagine
della dissoluzione – la prima. Esce
dal costato di un uomo
(a figura intera). È accaduto. A Višegrad.
Nessuno ci credeva.
Un altro immaginario si riapriva
dalle sue interiora… –
il fantasma ottico a controllo
del testimone, a difesa dell’istante
introvabile (dello scatto)
(il soggetto messo a fuoco) –
come da un’acqua rubata
lo fissava

(…)

(la figlia della signora K.)

Non ha più motivo di cercarlo
tra gli affissi di Marşala Tita
o nel padiglione pericolante
delle culture. Nel ritratto
sembra (rimasto) quello di sempre.
Ora che lei ha saputo
della radura degli insepolti
(notizie dalla campagna)
l’iride si svuota all’arrivo
di ogni (uno) straniero, cambia
reticolo alle memorie
a custodia di quella vita
(muro spinato e combinazione).
(e va dietro a un sipario
Di ombre la propria (ogni) persona
Ad un muro spinato)
Poi un bisogno di aiuto
(alla voce che implora)
e nel soggiorno un corpo vicino.

Seduto. Sconfinato.

In tutti i quartieri, in tutte le grotte

8

In tutti i quartieri, in tutte le grotte

di Orso Tosco

Fu prima che mio cugino Barala si trasformasse in un assiduo giocatore di dadi, prima che gli venissero spezzate entrambe le braccia a causa di una storia di parcheggi e diventasse padre di un bimbo paffuto e felicemente stolto.

Io e Barala in quella lontana estate friggevamo cozze.

video arte #27 – runa islam

0

Runa Islam, Be the first to see what you see as you see it, 2004.

Fare il bucato

4

di Giulia Niccolai
Giulia Niccolai

(I Frisbees della vecchiaia di Giulia Niccolai vanno ben oltre la letteratura aforistica, sono densi di ironia, passione e commozione. Vedi anche qui e qui. a.s.)

Ancora sul linguaggio. L’espressione
“fare il bucato” che diciamo sempre
invece di dire “lavare la biancheria”
(senza però conoscere l’etimologia
del termine “bucato”), non fa pensare
che diamo tutti per scontato il fatto
di lavare un po’ di bianco e molti buchi?

*
Il francese, “faire la lessive” mette l’accento

Essere Paolo Sorrentino

14

this-must-be-the-place

di Piero Sorrentino

È da tempo che accarezzo l’idea di curare un libro di interviste, intitolato “Onomastici”, o qualcosa del genere, in cui convocherei a dialogare sui massimi sistemi una ventina di artisti e intellettuali accomunati semplicemente dal nome.
Coppie di narratori dai nomi diversi, ma che spesso molti confondono – Eraldo Affinati e Edoardo Albinati, per esempio -; critici e scrittori che differiscono di una sola lettera nel cognome – Silvio Perrella e Valeria Parrella, Paolo Mauri e Michele Mari -; oppure letterati dai cognomi identici – Fulvio e Carmine Abbate, Domenico e Tiziano Scarpa, Umberto e Claudio Piersanti, Antonella e Daniele Del Giudice -, e così via.
Mi piace la pretestuosità dell’occasione di partenza, la gratuità del criterio, l’ingenuità della proposta che innesca i dialoghi, l’idea di mettere faccia a faccia due persone a partire dalle somiglianze o dalle identità di quello che – tra i molti arbitri che caratterizzano le nostre vite – resta l’elemento più incontrollabile di tutti, che qualcuno decide per noi all’atto della nostra nascita, o anche assai prima di quella. È un libro che nessun editore sano di mente si sognerebbe di fare, naturalmente. Ed è un progetto che mi torna in mente tutte le volte – non poche – che vengo scambiato per Paolo Sorrentino, il regista. È un equivoco nel quale in effetti mi imbatto assai di frequente.
La prima volta credo sia stata da Daria Bignardi, quando ci ospitò in tv alle “Invasioni barbariche” per parlare dell’antologia “Voi siete qui”.
“E poi c’è il racconto di Paolo Sorrentino”, disse in diretta nazionale.
A volte capita che qualcuno mi si avvicini poco prima di incontri o manifestazioni pubbliche, dopo che il mio nome è comparso nei piccoli box delle pagine locali dei quotidiani che annunciano reading, presentazioni, dibattiti. “Scusi – mi chiedono – sa dov’è Paolo Sorrentino?”.
Qualche settimana fa, nel foyer del teatro Mercadante, a pochi minuti da un incontro col regista Arturo Cirillo, si è presentato un tizio. Sosteneva di essere un ricercatore in antropologia dell’università di Toronto. Doveva assolutamente incontrare Paolo Sorrentino prima della presentazione per sottoporgli un questionario per non so quale studio di cui si stava occupando.
“Mi spiace, forse c’è un equivoco: io sono Piero, non Paolo”.
“Impossibile. Sul giornale ho letto Paolo”. Si guardava intorno cercandolo.
La sua agitata convinzione era così forte che per un attimo la storia mi è apparsa sensata. Non avevo idea di come rispondere. Siamo rimasti lì a rimuginare in silenzio.
“Guardi, sono contento che lei sia lei, ma devo andare via” ha detto a un certo punto il tizio, prima di infilare la porta e scomparire.
Il giorno dopo la sua vittoria al premio Strega, ho scritto un sms di felicitazioni e complimenti a Walter Siti. Grazie molte, ha risposto lo scrittore dopo pochi minuti, prima di aggiungere qualche riga di rammarico per le critiche negative alle quali il mio bel film su Roma veniva sottoposto.
La mattina del primo gennaio, alle 10.57 un regista napoletano piuttosto noto mi ha spedito un messaggio col cellulare: Caro Paolo grazie per il bellissimo e affettuoso capodanno che ci hai regalato ieri sera spero veramente che tra noi possa finalmente nascere una profonda e reale amicizia. Ti abbraccio forte.
Qualche volta – assai più di rado – succede il contrario. In Rete è ancora possibile recuperare un articolo della rivista “”Alfabeta2” dedicato al cinema “di Piero Sorrentino”.
Prima di morire in un incidente d’auto, lo scorso aprile, mio cugino A., 22 anni, mi prendeva un po’ in giro su questa faccenda. Scherzava, e anzi a volte lo faceva proprio apposta, fingeva di sbagliarsi e mi chiamava Paolo, per saggiare le mie – fiacche – reazioni di protesta.
Tornava a casa, era la notte tra sabato e domenica, non aveva allacciato la cintura di sicurezza. Secondo i rilievi della polizia andava a 80 all’ora. Sopra i limiti di velocità, certo, ma non una velocità folle. Nessuno sa perché, ma intorno alle tre del mattino, mentre percorreva un placido e largo rettilineo, ha perso il controllo dell’auto ed è andato a sbattere contro la pensilina deserta di una fermata dell’autobus. Pochi minuti dopo, lungo la strada è passata un’auto di suoi amici, che hanno riconosciuto la macchina e si sono fermati a soccorrerlo. Lo hanno trovato che piangeva. Era preoccupato per l’auto e per le eventuali reazioni di mio zio, suo padre. Ancora seduto nell’abitacolo, si prendeva a manate rabbiose una coscia. Il personale dell’ambulanza gli ha iniettato morfina e lo ha portato in ospedale. I miei zii hanno fatto in tempo a vederlo nel corridoio, lungo il piccolo tragitto verso la stanza delle radiografie, dove lo hanno incrociato per caso. A. ha chiesto scusa per la macchina, mio zio gli ha detto che dell’automobile non importava niente a nessuno, un inserviente lo ha portato in stanza, pochi minuti dopo ne è venuto fuori un medico giovane che portava ai miei zii la notizia della sua morte per emorragia interna. Nell’impatto, il volante aveva sfondato sterno e costole. Un polmone s’era bucato. Alcune vertebre della schiena s’erano spezzate. Stando al rapporto della polizia, l’airbag non si è aperto perché nell’impatto l’auto era salita sul marciapiede e aveva assunto una posizione inclinata, col muso verso l’altro, e a quanto pare la centralina del pallone di sicurezza funziona solo se l’auto resta su un piano orizzontale. Successivamente, l’esame tossicologico del sangue non ha rilevato né droga né alcol.
Qualche giorno dopo, un gruppo di amici di A. ha raggiunto la stazione di benzina della Q8 che sta a pochi metri dal luogo dell’incidente. Hanno chiesto al titolare della pompa la registrazione delle telecamere di sicurezza relative alla notte tra sabato e domenica, e non so come né perché sono riusciti a ottenerla. Con il pc, hanno realizzato un piccolo video che metteva in sequenza una manciata di foto in cui mio cugino appariva felice con gli amici, al mare, in discoteca a ballare oppure durante una partitella di calcio. Il video, pubblicato su YouTube, si concludeva con qualche fotogramma sgranato e indistinto delle riprese della telecamera di sorveglianza, la macchia grigia dell’auto che attraversava lo schermo da sinistra a destra, né veloce né piano. Avevano preparato anche una piccola colonna sonora che accompagnava le immagini. Un pezzo dei Blur. Un altro che non mi ricordo. Un altro ancora, sul finale, “This must be the place” dei Talking Heads. Il video è stato rimosso dopo pochi giorni.

