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La Cicciona

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di Romano A. Fiocchi

 

Guy de Maupassant, La Cicciona, traduzione e cura di Stefano Lanuzza, Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri, 2013.

Il 6 luglio di centoventi anni fa moriva Guy de Maupassant. Moriva pazzo, causa la sifilide contratta da giovane, forse ereditata dal padre, forse trasmessagli dalle assidue frequentazioni di prostitute. Stampa Alternativa l’ha celebrato con un volumetto che non poteva uscire se non per i suoi tipi: La Cicciona, titolo originale Boule de suif, letteralmente Palla di sego, Palla di grasso, o anche Pallina, come suggerisce nella postfazione Stefano Lanuzza. È un libretto curioso, di cento pagine, con un opulento nudo di Renoir protagonista della copertina. Curioso e che incuriosisce a prima vista. Provate a leggerlo in metropolitana, su un tram o su un autobus e vi accorgerete di quante persone (soprattutto donne) notano il nudo in copertina, sbirciano il titolo e vi osservano cercando di carpire il contenuto. La Cicciona, specie in una società dove l’anoressia è la normalità, fa il suo effetto.

Lo farebbe ancora di più se si sapesse che la Cicciona è una prostituta e che tra i compagni di viaggio con cui sta fuggendo da Rouen, occupata dalle truppe prussiane, è il personaggio che più catalizza la benevolenza del lettore. Sì, una prostituta è meglio del conte de Bréville e signora, dell’industriale Carré-Lamadon e signora, del commerciante Loiseau e signora, ma anche del “rivoluzionario” Cornudet, idealista solo in apparenza, e delle due suore, pronte ad aiutare soldati contagiati dal vaiolo ma incapaci di riconoscere il bene in una prostituta. L’idea di rappresentare in pochi elementi caratteriali l’archetipo della borghesia francese dell’epoca (e non solo) è un’idea vincente, tanto che oltre all’adattamento cinematografico del 1945 di Christian-Jaque con una Micheline Presle affascinante e niente affatto boule de suif  – alcune sequenze si possono vedere qui qui -, personaggi e microcosmo psicologico del racconto tornano in uno dei più celebri film dell’epopea western: Ombre rosse di John Ford del 1939  – per chi non l’ha mai visto, o avendo una certa età ne ha un improvviso richiamo nostalgico, il lungometraggio completo in lingua originale è visionabile qui qui –.  Ombre rosse è a sua volta tratto dal racconto La diligenza per Lordsburg dello scrittore americano Ernest Haycox, che si rifà al racconto di Maupassant. Il finale del film è ovviamente adattato al pubblico dei western: la prostituta Dallas si riscatta andandosene a vivere con il bello e onesto fuorilegge – equivalente eroico di Cornudet – impersonato da John Wayne. Il perbenismo americano non avrebbe accettato una prostituta con il volto rigato dalle lacrime dell’umiliante irriconoscenza. Immagine invece, quest’ultima, che vela il personaggio di tenerezza sino a farlo più bello di quello che è.

Veniamo ora agli aspetti più letterari. La Cicciona è un racconto breve ma potente, scritto da un Maupassant di appena trent’anni. Pubblicato nel 1880 in un’antologia che rappresenta il manifesto del naturalismo (con racconti di Zola, Huysmans, Céard, Hennique, Alexis), riesce a coniugare la straordinaria capacità di osservazione con l’evocazione di sentimenti (e risentimenti) attraverso un linguaggio distaccato e realista, quasi anticipasse di settant’anni l’école du regard di Robbe-Grillet. Racconto simbolo, racconto considerato perfetto da Zola, “capolavoro destinato a durare” da Flaubert, La Cicciona è in sostanza un libro di denuncia: da un lato dell’assurdità della guerra, dall’altro della meschinità degli uomini ricchi o arricchiti, che pur essendo di condizioni sociali diverse si sentono – come scrive Maupassant – “affratellati dal denaro, membri della grande massoneria degli abbienti”.

C’è dell’altro. Tutto il libretto è attraversato da una sottile incessante ironia che non risparmia neppure i disturbi respiratori dell’albergatore: “I suoi polmoni, sibilando, esprimevano l’intera gamma dell’asma: dalle note gravi e profonde fino alle note acute dei galli giovani che provano a cantare”. Ma anche i nomi: dallo stesso albergatore, signor Follenvie ossia pazzo-nella-vita, al buffo Loiseau, in francese letteralmente “l’uccello”, ai nomi degli eroici e briganteschi reparti francesi che battono in ritirata: I Vendicatori della Disfatta, I Cittadini della Tomba, Gli Amici della Morte. È proprio da questi ultimi che prende inizio l’invettiva di Maupassant contro la guerra, contro le ambizioni di Badinguet – nomignolo di Napoleone III – e le vanaglorie del nuovo impero. Le prime dodici pagine sono una sorta di ouverture storica costruita con l’occhio acuto e sarcastico di un cronista di guerra (del resto Maupassant vi partecipò in prima persona). Sfilano allora i componenti di un’armata allo sbando che non dà affidamento neppure in chi la comanda: vecchi commercianti di stoffe e di granaglie, ex commercianti di grasso o di sapone a cui è stato conferito il grado di ufficiali solo per il loro denaro. Da questa moltitudine di personaggi sbiaditi, la patriottica Cicciona emerge come una delle poche figure vere e sincere.

Sono passati centotrentatré anni dall’impietosa fotografia scattata da Maupassant, eppure le cose non sono cambiate, così in Francia come in Italia e nel resto del mondo occidentale. Ecco perché se Ombre rosse resta soltanto una bella fiaba western, La Cicciona continua ad esercitare il suo fascino con la sua potente dose di attualità. Mettete un pulmino al posto della grande carrozza trainata da sei cavalli diretta a Dieppe, collocatela in una diversa zona di guerra al posto della Francia post Sedan, e vi renderete conto di quanto il racconto sia fresco e contemporaneo.

Stefano Lanuzza presenta un’ottima traduzione corredata di note particolareggiate e aggiornate (ad esempio il nomignolo Badinguet utilizzato anche per Sarkozy), talvolta persino eccessive (come le note esplicative sul mito di Tantalo e sull’alea iacta di Cesare).

Veste tipografica sempre originale, come è tipico delle edizioni Stampa Alternativa. Attenzione, nonostante tutto della Cicciona ci si può anche innamorare.

Note Movie : Lo sconosciuto del lago

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di Sophie Brunodet

L'inconnu_du_lac

Tutto ciò che conta è ciò che c’è

e tutto ciò che c’è  lo si mostra.

Di loro sappiamo i nomi:  Franck (Pierre de Ladonchamps), Michel  (Christophe Paou), Henri  (Patrick D’Assumcao), e conosciamo il posto che prendono sulla spiaggia accanto agli altri abitué , ma ignoriamo ogni altra informazione sul loro conto. Sappiamo solamente di una routine quotidiana sulle sponde di un lago isolato, incorniciato in un bosco, raggiungibile in automobile. Le macchine sono più o meno sempre le stesse e sempre parcheggiate con la stessa geometria al pari degli asciugamani stesi sul lido. Dal caldo del pieno giorno estivo all’imbrunire del tramonto, giorno dopo giorno, assistiamo all’andirivieni attraverso la boscaglia della popolazione single e gay di una non meglio precisata località francese. Sappiamo che ognuno arriva alla spiaggia da solo e che viene accolto dal muto, attento ed esplicito occhieggiare di chi lo ha preceduto. Sappiamo il rumore che fanno i passi sui sentieri e quello dei rami spezzati quando qualcuno si apparta per imboscarsi; il suono dello scivolare dell’acqua sui corpi che nuotano; il sibilo del vento tra le foglie; i gemiti di godimento degli uomini. Scopriamo corpi maschili senza veli né segreti né giudizi. Corpi nudi e amplessi omosessuali si susseguono talvolta di sfuggita tra le fronde, talaltra esplicitamente e in primo piano.

Non che non si fossero mai filmati erezioni, masturbazioni, penetrazioni anali, sesso orale ed eiaculazioni, ma è davvero raro trovarne così tante, così sincere e smaliziate in un film da festival. Non ci sono gusto della trasgressione, accuse o moralismi nel film di Alain Guiraudie Lo sconosciuto del lago, presentato questa primavera alla 66ª edizione del Festival di Cannes e vincitore del premio alla regia Un Certain Regard e della Queer Palm (premio inaugurato nel 2010 dedicato alle pellicole più artisticamente meritevoli e impegnate sulle questioni di genere). Per quanto sia a Cannes durante la proiezione del film sia in Italia nelle varie recensioni scritte si sia messo in moto il tormentone dello scandalo, con pubblico indignato che abbandona la sala o commenti che riducono il film a lungo-porno-metraggio-gay, in realtà Lo sconosciuto del lago è molto di più: è un genuino e coraggioso sguardo su un mondo relazionale e una dimensione del desiderio e della corporeità tutt’altro che marginali.

Va in scena il desiderio

La pellicola di Alain Guiraudie non è un hard, non è un film gay per gay, non mira allo scandalo. Certo, racconta del crusing all’aperto (incontri tra persone in cerca di avventure sessuali occasionali non a pagamento), i personaggi coinvolti negli incontri sessuali sono tutti omosessuali e il sesso è abbondante e tutto a scena aperta, ma la pellicola non si riduce a una grande abbuffata di sesso. Il film ruota piuttosto attorno al tema del desiderio incarnato. Il desiderio che anima, scuote e vive nella carne e nelle vene di chiunque è il vero protagonista.
Franck è un ragazzo semplice, timido e anche romantico, non per questo primo di voglie da sfogare. È un abitudinario del lago e del bosco e non ci mette molto tempo a notare e a perdere la testa per il bello nuovo arrivato, Michel, ovviamente già accompagnato, ma per niente avaro di sguardi languidi verso gli altri della spiaggia, in particolare proprio verso Franck. Franck è gentile e sensibile, volentieri saluta e scambia quattro chiacchiere quotidianamente con Henri, corpulento etero separato, che ha anche avuto una estemporanea esperienza omo in passato, ma che al momento è niente affatto interessato al sesso. Allo stesso tempo, Franck non perde d’occhio il bel Michel e, seppure scopre segreti violenti e terribili sul suo conto, in ogni caso non resiste all’attrazione per lui e alla possibilità di consumarla alacremente. In effetti, non sono né la paura né la morale a farlo dubitare, a un certo punto, del suo rapporto con quell’uomo, piuttosto è la mancanza del passaggio a un livello successivo della relazione, quello in cui si cena e ci si addormenta assieme, che lo porterà a nutrire dei dubbi sulla prosecuzione dell’avventura con Michel.

