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Ingiuro che sì

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di
Livio Borriello
(Frammenti dal suo nuovo sito che vi invito a visitare)

L’insulto deve tornare a essere quello che era, una forma protogiuridica di controllo sociale, un meccanismo ormonale e psicologico, in cui entrano in gioco il cortisolo e la dopamina, l’endorfina e l’ossitocina, le componenti fisiche e carnali del biasimo e della approvazione, della colpa, della punizione e del premio, finalizzato a regolare il comportamento sociale degli individui.

 

*

E’ che la sx attuale ha dimenticato la trasgressione, ha dimenticato l’esplosione di felicità del ’77 e della fantasia al potere, e è andata a strozzare la propria vitalità nell’imbuto del politically correct, si è andata sbiadendo nel grigiore del perbenismo politico. La stessa difesa dell’omosessualità, del trasgenderismo, della trasgressione erotica, viene vissuta non più come esplosione liberatoria e delirante della corporeità, come accesso all’assoluto del corpo, come colore interiore e spuma ormonale, ma come semplice e noiosa rivendicazione di un diritto civile. La trasgressione è psicologizzata, regolamentata, istituzionalizzata, e dunque non è più tale, poiché varcato il limite, si ritrova racchiusa e controllata da quello più subdolo della falsa tolleranza modernista, e diventa null’altro che una nuova tipologia di piacere, un nuovo prodotto di consumo. Simbolo triste ne è la calza a rete o i segni esteriori della femminilità simulati e ricostruiti del transessuale. In Bataille e nei situazionisti, come nelle culture alternative degli anni ’70, la trasgressione era altro, e era apparentata semmai a quella di Savonarola o Maddalena de’ Pazzi, un bisogno di trasgredire, travalicare e trascendere l’umano, di sconfinare oltre il limite, di annullare per l’istante brevissimo dell’infrazione, il senso del limite, la coscienza della morte, il peso della materia, propri della condizione umana.

 

Le origini. la storia della famiglia di Rio

questa è rio, l’otaria che pensa
questo otaria – secondo quanto certifica
il pensare del figlio di piero angela –
riesce a distinguere le lettere dai numeri,
e compie delle deduzioni. quindi pensa.

il nonno di rio, l’otaria pensante. non pensa.

tuttavia ha gettato le basi del pensare, riuscendo a mangiare aringhe di oltre 72,6 cm. queste aringhe così grandi, hanno creato una compressione a livello del canale otaricolo e del dotto aringospastico, e hanno costretto i neuroni ad evolversi in una struttura più complessa. è nata così la neuringa, il neurone-aringa, congegno cellulitico portentoso, nella cui composizione è presente un’alta percentuale di dio.
ecco infatti la composizione della neuringa, secondo uno studio del Massachutes and St. Gennar Otaric Neurology Institute: 40% acqua; 25% bicarbonato; 30% olio d’oliva; 27% acido glutotarico; 22% dio; 1% scapece. Come si vede, la somma delle percentuali dà il 144%, e questa è una caratteristica specifica della neuringa. Ecco cosa afferma il prof. Brain Water, a capo del dipartimento: The straordinar carachteristics of neuringa is that she is most of the his most…. so neuringa feels most what she feels. Probabilment, just this permit to neuringa of thinking. This is the true misterity of oggigiorn science.
chi volesse contribuire alla ricerca sulla neuringa, può inviare una donazione liberale a questo IBAN:IT42K0316501600000011184720, beneficiario livio borriello. i fondi saranno utilizzati al 50% in azioni blue-chip sull’aringa e padre pio, il resto ai poveri e alla costruzione di un faraonico acceleratore ittiostatico, che dopo un processo di bombardamento protonico e frittura, separerà dall’aringa la sua componente di acqua, la sostanza più misteriosa. per la prima volta sarà prodotta acqua a partire dalle aringhe (anzi, precisano gli scienziati, un’acqua con un leggero gusto di gazzosa molto gradevole), aprendo alla scienza orizzonti inimmaginabili.

la famiglia di rio, l’otaria che pensa, vive serenamente nelle isole ballestas.

