di Francesco Forlani
Ieri sono andato con Giulia a vedere lo spettacolo di Paolo Musìo. In una piccola sala, spazio teatrale Idiòt in zona Porta Palazzo a Torino. Si entra da un fatiscente portone dai muri scrostati, scenografia urbana involontaria che tanto sarebbe piaciuta a Luca Ronconi; si attraversa un terrazzo a ringhiera di vago sapore siciliano, e da una porta si accede nelle tre salette, rigorosamente bianche su cui spiccano un vecchio lavacro di pietra, panche di legno, e un jukebox oracolare.
Quando stamattina ho aperto davanti a me i due inserti, La lettura del Corriere, e il Domenicale del Sole 24 ore, ero indeciso da quale cominciare. La lettura corrisponde, in un immaginario meeting di atletica, a una corsa di 200 metri, fai in fretta a trovare in mezzo al chiacchiericcio generale proposto quell’un-due articoli in grado di giustificare la spesa. Il Sole ha quasi sempre il respiro ritmato e costante della maratona. Poche cose inutili, poco guizzo però.
«Non chieder più nulla,
sappi goder del tuo stesso dolore,
non adattarti per fuggir la morte;
anzi da te la vita nel deserto
fatti – che sia per gli altri nuova vita;
non disperare, ma rinuncia ai vani
aspetti della vita, e nel deserto
sarai tranquillo: dalla tua rinuncia
rifulgerà il tuo atto vittorioso,
APГIA sarà il tuo porto ΔI’ENEPГEIAΣ»
Il dialogo-intervista a cura di Cristina Taglietti, con Alessandro Piperno e Silvia Avallone si può trovare qui, mentre i versi che avete appena letto, da una poesia di Carlo Michelstaedter, li potete ritrovare in un delicatissimo articolo del nostro Sparzani, di qualche tempo fa.
Ieri sono stato a vedere lo spettacolo di Paolo Musìo, Eremos, per la regia di Theodoros Terzopoulos. Il testo, tratto dall’opera “La persuasione e la Rettorica” di Michelstaedter (Adelphi) è stato adattato dall’interprete. Sabato era la quinta data e la media di spettatori è di venti per rappresentazione. Venti spettatori disposti su due file di panche messe una di fronte all’altra. Un proiettore di luce ad altezza uomo è puntato sull’attore che ad esso si rivolge durante tutto il monologo. Noi spettatori siamo presi nel mezzo di questi due flussi, di luce e di parole, luce e parole che agiscono sul corpo dell’attore, lo scorticano, lo trasformano negli umori, sudore e saliva che modellano il terriccio stretto prima nei pugni e poi lasciato cadere ai propri piedi. Un’esperienza radicale, militante.
Avallone, libero, Piperno stopper, ci dicono qualcosa in difesa della letteratura. O almeno vorrebbero e per capire da chi o da cosa un’idea ce la danno sicuramente titolo e cappello introduttivo alla chiacchierata.
La letteratura non è militante
«I libri cambiano noi, non la società. Niente impegno politico, solo spazi liberi»
Ma per entrare nel merito della questione riporto un passaggio che secondo me offre spunti interessanti, a proposito.
“Claudio Magris sostiene che l’utopia di Don Chisciotte, destinato comunque a essere sconfitto, è un movente per scrivere, che la letteratura ha il compito di far sentire, in qualche modo, questa necessità di migliorare il mondo.” recita il redazionale.
PIPERNO — Per me no. Credo che la letteratura possa al limite migliorare chi legge e chi scrive, ma credo che contaminarsi sia anche un pericolo per l’arte stessa. Se pensi troppo a migliorare il mondo e non a fare un buon libro, non va bene. E un buon libro può anche peggiorare il mondo. Si dice sempre che nella Germania nazista c’era un gran consumo di musica classica, di cultura alta, di autori come Goethe. Ci sono società operaie che non hanno alcuna attitudine alla lettura e che sono tanto meglio della borghesia nazista. Pure la parola migliorare mi lascia perplesso.