Insomma, eccitazione e avventura da un lato, dilemmi sentimentali quotidiani dall’altro, questo film è un bello spaccato sulla sensualità, sull’eros, sulla follia, sul romanticismo, sui dubbi e sulle contraddizioni che, per quanto ambientato in un ambiente specifico – quello degli incontri occasionali tra gay – , in realtà parla di tutti. Sfido chiunque ad affermare di non sapere niente delle  fantasiose traiettorie dell’eros. Non c’è bisogno di dirlo ad alta voce: questo ruolo se l’è assunto magistralmente il film per tutti, dando corpo, parola e immagine proprio a ciò che generalmente non si dice né si mostra, ma si vive. E si vive molto più spesso di quanto il senso comune o la politica siano disposti ad ammettere. Che se ne sia consapevoli o meno, che lo si riconosca o no, tutti siamo presi nelle maglie di un desiderio sanguigno, un desiderio che fa vibrare la carne dal profondo, un desiderio sempre vivificato e rilanciato proprio dalla sua proibizione, dalla sua condanna e dai pericoli che lo minacciano.
Si potrebbe dire che Lo sconosciuto del lago è un archetipo che sta per tutte le forme del desiderio condannato e vietato, ma che resiste alla sua soppressione, trovando sempre una via per manifestarsi al di là di ogni repressione, controllo o pericolo. Nel film di Guiraudie sono il sesso occasionale, all’aperto, non sempre protetto, e la passione amorosa, irrazionale, cieca, sorda e travolgente, ciò che, seppur ufficialmente castigato, trova in riva al lago il suo ambiente e nella pellicola cinematografica la sua rappresentazione. Nella vita di tutti i giorni questo circuito erotico di proibizione e di pericolo si presenta nelle più svariate occasioni e forme: come un’invincibile infatuazione per una persona socialmente malvista, per una irraggiungibile, per una già impegnata, dello stesso sesso, di molto più giovane o più vecchia.  Oppure la ritroviamo nel brivido di una notte finita a letto con uno sconosciuto della discoteca, di un rapporto sessuale consumato col proprio partner sugli scogli all’alba, nel petting fatto nel bagno del treno regionale a mezzogiorno, nei giochi erotici e fantasiosi vissuti segretamente nell’intimità della propria stanza, nei preservativi che talvolta, malgrado le buone intenzioni, rimangono intonsi nella confezione, nelle chattate spinte sui siti internet per single ecc.

Qualunque via abbia percorso la traiettoria del nostro desiderio, il punto è che nessuno può dirsi, con buona pace di pudici, bigotti e moralisti di tutti i luoghi e di tutti i tempi, estraneo alle dinamiche della carne, del desiderio, del mistero.
Con il suo film, dunque, Guiradie dà rappresentazione a qualcosa che riguarda la vita di chiunque e che troppo spesso viene taciuto e negato: mette in scena la fascinazione, anche romantica, del pericolo e mostra non solo corpi, ma anche pratiche dei corpi da sempre velate perché giudicate scandalose e perverse, o svelate in cotesti dichiaratamente scandalosi, di tratti di hard o di night club.

La naturalità del sesso

Ecco dunque il senso della Queer Palm vinta a Cannes da Lo sconosciuto del lago. Guiraudie ritrae, con una regia fine, pulita e diretta, senza filtri e ricami, la spontaneità del sesso, intrecciandola abilmente con la sensibilità e le fantasticherie romantiche proprie di chiunque sia preso nella spirale dell’innamoramento. Ciò di cui parla il regista francese sono una sessualità e un desiderio universali, niente affatto scandalosi o perversi, anzi: disinibiti perché naturali. E tale naturalità ricorre ampiamente in tutto il film, simbolizzata dalla esclusiva ambientazione bucolica data al film, quasi si trattasse di un eden terrestre situato da qualche parte in Francia; dal susseguirsi fisiologico di mezzogiorni e di tramonti in una quotidiana ciclicità temporale; dalla assenza di una colonna sonora, che rende lo spettatore partecipe alla scena, immergendolo nell’acqua del lago per una nuotata o facendolo rotolare dietro ai cespugli insieme ai protagonisti avvinghiati; dall’accostamento degli orgasmi delle coppie al cielo visto attraverso le foglie stando sdraiati al suolo; dalla schietta e smaliziata nudità dei corpi. In questo senso, proprio per quel che riguarda l’accostamento della natura e del sesso, l’opera di Guiraudie non è certo né una novità né un unicum.

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Solo per fare un esempio attualissimo si pensi alle immagini di Gian Paolo Barbieri, prestigioso fotografo milanese attualmente in mostra presso Photology con gli scatti censurati la scorsa primavera in occasione dell’esposizione a Palazzo Broggi di Milano del suo ultimo lavoro: Dark memories. Come già ha fatto Mapplethorpe – che con il suo fotografare gli organi sessuali delle piante, i fiori, naturalizza il sesso – , Barbieri ritrae fiori e corpi nella loro nuda materialità, nella loro naturale sensualità, nella loro spontanea eroticità allo stesso modo del regista francese con il suo sesso al lago. Non c’è traccia di volgarità, di squallore, di vergogna, di scandalo, di convenzione nella fisicità ripresa da questi artisti. Essi colgono e ci restituiscono la semplice, esuberante e disinibita espressività naturale dei corpi e dei sentimenti, mostrando ciò che generalmente si nega o si tiene nascosto come se si trattasse di peccato.

Meno noir e più queer.

Se tale è la portata comunicativa dell’impronta registica di Guiraudie, non altrettanto valida è la sceneggiatura del film. Come a dire che la trama e i suoi sviluppi non sono assolutamente all’altezza dell’atmosfera così abilmente intessuta dal regista con la scelta dei personaggi, delle inquadrature e dei suoni in presa diretta. Lo sconosciuto del lago si tinge di noir in maniera grottesca. La suspence fa sorridere e la surprise nasce e muore col primo assassinio. Quel che segue è banale e il finale ha un che di splatter decisamente deludente. Inoltre, per quanto sia apprezzabile la scelta di non contrapporre manichealmente eterosessualità e omosessualità come realtà opposte e rivali, allo stesso tempo, però, sarebbe stato interessante se se tutta la riflessione sul desiderio e sulla fisicità si fosse maggiormente tinta di queer. In effetti, se per un verso gli unici rappresentanti dell’eterosessualità, ovvero Henri e l’ispettore chiamato a indagare sull’omicidio – non considerando l’uomo che si aggira nel bosco in cerca di donne, senza alcuna speranza di trovarle – , siano personaggi disinvolti in quell’ambiente a loro poco usuale, che si limitano a esprimere un po’ di sconcerto per la promiscuità del lago, senza alcuna accusa, condanna o disagio particolari, riconoscendo così la legittimità del luogo e delle sue dinamiche; per un altro verso, il film non si emancipa pienamente dalla logica identitaria che vuole gruppi di appartenenza, accomunati da determinate caratteristiche, separati e contrapposti ad altri, logica ampiamente messa all’indice dalle queer theory . Mi riferisco alla scelta di rappresentare un ambiente puramente omosessuale, collocato sull’altra sponda del lago rispetto a quella frequentata dalle famiglie etero; al legame tra prestanza fisica e carica sessuale: l’unico sessualmente non attivo è l’unico flaccido della spiaggia, Henri – a dire il vero, anche il voyerista onanista è corpulento, ma il suo ruolo è quello dello sfigato, ovvero di essere colui che desidera gli altri piuttosto che di essere oggetto desiderato, di essere quello che soddisfa gli altri piuttosto che di essere soddisfatto – . Così facendo, Guiraudie riproduce e mantiene dei confini tutt’altro che naturali e necessari in una pellicola che in realtà vuole parlare e mostrare qualcosa di propriamente e universalmente umano, e non di qualcuno solamente.
Un film da vedere dunque – anche se forse non da rivedere – con spirito curioso, libero e sereno. Un film che andava fatto e che si potrebbe rifare anche meglio.

 

L’Italia e la sua ignoranza senza grida ( note in margine al rapporto PIAAC 2013)

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Di Giorgio Mascitelli

Nei primi giorni di ottobre sono stati resi noti i risultati dell’indagine PIAAC promossa dall’OCSE in 24 paesi sul grado di competenze linguistiche (literacy) e matematiche (numeracy) degli adulti compresi tra i 16 e i 65 anni. Si tratta di un’indagine che mi sembra significativa e seria a differenza di altre pure salite agli onori della cronaca, ma chiaramente costruite ad hoc per dimostrare certe tesi,  per la trasparenza metodologica, per lo sforzo di avere un campione statistico abbastanza ampio e per la scelta abbastanza oggettiva delle informazioni da ricercare.

Proprio in ragione di questa serietà, vorrei lasciare da parte tutto il tormentone mediatico sull’Italia ultima in classifica, sul fatto che facciamo schifo, che nessuno investirebbe da noi, che gli svedesi sono molto meglio di noi: diciamo che può essere tutto vero, ma non capisco a che cosa serva ripeterlo per di più con toni isterici come quelli usati generalmente dalla stampa. Tra l’altro il dato nuovo di questa ricerca non è la posizione dell’Italia, che era tale anche nelle indagini precedenti, ma che il divario con la media internazionale è diminuito. Non è però un effetto di una politica attuale, ma di un elemento demografico: statisticamente escono dal campione le classi scolarizzate negli anni precedenti alla scolarità di massa, che in Italia a livello di scuole superiori data dagli anni settanta. In realtà anche su questo piano c’è un elemento negativo e cioè, che le classi di età più giovani non migliorano rispetto a quelle immediatamente precedenti. In altri termini le generazioni nate negli anni sessanta, settanta e ottanta registrano un costante miglioramento rispetto a quelle immediatamente precedenti e tale tendenza si arresta con le generazioni degli anni novanta.