ogni sera, i membri della famiglia si riuniscono davanti alla casa di zi’ carmeledda, l’otaria archeo-pensante, e commentano i programmi alla tv. il sogno di zi’carmeledda è partecipare al programma di carlo conti Tale e quale, di cui è molto appassionata, perché è convinta di assomigliare a albano. in tal modo essa è convinta di diventare il capo del mondo. le otarie ragionano infatti essenzialmente per somiglianze e differenze, e ritengono quindi che se si SEMBRA il capo del mondo, si E’ il capo del mondo. perché poi le otarie credano che albano sia il capo del mondo, questo non è stato ancora scoperto dalla scienza.

p.s. l’amico elio p. sostiene che questo pezzo è sciocco… forse ha ragione, d’altronde qui bisogna buttare anche un po’ gli scritti azzardatamente e sperimentalmente… e magari questo pezzo è anche meno sciocco di quel che sembra, per cui può sempre costituire un arricchimento il cogliere la differenza fra quanto lo sembri e quanto realmente lo sia

I’m not there

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In verità, in verità vi dico

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di Giuseppe Zucco

Il disegno è di Erica il Cane

 

È più brusco
trovarsi a tu per tu con le strutture tutto in una volta.
Elio Pagliarani

La parte migliore di me non avrebbe dovuto lasciarti andare. Sinceramente, la parte migliore di me non avrebbe dovuto neanche permettere che ti allontanassi di un millimetro.
La parte migliore di me avrebbe dovuto lottare – svenarsi, sgolarsi, certo – e cercare di convincerti: metterti al riguardo di quanto la stabilità sentimentale venuta a instaurarsi tra una cardiochirurga giovanissima ma molto promettente e uno dei più noti autori televisivi del momento fosse una tale rarità in natura, un tale evento nel più ampio sistema solare, che non restava altro da fare che preservarlo e custodirlo e consegnarlo come cartolina ai posteri che, un giorno, nel periodo più introspettivo della loro vita, vagamente illuminati da questa immagine di reciproca elettrica attrazione, avrebbero intuito cosa intendevamo noi per felicità – per appagamento, già, dei sensi o dei sentimenti – una specie di riposo del guerriero, il momento di stasi che precedeva o seguiva le grandi battaglie, l’attimo in cui le armature lucide o spaventosamente deformate posavano per terra mentre gli occhi della persona davanti diventavano uno specchio o un lago, qualcosa a metà tra uno specchio e un lago, un punto circoscritto dello spazio infinito in cui riflettersi e immergersi senza alcun tremore e spaesamento.
Eppure, la parte migliore di me ha infilato certe nebbie. Probabilmente, la parte migliore di me ha subito la temperatura elevata della sala autori mentre fuori infuriava l’inverno. La quantità delle sigarette e delle barrette proteiche e della taurina allo zero virgola quattro per cento contenuta nelle lattine durante la stesura delle scalette e dei copioni. I progressivi avanzamenti decimali dello share su cui scommettevo con gli altri autori e gli assistenti ai programmi – non cene, sfilare nudi sul balcone della sala autori che dava sulla strada era lo standard, se perdevi.
In fondo, In verità, in verità vi dico, il titolo nonché la formula di rito che apriva il nostro programma, la cronaca nera al servizio dei cittadini, come tu sai, aveva vagito sotto il sette per cento, da lì era cresciuto, nei primi tempi osservava la curva dell’indice di ascolto inerpicarsi per altezze irraggiungibili con un filo di struggimento – e anche se all’inizio eravamo un semplice gradino della più estesa scalinata del palinsesto, piano piano e poi di colpo eravamo diventati un punto di vista, un marchio riconoscibile, una presenza concreta e puntuale con cui la realtà doveva fare i conti, prova ne erano le telefonate ricevute, l’e-mail intasata dai commenti, la mezza stellina dei critici televisivi su riviste e quotidiani appuntata alla giacca come medaglia al valore, le promesse gaudiose del riposizionamento di In verità, in verità vi dico in una fascia oraria strategica e dell’inserimento di due pause pubblicitarie aggiuntive nel corso del programma, tanto che più volte, di notte, infilando l’indice nel nodo della cravatta, allentavo di poco mentre consultavo le ultime agenzie stampa, un gesto istintivo di cui avrei appreso in seguito la natura profetica.
Non credo che la parte migliore di me, prima di oggi, avesse chiaro il concetto di stabilità sentimentale. Non credo neanche che sapesse cosa farsene, sebbene, in definitiva, decidesse del mio umore e del mio stato d’animo, permettendomi di concentrarmi solo e unicamente sul programma, sul fatto che uno dei miei inviati dovesse per esempio fiondarsi in un paesino di provincia quando ancora la bambina non era stata del tutto conquistata dal rigor mortis per intervistare i suoi genitori e chiedere loro cosa provassero in quel momento, cioè cosa sentissero, quali parole riuscissero ad articolare guardando in modo confuso e cognitivamente ellittico la telecamera davanti al colore neutro della parete di una sala di attesa del reparto grandi ustionati.