Post in translation: Ismail Kadare

6

Il_confine_liquido
A due o a quattro mani: lo strano caso dei traduttori di Ismail Kadare
di
Francesca Spinelli
Una versione più lunga di questo articolo è uscita nel volume Il confine liquido. Rapporti letterari e interculturali fra Italia e Albania, a cura di Daniele Comberiati e Emma Bond -Besa 2013. Il libro verrà presentato a Tirana il 23 gennaio 2014 nell’ambito del convegno dal titolo “Kujtesa, identiteti dhe integrimi. Letteratura albanese migrante in lingua italiana”.

*

Per indicare quei testi tradotti una prima volta e quindi ritradotti in una terza lingua, il critico Michael Orthofer ha preso in prestito dalla genealogia un’espressione poeticamente concisa: twice removed. In un articolo pubblicato nel 2003 sulla rivista online The Complete Review, Orthofer si stupisce che ancora oggi le opere di alcuni noti autori siano tradotte in inglese da traduzioni già esistenti, citando come esempi Sándor Márai, Haruki Murakami, Witold Gombrowicz e Ismail Kadare, e conclude che “senza una grande rivolta contro la traduzione di seconda mano – da parte dei lettori, dei critici, degli autori e dei traduttori stessi – è probabile che questo tipo di traduzioni continui a essere pubblicato” .

In Italia solo una piccola parte delle opere di Ismail Kadare è stata tradotta direttamente dall’albanese. Molte sono comprese nel catalogo Longanesi, che ha comprato i diritti da Fayard, unico editore di Kadare in Francia. Le opere di Kadare, spiega Fayard sul suo sito, sono state tradotte “in una quarantina di paesi”. Sarebbe più corretto dire che in molti di quei paesi i lettori, spesso a loro insaputa, hanno a disposizione solo le traduzioni della versione francese. In Brasile, invece, le traduzioni dirette e indirette sono presenti in uguale misura. Ci sono infine paesi – tra cui Spagna, Germania e Paesi Bassi – dove i testi di Kadare sono tradotti unicamente dall’albanese. – Risalendo indietro nel tempo o esplorando i cataloghi di editori minori, è possibile scovare traduzioni dirette anche verso l’italiano o l’inglese, ma rimangono eccezioni in un quadro per lo più francocentrico.

I traduttori di Kadare si dividono così in due categorie, a seconda che conoscano o meno l’albanese. Nel 2005 David Bellos, il principale traduttore di Kadare in inglese insieme alla francesista Barbara Bray (scomparsa nel 2010), ricordava così la scoperta dell’autore del Generale dell’armata morta: “Quando, dieci anni fa, il direttore letterario di The Harvill Press Christophe MacLehose mi chiese di tradurre Dosja H di Ismail Kadare dalla versione francese, in un primo momento esitai. Non parlavo albanese (ancora oggi conosco solo pochi elementi di questa lingua strana e difficile). E poi avevo dei principi! […] ‘Perché non fate tradurre il testo direttamente dall’albanese?’, chiesi a MacLehose. Sollevò le sue lunghe braccia al cielo. ‘Se solo sapessi...’, fu la sua misteriosa e irrefutabile risposta”.

Il mio primo istinto, quando nel 2008 Fandango mi ha proposto di tradurre il saggio Dante, l’incontournable (in albanese Dantja i pashmangshëm) è stato di controllare l’unico testo di Kadare che avevo a casa, il romanzo breve L’aquila, tradotto da Francesco Bruno e pubblicato da Longanesi nel 2007. Unica indicazione sulla versione originale: “Traduzione dal testo francese L’Aigle”, senza che fosse precisato il nome del traduttore dall’albanese al francese. Mi è sembrato strano, come mi ha stupito che non ci fossero persone in grado di tradurre direttamente dall’albanese, ma Fandango ha insistito. Ho accettato, come Bellos, zittendo i miei scrupoli.