Molti dei dati naturalmente rientrano nelle attese: per esempio i laureati hanno generalmente i risultati migliori ( ma in Italia essi sono il 12% del campione, mentre la media internazionale è del 29%) e non vi sono sostanziali differenze tra i sessi. Vi sono alcuni dati invece più interessanti e cioè che l’Italia ha il record di lavoratori sottoqualificati, ossia di lavoratori che occupano una posizione più alta del loro titolo di studi, e che l’Italia è il paese con il più alto numero di lavoratori che nel loro lavoro non hanno particolare bisogno di quelle competenze di literacy e numeracy, indagate dall’indagine.

Questi dati sembrano indicare un paese in ritardo storico, che per un certo periodo è riuscito a colmare la distanza con i paesi più avanzati e ora sembra fermarsi. Questo succede perché la struttura economica e sociale non offre quelle occasioni di crescita successiva alla scuola che sono necessarie a mantenere e sviluppare le conoscenze acquisite negli studi. In definitiva questi dati sono il sintomo e nel contempo una delle cause della progressiva collocazione al ribasso del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro.

Se, come ricordano gli autori del rapporto italiano ( del quale è curatrice per l’Isfol Gabriella Di Francesco e scaricabile al sito www.isfol.it/primo-piano/i-dati-dellindagine-isfol-piaac), i fattori di riuscita individuale sono in ordine di rilievo il livello di studi individuali, quelli della famiglia di origine e infine i fattori relativi al lavoro e alle attività svolte, oltre all’età, possiamo dedurre l’immagine di un paese  che sconta un ritardo nello sviluppo di una piena scolarità e ha un apparato economico piuttosto tradizionale, in cui il lavoro serve meno di frequente da stimolo per mantenere attive e sviluppare le competenze acquisite. In questo senso è indicativo il fatto che solo il 58% degli intervistati abbia accettato di svolgere le prove con il computer a fronte di una media internazionale del 77%. Un dato apparentemente strano spiega a mio avviso ancora meglio questa dinamica: i risultati divisi per macroregioni ( Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud, Isole) presentano la solita divaricazione di ogni statistica tra regioni povere e ricche, o forse sarebbe meglio dire più e meno povere, con il Centronord in posizioni migliori, salvo il Nordovest.

Il Nordovest è caratterizzato da una curiosa schizofrenia: i laureati del Nordovest sono i migliori d’Italia nella literacy prossimi alla rispettiva media internazionale, mentre coloro che occupano il segmento basso, scuola dell’obbligo e meno, sono sulle stesse posizioni del Sud, molto lontani dalla media internazionale. Questa divergenza è un chiaro riflesso della duplicità del mondo produttivo, dove esistono realtà urbane in cui si concentra quel poco di economia della conoscenza che c’è, e una provincia magari anche ricca, perlomeno negli anni passati, ma concentrata esclusivamente su attività poco avanzate. E’ quel mondo, alquanto dominante in Italia a dispetto delle sue autorappresentazioni, che ha fatto dire a un suo esponente politico, qualche anno fa,  che con la cultura non si mangia.

In generale mi sembra che questa indagine confermi che il capitale culturale ereditato, per dirla alla Bourdieu, ha un ruolo importante nelle formazione di una persona e che accanto a esso giochi un ruolo quello che si potrebbe chiamare il capitale culturale sociale, ossia l’insieme di occasioni di formazione che una società offre: ovviamente quanto più è significativo questo secondo tipo di capitale tanto meno conta il primo.  Le politiche che dovrebbero favorire questo sviluppo naturalmente passano per un rafforzamento dell’istruzione pubblica e per l’incentivazione di un’economia della conoscenza, che non significa soltanto settori all’avanguardia tecnologica, ma anche interventi consapevoli in settori come turismo, alimentare ecc. Se dico che nutro fiducia nelle capacità delle nostre classi dirigenti economiche e politiche di avviare tali percorsi, è solo perché penso che un momento di ilarità tra cose tanto cupe dia un po’ di riposo al lettore.

Quand’anche esistesse una classe dirigente più capace, non sarebbe molto semplice avviare  politiche del genere perché il taglio della spesa pubblica e il clima di conflittualità sociale che ne nasce rende quasi impossibile un intervento sistematico e stabile nel tempo. Che poi questo taglio sia imposto da quelle organizzazioni internazionali del capitalismo, delle quali fa parte a pieno titolo l’OCSE, che da un lato indicano i mali e dall’altro contribuiscono a togliere i mezzi per curarli, è l’effetto ironico di un posizionamento politico-mediatico del quale, temo, non avremo molto tempo né voglia di ridere nel futuro.

Gisèle Freund, un’intervista

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di Danilo De Marco

(il testo e le fotografie che seguono sono tratte dal volume Noi che siamo così poveri nel dire, Forum Editrice, che sarà presentato il 25 ottobre a Udine: per i dettagli si veda sotto)

001-Gisele-Freund501-copyLa prima volta che chiamai al telefono Gisèle Freund, mi rispose una voce di donna dalla tonalità bassa e rauca: «Mi dispiace, ma Madame Freund non è in casa, è in viaggio e non saprei proprio quando sarà di ritorno. Provi più avanti: magari fra un paio di mesi». La stessa voce bassa e rauca mi rispose due mesi dopo. «Madame Freund è in viaggio, provi fra due mesi». Allora, con discreta insistenza, spiegando il motivo della mia possibile visita, domandai quando e come poter parlare con lei. Qualche attimo di silenzio, poi la voce disse: «È fortunato, Madame Freund è rientrata proprio ora». Stupore: la voce che mi si presentava come Gisèle Freund, era la stessa di prima, bassa e rauca. Gisèle Freund si era fatta passare per la donna delle pulizie. Mi accordò un appuntamento a casa sua dicendomi: «Le posso concedere solo una mezz’oretta, sono molto molto occupata».

Il giorno fissato per l’appuntamento arrivai a casa sua puntualissimo, anzi un po’ in anticipo. Non volevo perdere un solo minuto di quell’incontro. Mi aprì un uomo alto, sulla quarantina, che poi scoprii essere Hans Joachim Neyer, direttore del museo d’arte contemporanea di Berlino.

Gisèle Freund era seduta ad un tavolo, selezionava fotografie e prendeva appunti: «Vede – mi disse ancora prima di salutare – sto preparando una mostra e ho molte cose da mettere in ordine». Poi senza lasciarmi quasi pronunciare una sola parola iniziò lei a tempestarmi di domande sul tipo di lavoro che svolgo, sul tipo di reportage che faccio, come me la cavo economicamente… Bene, mi sono detto, mentre Gisèle parlava, parlava… Il nostro incontro, e fu il primo di altri, durò sei ore.

D. Mi piacerebbe scavare nella sua memoria, ricordare con lei gli avvenimenti che in qualche modo le sono rimasti attaccati durante l’arco di tutta la sua lunga vita. Partire da quel suo primo viaggio, il primo di una lunga serie, impostole in quel giorno del 1933, quando da Francoforte salì su quel treno che l’avrebbe portata in Francia…

 R. Non potrò mai scordare quella notte del maggio del 1933: ogni particolare è impresso nella mia memoria e in tutto il fare che seguì poi nella mia vita. Stavo fuggendo e in fretta e furia dalla Germania dove dilagava il terrore. In quel giorno tutto era avvenuto rapidamente. La mattina incontrai un impiegato del comune che conoscevo appena. Mi venne vicino e sottovoce mi disse: «Parta subito. Questa notte vi arresteranno tutti».

Probabilmente conosceva l’esistenza di quel giornale a cui collaboravo e che stampavamo clandestinamente con il gruppo studentesco a cui appartenevo. Stava per uscire il numero sul quale denunciavamo il terrore in cui vivevano i professori dell’Università, e poi la storia della nostra compagna Anne. Due settimane dopo il suo arresto il suo corpo era stato consegnato ai genitori chiuso in una bara. Si era rifiutata sicuramente di parlare, di fare i nostri nomi. Io avevo fatto delle fotografie ai nostri compagni che erano stati picchiati ferocemente dai nazisti e il capo del nostro gruppo, Karl, mi disse che dovevo partire immediatamente e portare con me quelle foto per denunciare quello che stava accadendo in Germania.

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D. Fu facile uscire dalla Germania con quel materiale fotografico?

 R. Quando arrivai alla stazione ferroviaria ero terrorizzata. Ma sapevo che non dovevo darlo a vedere. Sarebbe stata la fine. In più avevo con me quelle pellicole e le SS controllavano ogni vagone, ogni persona. Perquisivano tutti. Entrarono nello scompartimento, presero il mio passaporto, mi guardarono e uno di loro mi domandò: «Lei è ebrea?». Ebbi il coraggio dell’incoscienza e la prontezza di rispondere energicamente e offesa: «Gisèle le sembra un nome ebreo?». Lo fissavo dritto negli occhi mentre il mio cuore impazziva… mi restituì il passaporto e richiuse la porta dietro di sé. Sapevo che la strada era ancora lunga fino alla frontiera e mentre questa si avvicinava pensavo al mio carico di pellicole: avevo una paura folle. Andai allora alla toilette e svuotai la macchina fotografica gettando più pellicole nel water. Il rullino più importante lo nascosi su di me. Alla frontiera guardarono dappertutto.

Aprirono la camera fotografica e quando stavano per perquisirmi, un attimo di esitazione e l’SS, richiamato dagli altri che camminavano lungo il corridoio del treno, uscì dallo scompartimento. Il treno stava ripartendo. Ebbi proprio una fortuna sfacciata. Ho imparato allora che nella vita, piccoli avvenimenti inaspettati che vanno per il verso giusto, interrompono o segnano tutto un destino. Se il treno avesse sostato ancora qualche minuto… Il treno invece si mosse – quante volte ho ringraziato quel macchinista di cui non ho mai visto il volto – e passammo la frontiera lentamente. Nello scompartimento c’era solo un altro viaggiatore che rimase silenzioso tutto il tempo. Accovacciato in un angolo, semicoperto da un pastrano e con un grande berretto. Sembrava non respirasse neppure. Quando passammo la frontiera mi guardò per la prima volta e sorrise. Questi, mi sono detta, sono i tratti di un volto che non dimenticherò mai.

Arrivai a Parigi alla Gare du Nord. Ero come svuotata ma felice. Non immaginavo certo che tutti i miei compagni erano già stati arrestati.