Capirai senz’altro, la parte migliore di me non sta cercando di salvaguardare l’astrazione romantica della parola amore. La parte migliore di me ormai da tempo ha superato le più scontate convenzioni – l’amore, naturalmente: e la vita di coppia, il matrimonio, la rigidità asfissiante della monogamia. La parte migliore di me, come avrai capito, prospera proprio su un altro piano.
La parte migliore di me, per essere esatti, è convinta che per un autore televisivo e una cardiochirurga in ascesa, perlomeno in orbita verso la più scintillante delle carriere nei rispettivi campi di azione, la stabilità sentimentale sia tutto. Sapere che nonostante le noie e lo strazio delle grandi battaglie della vita quotidiana c’è sempre qualcuno a casa disposto ad ascoltare senza giudicarti o degradarti all’ultimo livello delle categorie umane, lo stronzo, il pezzo di merda, la merda umana, è una di quelle certezze su cui posare la prima pietra della costruzione di una visione equilibrata della vita e del proprio lavoro.
Detto in altre parole, è chiaro che il simbolico allentamento del nodo della cravatta è stata responsabilità mia, soltanto mia, del tutto mia – e ancora oggi mi pento e mi dolgo di avere indetto quella festa a casa nostra in seguito alla registrazione del più alto picco di ascolti in prima serata non prevedendo che tu tornassi con un giorno di anticipo da un convegno sul futuro della cardiochirurgia, uno di quei elegantissimi rituali massonici da cui rincasavi con espressioni tipo decision making e il costo dei vari devices, piccoli tappeti linguistici sotto cui nascondevi la grande polvere di un problema ricorrente, cioè se per un’azienda sanitaria fosse sensato prima che economico prendere la decisione di operare vecchi catorci su per giù sulla settantina con speranze di vita inferiori all’anno, una percentuale considerevole della popolazione ospedaliera che risucchiava gran parte delle risorse finanziarie, allungando di colpo l’ombra dei cardiochirurghi sul viale del cinismo già ampiamente battuto dagli autori televisivi, un cinismo funebre, a dire il vero, cosa che appena veniva accennata ti faceva inforcare gli occhiali e alzare dal letto e andare in cucina e farti trovare con un bicchiere d’acqua in mano davanti alla finestra aspettando non che io ritirassi tutto, ma che muovessi i capelli e ti baciassi sulla nuca e facessi promessa di non svalutare la tua vocazione cardiochirurgica che di tanto in tanto ti destinava in una qualche località sperduta del nord Africa in un’altra mossa riuscita del capitalismo avanzato.
Ma se tu di punto in bianco non avessi deciso di porre fine alla nostra relazione, di troncarla, di farne cenere da disperdere al vento, probabilmente io non sarei caduto in errore: o in un eccesso di realtà, per essere corretti, anche se tutti i commentatori continuano a designarlo come un vero errore, e dei più irrimediabili, a dirla tutta. La parte migliore di me, in effetti, proprio allora, ha registrato una relazione proporzionale tra la mia stabilità sentimentale e la mia concentrazione sul lavoro.
Se ci pensi bene, è un discorso tutt’altro che unilaterale. Se fai mente locale, tu eri ancora necessariamente al mio fianco quando il padre della bambina morta per ustioni ha rifilato un secco no alla richiesta del nostro inviato, un pugno in faccia e due tre calci nello stomaco, ma sono stato io stesso a sedare l’inviato al telefono invitandolo a scongiurare la vendetta o la denuncia, pena la sparizione del suo nome dai titoli di questo e di futuri altri programmi, e con tanto di frattura al setto nasale di proseguire il suo lavoro, intervistando la lunghissima sequela dei parenti della bambina, gli anziani, soprattutto, chiedendo loro cosa provassero in quel momento, come se non fosse più un pezzo televisivo, ma un inchino alla probabilità statistica, qualcuno alla fine avrebbe risposto con le lacrime agli occhi, umidità cariche di rassegnazione cosmica che avremmo deliberatamente sottolineato con la musica adatta, un tantino melodrammatica, a dire il vero – la stessa cosa successa mentre io ero ancora necessariamente al tuo fianco, e sotto la luce gelida azzurrina della sala operatoria il tuo respiro non approdava all’asma, la tua fronte non era imperlata di goccioline di sudore, la tua mano non tremava, il tuo bisturi non trovava inceppo né ostacolo, il tuo ago disegnava bene ogni sutura, e il bypass aorto-coronarico riusciva nonostante le mille e una complicazioni che di solito annodano il cartellino all’alluce tanto al paziente quanto alle quotazioni del cardiochirurgo di turno.