A parte rari e splendidi casi come quelli raccolti nella collana di Einaudi “Scrittori tradotti da scrittori”, le doppie traduzioni sono difficilmente difendibili. Fanno un torto ai lettori, spesso ignari del doppio passaggio, e sono estremamente frustranti per i traduttori, confrontati non solo al rischio di fraintendere il testo, rischio insito nell’atto stesso di tradurre, ma anche al timore di perpetuare un errore del primo traduttore. Torniamo alla “Breve storia dell’Albania con Dante Alighieri” (questo il sottotitolo) di Kadare. L’argomento imponeva la massima minuzia, ma il passaggio dal francese ha inevitabilmente amplificato difficoltà e dubbi, in parte risolti grazie all’autore della versione francese, Tedi Papavrami. Nato a Tirana nel 1971, Papavrami è noto soprattutto come violinista, ed è proprio grazie al suo talento musicale che nel 1982 si è potuto trasferire in Francia per studiare. Nel 2001, in seguito a una vicenda di cui parlerò più avanti, Fayard gli ha affidato la traduzione delle opere di Kadare.

Durante i nostri scambi Papavrami ha ammesso alcuni errori, suoi o dell’editor di Fayard, permettendomi di ripristinare il senso originario. “Mi scuso per queste imprecisioni”, ha poi scritto, “ma io stesso a tratti ho faticato a capire questo testo. Di tutti i libri di Kadare che ho tradotto, è quello che mi ha messo più in difficoltà”. Mai confessione fu raccolta con tanto sconforto.

Nel 2010 Fandango ha pubblicato un secondo testo di Kadare, Il mostro, un romanzo che intreccia diversi piani temporali giocando su parallelismi e intersezioni tra il mito della caduta di Troia e l’arroccamento dell’Albania comunista di Enver Hoxha. Ho scoperto con orrore che Papavrami non avrebbe potuto essermi d’aiuto, perché l’autore della versione francese era scomparso da qualche anno. Si chiamava Jusuf Vrioni, e la sua storia meriterebbe un libro a parte . Morto a Parigi nel 2001, Vrioni era il doppio francese – o meglio francofono – di Kadare. Nato nel 1916 in una famiglia aristocratica albanese, aveva trascorso gran parte della giovinezza in Francia, dove suo padre era ambasciatore, e dove aveva acquisito una padronanza perfetta della lingua. Nel 1943 decise di tornare in Albania. Fu arrestato quattro anni dopo con l’accusa di essere una spia, torturato e incarcerato. Una volta liberato, nel 1959, cominciò a tradurre per guadagnarsi da vivere: traduceva in francese testi politici, tra cui le opere di Hoxha, e letterari, in particolare quelli di un giovane autore di nome Ismail Kadare.

Come racconta lo stesso Kadare in un’intervista uscita su La Matricule des Anges nel 1999, l’inizio della sua fortuna in Francia risale alla fine degli anni sessanta, quando il giornalista Pierre Paraf, in viaggio in Albania, capitò sulla versione francese del Generale dell’armata morta, tradotto da Vrioni e pubblicato tre anni prima per volere delle autorità comuniste. Paraf portò il volume in Francia e l’editore Albin Michel lo pubblicò nel 1970, senza doverne acquistare i diritti poiché l’Albania di Hoxha non aveva firmato nessun trattato sul diritto d’autore.

Per anni Vrioni, malvisto in quanto ex detenuto politico, rimase un traduttore invisibile. Il suo nome non appariva mai, e i primi lettori francesi di Ismail Kadare dovettero accontentarsi di un vago “Traduit de l’albanais”. Il riconoscimento arrivò tardi, quando Vrioni aveva più di sessant’anni, con la pubblicazione di Il ponte a tre archi e Aprile spezzato (usciti rispettivamente nel 1970 e nel 1980 in Albania, e nel 1981 in Francia). Nel 1985, per la prima volta dopo oltre quarant’anni, Vrioni poté uscire dall’Albania, e nel 1997 decise di lasciare definitivamente il paese per tornare a Parigi.

Chi l’ha conosciuto lo ricorda come un uomo la cui cultura e raffinatezza erano pari solo alla sua umiltà . Orthofer sottolinea che le traduzioni inglesi riportano generalmente la dicitura “Translated from the French of Jusuf Vrioni”. In Italia si è a lungo ignorata questa buona abitudine, e io stessa non ho pensato a far inserire il nome di Papavrami in Dante, l’inevitabile, riparando l’errore nelle due traduzioni seguenti, Il mostro e La nicchia della vergogna. Dopo la morte di Vrioni Fayard ha chiesto a Papavrami di curare le traduzioni delle opere di Kadare.

A differenza di Vrioni e Papavrami, in grado di tradurre dalla propria lingua madre in una lingua di adozione , molti “traduttori diretti” di Kadare hanno imparato la lingua del paese delle aquile, per motivi spesso singolari. Per il traduttore spagnolo Ramón Sánchez Lizarralde e il tedesco Joachim Röhm la spinta fu ideologica. Nel 1977, su invito del regime di Hoxha, l’allora trentenne Röhm e la moglie si trasferirono in Albania, dove vissero tre anni. Una volta tornato in Germania, Röhm diventò il principale traduttore di letteratura albanese in tedesco. Lizarralde, scomparso nel 2011 a soli sessant’anni, seguì un percorso simile. Membro del Partido comunista marxista leninista, nel 1980 andò a studiare a Tirana, dove conobbe Kadare e si laureò in Lingua albanese, prima di tornare in Spagna nel 1984.

Nei Paesi Bassi Kadare ha due traduttori albanofoni, Roel Schuyt e Jacqueline Sheji. Quest’ultima, dopo aver imparato la lingua del marito, l’artista Qenan Sheji (macedone, ma appartenente alla minoranza albanese del paese), ha tradotto diversi autori albanesi. Roel Schuyt, invece, ha imparato la lingua di Kadare su richiesta di un editore, vicenda originale raccontata sul sito del premio di traduzione Aleida Schot : “Intorno al 1994 un editor della casa editrice Van Gennep chiese a un membro della giuria del premio se conosceva qualcuno in grado di tradurre dall’albanese. L’editore aveva acquisito i diritti delle opere di Ismail Kadare, ma non aveva nessuno cui affidare una traduzione diretta dall’albanese. Il membro della giuria rispose senza esitare: ’Rivolgetevi a Roel Schuyt. Non sono certo che conosca l’albanese, ma se serve lo imparerà’”.