AVALLONE — Nel libro puoi essere impopolare, raccontare storie fastidiose, ma tutto questo è vitale. È fondamentale nella scuola: per diventare cittadini curiosi gli studenti devono imparare a esercitare questa libertà. Più che un impegno politico alla maniera di Sartre, è un impegno morale che, per me, significa non essere indifferenti. È un’altra virtù della letteratura: vivere le vite degli altri senza giudicare, benché siamo in una società violenta che, come in certi programmi televisivi, ama inchiodare una persona a un ruolo, a un reato. La letteratura complica l’esperienza, oltrepassa il giudizio e ti permette di vedere il mondo attraverso altri occhi. È un modo per prendersi cura delle vite degli altri.

Perché questo passaggio? Forse perché Claudio Magris ha dedicato a Carlo Michelstaedter un posto privilegiato nel romanzo “Un altro mare”, (Milano, Garzanti- Gli Elefanti 2003) che ha per protagonista Enrico Mreule, insieme a Nino Paternolli, grande amico del giovane filosofo? Forse, più semplicemente perché è l’unico passaggio di tutta la conversazione, piacevole tutto sommato e nient’affatto “pretenziosa” espressamente dedicato alla questione, affaire di questi tempi classificato come “intellò stronzi e peggio ancora se romanzieri intellò”. Se la risposta di Piperno può sulle prime lasciare perplesso e sulle seconde pure, più precisa è Silvia Avallone quando ci ricorda che la parola impegno debba intendersi non necessariamente come politico, “alla Sartre” ma morale, alla Camus, aggiungiamo noi. Ma allora cosa è un impegno morale? Una professione da intellettuali, un mestiere da romanzieri o una vocazione da uomini e donne di cultura?
http://youtu.be/RQTbRVHmtmA
La voce dell’attore sorge da una parola doppia, biascicata, dionisiaca, incomprensibile e soltanto dai due toni riconducibile a due anime diverse. Anche il corpo, figura dell’interprete, è in dialogo costante con l’ombra che gli fa da controfigura sullo sfondo, doublure, in francese, risvolto del personaggio, due volte defigurato. Sembra di essere nel mito platonico della caverna, e la ricerca di assoluto e di verità, di Michelstaedter\Musìo, tutta rappresentata in quella frontalità con la luce, le fiamme che generano dalle cose, dalla loro verità, soltanto l’ombra. Noi spettatori fissiamo allora il volto di chi vede in faccia le cose, la vita, la morte, ma soprattutto il tempo-immagine senza il quale nessuno e niente sarebbe possibile. In un dialogo impossibile tra il tutto, il troppo, e il niente come nell’epigrafe testamento del giovane filosofo, didascalia di un disegno di una lampada fiorentina.

La lampada si spegne per mancanza d’olio
io mi spensi per traboccante sovrabbondanza
Il testo, le note di Carlo Michelstaedter si uniscono molecolarmente ai frammenti di Eraclito, recitati senza testo a fronte, arcaici, appena appena riconoscibili. Sembra accadere alle parole quanto viene “detto” poco dopo:
Due sostanze si congiungono chimicamente: cessano entrambe dalla loro natura, mutate nel vicendevole assorbimento. La loro vita è il suicidio. Per esempio il cloro è sempre stato così ingordo che è tutto morto, ma se noi lo facciamo rinascere e lo mettiamo in vicinanza dell’idrogeno, esso non vivrà che per l’idrogeno. L’idrogeno sarà per lui l’unico valore del mondo: il mondo.
Per quell’atomo di cloro è questione di vita o di morte. Da quando, in qualunque modo, avvenuto alla vita mortale, ebbe coscienza clorosa, ha sperato disperatamente; il suo occhio guardava la tenebra e non vedeva cosa che fosse per lui: la sua vita è stata un dolore mortale. Se noi ora gli avviciniamo l’idrogeno, nell’oscurità gli apparirà una luce lontana, indistinta, ed esso si risveglierà nel crepuscolo a una più precisa speranza, finché giunto l’idrogeno nella data vicinanza, il cloro vedrà tutto chiaro l’orizzonte, ed affermerà la sua vita ormai certa – nel piacere mortale dell’amplesso. Ma soddisfatto l’amore, la luce anch’essa sarà spenta, e il mondo sarà finito per l’atomo di cloro. Cloro, idrogeno. I loro mondi diversi ma correlativi così che dall’amplesso mortale avesse d’attender poi e soffrir la sua vita: l’acido cloridrico.