Chiaramente, se solo avessi avuto sentore, se solo avessi previsto gli esiti disastrosi della relazione ormai scientificamente dimostrabile tra stabilità sentimentale e concentrazione sul lavoro, la parte migliore di me si sarebbe guardata bene dall’indire seduta stante al picco di ascolti di In verità, in verità vi dico una festa a casa nostra. Vedere i tuoi occhi dilatarsi oltre misura sulla soglia della nostra camera da letto mentre due ispettrici di studio completamente svestite vagavano sulla landa desolata del mio corpo emettendo tutta una serie di esoterici balbettii, aveva cancellato di colpo dalla mia memoria il numero complessivo di puntate che aveva tenuto il pubblico incollato al televisore. È vero, uno dei miei inviati, rovistando nel sottobosco intorno alla casa della donna scomparsa, aveva ritrovato il frammento superiore di un femore, e noi, principianti Sherlock Holmes in erezione, di quel femore ne avevamo fatto un cadavere, la prova che il marito aveva scombinato la disavventura della donna scomparsa in mille piccole disavventure sotterrate con estrema cura e perizia, ma a quel punto io avrei restituito la risoluzione del caso piuttosto che smarrire la stabilità sentimentale e quindi la concentrazione sul lavoro. Se mi sono spiegato bene, non è esattamente amore, ma neanche egoismo, il mio. Se ti sto tortuosamente ma ufficialmente chiedendo di tornare al mio fianco, riguadagnando in modo più contemporaneo e disinvolto i vantaggi di un’efficiente stabilità sentimentale del tutto preclusa alle tradizionali coppie monogame, è per scongiurare di farti incorrere in un qualche errore capitale – errore che peserebbe su una vita intera e su un’intera carriera.
La parte migliore di me, infatti, non ha retto. La parte migliore di me, già abbastanza annebbiata da lavoro scommesse taurina, quanto tu sei andata via, è caduta nelle spire dell’instabilità sentimentale, seminando errori a catena sul lavoro. Per esempio, chiedendo la testa dell’inviato che non era riuscito a raccogliere neanche una microscopica fluidità salina sul volto di un qualsiasi lontanissimo parente della bambina morta ustionata, essendo i parenti rinchiusi nel più stretto riserbo. Per esempio, caricando me stesso su una macchina di redazione e precipitandomi nel paesino della bambina morta ustiona. Per esempio, aspettando sotto casa il padre della bambina, due ore tonde, se non ricordo male, e poi notandolo uscire da casa, scagliarmi addosso, stringergli le mani al collo e urlare chi si credeva di essere, proprio così, che titoli e quali argomenti avesse lui per mettersi di mezzo tra le telecamere e la verità. Per esempio, introducendomi nell’obitorio, con la telecamera a tracolla, dopo avere corrotto un paio di infermieri, cercando il numero della cella frigorifera associato al nome della bambina morta ustionata.
Non ti sto pregando, ora, in questo istante, dovunque tu sia, di ritornare. Non ti sto dicendo tra le righe di prendere le tue cose e venire a ripiegarle nei cassetti di questa casa nelle prossime ore. Non è questo.
La parte migliore di me sta solo tentando di farti immaginare quale abisso di rimorso e risentimento potrebbe spalancarsi sotto i tuoi piedi nel momento in cui troveresti le pareti domestiche sguarnite di una figura che in modo molto disinvolto e contemporaneo ti assicura una duratura stabilità sentimentale e di conseguenza una tenuta nel mondo del lavoro. Pensa solo a tutti i casi di infezione o di sanguinamento post-operatorio che potresti incidentalmente causare ai tuoi pazienti se le rigorosissime procedure sanitarie di cui sei fedele devota fossero messe a repentaglio da tutta un’altra qualità di pensieri instabili e sentimentali. Pensa solo a quanta disperazione stia bruciando per riemergere dal fondo di un errore o, ci siamo capiti, di un eccesso di realtà, che mi è costato prima le proteste, poi un’interrogazione parlamentare, quindi la soppressione istantanea del programma.
La parte migliore di me, se solo avesse trovato qualcuno a casa disposto ad accogliere le mie ragioni senza darmi preventivamente contro, con una qualche certezza non si sarebbe precipitata nel paesino né avrebbe aggredito il padre della bambina ustionata, non avrebbe corrotto gli infermieri né sarebbe entrata nell’obitorio, non avrebbe aperto la cella frigorifera né avrebbe messo in spalla la  telecamera e ripreso gli arti ustionati della bambina, le gote ustionate, le dita ridotte a miseri carboncini consumati, montando poi quelle immagini nel servizio mandato in onda.
Non sto affatto dicendo che tu non possa frequentare chiunque tu voglia, con una prossimità tra i corpi che declinerai tu di volta in volta: siamo troppo adulti e democratici e contemporanei per compromettere la nostra stabilità sentimentale cioè la nostra carriera per questo genere di cose – anche se ammetto che deve essere stato sufficientemente traumatico farsi trovare addosso due ispettrici di studio, peraltro svestite, con le labbra appaiate sul bottone rossastro dei miei capezzoli.
Sto solo dicendo che noi due, una volta seduti abbracciati davanti al tramonto di questa trascurabile incomprensione, facendo tesoro della nostra rinnovata stabilità sentimentale, potremmo diventare due esseri umani migliori – migliori e pacati, più retti, particolarmente in sesto e misurati, capaci di prevedere quanto sfuggire gli errori e i fallimenti e le capitolazioni.
Anche perché la parte migliore di me, come quella di ogni singolo spettatore che ha composto il pubblico dell’ultima puntata trasmessa di In verità, in verità vi dico, riesce a stento a prendere sonno dopo avere allestito l’oscurità nella propria stanza o a cercarsi nello specchietto retrovisore durante una pausa al semaforo o a riempire in altro modo l’attesa di completamento del download illegale di un film americano.
Il sorriso ustionato della bambina ustionata denuda i denti e continua a espandersi tra i pensieri sebbene in principio apparisse definitivamente rigido, e annerito.