Ho avuto un solo, breve scambio con Ramón Sánchez Lizarralde, a cui mi sono rivolta dopo aver scoperto che il traduttore di Le monstre non era Papavrami ma Vrioni. Non mi rassegnavo all’idea di non poter chiedere delucidazioni a qualcuno che avesse letto il testo in albanese, e dopo una rapida ricerca ho individuato in Lizarralde il mio salvatore. Nell’email in cui mi allegava il testo di El monstruo, scriveva: “È davvero un peccato che non si riesca a trovare un bravo traduttore diretto [in italiano]… Non voglio sembrarti presuntuoso, ma se trovi delle differenze tra il francese e lo spagnolo, la mia versione sarà quasi sempre più fedele (anche per quanto riguarda il fraseggio e il tono)”.

Le due traduzioni erano effettivamente dissimili, come ha rivelato un certosino confronto. In alcuni punti ho corretto quelli che erano veri e propri errori di Vrioni (o forse, chissà, dello stesso Kadare). In altri mi sono attenuta alla traduzione francese. Più volte ho invocato la protezione di san Girolamo, chiedendomi che senso avesse quell’imperfetta triangolazione letteraria. Ho trovato un principio di risposta in un articolo di Lizarralde uscito nel 2001 sulla rivista online El Trujamán . Ricordando i tempi in cui Kadare era ancora sconosciuto in Spagna, Lizarralde scriveva: “Fu all’incirca nel 1988 che, dopo anni di peregrinazioni tra case editrici, nel tentativo di convincere i direttori che valeva la pena di pubblicare Ismail Kadare in spagnolo e che, naturalmente, io ero la persona adatta per tradurre le sue opere, m’imbattei (o forse fu lui a imbattersi in me) in un editore che da tempo inseguiva il mio autore ma si rifiutava di promuovere un’operazione di doppia traduzione (dal francese). Era Mario Muchnik, all’epoca a capo della casa editrice che ancora oggi porta il suo nome. Pieno d’immotivata fiducia nelle mie doti letterarie, si appassionò da subito al progetto […] e mi misi (mi mise) al lavoro. Non fu facile. La casa editrice francese che aveva i diritti universali sull’opera di Kadare si mostrò decisamente restia all’idea che venisse tradotto dall’albanese e all’epoca i miei rapporti con l’autore erano quasi inesistenti. Più volte ci chiesero di usare la versione francese come punto di partenza di quella spagnola. Mario, però, s’impuntò, mi sostenne e proseguimmo il nostro lavoro”.

Fayard, rappresentata dall’agenzia letteraria The Wylie Agency, possiede i diritti sulla traduzione dei libri di una serie di autori non francesi, tra cui Kadare. E stando al racconto di Lizarralde, racconto peraltro confermato dall’alta percentuale di doppie traduzioni di opere di Kadare, preferisce che la versione francese sia considerata quella di riferimento. Per quale motivo un autore e il suo editore dovrebbero prediligere il doppio passaggio tra testo e lettore, con tutti i rischi che comporta?

Nel suo articolo Orthofer formula un’ipotesi interessante: “Un’ultima spiegazione della bizzarra scelta di tradurre un testo già allontanato di un grado [once removed] dall’originale potremmo cercarla in ciò che l’editore vuole presentare: forse non è il testo originale che punta a offrire al pubblico anglofono, ma la traduzione”. Orthofer fa poi l’esempio del romanzo di Sándor Márai Le braci, tradotto in inglese dalla versione tedesca di Christina Viragh, Die Glut. E immagina che gli editori Knopf (negli Stati Uniti) e Viking (in Gran Bretagna) abbiano fatto una considerazione di natura principalmente economica: “Visto il successo di critica e di vendite della versione di Viragh (e il poco interesse suscitato per circa sessant’anni dalla versione ungherese di Márai del 1942), quest’ipotesi non sembra poi tanto astrusa”.

Nel caso di Kadare abbiamo un editore, Fayard, che incoraggia altri editori a prediligere la doppia traduzione, e lo fa con l’appoggio dell’autore. Se la motivazione economica non è da escludere del tutto (in fondo la fama di Kadare è sbocciata dalla penna raffinata di Jusuf Vrioni), c’è chi spiega altrimenti la volontà di mettere in ombra la versione originale.

Una premessa: il concetto stesso di versione originale, riferito a Kadare, è problematico. Come spiega Lizarralde nella prefazione di El nicho de la vergüenza, Kadare ha approfittato della pubblicazione delle sue opere complete, edite in Francia da Fayard e in Albania da Onufri, per rivedere i suoi testi: “Nella maggior parte dei casi si tratta di correzioni e modifiche di carattere strettamente stilistico. A volte si arriva alla ricostruzione di alcuni personaggi e di passaggi che non convincevano del tutto Kadare. Ci sono infine casi in cui i cambiamenti consistono, da un lato, in un ritorno alla stesura originaria del testo, alterata dall’autore per motivi dettati dalla censura o dalla convenienza politica, con lo scopo di assicurare la sopravvivenza dell’opera a seguito delle critiche ricevute; dall’altro, nell’eliminazione di elementi che fin dal principio dovevano servire a far pubblicare il testo alle condizioni del regime dell’epoca”.

La pubblicazione delle opere complete è cominciata nel 1993, ma fin dalle prime traduzioni in francese Kadare ha preso l’abitudine di rivedere i suoi testi. Per “versione originale”, quindi, si possono intendere tre testi diversi (almeno nel caso dei romanzi più famosi di Kadare, scritti prima che lasciasse l’Albania nel 1990): la prima versione pubblicata in albanese; la versione di Jusuf Vrioni, rivista con l’accordo dell’autore, da cui come sappiamo deriva gran parte delle traduzioni in altre lingue; la versione albanese rivista e corretta.

Per riprendere il ragionamento di Orthofer, cos’è, dunque, che Fayard vuole “presentare” al pubblico? Semplicemente una versione migliorata delle opere di Kadare? E in che modo la percezione che i lettori hanno dell’autore è stata influenzata dal monopolio dell’editore francese? Qui tocca evocare, almeno a grandi linee, la decennale querelle tra difensori e detrattori di Kadare, rianimata nel 2005 dall’assegnazione del primo Man International Booker Prize all’autore albanese . Per i suoi ammiratori, che oltre al talento letterario ne elogiano il coraggio di fronte al regime comunista, il riconoscimento era più che meritato. I suoi detrattori hanno invece denunciato l’ennesima mossa di una campagna che, da anni, occulterebbe la vera natura di Kadare: quella di un uomo complice del regime comunista, ma così abile da compiere un discreto voltafaccia dopo il trasferimento in Europa, modificando opportunamente le sue opere precedenti ed ergendosi a simbolo della resistenza contro la ferocia della dittatura. .