Nella lontananza dell’idrogeno, il cloro attende inerte. La condizione per il suo volere non è in lui, ma in ciò che è per lui mistero, infinita oscurità, contingenza delle cose, caso.
– In questa attesa, per questo sentimento del tempo inutile il cloro nella lontananza dell’idrogeno s’annoia.
(Lo spettacolo si replica il 25-26-27 ottobre, ore 21, Spazio idiòt, via S.G.B. La Salle 16 A, 10152 Torino)
La sensazione che ho avuto, a lettura ultimata della discussione è stata non tanto quella di una vera e propria solitudine, autentica matrice di ogni creazione letteraria. Non solitudine, ma isolamento da intendersi qui nel suo significato medico di convalescenza. Ancora una volta, si ha come la percezione che il pensiero, la libera creazione, la cultura, non ne vogliano più sapere della battaglia, dell’ideologia, della comunità; basta i J’accuse ma pure Zola, il romanziere francese, mentre per Zola calciatore sardo si potrà soprassedere. Sembra, a conti fatti, permanere l’equivoco di fondo, sul senso da dare alla parola impegno. E una domanda, semplice quasi banale, sembra affacciarsi, timidamente, sulla questione: ma oggi dove e come l’impegno intellettuale sta monopolizzando la creazione? A me sembra che dalla fine degli anni settanta manchino, purtroppo, per fortuna, in Italia, parole d’ordine, partiti della cultura, obblighi politici per gli intellettuali, linee editoriali dettate dai partiti, anche perché i partiti pare che se ne siano andati da molto prima. Insomma mi sembra che tutti vogliano disertare la battaglia quando della battaglia non si hanno tracce da un bel po’. L’impegno, ha ragione Silvia Avallone, è morale, ricerca della verità, e la verità può a volte costare la vita, come nel caso dell’appena ventitreenne Carlo Michelstaedter. O la prova fisica e morale che un interprete come Paolo Musìo ha voluto dare in una piccola sala di teatro di ricerca, nel cuore del mercato di Porta Palazzo, l’unico mercato a mantenere qualcosa d’umano. In questo presente.
Né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe di esser vita. Tante cose ci attirano nel futuro, ma nel presente invano vogliamo possederle.
Io salirò sulla montagna – l’altezza mi chiama, voglio averla – la ascendo, la domino; ma la montagna come la posseggo? Ben son alto sulla pianura e sul mare, e vedo il largo orizzonte che è della montagna; ma tutto ciò non è mio. Non è in me quanto vedo.
Il mare brilla lontano. In altro modo esso sarà mio. Io scenderò alla costa, io sentirò la sua voce. Ma se mi tuffo nel mare, se bevo il salso, se esulto come un delfino – se m’annego – ma ancora il mare non lo posseggo: sono solo e diverso in mezzo al mare.
Né chi cerchi rifugio presso alla persona ch’egli ama – potrà saziar la sua fame: non baci, non amplessi o quante altre dimostrazioni l’amore inventi li potranno compenetrare l’uno dell’altro: ma saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro. –
Tutti lamentano questa loro solitudine, ma se essa è loro lamentevole – è perché, essendo con se stessi, si sentono soli: si sentono con nessuno e mancano di tutto.
Ognuno vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il possesso di se stesso: ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a se stesso in ogni presente.
Così si muove a differenza delle cose diverse da lui, diverso egli stesso da se stesso: continuando nel tempo. Non sa ciò che vuole, non sa ciò che fa perché lo faccia: non ha se stesso: finché vive in lui irriducibile, oscura la fame della vita.
Perciò è ognuno solo e diverso fra gli altri, ché la sua voce non è la sua voce ed egli non la conosce e non può comunicarla agli altri.
“La persuasione e la Rettorica” di Carlo Michelstaedter (Adelphi)

