[Questo racconto è stato pubblicato nell’antologia Storia di martiri, ruffiani e giocatori, edita da Caratteri mobili, a cura di Vicolo Cannery]

La casa di Peter Handke

2

di Danilo De Marco

Si entra nell’ampio giardino: una macchia verde da una parte, uno sterrato coperto di ghiaia dall’altra.

Peter Handke viandante carinziano in Friuli

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di Erri De Luca e Hans Kitzmüller

Peter Handke è un bambino che ha saputo tutto del mondo e se ne va tra gli adulti raccontando loro qualche dettaglio.

Tre nostalgie

5

di Vanni Santoni

(Che, sì, potrebbe essere anche il titolo di un libro di Richard Yates*). Ho letto di recente tre bei romanzi, che trovo siano uniti, oltreché dal fatto di essere stati scritti da autori nati nella forbice di un quindicennio (Pavolini 1964, Ghelli 1975, Cognetti 1978) e legati a vario titolo a Roma (Cognetti per l’editore, Ghelli per averla scelta come città di adozione, Pavolini per nascita e editore), da una fortissima tensione nostalgica, declinata tuttavia secondo modalità affatto diverse.

il Grande Rischio scienza

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di Antonio Sparzani

Ci vorrebbe una vera Commissione Indipendente che vigilasse continuamente e attivamente sui grandi rischi connessi sia con la scienza, sia, e forse soprattutto, con i suoi variopinti portavoce, o profeti, o sacerdoti, non so, detti scienziati, e scienziate, naturalmente.
Questa faccenda della sentenza del tribunale dell’Aquila che condanna un’intera commissione per il suo operato è proprio emblematica, anche e soprattutto nel senso che i suoi rimbalzi mediatici, vicini e lontani, tendono sempre più a deformare e a non far capire quale sia il centro del problema. Tanto che viene tirato in ballo Galileo che proprio poco c’entra e perfino Giordano Bruno, che già ha subito abbastanza ingiurie perché gliene si debbano aggiungere altre.