-1

Tra questi due estremi troviamo posizioni più sfumate, in particolare quella di Peter Morgan, docente di Studi europei all’Università di Sydney e autore di un recente studio biografico su Ismail Kadare . Senza negare l’ambiguità dei rapporti che legavano Kadare al regime comunista, Morgan la interpreta come una strategia di sopravvivenza, resa vincente anche grazie al ruolo delle traduzioni. In un articolo del 2008 Morgan ricorda che nei paesi socialisti “la linea tra opposizione e collaborazione era spesso sottile” . Pur riconoscendo i privilegi riservati a Kadare – membro del sindacato degli scrittori e in seguito deputato, non fu mai incarcerato né sanzionato in alcun modo e poté sempre viaggiare all’estero e pubblicare i suoi testi – Morgan sostiene che “Kadare non era libero di rifiutarli, e che [quei privilegi] avevano un prezzo. Come ogni altro aspetto della sua vita in Albania, erano controllati dall’alto. Per sopravvivere, Kadare dovette adeguarsi al regime e usare i suoi privilegi per promuovere la causa della sua scrittura” . In un altro articolo intitolato “Translation and dictatorship”, Morgan afferma che nelle traduzioni di Jusuf Vrioni Kadare trovò un’ancora di salvezza, “l’unico modo per salvaguardare la propria opera nella forma che voleva” . Le traduzioni, anche se successive alla versione in albanese, sarebbero quindi più originali perché libere dalle catene della censura e dell’autocensura.

Le analisi di Morgan si basano sulla distinzione – difesa dallo stesso Kadare – tra dissenso politico e letterario. Kadare, argomentano i suoi ammiratori, non ha mai sostenuto di essere un Vaclav Havel. La sua resistenza si è espressa attraverso la creazione e la scrittura, e il suo valore andrebbe giudicato unicamente sul piano letterario. Sofismi, ribattono diversi studiosi, che spesso – a differenza di Morgan, Bellos e altri difensori di Kadare – parlano albanese. È il caso degli albanologi canadesi Robert Elsie e Barry Baldwin, entrambi critici verso Kadare anche se con toni diversi: più misurato Elsie, che sul suo sito personale (Albanianstudies.net) firma un ritratto nell’insieme lusinghiero di Kadare ma che in altre sedi ha descritto anche i lati meno nobili del personaggio; categorico Baldwin, che passando al setaccio le dichiarazioni e gli scritti di Kadare dopo il 1990 e confrontandoli con numerose fonti albanesi, ne deduce che l’autore dei Tamburi della pioggia è un impostore, capace di macchiare la memoria di scrittori e intellettuali come Arshi Pipa, Fatos Lubonja e Kasëm Trebeshina che, a differenza sua, ebbero il coraggio di opporsi al regime di Hoxha e ne pagarono le conseguenze .

Il contrasto con i commenti agiografici generalmente riservati a Kadare è forte, come forti sono le riserve di molti albanesi verso quello che il mondo intero considera il loro più grande autore ma che ai loro occhi, nonostante il successo di critica e i riconoscimenti internazionali, rimane un uomo compromesso con il regime di Hoxha. Il giovane scrittore e giornalista Darien Levani, che vive in Italia dal 2000, mi ha raccontato un aneddoto che riassume il sentimento generale dei suoi connazionali: “Mesi fa ero in Albania e stavo guardando la televisione in un’osteria. C’era Kadare che raccontava quanto aveva sofferto durante il comunismo. Nessuno si capacitava: ’Ma se era ricco, era deputato, abitava a Tirana, aveva la casa e lo stipendio pagati dal Partito…’, ha detto un cliente sulla cinquantina”. Se tra i giovani, costretti a studiarlo a scuola, Kadare ha preso le sembianze polverose di un Manzoni, per molti albanesi rimane una figura controversa: “Come scrittore è molto apprezzato”, conclude Levani, ma “come uomo è difficile da amare”.

Non sta agli editori decifrare il passato di Kadare o giudicarne la caratura morale. Possono però ridurre la distanza tra le sue opere e i suoi lettori, voltando una pagina poco gloriosa della storia della traduzione.

gennaio 2012

Su “La meravigliosa vita di Jovica Jovic”

0

di Francesca Matteoni

La meravigliosa vita di Jovica Jovic è un avventura composita di frammenti biografici, fiabe, interviste narrate prima oralmente da Jovica stesso, musicista rom, a Moni Ovadia e Marco Rovelli e poi da loro scritta in questo libro. Un libro che non vuole esporre le vere vicende dei rom – esistono, per questo testi storici e antropologici, tra cui segnalo La persecuzione nazista degli zingari di Guenter Lewy (Einaudi, 2002), ma piuttosto dar l’occasione ad uno di loro di avere voce, di affabulare i suoi lettori, convincendoci ancora una volta che è tutto vero, non perché è andata così, ma perché così ci viene raccontata. È dunque l’avventura bizzarra della memoria, in cui ciò che si è ascoltato si fonde a ciò che si è visto e attende di dirsi agli astanti per avere senso. È l’avventura di un popolo spesso frainteso, disprezzato o guardato con pietà, raramente accolto in modo paritario. È un’idea di famiglia, un pezzo di storia e di guerra (dai campi di sterminio e i triangoli marroni, alle guerre nei Balcani), dove la sofferenza si trasforma sempre, alla fine, in un canto di vita. È l’avventura di un uomo. La sua storia. E se le storie ci abitano, l’unico modo perché ci facciano davvero uguali, è continuare a raccontarle.

Si legge nel libro: “Bisogna sempre attraversare terre sconosciute prima di capire e giudicare. Non è restando nel recinto che si cresce”. Vorrei aggiungere: perché questo attraversamento avvenga, bisogna credere profondamente alle parole degli altri. Sospendere il nostro bagaglio di pregiudizi e conoscenze, da riesumare dopo, semmai, in uno sguardo attento e critico, e tenere le parole come la musica – qualcosa che ci trascina, ci passa dentro, ci contiene.