D. Parigi quindi: un mondo ancora libero dalle atrocità naziste, la possibilità di studiare e di vivere la giovinezza…

R. Sì. Ma non fu né facile né senza sofferenze. Mi iscrissi alla Sorbona per seguire i corsi di sociologia… ma a soldi era durissima. I miei genitori mi mandavano qualcosa per vie traverse. Quando e come potevano. Non bastava per sopravvivere. Mi appassionai alla letteratura. In quell’epoca a Parigi accadeva una cosa straordinaria; la coesistenza di scrittori così brillanti e di diverse generazioni tutti assieme. Cercai contatti con il mondo letterario e grazie al filosofo Bernard Groethuysen, che mi fu presentato dalla sua compagna Alix Guillain, mi fu possibile entrare in quel giro e frequentare quell’ambiente. Iniziai così ad incontrare Andrè Gide, Andrè Malraux, Paul Valéry, Henry Michaux. Nel frattempo ci fu l’incontro a Rue de L’Odeon con Adrienne Monnier e Sylvia Beach. È proprio frequentando le loro due librerie che conobbi molti dei miei futuri modelli. Poi a Montparnasse: alla Coupole e alla Rotonde feci conoscenza con i surrealisti che facevano gruppo attorno a Breton.

Ma intanto continuava la mia piccola vita. Alla Sorbona intanto avevo deciso che la mia tesi doveva essere sulla storia della fotografia del XIX secolo. Fotografando mi ero posta un mucchio di domande: e avevo capito che bisognava prima di tutto imparare a guardare per vedere. È così che incominciai a mettere in relazione fotografia e società dell’epoca. Ed ecco che frequentando le varie biblioteche, alla Nazionale feci l’incontro decisivo per tutti quelli che furono poi i miei futuri studi: Walter Benjamin.

D. E la fotografia? Era possibile guadagnarsi da vivere con quell’arte ritenuta ancora per molti di poca importanza sia giornalisticamente che artisticamente?

R. Giravo sempre accompagnata dalla mia macchina fotografica e dalla mia insaziabile curiosità. Fotografando mi si aprivano mondi che non conoscevo. Tutto era nuovo e affascinante per me. Ma certamente non potevo guadagnare a sufficienza per vivere: tutt’altro. Una sera, una di quelle sere autunnali dove la pioggia non smette mai, così frequente a Parigi, mentre stavo attraversando il Pont des Arts, vidi degli uomini che stavano trascinando a riva un grosso fagotto. Mi avvicinai e capii che quel fagotto non era altro che una ragazza annegata.

Ricorderò sempre le sue scarpe nere con il tacco altissimo, da cui scendeva l’acqua. Avevo con me la macchina fotografica e scattai. Me ne ritornai tristemente verso casa pensando a quella bella ragazza. Il giorno dopo un amico, che per pagarsi gli studi scriveva brevi articoli di cronaca, mi chiese le foto dicendomi: «Può darsi che il mio direttore le pubblichi». La sera ritornò tutto contento e mi diede un biglietto da dieci franchi dicendomi: «Il direttore ha detto che la foto è piuttosto brutta, ma la storia della bella annegata gli interessa».

Per me era un avvenimento: era la prima volta che guadagnavo del denaro con la fotografia. A dire il vero poi, nel tempo, l’immagine di quella ragazza riemerse così spesso nella mia memoria! Forse a causa di un senso di colpa per quella morte che mi aveva fatto guadagnare i primi soldi. Così iniziai veramente a fotografare: giravo per le vie dei quartieri facendo ritratti al calzolaio, alla figlia della lavandaia. Ricordo le foto che scattai al venditore di vini: la moglie infuriata e disgustata gettò via tutte le foto. Era in ogni caso difficile guadagnarsi il pane con il ritratto fotografico, e per di più come alcuni di noi giovani fotografi lo concepivano: realista. Per farsi pagare bisognava ritoccare tutte le imperfezioni, abbellire il modello, insomma. Ho sempre pensato che noi abbiamo un’idea psicologica di noi stessi e restiamo sempre delusi quando poi ci vediamo in fotografia: io stessa non mi sopporto. Fu così che mi avvicinai alle foto-reportage. Per me era l’unico modo per guadagnare qualcosa.

D. Il reportage appunto. Lei ha sempre sollevato il problema etico della fotografia.

R. È passato ormai molto tempo da quando discussi di questo con Cartier- Bresson. La realtà e la sua comprensione sono differenti per ogni persona e per ciascun giornale. Quando Cartier-Bresson ritornò dalla Cina, molti anni fa, tutti i giornali utilizzarono le sue foto contro la Cina. Proprio quello che lui non voleva. Quando nel ’36 fui mandata in Inghilterra dal direttore di «Life», dovevo fotografare le regioni in crisi del nord di quel Paese: operai disoccupati, villaggi fatiscenti, miseria. Nello stesso periodo ci fu il caso di Wally Simpson. Il re Edoardo di Inghilterra era innamorato di questa americana divorziata. Scoppiò lo scandalo. L’Inghilterra ancora vittoriana non poteva ammettere che si facesse di Mrs. Simpson una regina. Il re abdicò. Tutta l’America sisentì offesa. «Life» pubblicò il mio reportage con il titolo «Ciò che un inglese intende per Paese in crisi». Tra le mie foto di miseria e disperazione avevano inserito una doppia pagina con una foto della regina in abito bianco, circondata da ogni ben di Dio, i nipoti sulle ginocchia. La brutalità del contrasto rendeva sufficientemente. Mrs. Simpson da buona americana era vendicata, in barba al problema di milioni di poveri e del loro dramma.

Comprendemmo allora che non potevamo farci nulla, che lavoravamo per i giornali e che i giornali e i loro direttori avevano il potere di trasformare a loro piacimento il significato del nostro lavoro. È così che vedendo le nostre foto pubblicate sui giornali, alle volte ci capitava quasi di non riconoscerle. La verità è quella dell’impaginazione, della didascalia, delle forbici. Sceglierne una esattamente all’opposto di un’altra per indirizzare il lettore… mi è successo più di una volta.

Con un gesto furtivo ma ben visibile, estraggo la mia macchina fotografica dalla borsa, sapendo bene che Madame Freund non ama farsi fotografare. «Ma cosa fa. Ah la là non vorrà mica fotografarmi? Ho orrore di essere fotografata. E poi sono stanca e non mi sono neppure pettinata».

.  .  .

D. Ma ritorniamo per un momento ad un nome che prima le è quasi scivolato sommessamente sulle labbra. Il suo professore Walter Benjamin.

 R. All’epoca parlavamo di politica. Era quello che gli interessava maggiormente. Del lavoro che stava facendo su Baudelaire non diceva nulla. Tutto rimase solo a livello di note e appunti e fu completamente stupefatto quando a sua insaputa vennero pubblicate quelle note. Gli furono rubate. Un vero scandalo. Era molto preoccupato della sua situazione economica. Non aveva denaro. Alle volte neppure per mangiare. Incontrò Gide e altri scrittori del tempo che fece conoscere in Germania. Ma nessuno lo aiutò: mai. Quella gente là non si rendeva conto cosa significasse essere senza denaro, senza patria. Che cosa significasse essere un rifugiato politico. Non lo comprendevano proprio. E poi si allontanarono da lui anche perché il suo francese non era proprio così perfetto. Una situazione quasi disperata. Aveva solo un vestito: io lo vidi sempre con quello. Sempre più lucido, più malandato. Quando non aveva i soldi per mangiare rimaneva giorni interi a letto. Nessuno pubblicava i suoi articoli. Insomma a Parigi aveva pochissimi amici e nessun aiuto. Aveva una sola e misera entrata. E anche quella pagata a caro prezzo. Era l’altro tedesco, il suo amico, come si chiamava, mi aiuti… il mio professore di Francoforte…

D. Adorno?

R. Sì, è proprio lui. Adorno dirigeva assieme a Horkheimer l’Istituto per la ricerca sociale di New York e gli faceva inviare del denaro in cambio dei suoi articoli. Ma un giorno anche Adorno iniziò a criticare certi suoi pensieri. Ero presente quando Benjamin ricevette per lettera le critiche che gli muoveva: divenne rosso come un pomodoro. Mise delle settimane per rispondergli, ma finì con il cedere e accettare il taglio della parola. Era l’unica possibilità per sopravvivere.

Ho sempre pensato che Benjamin fosse comunista solo nella testa. Credo che fosse più una sorta di filosofo-scienziato. Quando mi leggeva i versi di Brecht, diceva: «Vedete, ha già un piede fuori dal Partito comunista. Uno che pensa non può gettarsi ciecamente nella gola del lupo». Infatti quando andò a Mosca non accettarono nulla di quello che aveva scritto. Ripartì completamente deluso e demoralizzato. Fu un’esperienza su cui ritornò più volte. Non poteva, non riusciva ad accettare.

D. Ma quel suicidio proprio nel momento in cui poteva salvarsi…

R. Benjamin aveva paura di tutto. Si spostava sempre con una capsula di cianuro in bocca. Erano momenti difficili. Si trasferì nel paese dove viveva sua sorella, vicino al confine italiano, e scoppiò la guerra. Fu immediatamente arrestato con molti altri tedeschi. Per i francesi untedesco era un tedesco; non importava se antifascista o meno. Io allora avevo già la nazionalità francese. Mi diedi molto da fare per riuscire a liberare Benjamin e gli altri intellettuali antifascisti. Quando uscì di prigione subito si preparò per partire. Fu invitato mille volte in Israele, ma rifiutò di andarci. Non negò mai di essere ebreo, ma affermò sempre con vigore di non essere religioso. E poi il sionismo: non voleva proprio averne a che fare.

In quel tempo furono dette e scritte cose ignominiose su di lui per questi rifiuti. Ma Monsieur le professeur fu sempre un uomo sano e sincero. Si sarebbe salvato se fosse partito per Israele. Invece rifiutò. Fu arrestato di nuovo e poi si suicidò.

.  .  .

D. Ma allora non è più possibile sognare e, attraverso il sogno, uscire dall’incubo? E la fotografia può aiutare in questo?

R. Io ho sempre avuto i piedi ben piantati sulla terra e, probabilmente per questo, sono riuscita ad arrivare agli ottant’anni e a fare molte cose. Certo il sogno ci è necessario, senza sogno è come vivere tutto il tempo con gli occhi spalancati come sono stata costretta a fare nella mia gioventù. Sì, bisogna necessariamente uscire da quell’incubo e sognare un mondo nuovo e migliore. Ma non bisogna dimenticare. La fotografia aveva e ha ancora il compito di sostenere la memoria. La fotografia è memoria.