Addio mia bella Nauplie – Atelier du Roman

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Allocution prononcée en clôture de la XIVe Rencontre de L’Atelier du roman à Nauplie (Grèce) les 6 et 7 octobre 2012.
di
Lakis Proguidis (trad. di effeffe)
Eccoci infine giunti al termine del XIV Incontro de L’Atelier du Roman a Nauplia. L’usanza vuole che alla fine di ogni Incontro sia annunciato il tema dell’incontro successivo. Quest’anno non sarà così per il semplice motivo  che non ci saranno più gli Incontri dell’Atelier du Roman.

Avuto, visto 12-14 / Vincenzo Ostuni

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tratto da Faldone zero-venti : poesie 1992-2006 di Vincenzo Ostuni, Ponte Sisto, 2012

Il perché delle biografie

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di Isabel Burdiel

Diceva Josep Pla che, se a quarant’anni continui a leggere romanzi, sei un idiota. Non è necessario essere d’accordo per rifletterci un po’ sopra.

Per molti lettori – forse anche per Pla –  la poesia è il genere dell’adolescenza, il romanzo quello della giovinezza e la biografia è il genere della maturità. Un genere che esercita un fascino particolare per coloro che iniziano a sentire che la vita si fa seria, e che abbiamo bisogno di ordine e di consolazione in mezzo al rumore e alla furia di una vita che galoppa e ci sfugge. Si tratta di quegli anni alle spalle nei quali non c’è scampo al tempo, quando il passato, come diceva il poeta Ángel González, è così incerto e scoraggiante quanto il futuro per gli adolescenti. 