Jovica è, non a caso, un musicista e anche, almeno qui, un cantastorie: la dimensione orale del libro –testo scritto per volontà, direi, dei curatori di colmare un vuoto – richiama l’universo folklorico, dove le storie nascono da uno scambio ripetuto tra chi dice e chi registra, da un interesse per l’altro da parte del ricercatore, che annulla la distanza, proprio perché riconosce come valore la differenza. Differenza che non necessariamente è piacevole e affascinante: si prenda per esempio il capitolo sulle questioni di genere, dove è assai faticoso accettare una visione genuinamente etero-patriarcale della donna e delle relazioni. La tensione alla parità tuttavia implica proprio questo: un innamoramento che non esclude il disincanto. Prima dovremmo imparare ad accettare, poi tentare il passo per la società migliore, poiché più inclusiva e dialogante. Differenza però che viene meno, di colpo, davanti alla tragedia del figlioletto di Jovica, la cui morte resta ancora un caso insoluto, una morte senza voce contro il potere. Si legge: il bambino di un serbo, di uno che vive nei campi, che, secondo il senso comune, “ruba e mente”; si leggono anche, in questo paese dove le forze della giustizia troppo spesso si opacizzano, si mutano in agenti di sopraffazione e violenza impunita, Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi. Differenza, ancora, che si stempera perfino nella gioia dolente della fisarmonica, della festa. Forse perché per noi umani la parità diventa difficile nel quotidiano, negli abbrutimenti come nelle lotte giornaliere, e abbiamo ancora bisogno di risvegli terribili o di momenti euforici e pieni di oblio, di entusiasmi e dolori condivisi per accidente o casualità con estranei come con figure familiari, perché l’altro diventi cioè che è – un attimo di agnizione.

Moni Ovadia, Marco Rovelli, La meravigliosa vita di Jovica Jovic (Feltrinelli 2013)

Radical kitsch: il capitale umano e la Repubblica di Salòt

11

palla-di-neve-gondola-venezia-h-9cm-venice-snow-globe-glass-20131210043826
di
Francesco Forlani

La parola kitsch è davvero magica; tra le poche parole al mondo universali, è l’unica in grado di diventare quello che nomina semplicemente perdendo una lettera: Kitch. Mentre le patrie lettere sfornano uno dopo l’altro “capolavori del pensiero” e del cinema, da salotto a salotto, che si tratti degli “interni” delle case borghesi o di quelli internisti degli studi televisivi, mi dico che forse solo una critica partigiana potrà qualcosa contro la cultura faziosa, egemone proprio perché di parte, di questa nuova Repubblica di Salòt, regno incontrastato della cultura radical kitsch.
A metterli tutti in fila questi “capolavori”, e per farlo basta entrare in una qualsiasi Feltrinelli,o recarsi in un multisala metropolitano, la prima cosa che balza agli occhi è la loro dimensione militare, non militante, reggimentale a difesa di quello che i francesi, qualche tempo fa, definivano la pensée unique.

Qu’est-ce que la pensée unique ? Cos’è il pensiero unico, si chiede ignacio Ramonet del Monde Diplomatique. La traduction en termes idéologiques à prétention universelle des intérêts d’un ensemble de forces économiques, celles, en particulier, du capital international. “È la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale. »
Il dramma, ma sarebbe più corretto dire la sceneggiata, tutta italiana, è che in questi anni si è affermato il pensiero unico senza pensiero, capolavoro assoluto della sinistra italiana, inimmaginabile qualche decennio fa.
Dopo esserci occupati delle inquietanti commedie, La mafia uccide solo d’estate di Pif e Un boss in salotto di Luca Miniero oggi parleremo dell’ultimo film di Paolo Virzì, Il capitale umano

Per chi non lo avesse ancora visto, Il Capitale Umano, è la trasposizione, non solo cinematografica, del romanzo di Stephen Amidon, e che racconta sostanzialmente di un atto di pirateria stradale in cui vengono coinvolte diverse realtà, famiglie, personaggi, le cui contraddizioni si condensano nel racconto che ognuno di essi è in grado di fare in una sola giornata, quella fatidica giornata in cui nella titanica lotta tra un SUV e una bicicletta, quest’ultima sembra avere la peggio.
Suv, bicicletta. Prendete nota, mi raccomando. Dalla prima scena assistiamo non tanto alla contrapposizione di due modelli, archetipi, ma stereotipi genialmente identificati dagli autori in questa lotta di classe della ruota; magnifico, senza un primo, piccolissimo errore, sottilmente scivolato sull’asfalto. Chi guida la bicicletta dovrebbe in realtà stare alla guida del SUV. Di lui sappiamo poco, però dalle poche battute scambiate con il proprio capo, extra comunitario, vuoi per il mollare tutti a finire il lavoro post cerimonia, vuoi per come si rivolge al nero, ci sembra davvero uno stronzo. E se è vero che solo gli stronzi c’hanno il SUV perché ce lo troviamo in bicicletta? Se poi ci spostiamo sul SUV, è ancora peggio, perché, ma non possiamo dirlo per non svelare il mistero-chiave del film, chi c’è alla guida A) non è affatto stronzo B) non dovrebbe trovarsi lì.

Così grazie a Virzì noi capiamo che Il problema non è tanto quello di capire perché ci sono Suv nel mondo, come si chiedeva quel tipo che dalle parti di Modena ne fece fuori una dozzina, ma chi si trovi alla guida.
“Insomma i SUV li vogliono gli automobilisti” potrebbe obiettare il direttore comunicazione di un’azienda automobilistica produttrice di SUV, alla stregua di produttori cinematografici o meglio ancora registi che si parino il culo, alla solita maniera, dicendo ” diamo agli spettatori quello che vogliono”
copertina_328kloi In un illuminante breve saggio di Dwight MacDonald, Masscult e Midcult, troviamo questo passaggio : ” Qualora un Signore e Padrone del Masscult venga biasimato per la bassa qualità della sua produzione, automaticamente risponde: “Ma è ciò che il pubblico vuole, che ci posso fare, io?”. Si tratta, a prima vista di una difesa semplice e conclusiva. Ma a ben guardare essa rivela che : 1) nella misura in cui il pubblico “lo vuole”, il pubblico stesso è stato, entro certi limiti almeno, condizionato dalla produzione suddetta, e 2) gli sforzi del Signore e Padrone del Masscult hanno preso tale direzione perché a) anch’egli “lo vuole” (mai sottovalutare l’ignoranza e la volgarità di editori, produttori cinematografici, dirigenti radio-televisivi e altri architetti del Masscut e b) la tecnologia della produzione di “divertimenti” di massa (e anche in questo caso le citazioni sono prudenti) impone uno schema semplicistico, ripetitivo in modo che sia facile dire che è il pubblico a volerlo.”
E il pubblico vuol che a guidare il SUV, anche quel SUV ci sia uno stronzo. Così come il pubblico vuole che l’intellettuale di sinistra sia snob e, ancora una volta, stronzo.