Da qualche tempo non fotografo più, è troppo faticoso per me, proprio ora che stavo per diventare una fotografa celebre… ho mille idee per la testa, tante cose da fare. Oggi siamo assediati dalle immagini, ci fidiamo ciecamente e stupidamente delle immagini. Quanto lavoro ancora da fare: la fotografia, nuove tecnologie, sarà tutta un’altra cosa… e speriamo non diventi ancella della superficialità e del potere. Ma ho parlato e parlato. Lo sa come mi chiamava Monsieur le professeur all’epoca? ‘La piccola chiacchierona’. Monsieur le professeur mi amò molto, ma per me era il professore e poi mai mi sarebbe venuta l’idea… Trent’anni dopo rimasi molto colpita da un suo testo dove diceva di aver avuto molta simpatia e tenerezza per me.

«Ma è già molto tardi e non abbiamo pranzato. Viene con noi qui sotto al ristorante cinese?».

«Mi piacerebbe molto restare ancora con lei…», ma Gisèle mi interrompe e incalza: «Non mi dica che non vuole!».

«No, no anzi», aggiungo.

«So bene che è a corto di denaro come lo sono stati tutti i fotografi almeno una volta nella vita. È per questo che la invito».

E così pranzando in un piccolo ristorante cinese a Rue Daguerre, tra cibi laccati e tè profumato ricominciamo a parlare. O meglio Gisèle continua a raccontare. Il Messico: Siqueiros, Tina Modotti, Evita Peròn…

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[1989]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(“Noi che siamo così poveri nel dire”, che raccoglie vari scritti – e relative foto – di De Marco, sarà l’occasione venerdì 25 ottobre alle 19.30 presso la Comunità Nove nel parco di Sant’Osvaldo in via Pozzuolo 330 a Udine per un incontro con Federico Pirone, Paolo Medeossi e Danilo De Marco; le letture di Massimo Somaglino e Aida Talliente accompagnati da una videoproiezione curata da Andrea Trangoni, le voci e le musiche di Cristina Mauro, Stefano Montello, Daniele D’Agaro, David Cei, Mirko Cisilino Renzo Stefanutti e altri ancora…)

 

The Visual Book Review, #1

17

Carlo Carabba, Gli anni della pioggia, Ancona, Pequod, 2008, p. 60.

 

Robert Capa, fotografo in fuga

9

di Helena Janeczek
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Oggi Robert Capa avrebbe compiuto 100 anni se a 47 non fosse saltato su una mina in Vietnam, allora Indocina. Quel che è stato in vita (“Il più grande fotografo di guerra” titola un giornale già nel ’39) e in morte parte da una premessa: era un profugo politico e razziale a partire da 18 anni.

La “drôle de guerre”, la guerra soltanto dichiarata alla Germania, si apre nel segno di una speciale drôlerie per il fotografo famoso grazie alle immagini strappate dal cuore dilaniato della Spagna: grottesca, paradossale, tragicomica. A Budapest e poi a Berlino, quando non era che un ragazzaccio senza arte né parte, poteva cavarsi da solo dal pericolo. Adesso Robert Capa ha scoperto che tutto ciò che è riuscito a conquistare con l’astuzia e il coraggio vale poco, addirittura gli si ritorce contro.

Due racconti

3

Di  Gian Piero Fiorillo

Donna

 

Sono donna. Mia madre ha tamponato il sangue e mi ha portato sul lettino della cameretta. Ha chiuso la porta. “Adesso devi stare attenta” mi ha detto. “Purtroppo sei nata dalla parte sbagliata, il potere ce l’hanno gli uomini. Dovrai sottometterti spesso figlia mia, ma l’importante è farlo senza conseguenze”.

Non capivo. Non che non sapessi di cosa stava parlando, figurarsi. Non capivo il tono. E poi da lei non me l’aspettavo: non era femminista nata, come si vantava sempre con tutti? Che razza di discorsi mi andava facendo?

Fraintese il mio sconcerto. “Devi capire – disse – che gli uomini comandano, sono loro che danno gli ordini”.

“Tu sei un uomo?” le domandai a bruciapelo.

“Ma no! Cosa ti viene in mente, cara”.

“Beh, tu mi dai sempre ordini, fa’ questo e fa’ quest’altro dalla mattina alla sera”.

“Che c’entra, è un’altra cosa”. Si confuse. “Senti figlia mia, ricominciamo da capo, vuoi?”

“Mamma, lo so che cosa mi vuoi dire”.

“Beh, allora… meglio così”. Parve sollevata di poter evitare la penosa incombenza, ma mi ostinai a trattenerla.

“Da grande voglio fare il chirurgo” dissi. Non rinunciò a correggermi: “La chirurgo, ricordati che sei donna”. Continuò con quel tono moralistico che le donava tanto e ne faceva la persona che era: “È sempre bello fare qualcosa per gli altri. Si guadagna anche bene, ma il punto non è quello, il punto è la missione. Sì, fare il medico deve essere una missione”. Non ho mai capito la differenza fra il moralismo femminista e quello borghese, e in quel momento lo capivo ancora meno, poiché era lo stesso discorso che mi aveva fatto la mamma del mio ragazzo, qualche settimana prima. E lei non era certo femminista, anzi. Ma non solo il discorso era lo stesso, pure il tono di voce, l’esaltazione della parola missione, insomma tutto.

“Sì, mamma sta’ tranquilla. Per me è una missione”.

“Sono contenta di sentirtelo dire”.

“Voglio tagliare il pene a tutti gli uomini che si sdraieranno sul mio lettino operatorio, sarà questa la mia missione”.

Impallidì di colpo lasciando cadere il cellulare, che schizzò sotto il letto. Per colmo di sventura anche il mio cominciò a squillare in quel momento. Non mi ero ricordata di cambiare la suoneria, come facevo in genere tornando da scuola, e partì una canzone oscena, registrata con i maschi nell’intervallo. Lei, che già stava seguendo il telefonino sotto la branda, più che altro per prendere tempo e nascondere un incontrollabile tremito, ci mise qualche secondo a capire. Ci riuscì solo quando mi vide correre verso la borsa e cercare disperatamente il telefono per spegnerlo. Quando mi girai per guardarla era fremente davanti a me, gigantesca. Il manrovescio mi colpì con forza lasciandomi stordita. Mai, prima, mi aveva dato uno schiaffo.

Un attimo dopo eravamo in lacrime, accucciate per terra ai lati opposti della stanza, sbalordite. Aspettavo che facesse qualcosa per sbloccare la situazione: in fondo era lei l’adulta. Ma continuò a tremare senza riuscire a fare nulla e quando vidi un rivolo di saliva colarle dalla bocca, lei sempre così scrupolosa nelle apparenze perché essere presentabili in qualsiasi situazione è fondamentale, mi fece una grande tenerezza.

Come cambiano in fretta le cose, pensai mentre mi avvicinavo e la abbracciavo per rassicurarla. Sentii che piano piano si calmava. Si sforzò di fermare le lacrime e si pulì la bocca. Restammo senza parlare per un pezzo, abbracciavo la sua testa e continuavo ad accarezzarle i capelli. Mi chiesi se è sempre così, se le madri ridiventano improvvisamente bambine il giorno in cui le figlie diventano donne.

 

 

Le mosche

 

Il disco scese rapidissimo, ne colsi solo il bagliore e il sibilo crescente come di uno sciame d’insetti che si avvicinano. Si posizionò sopra di me a qualche metro d’altezza. Benché fossi distesa al sole in un costume che l’acqua rendeva trasparente, il Raggio mi perquisì a lungo mettendomi a disagio. Anche se era invisibile, lo sentivo frugare con intenzione sotto la mia pelle. Poi il disco parlò:

 

– Come sei arrivata qui?

– A cavallo, risposi indicando gli scogli e l’animale fermo nell’ombra.

– Non sai che questa zona è proibita?

– Perché mai? Un posto così bello, l’acqua più limpida del pianeta. E questa sabbia così sottile e luminosa che sembra polvere d’argento.

– È solo per questo che sei qui?

– Per questo e nient’altro.

– Questo posto è un cimitero.

 

Schizzai in piedi impaurita. La fine non poteva venire così, improvvisa e orrenda. Cominciai a correre sulla spiaggia, pazza d’angoscia: avevo sentito parlare dei cimiteri radioattivi, ma non pensavo di poterci finire dentro a galoppo. E avevo anche coinvolto Elena, la compagna di tante corse, con cui avevo condiviso i battiti del cuore e il pulsare del sangue, il sudore e l’odore dei corpi, il momento del ristoro. La cavalla sarebbe morta con me.

La bella Elena capì il mio stato d’animo e mi raggiunse strofinando la testa contro la mia spalla, come faceva quando voleva essere cavalcata. Le saltai in groppa e partimmo velocissimi per un’improbabile fuga. Guardavo i riflessi marini piangendo per il male che si nascondeva nell’acqua limpida, in quel paesaggio d’incanto in cui solo ora mi sembrava di percepire un inaspettato spettro di colori o la crescita esagerata della vegetazione sulle dune. Non avevo il tempo né la voglia di darmi della stupida. Volevo solo farla in barba al disco e sfuggire alla condanna già decretata.

 

Cozzammo a velocità folle contro il Raggio proiettato sulla parete magnetica del cimitero, e ricademmo storditi sulla sabbia. In un attimo il disco si portò sopra di noi. Elena nitrì cercando di rialzarsi, ma il colpo era stato molto forte e faceva fatica.

– Almeno lei, dissi, salvate almeno lei.

– Nessuno può uscire dalla zona.

– Perché tanto rigore?

– Chi entra nella zone è irrimediabilmente contaminato.

– Allora fate presto.

– Non c’è fretta. Presto arriveranno le mosche.

– Le mosche! Le mosche no, per favore.

– Sono affamate, non ci metteranno molto.

 

Intravidi una possibile salvezza: – Lo dite solo per spaventarmi, le mosche attaccano i morti, e noi due siamo vive.

– Già, gracchiò il disco, ma le mosche non lo sanno.