Autismi 27 – La mia inettitudine

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di Giacomo Sartori

Ci sono persone che sanno fare tutto, o sembrano sapere fare tutto, mentre io non so fare quasi niente. Tanto per cominciare non so cantare. Nella mia famiglia sono tutti intonati, io invece sono stonato come una campana, una campana precipitata dalla cima del campanile sul lastricato sottostante. Mia moglie, che canta molto bene, mi ripete sempre con una voce paziente ma anche surrettiziamente esasperata che non esistono persone stonate, basta fare esercizio. Io non le ho detto che c’è stato un periodo in cui vocalizzavo inni marxisti-leninisti, ma restavo pur sempre stonato: certe cose si mimetizzano perfino a chi ci sta più vicino. Insomma, canto unicamente quando viaggio in macchina da solo e ho i finestrini chiusi, preferibilmente di notte. Del resto non so nemmeno ballare. Una volta certi amici della mia prima fidanzata mi hanno convinto a provare, e io ho ballato. Vedi che sei capace, mi dicevano, facendomi dei sorrisi incoraggianti come si fa con i portatori di raccapriccianti handicap. E a me stesso sembrava di ballare passabilmente, se non proprio bene: forse proprio perché avevo un po’ bevuto. Poi però una di loro con il pallino della didattica mi ha detto che ero proprio sulla via buona, se adesso cercavo di creare un minimissimo legame tra i miei movimenti e il ritmo della musica sarebbe stato perfetto. Allora ho capito che era meglio che lasciassi perdere, anche se certe volte è imbarazzante essere l’unico che non balla. E non so fare le divisioni con due cifre. Ero assente il giorno che il maestro le ha insegnate, e non c’è più stato verso di rimediare (adesso può far sorridere, ma nell’era pre-elettronica ho speso tantissime energie a mascherare questa mia inettitudine, per anni sono vissuto nel terrore di venire smascherato e di pagarne le conseguenze). Ma non so nemmeno giocare alle carte, parlare ai bambini, raccontare barzellette, andare in vacanza, cucire, capire se fa freddo o caldo, non so come funziona facebook e tutti gli altri aggeggi di adesso, non so rispondere su due piedi alle persone quando mi domandano cose anche molto semplici, pur avendo dei fermi convincimenti non so avere opinioni politiche coerenti, o anche solo opinioni coerenti di altro tipo, e forse addirittura idee coerenti, non so tenere i segreti, non so essere fedele, non so vedere un derelitto che soffre senza piangere io stesso (benché in altri frangenti non sappia evitare di far piangere certi derelitti), non so mandare al diavolo mia madre quando fa la nobildonna settecentesca, zittire i tipi che dicono stronzate, infrangere le illusioni altrui, anche le più dissennate (tanto più se si tratta di amici), andare alle feste, o anche solo intervenire nelle conversazioni, toccare i pesci vivi, baciare i morti, pisciare da uomo, fare due cose nello stesso momento, procreare, ricordarmi le trame dei libri e dei film, ricordarmi le altre cose, chiedere un piacere, guardare le persone senza mostrare che le guardo, dormire senza terrificanti incubi, essere ottimista, vedere film sanguinolenti, o anche solo sequenze sanguinolente, leggere i cosiddetti gialli, avere una calligrafia leggibile, comprarmi le scarpe, e via dicendo: la lista potrebbe essere lunghissima. Queste affollate inettitudini restano però pur sempre anedottiche: sono ben altre quelle davvero cariche di invalidanti conseguenze. In particolare non so respirare. Senza accorgermi trattengo il respiro, e quando proprio non ce la faccio più sbuffo fuori l’aria, e gioco forza ne segue una agonica inalazione. Gli appassionati di record subacquei o subaerei di apnea mi capiranno. Questo fin da bambino: quando guardavamo la televisione i miei mi dicevano che era impossibile starmi vicino, e mi allontanavano. Adesso quando vado al cinema i vicini tossicchiano, o anche si alzano e cambiano posto. Non ho mai imparato a respirare. Mia madre mi portava da ogni sorta di dottori, ma non è servito a niente. Ma non so nemmeno mangiare. O meglio, condurre alla bocca i cibi in qualche modo riesco, anche se pare faccia molto rumore e molte briciole, ma poi non so capire quando sono sazio, il che mi crea sempre dei problemi. Adesso sarò sazio?, mi chiedo. E adesso? Avrò mangiato troppo poco o troppo tanto? Nemmeno mio fratello sa giudicare quando è sazio, come del resto nemmeno lui sa valutare se fa freddo o caldo, e secondo lui è perché nostra madre decideva tutto lei. Comunque sia è dopo aver ingerito il cibo che viene il peggio: non so digerire, non ho mai imparato. Non digerisco gli spaghetti al pomodoro, la carne, il pesce lesso, il formaggio, la pizza, i cavoli, le cose più comuni e semplici. E i pochi alimenti che digerisco mi fanno male. Il pane mi fa male, la pasta in bianco mi fa molto male, il vino mi fa malissimo, e via dicendo. Un cetacico terapeuta al quale mi sono rivolto diceva con il suo vocione incoraggiante che dipendeva dall’equilibrio tra i succhi pancreatici e la bile: bisognava dissotterrare le ragioni profonde responsabili del suo traviamento nella tenera infanzia, per poi reimpostare tutto: ci sarebbe voluto un po’ di tempo ma poi avrei digerito anche i rospi crudi e i sassi. Un altro terapeuta magretto e di modi tenui sosteneva che dovevo riconciliarmi con le sostanze alle quali il mio corpo era allergico: mentre io stringevo in ciascuna