Nel valzer degli stereotipi proposti da questo straordinario film, credo che la palme d’or vada alla scena in cui lui, (interpretato da Luigi Lo Cascio ) intellettuale di sinistra snob e, diciamolo pure, abbastanza stronzo si scopa lei (Valeria Bruni Tedeschi) in salotto, nella magnifica villa del favoloso mondo made in Bernaschi, davanti a un maxi schermo su cui sfilano le ultime immagini di Carmelo Bene, in ” Nostra Signora dei Turchi”. E come un mantra Lidya Mancinelli ripete: Ti perdòno, ti perdòno!
“Kitsch”, apoteosi del kitsch, talmente radical che sono sicuro Carmelo Bene, se solo avesse potuto, avrebbe sbottato, come nella celebre puntata di Maurizio Costanzo, “Occhio zombie che stasera vi spacco il cervello” . La benalità del male, c’era stata già annunciata qualche scena prima, del resto, quando durante una riunione del futuro consiglio d’amministrazione del teatro che lei ( Valeria Bruni Tedeschi) grazie ai soldi del marito (Fabrizio Gifuni) ha rilevato, ritroviamo la critica teatrale, ovvero lo stereotipo, il Suv della critica teatrale radicale di sinistra, quella per cui “il teatro è morto”, l’assessore leghista che propone per la stagione, e l’inaugurazione, i cori di cappelle varie sparse per laghi e monti, e una tale pusillanimità culturale che ti dici : se questa è la scena teatrale italiana come si fa a non essere d’accordo con il marito di lei quando deciderà, con grande delusione della moglie, di rivendersi tutto per un’operazione immobiliare che porterà liquidità.

Diciamo allora che in Virzì il capitalista, stronzo, sta alla guida dei Suv come l’intellettuale, di sinistra, stronzo sta alla guida della cultura. E se capitale e cultura si equivalessero? Del resto l’accusa che l’intellettuale radical kitsch, (Lo Cascio) rivolge alla mancata amante, post coitum, (Valeria Bruni Tedeschi) non è forse quella di essere una dilettante, e non una professionista? Categorie del capitale applicate paro paro al mondo delle passioni per cui chi viene pagato è migliore di chi si sentisse già appagato dalla cosa in sé? Andatelo a spiegare ai rugbisti e ai poeti, tutto ciò.
b8e7a28c3ceafdf03927b775e737ffcd

Cultura = Capitale

A Torino, in occasione della manifestazione Luci d’artista, da un po’ di tempo in piazza Carlo Alberto, si può ammirare l’installazione Cultura = Capitale. Alfredo Jaar l’ha posta sulla facciata della Biblioteca Nazionale. Ispirata alla celebre formula creata da Joseph Beuys, ‘Kunst = Kapital’ (Arte = Capitale), e dunque in chiave anticapitalista, l’effetto che fa, almeno su di me e un altro paio di persone con cui ne ho parlato, è quella di uno slogan, l’ideale quarto slogan Socing da aggiungere ai tre inventati da George Orwell (Socing nella neolingua imposta nel suo migliore dei mondi possibili in 1984, stava a significare socialismo inglese): l’ignoranza è forza, la guerra è pace, la libertà è schiavitù. Capitale è cultura.

In che modo allora il film Il Capitale Umano si può considerare come un’opera radical kitsch?
Lo è nel momento in cui unisce ciò che è separato, se c’è il capitale, diciamo noi, non può esserci l’umano, né tanto meno il culturale o peggio ancora l’artistico. Del resto, questo ci era stato promesso, no? Un attacco al cinismo del capital in grado di valutare al centesimo la vita di una persona. Il film non solo non ci dice questo, ma nei fatti, al di là di ogni intenzione, grazie proprio alla grammatica assolutoria, “tutti stronzi nessuno stronzo” e all’abile uso dei peggiori clichè e stereotipi, con la funzione pacificatrice dell’immaginario collettivo, a salvaguardia di tutti gli spettaori, conforta proprio quella tesi. Del resto la funzione delle opere radical kitsch è proprio di difendere lo stato delle cose. E a riprova di questo basterebbe notare come in un film di cui avevamo letto sui giornali, che avrebbe raccontato un territorio, un paesaggio, una cultura, come in tutte le opere radical kitsch non ha nemmeno tentato di raccontare un luogo, la lingua, le cose che si trovano in un posto e non in un altro, restando alla superficie, allo schizzo (sketch). Altra caratteristica del radical kitsch è proprio quella di puntare all’universale d’emblée quando sappiamo bene, anche attraverso la magnifica epopea della commedia all’italiana, che quanto più si è concretamente nel locale tanto più si accede all’universalità della storia.
Di quanto è accaduto al territorio ce lo spiega lo stesso regista in un’intervista rilasciata a Natalia Aspesi per Repubblica.

Quasi tutti i suoi film sono ambientati in provincia, questa volta lei, livornese, sceglie la Brianza. Perché la pensa più “americana”, più rapace, più spietata?
“L’ho scelta perché è vicina a Milano, dove c’è la Borsa, dove ogni giorno si creano e distruggono patrimoni: poi perché cercavo un’atmosfera che mi mettesse in allarme, un paesaggio che mi sembrasse gelido, ostile e minaccioso. Mi interessavano due scenari, quello dell’hinterland con i grumi di villette pretenziose dove si celano illusioni e delusioni sociali, e quello dei grandi spazi attorno a ville sontuose dai cancelli invalicabili. Ho girato nella campagna di Osnago, nel centro storico di Varese, di Como, città ricchissima che esprime il degrado della cultura con quel suo unico teatro, il Politeama, chiuso e in rovina. E che ha una parte importante nel film, come simbolo di un inarrestabile degrado e sottomissione al denaro. La bella villa con piscina e i sontuosi interni, dove vive la famiglia opulenta di Gifuni, l’ho presa in affitto ad Arese, e l’ho pagata profumatamente: ci ho aggiunto solo il tennis”.

Il Radical kitsch è così, ci aggiunge solo il tennis.