 

( questi due racconti di Gian Piero Fiorillo, che si è interessato delle problematiche della salute mentale in vari suoi interventi e libri, fanno parte di un più vasto lavoro narrativo inedito. G.M.)

Figurina enigmistica

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Sabato 26 ottobre 2013 alle ore 18:30

a Bologna, presso la Libreria delle Moline

(via delle Moline 3)

presentazione del primo libro

della collana SYN _ scritture di ricerca

Figurina enigmistica

di

Mariangela Guatteri

 

3 incontri a Roma 3 sulle scritture contemporanee

2
Dipartimento di Studi Umanistici – Università Roma Tre | via Ostiense 234-236 (metro B Marconi)
Aula 2 ore 17:00 – 19:00. Nell’ambito dei seminari di Critica letteraria organizzati dal dott. Ugo Fracassa sono previsti tre incontri:

Martedì 22 ottobre 2013: Le nuove scritture.

Inquadramento di EX_IT, come evento complesso e possibile caso di nuova iniziativa auto-organizzata nell’ambito delle scritture italiane di ricerca, in rapporto al contesto francese e anglofono degli ultimi decenni. Riferimenti all’editoria italiana attuale.
Relatore: Marco Giovenale.
°
Martedì 19 novembre 2013: Tra ricerca e rielaborazione. 
Analisi e storia delle forme sperimentali nella poesia e nella prosa contemporanee, e dei loro legami con la tradizione letteraria del Novecento italiano ed europeo. 
Relatori: Luigi Severi Simona Menicocci.
°
Martedì 3 dicembre 2013: Il rapporto parola-immagine.
Dialoghi e sovrapposizioni tra differenti ambiti artistici. Altre possibilità di scrittura in alcune esperienze italiane e straniere tra linguaggi verbali, multimediali e audiovisivi. 
Relatori: Mariangela Guatteri Giulio Marzaioli.

Drei Socci Dry

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dry_martini

Silvan 

io vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno
che si conduca solo per maestria
Cavalcanti

Segato in due.

Scisso in sezioni cubiche.

Sparito.

 

In un cerchio di fuoco, senza scarpe

svelando al primo colpo le mie carte

storcevo un cucchiaino

(l’orologio schiacciato in un pestello)

con un buco vistoso nel calzino.

Immondi paralleli: Carlo Michelstaedter, Paolo Musìo, Alessandro Piperno e Silvia Avallone

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di Francesco Forlani

Ieri sono andato con Giulia a vedere lo spettacolo di Paolo Musìo. In una piccola sala, spazio teatrale Idiòt in zona Porta Palazzo a Torino. Si entra da un fatiscente portone dai muri scrostati, scenografia urbana involontaria che tanto sarebbe piaciuta a Luca Ronconi; si attraversa un terrazzo a ringhiera di vago sapore siciliano, e da una porta si accede nelle tre salette, rigorosamente bianche su cui spiccano un vecchio lavacro di pietra, panche di legno, e un jukebox oracolare.

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Quando stamattina ho aperto davanti a me i due inserti, La lettura del Corriere, e il Domenicale del Sole 24 ore, ero indeciso da quale cominciare. La lettura corrisponde, in un immaginario meeting di atletica, a una corsa di 200 metri, fai in fretta a trovare in mezzo al chiacchiericcio generale proposto quell’un-due articoli in grado di giustificare la spesa. Il Sole ha quasi sempre il respiro ritmato e costante della maratona. Poche cose inutili, poco guizzo però.

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«Non chieder più nulla,
sappi goder del tuo stesso dolore,
non adattarti per fuggir la morte;
anzi da te la vita nel deserto
fatti – che sia per gli altri nuova vita;
non disperare, ma rinuncia ai vani
aspetti della vita, e nel deserto
sarai tranquillo: dalla tua rinuncia
rifulgerà il tuo atto vittorioso,
APГIA sarà il tuo porto ΔI’ENEPГEIAΣ»

Il dialogo-intervista a cura di Cristina Taglietti, con Alessandro Piperno e Silvia Avallone si può trovare qui, mentre i versi che avete appena letto, da una poesia di Carlo Michelstaedter, li potete ritrovare in un delicatissimo articolo del nostro Sparzani, di qualche tempo fa.

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Ieri sono stato a vedere lo spettacolo di Paolo Musìo, Eremos, per la regia di Theodoros Terzopoulos. Il testo, tratto dall’opera “La persuasione e la Rettorica” di Michelstaedter (Adelphi) è stato adattato dall’interprete. Sabato era la quinta data e la media di spettatori è di venti per rappresentazione. Venti spettatori disposti su due file di panche messe una di fronte all’altra. Un proiettore di luce ad altezza uomo è puntato sull’attore che ad esso si rivolge durante tutto il monologo. Noi spettatori siamo presi nel mezzo di questi due flussi, di luce e di parole, luce e parole che agiscono sul corpo dell’attore, lo scorticano, lo trasformano negli umori, sudore e saliva che modellano il terriccio stretto prima nei pugni e poi lasciato cadere ai propri piedi. Un’esperienza radicale, militante.

 

 

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Avallone, libero, Piperno stopper, ci dicono qualcosa in difesa della letteratura. O almeno vorrebbero e per capire da chi o da cosa un’idea ce la danno sicuramente titolo e cappello introduttivo alla chiacchierata.

La letteratura non è militante
«I libri cambiano noi, non la società. Niente impegno politico, solo spazi liberi»

Ma per entrare nel merito della questione riporto un passaggio che secondo me offre spunti interessanti, a proposito.

“Claudio Magris sostiene che l’utopia di Don Chisciotte, destinato comunque a essere sconfitto, è un movente per scrivere, che la letteratura ha il compito di far sentire, in qualche modo, questa necessità di migliorare il mondo.” recita il redazionale.

PIPERNO — Per me no. Credo che la letteratura possa al limite migliorare chi legge e chi scrive, ma credo che contaminarsi sia anche un pericolo per l’arte stessa. Se pensi troppo a migliorare il mondo e non a fare un buon libro, non va bene. E un buon libro può anche peggiorare il mondo. Si dice sempre che nella Germania nazista c’era un gran consumo di musica classica, di cultura alta, di autori come Goethe. Ci sono società operaie che non hanno alcuna attitudine alla lettura e che sono tanto meglio della borghesia nazista. Pure la parola migliorare mi lascia perplesso.

AVALLONE — Nel libro puoi essere impopolare, raccontare storie fastidiose, ma tutto questo è vitale. È fondamentale nella scuola: per diventare cittadini curiosi gli studenti devono imparare a esercitare questa libertà. Più che un impegno politico alla maniera di Sartre, è un impegno morale che, per me, significa non essere indifferenti. È un’altra virtù della letteratura: vivere le vite degli altri senza giudicare, benché siamo in una società violenta che, come in certi programmi televisivi, ama inchiodare una persona a un ruolo, a un reato. La letteratura complica l’esperienza, oltrepassa il giudizio e ti permette di vedere il mondo attraverso altri occhi. È un modo per prendersi cura delle vite degli altri.

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Perché questo passaggio? Forse perché Claudio Magris ha dedicato a Carlo Michelstaedter un posto privilegiato nel romanzo “Un altro mare”, (Milano, Garzanti- Gli Elefanti 2003) che ha per protagonista Enrico Mreule, insieme a Nino Paternolli, grande amico del giovane filosofo? Forse, più semplicemente perché è l’unico passaggio di tutta la conversazione, piacevole tutto sommato e nient’affatto “pretenziosa” espressamente dedicato alla questione, affaire di questi tempi classificato come “intellò stronzi e peggio ancora se romanzieri intellò”. Se la risposta di Piperno può sulle prime lasciare perplesso e sulle seconde pure, più precisa è Silvia Avallone quando ci ricorda che la parola impegno debba intendersi non necessariamente come politico, “alla Sartre” ma morale, alla Camus, aggiungiamo noi. Ma allora cosa è un impegno morale? Una professione da intellettuali, un mestiere da romanzieri o una vocazione da uomini e donne di cultura?

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http://youtu.be/RQTbRVHmtmA

La voce dell’attore sorge da una parola doppia, biascicata, dionisiaca, incomprensibile e soltanto dai due toni riconducibile a due anime diverse. Anche il corpo, figura dell’interprete, è in dialogo costante con l’ombra che gli fa da controfigura sullo sfondo, doublure, in francese,  risvolto del personaggio, due volte defigurato. Sembra di essere nel mito platonico della caverna, e la ricerca di assoluto e di verità, di Michelstaedter\Musìo, tutta rappresentata in quella frontalità con la luce, le fiamme che generano dalle cose, dalla loro verità, soltanto l’ombra. Noi spettatori fissiamo allora il volto di chi vede in faccia le cose, la vita, la morte, ma soprattutto il tempo-immagine senza il quale nessuno e niente sarebbe possibile. In un dialogo impossibile tra il tutto, il troppo, e il niente come nell’epigrafe testamento del giovane filosofo, didascalia di un disegno di una lampada fiorentina.
Lampada fiorentina 3 Michelstaedter
La lampada si spegne per mancanza d’olio
io mi spensi per traboccante sovrabbondanza

Il testo, le note di Carlo Michelstaedter si uniscono molecolarmente ai frammenti di Eraclito, recitati senza testo a fronte, arcaici, appena appena riconoscibili. Sembra accadere alle parole quanto viene “detto” poco dopo:

Due sostanze si congiungono chimicamente: cessano entrambe dalla loro natura, mutate nel vicendevole assorbimento. La loro vita è il suicidio. Per esempio il cloro è sempre stato così ingordo che è tutto morto, ma se noi lo facciamo rinascere e lo mettiamo in vicinanza dell’idrogeno, esso non vivrà che per l’idrogeno. L’idrogeno sarà per lui l’unico valore del mondo: il mondo.
Per quell’atomo di cloro è questione di vita o di morte. Da quando, in qualunque modo, avvenuto alla vita mortale, ebbe coscienza clorosa, ha sperato disperatamente; il suo occhio guardava la tenebra e non vedeva cosa che fosse per lui: la sua vita è stata un dolore mortale. Se noi ora gli avviciniamo l’idrogeno, nell’oscurità gli apparirà una luce lontana, indistinta, ed esso si risveglierà nel crepuscolo a una più precisa speranza, finché giunto l’idrogeno nella data vicinanza, il cloro vedrà tutto chiaro l’orizzonte, ed affermerà la sua vita ormai certa – nel piacere mortale dell’amplesso. Ma soddisfatto l’amore, la luce anch’essa sarà spenta, e il mondo sarà finito per l’atomo di cloro. Cloro, idrogeno. I loro mondi diversi ma correlativi così che dall’amplesso mortale avesse d’attender poi e soffrir la sua vita: l’acido cloridrico.
Nella lontananza dell’idrogeno, il cloro attende inerte. La condizione per il suo volere non è in lui, ma in ciò che è per lui mistero, infinita oscurità, contingenza delle cose, caso.
– In questa attesa, per questo sentimento del tempo inutile il cloro nella lontananza dell’idrogeno s’annoia.

(Lo spettacolo si replica il 25-26-27 ottobre, ore 21, Spazio idiòt, via S.G.B. La Salle 16 A, 10152 Torino)

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La sensazione che ho avuto, a lettura ultimata della discussione è stata non tanto quella di una vera e propria solitudine, autentica matrice di ogni creazione letteraria. Non solitudine, ma isolamento da intendersi qui nel suo significato medico di convalescenza. Ancora una volta, si ha come la percezione che il pensiero, la libera creazione, la cultura, non ne vogliano più sapere della battaglia, dell’ideologia, della comunità; basta i J’accuse ma pure Zola, il romanziere francese, mentre per Zola calciatore sardo si potrà soprassedere. Sembra, a conti fatti, permanere l’equivoco di fondo, sul senso da dare alla parola impegno. E una domanda, semplice quasi banale, sembra affacciarsi, timidamente, sulla questione: ma oggi dove e come l’impegno intellettuale sta monopolizzando la creazione? A me sembra che dalla fine degli anni settanta manchino, purtroppo, per fortuna, in Italia, parole d’ordine, partiti della cultura, obblighi politici per gli intellettuali, linee editoriali dettate dai partiti, anche perché i partiti pare che se ne siano andati da molto prima. Insomma mi sembra che tutti vogliano disertare la battaglia quando della battaglia non si hanno tracce da un bel po’. L’impegno, ha ragione Silvia Avallone, è morale, ricerca della verità, e la verità può a volte costare la vita, come nel caso dell’appena ventitreenne Carlo Michelstaedter. O la prova fisica e morale che un interprete come Paolo Musìo ha voluto dare in una piccola sala di teatro di ricerca, nel cuore del mercato di Porta Palazzo, l’unico mercato a mantenere qualcosa d’umano. In questo presente.

Né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe di esser vita. Tante cose ci attirano nel futuro, ma nel presente invano vogliamo possederle.
Io salirò sulla montagna – l’altezza mi chiama, voglio averla – la ascendo, la domino; ma la montagna come la posseggo? Ben son alto sulla pianura e sul mare, e vedo il largo orizzonte che è della montagna; ma tutto ciò non è mio. Non è in me quanto vedo.
Il mare brilla lontano. In altro modo esso sarà mio. Io scenderò alla costa, io sentirò la sua voce. Ma se mi tuffo nel mare, se bevo il salso, se esulto come un delfino – se m’annego – ma ancora il mare non lo posseggo: sono solo e diverso in mezzo al mare.
Né chi cerchi rifugio presso alla persona ch’egli ama – potrà saziar la sua fame: non baci, non amplessi o quante altre dimostrazioni l’amore inventi li potranno compenetrare l’uno dell’altro: ma saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro. –
Tutti lamentano questa loro solitudine, ma se essa è loro lamentevole – è perché, essendo con se stessi, si sentono soli: si sentono con nessuno e mancano di tutto.
Ognuno vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il possesso di se stesso: ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a se stesso in ogni presente.
Così si muove a differenza delle cose diverse da lui, diverso egli stesso da se stesso: continuando nel tempo. Non sa ciò che vuole, non sa ciò che fa perché lo faccia: non ha se stesso: finché vive in lui irriducibile, oscura la fame della vita.
Perciò è ognuno solo e diverso fra gli altri, ché la sua voce non è la sua voce ed egli non la conosce e non può comunicarla agli altri.

“La persuasione e la Rettorica” di Carlo Michelstaedter (Adelphi)

Rifugiati e diritto d’asilo: cosa (non) possono fare le ambasciate italiane

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di Domenico Fornara (diplomatico)

(pubblichiamo una risposta al nostro “Diritto d’asilo: una proposta politica).

Idee condivisibili (sostengo da sempre che occorra uscire da una mentalità di emergenza e lavorare su programmi di migrazione/asilo di medio lungo termine, armonizzati in ambito UE, non dettati unicamente da esigenze di sicurezza) ma irrealizzabili per motivi di ordine giuridico ed organizzativo. Innanzitutto lo status di rifugiato è giuridicamente incompatibile con la presenza dell’interessato nel proprio paese; lo stesso vale per il richiedente asilo: ne ha titolo chi fugge dal proprio paese, ritenendosi perseguitato, e chiede protezione ad un altro stato.

Ai sensi della Convenzione di Ginevra sul diritto dei rifugiati del ’51 e di tutti gli altri strumenti giuridici in materia il passaggio della frontiera è condizione necessaria. Finché il richiedente si trova “a casa” non puo’ giuridicamente essere considerato un rifugiato e se palesa le sue intenzioni rischia di peggiorare la propria condizione di perseguitato inimicandosi ulteriormente le sue autorità (per carità, non voglio minare il principio di libertà di parola, descrivo solo una condizione di fatto in molti regimi autoritari).

In paesi di grandi dimensioni l’aspirante richiedente asilo potrebbe inoltre non trovarsi nella capitale, ma a migliaia di chilometri di distanza, e non è affatto detto (anzi) che le autorità locali lo lascino liberamente scorrazzare per andare a chiedere asilo presso le ambasciate occidentali. Ed ove riuscisse ad ottenerlo grazie ad una interpretazione estensiva del principio di territorialità (considerando l’ambasciata extraterritoriale e l’ingresso in essa alla stregua del “passaggio di frontiera” di cui sopra: esistono dei casi, vedasi Assange), si porrebbe poi il problema di dover nuovamente transitare sul territorio del proprio paese per raggiungere porti o aeroporti. Anche in questo caso non è affatto detto (a-ri-anzi) che le locali autorità lo lascino passare e partire. Finirebbe per blindarsi nell’ambasciata e rimanerci sine die (ricordo il caso di persone che sono rimaste per oltre vent’anni nel compound di una nostra ambasciata), contribuendo peraltro a peggiorare le relazioni tra lo stato di bandiera dell’ambasciata e lo stato ospite.

Da un punto di vista pratico, inoltre, il riconoscimento dello status di rifugiato implica approfonditi studi sulla situazione del suo paese di provenienza e – soprattutto – su quella specifica del richiedente asilo che richiedono ripetute interviste alla persona, raccolta di elementi e testimonianze ed una expertise complessa e composita (in Italia il lavoro viene svolto da diverse Commissioni territoriali, coordinate da una Commissione nazionale: di esse fanno parte molti funzionari ed esperti provenienti da diversi ministeri, associazioni ed organizzazioni internazionali). Queste expertise non esistono nelle Ambasciate.

Le nostre rappresentanze diplomatiche inoltre, già piccole per definizione, sono letteralmente “alla canna del gas” a seguito di continui tagli al bilancio del Ministero degli Esteri (altri sono in arrivo…) e non potrebbero mai raccogliere tale sfida. Faccio un esempio concreto: la nostra ambasciata a Khartoum (Sudan) conta due funzionari (incluso l’ambasciatore) e cinque impiegati inviati dall’Italia: totale sette persone che devono gestire tutto lo spettro di rapporti politici, di sicurezza, commerciali, consolari, sociali, culturali (continuo?…) con il paese africano e la comunità italiana residente. Ad essi si aggiungono una manciata di contrattisti locali (che, in quanto tali, non hanno potere decisionale, ma sono solo esecutivi: segreteria, autisti, ecc). Attualmente in Sudan ci sono circa 1.880.000 sfollati interni (molti dei quali potrebbero avere titolo a chiedere asilo altrove). Se decidessimo di aprire uno sportello “richiedenti asilo” presso la nostra Ambasciata, cio’ avrebbe un enorme “pull factor” e, con ogni probabilità, molti di questi sfollati potrebbero volersi presentare presso la nostra ambasciata. Lascio immaginare le conseguenze.

Cio’ senza contare che in alcuni paesi le condizioni politiche e di sicurezza sono tali per cui la maggior parte degli stati occidentali ha interrotto le proprie relazioni diplomatiche chiudendo di fatto l’ambasciata (es. Siria) o gestisce i propri rapporti bilaterali da un’altra sede vicina (Somalia, per cui abbiamo un ambasciatore dedicato ma di fatto residente a Nairobi). Ed i poveri siriani e somali (che peraltro costituiscono buona parte dei nostri richiedenti asilo) come li gestiamo? Ps. Se qualcuno vuole suggerire di potenziare la nostra rete estera per affrontare meglio le nuove sfide (come anche questa) sappia che mi troverebbe d’accordo.

Faccio tuttavia presente che la tendenza è ahimè inversa. Il nostro Ministero degli Esteri, che già era meno staffato e finanziato rispetto a quelli dei nostri partner occidentali di riferimento, ha visto ridotto il suo budget del 40% negli ultimi 5 anni. Nei prossimi giorni ci accingiamo a chiudere una trentina di uffici all’estero e, stando alla manovra attualmente in discussione in parlamento, nei prossimi due anni le risorse per le indennità del personale all’estero (già drasticamente ridotte negli ultimi anni) verranno tagliate di ulteriori 20 milioni di euro. Non si fanno i conti senza l’oste…

Enjoy your Poverty

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Il documentario Enjoy Poverty (2008) dell’artista Renzo Martens esplora l’immagine della povertà che l’Occidente ricco ha dei paesi cosiddetti in via di sviluppo; è uno dei pochi seri tentativi di misurarsi con le difficoltà dell’impegno politico dell’arte contemporanea. Pubblico qui il trailer e l’unico frammento disponible online. Il resto è paradossalmente, o in perfetta coerenza con la ‘protezione’ dei confini, protetto da copyright. http://renzomartens.com/episode3/film

Diritto d’asilo: una proposta politica

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Invece di investire denaro europeo e nazionale per erigere impossibili muraglie all’interno del Mediterraneo, facciamo funzionare, nei paesi extraeuropei colpiti dalle guerre, le nostre ambasciate,  recepiamo le domande di asilo e organizziamo il trasporto legale e sicuro nei paesi d’accoglienza. Invece di trovarci costantemente non nell’emergenza immigrazione, ma in quella umanitaria, dovendo ripescare annegati e sopravvissuti, strappiamo agli scafisti l’organizzazione del trasporto dei rifugiati dall’Africa alle coste europee, rendiamo quel viaggio ammissibile e privo di rischi, sottraiamolo ai commerci abietti.