Vorrei chiudere con Vittorio Giacopini che nella prefazione al bellissimo libro di Dwight MacDonald, Masscult e Midcult, libro fondamentale nella bibliografia anti radical kitsch, scrive:

Nell’uguaglianza ancora imperfetta della società di massa e dei suoi riti, la Arendt aveva intuito la genesi di un nuovo modello di «buona società» e di un inedito tipo di filisteismo; l’avvento di una generazione di «nuovi filistei» capaci di trasformare «gli oggetti della cultura in una valuta con la quale comprare una posizione sociale superiore o acquisire maggiore stima di sé stessi». Nel Midcult -mi sembra questo sottile processo di restaurazione è giunto felicemente a compimento. Il «tiepido velo fangoso» di Macdonald è diventato adesso un grosso pantano. Ce l’hanno fatta, quei piccoli filistei; sono stati bravi. Il Midcult ha riannodato in modo definitivamente autoritario il «filo spezzato della tradizione» e ha trasformato per l’ennesima volta la conoscenza, l’arte e la cultura in una subdola forma di potere.
Però non è detta l’ultima parola. Il Midcult ha vinto ma non ha trionfato. Il futuro è aperto, in ogni caso.
Nei prossimi anni -per l’arte e per la politica -sarà decisivo immaginare un altro rapporto tra cultura e democrazia. Bisognerà, credo, diventare più sobri, molto pragmatici e concreti in politica e più radicali, intransigenti, parziali, generosamente selettivi, per quanto riguarda l’arte, i linguaggi, la sfera della comunicazione,la cultura. Ma non so se per questo ci siano ricette vincenti o strade maestre da seguire salvo forse l’esempio prezioso di quei pochi, ostinati, «arcieri zen» che anche quando chiudono gli occhi non sparano a caso.

 

Quest’Europa si fonda sui confini – Intervista a Sandro Mezzadra

2

Intervista a cura di Nicola Grigion, Progetto Melting Pot Europa. [L’intervista è apparsa sul sito di Melting Pot Europa il 16 ottobre 2013. Ringrazio Filippo Furri della segnalazione.]

L’operazione “Mare Nostrum”, con l’impiego umanitario delle navi militari nel Mediterraneo, è una prima risposta della governance europea alla strage di Lampedusa. Si tratta di un primo segnale che racconta come la politica “umanitaria” oggi stia tornando all’ordine del giorno tra le strategie di gestione delle migrazioni, prendendo il sopravvento su quella dei respingimenti.

Arcipelaghi

2

Di Giorgio Mascitelli

Apprendo da fonte degna di fede ( uno di quei rotocalchi supplementi dei quotidiani che ci insegnano a distinguere il grano dal loglio, per così dire) che un vero ricco al passo con i tempi alla domanda su quanto sia grande la sua isola deve rispondere che lui possiede un arcipelago. Non sono certo un moralista, come pare sia necessario dire oggi, e poi c’è già il Santo Padre per insegnare a tutti il valore morale della povertà e della sobrietà  e il rispetto della gerarchia, che consente a chi gode dei predetti beni spirituali di non privarsene mai; né intendo buttarla in politica ricordando come la Grecia stia pianificando di vendere alcune isole per ripagare le banche creditrici, di cui potrebbero essere azionisti magari alcuni degli stessi acquirenti. Non sono scandalizzato perché in fondo mi so simile ai collezionisti di isole: durante l’infanzia collezionavo figurine dei calciatori non per completare l’album, ma per il piacere di averne le tasche piene e, da un certo punto di vista, il collezionista di figurine e quello di isole e le rispettive collezioni non sono poi tanto differenti.

Se invece si prende in esame la questione da un punto di vista tecnico di retorica della comunicazione, allora le cose cambiano: attualmente il discorso mediatico sulla ricchezza è tutto improntato all’elogio della sobrietà, della misura e addirittura dello stesso pauperismo, nel quale annunci compiaciuti del taglio di superstipendi si alternano a indignate comunicazioni della pervicacia di coloro che si ostinano a non rinunciare a cifre ormai insolenti per il pubblico. Non mancano naturalmente  gli elogi agli esempi positivi di liberalità e munificenza di chi può, come si diceva una volta. In un contesto mediatico così improntato a una severa tutela dei valori autentici della vita è chiaro che riportare eleganti bon mot come quello dei ricchi e dei loro arcipelaghi è una stonatura grave paragonabile a quella di chi, vestitosi meticolosamente in nero e compunto il volto a un’espressione tristemente partecipe in occasione di un funerale, si sorprenda nel corso della cerimonia a ridere sguaiatamente o a fare un pernacchione.

In senso tecnico si tratta di un’antifrasi, che è figura d’ironia e di solito viene impiegata con intenti demistificatori, e qui l’ironia e la demistificazione ci sono, ma sono involontarie. D’altronde è comprensibile che sia così: per un apparato mediatico costituzionalmente programmato all’ottimismo dei consumi riconvertirsi nel giro di pochi mesi a un pauperismo pessimista, seppur moderato, può essere molto difficile.

Il fatto più grave, se si è un operatore professionale della comunicazione, o più divertente, se non si è operatori, non è però la carica involontariamente demistificatoria di un dettaglio del genere dell’ipocrisia dei ricchi e dei potenti, che se la spassano godendosi i loro soldi e facendo solo finta di ridursi gli stipendi. Il fatto più grave o più divertente è che a qualcuno potrebbe venire in mente che questa battuta starebbe a pennello in una storia dei tempi antichi: sì una di quelle storie che si raccontano ancora oggi ai bambini con re e principesse, duchesse e ciambellani oppure, per il piacere dei classicisti più grandicelli, in una delle Vite dei Cesari di Svetonio.

Quando io avevo l’età dei bambini di oggi, anche allora vigeva l’austerità, eppure credo che nei media  non sarebbe stato nemmeno pensabile un accenno a un’isola o a un arcipelago di proprietà di chicchessia. Probabilmente già allora qualche fortunato possedeva la sua brava isola, anche se erano meno di oggi, ma non sarebbe stato tollerabile che il discorso mediatico alludesse anche solo per scherzo a differenze e disuguaglianze così vistose e arcaiche da smentire la spinta democratica all’emancipazione nella società. Se il mondo era moderno, non ci potevano essere che comportamenti e divertenti moderni, anche tra i ricchissimi. Ovviamente già allora dietro questo spettacolo del progresso c’era chi lavorava fattivamente per rafforzare la disuguaglianza, che tuttavia non era ancora diventata uno spettacolo di successo.

Lo sarebbe diventato negli anni successivi: ora che  il buon senso e la prudenza a causa della crisi suggeriscono di sostituirlo con quello della sobrietà, anche i professionisti della comunicazione fanno fatica a cambiare perché lo spettacolo della disuguaglianza non era una mistificazione, un falso che copriva la verità, anzi era la più schietta rappresentazione dello spirito dei tempi.

E naturalmente cambiano gli spettacoli, ma non i tempi e il loro spirito: magari uno di questi giorni costruisco insieme a mio figlio un’isola tutta nostra di sughero da far galleggiare nel laghetto dei giardini pubblici.