Appunti sulle categorie zombie e sulla nozione di gerarchia nel campo letterario

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di Andrea Inglese

Utilizzerò questo post come un pro-memoria, una pagina di diario dove appuntare (in pubblico) alcuni nodi che mi interessano, e formulare ovviamente buoni propositi intellettuali: “è ora di chiarire questo, di approfondire quest’altro, ecc.”. L’innesco di queste riflessioni è stato l’intervento di Giulio Marzaioli e, anche, un commento di Mariangela Guatteri, sulla “poesia di ricerca”.

Sono andato a rileggermi, innanzitutto, l’indice del n° 3 (aprile 2007) di Per una critica futura. Quaderni di critica letteraria.

Finissage della mostra di Biagio Cepollaro

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Mentre il pianeta ruota
finissage mostra Biagio Cepollaro2

a cura di Fausto Pagliano

20 ottobre, domenica, ore 19.00
Laboratorio Primo Aprile, via Nicola d’Apulia 12, Milano

 

Alla conclusione della mostra vi sarà una chiacchierata tra il curatore e Biagio sulla pittura, sulle opere esposte tra scelte di stile e di materiali e riflessioni sull’esperienza artistica e poetica.
Il segno come scrittura, il segno come materia.

16 ottobre 1943. Il rastrellamento nel Ghetto di Roma nel racconto di Debenedetti

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16101943

di Giacomo Verri

Settant’anni fa l’incubo nel Ghetto romano. In presa diretta Debenedetti scriveva un libro sveltissimo e luminoso, 16 ottobre 1943, una tra le più sentite testimonianze della tragedia che si perpetrò il 16 ottobre del 1943 nei confronti della comunità ebraica. Quel giorno 1024 persone vengono prelevate tra le vie, nelle case, negli esercizi. L’azione è capillare, un lavoro fino che trecento SS compiono abitazione dietro abitazione, seguendo lo storto rigore di certi elenchi approntati per i tedeschi da qualche ariano ‘piccolo piccolo’, mosso da una troppo alacre viltà. La razzia ha inizio intorno alla mezzanotte del venerdì 15; a quell’ora ogni buon ebreo è coricato in letto; alcuni si mettono a sedere, altri s’azzardano a raggiungere la finestra. Di là dai vetri ci sono gli elmetti delle truppe tedesche: sparano, urlano e niente altro. “Facessero qualche cosa, sfondassero una porta, una saracinesca, una bottega, almeno si capirebbe il perché. […] È come il mal di denti, che non si sa quanto può durare, quanto può peggiorare”.

Sappiamo che peggiorò, sappiamo che la situazione se ne andò in una somma disgrazia. Ma non di colpo, non subito. Ed è proprio questo clima di incertezza torbida, di tentennamenti catastrofici, di lenta e ignara agonia a fare lo spessore tragico della vicenda narrata. Debenedetti lavora con la lima della finzione per dare il risalto più grande al vero. Fa ciò che recentemente Siti ha attribuito al Realismo: “coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà”. Basta fare alcuni più precisi – ancorché incompleti – prelievi dentro al testo, là dove esso si allontana dagli attributi della cronaca-documento (nella quale categoria il libretto può essere collocato), optando per una struttura più letteraria, quella che Giuliano Manacorda ha definita “un’invasione della narrativa nella saggistica”. Qui sta l’aspetto maggiormente efficace del racconto-resoconto debenedettiano.

E così alcuni passi, mentre fanno risuonare Manzoni, riescono a sortire effetti di tragicomica assurdità: “Non la macilenta salmodia del cantore sperduto sul lontano altare; ma dall’alto della cantoria, nella romba osannante dell’organo, il coro dei fanciulli gloriava un cantico di sacra tenerezza […] Era il mistico invito ad accogliere il Sabbato che giunge, che giunge come una sposa. Giungeva invece nell’ex Ghetto di Roma, la sera di quel venerdì 15 ottobre, una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia”. Questa che incede, ricordandoci il don Abbondio in procinto di fare l’incontro coi bravi, è la Celeste, una tizia strana, un po’ tocca, “una chiacchierona, un’esaltata, una fanatica”. Il caso vuole che capiti proprio a lei il compito fatale di portare la nuova dell’arrivo dei tedeschi. Pochi le prestano orecchio, nessuno le crede. Siamo quasi di fronte a una scena da tragedia greca, alla sciagura di una verità negata. E proprio così si apre 16 ottobre 1943: con una diminuzione di realtà a favore di una quieta ignoranza, con la mancata intelligenza iniziale che è cifra della caduta successiva.

Ma accanto ai guasti della conoscenza, c’è pure la pigrizia della coscienza, indurita nelle proprie abitudini, anche ancestrali. L’autore ne elenca diverse: quella, per gli ebrei, di coricarsi per tempo: “forse la memoria di un antico coprifuoco è rimasta nel loro sangue; di quando, al cadere delle tenebre, i cancelli del Ghetto stridevano con una inveterata monotonia […] a rammentare che la notte non era per gli ebrei, che per loro la notte era pericolo di essere presi, multati, imprigionati, battuti”. E poi: “contrariamente all’opinione diffusa, gli ebrei non sono diffidenti. Per meglio dire: sono diffidenti, allo stesso modo che sono astuti, nelle cose piccole, ma creduli e disastrosamente ingenui in quelle grandi”. Gli ebrei minimizzano, gli ebrei sperano, gli ebrei “hanno un disperato bisogno di simpatia umana”.

Amore non corrisposto. Perché al contrario i tedeschi avanzano robotici, non si lasciano comprendere. Sono autori e personaggi, a un tempo, di un gioco perverso e grottesco dalle regole illeggibili. Ma fanno davvero paura. È l’inizio della fine. È la realtà che strappa la fantasia più terribile. Accanto agli ebrei razziati, i giovani soldati ridono felici di poter visitare la città eterna. Con le vetture colme di esistenze rubate visitano “Piazza S. Pietro, dove parecchi dei camion stazionarono a lungo. Mentre i tedeschi secernevano i wunderbar da costellarne il racconto che si riservavano di fare, in patria, a qualche Lili Marleen, dal di dentro dei veicoli si alzavano grida e invocazioni al Papa, che intercedesse, che venisse in aiuto”.

È quasi l’epilogo dell’assurdo 16 ottobre 1943. Il resto è Storia. La tragedia più grande arriverà nelle ore a venire, nei giorni, nei mesi successivi. Le Fosse Ardeatine, Kappler e poi Priebke. Ma è il libro di Debenedetti a raccontare l’inizio di una storia che ancora pulsa nel cuore di Roma. Una storia da conoscere, una memoria da conservare.

Ricerca nella scrittura: alcune riflessioni sulla c.d. scrittura di ricerca

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di Giulio Marzaioli

Quando si legge in merito alla c.d. scrittura di ricerca, l’unica costante sembra essere l’impossibilità di addivenire ad una definizione chiara e condivisa.

C’è chi intende per ricerca qualsiasi percorso di approfondimento e mutamento di un’esperienza letteraria, e allora potrebbe escludersi da tale ambito l’opera di chi non sembra modificare mai il proprio approccio alla stesura del testo. Ancora, chi riduce al criterio di ”sperimentazione” il segno distintivo, senza considerare che nel metodo sperimentale la conferma o falsificazione di un’ipotesi deve ricondurre alla formulazione di una legge; risultato, questo, che non solo avviene raramente (trovandoci spesso di fronte a scritture che, al contrario, sembrano voler dimostrare teorie già preventivamente asserite), ma c’è da augurarsi che non avvenga troppo spesso, dovendosi altrimenti richiudere l’arte all’interno di gabbie concettuali.

Per Lampedusa

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Abbiamo ricevuto da Massimo Parizzi, amico di Nazioneindiana, una mail che ci sembra importante pubblicare tal quale. È un’indicazione rivolta a chi sente l’esigenza di fare qualcosa di concreto per le condizioni dei profughi giunti a Lampedusa.

Cari amici,

mia sorella Franca, medico, vive da anni a Lampedusa, dove, con la nuova giunta, è diventata assessore alla sanità e, fra altre cose, all’accoglienza e primo soccorso ai migranti. Suo figlio Matteo, che vive lì anche lui, ha partecipato fin dall’inizio ai soccorsi in mare. Qualche giorno fa, roso dal senso di impotenza (come tutti noi, credo), ho chiesto a Franca che cosa potevo fare.

Un ragazzo somalo

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Un milione d’anni fa ecco Mohamed. Fuggiva da Mogadiscio per salvarsi la vita. Lo rinchiudevano cinque mesi a Ganfuda prigione libica di Bengasi e «il direttore della prigione si chiama Ibrahim, lui ha deciso che se vuoi essere libero devi pagare denaro». Mescolava la scabbia, le zecche, i soldi, la libertà, confezionava la vela, costruiva la zattera e «c’è questa grande nave» e «noi eravamo 260» e «qualcosa del genere» e «troppa gente». Ma: Portopalo. Ma: un’ascesa. Verticale. Verso Perugia. Cammino nel sacrosanto diritto del profugo a vivere. Fabrizio Ricci raccolse la storia nel video. Mohamed raccontò, mostrò, spiegò. Era infermiere. A Mogadiscio. Disse del viaggio. Disse: «Come animali». Oggi è uomo, nel suo diritto, infermiere, lavora da noi, in una clinica, «non posso lamentarmi», spiega, «di come vanno le cose». La famiglia è venuta a trovarlo. La famiglia è tornata in Somalia. Nel video, un milione di anni fa, aveva lo sguardo scottato. Diceva: «Fate qualcosa». «Fate qualcosa di diverso». Diceva: «Non respingeteci». «Come animali». [D.O.]

Overbooking: Stefania Nardini

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Alcazar
ultimo spettacolo di Stefania Nardini