mano una fialetta contenente una data sostanza lui mi massaggiava certi punti appropriati del corpo con il sottofondo di una musica indiana. Il bello è che al giorno d’oggi l’eclettismo e l’ecumenismo furoreggiano anche in campo sanitario. Purtroppo però un’altra cosa che non so fare è perseverare nelle terapie che comincio. Del resto nemmeno di camminare, sono capace. Insomma, per un po’ riesco, ma poi mi inciampo. Non c’è nessunissimo ostacolo, nemmeno millimetrico, e io inciampo. Dopo essermi inciampato mi guardo indietro, un po’ per darmi un contegno e un po’ anche per constatare che davvero non ci fosse qualche intoppo, non si sa mai, ma non c’è mai un intoppo. Pure per questo mia madre mi portava dai dottori, e anche in questo caso invano. E poi non so ascoltare le persone. O meglio, mi sforzo di ascoltare, ma perdo subito il filo, mi distraggo. La maggior parte delle volte fingo di stare a sentire e mi domando cosa cavolo stia dicendo quel’essere umano che mi sta parlando con tanta foga. E comunque che ascolti o non ascolti stare tra la gente per un periodo prolungato mi provoca il mal di testa. È cominciato prestino, verso i sei mesi, e poi si è acuito a due anni e mezzo, quando per la prima volta sono stato internato (mia madre lavorava). Per i miei gusti all’asilo c’erano troppi essere viventi che parlavano tutti assieme, troppi odori, troppe aspirazioni divergenti, troppi ormoni. Non è che mi dispiacesse, ma mi sfiancava, mi provocava appunto dei nefasti mal di testa. Più di una volta sono finito all’ospedale. Del resto nemmeno con un’altra persona singola ho mai imparato a convivere. Mi sono sforzato, ho fatto indubbi progressini, ma non ho mai davvero imparato. Ne sa qualcosa mia moglie. Forse la cosa più grave, viste le mie passioni e il mio stile di vita, è però che non so parlare. Fino circa ai venticinque anni emettevo suoni inarticolati. E nonostante i passi in avanti la mia dizione rimane tuttora molto impastata, al limite dell’incomprensibilità, non mi vengono in mente le parole più comuni, quando sono stanco balbetto. E comunque le mie biascicate asserzioni rifuggono qualsivoglia sottigliezza dialettica: sono tombali colpi di accetta. Immaginiamoci allora lavorare: per la maggior parte degli impieghi bisogna ben tollerare la promiscuità, saper ascoltare, avere cristalline opinioni, e bisogna sapere parlare, saper digerire, saper pisciare da uomo. Tutte cose che non so fare. Beninteso sgobbo lo stesso, altrimenti non potrei appunto mangiare, e anzi paradossalmente per certe cose sono considerato brillante, ma patisco esponenziali emicranie derivate dalla sinergia dei singoli mal di testa (procurati dalle singole inadeguatezze). A causa del ridondante consumo di analgesici sono definibile un drogato. Quel che però è più grave di tutto, era scontato che finissimo qui, non so amare. Nel corso degli ultimi decenni ho fatto molta strada, ma non mi sembra che si potrebbe affermare che padroneggi i rudimenti minimi dell’amore. Certo, a casa mia non si usava, e non sono cose che poi si imparano tanto facilmente in età adulta, ma è assurdo inseguire sempre cause e colpe: devo prendermi le mie responsabilità. Ho imparato a fare come se amassi, a comportarmi come una persona che ama, ma non so se amo davvero, non mi pare. Più che un amatore sono un attore che impersona meglio che può un amatore. Con la mia inettitudine amatoria cerco di fare meno danni possibile, ma qualche volta ci sono feriti, qualche volta ci scappa il morto. Talvolta mi accorgo di amare più un animale che le persone, e ho orrore di me stesso. Secondo mia moglie tutte queste inettitudini sono dovute al fatto che non mi prendo in mano: secondo lei moltissime cose sono come il canto, se mi mettessi, e continuassi per esempio le terapie che comincio, imparerei benissimo a fare tutto. Io non credo che abbia ragione, ma mi fa piacere che abbia fiducia in me. Lei è una di quelle persone che canta e balla e ama con leggiadra baldanza, allargando via via senza pena alcuna lo spettro di azione. Però non è vero che non mi sono mai sforzato: molte cose le ho imparate anzi mettendoci una esagerata applicazione, la fanatica ostinazione e l’inumana perseveranza ereditate da mio padre fascista. Insisti che ti insisti ho appreso a guidare la macchina, anche se dentro di me considero che non so guidare, e nel tempo in cui chiunque altro ne avrebbe imparato dieci, ho assimilato qualche lingua straniera. Nello stesso modo ho anche imparato un po’ a scrivere. Mi sforzo, ma so che i risultati saranno quelli che saranno. So che i ragionamenti astratti mi saranno sempre preclusi, so che non potrò mai leggere un cosiddetto giallo, che non avrò mai opinioni coerenti. So che tutto mi costerà sempre fatica.

(l’immagine:  Sam Doyle)

Premio Ciampi – Valigie Rosse 2012

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Venerdì 26 Ottobre ore 21.00 Teatro La Goldonetta, Livorno
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Premio Valigie Rosse 2012. Il Premio Ciampi – Valigie Rosse 2012 viene assegnato al francese Charles Juliet, personaggio di grande rilievo nel panorama della poesia francese, con la sua antologia Radici della luce, curata e tradotta da Federico Mazzocchi; e l’italiano Giacomo Trinci con la sua plaquette inedita Sul finire. A seguire lo spettacolo teatrale Non si sa dove si va, ma si va di e con Carlo Monni ed Andrea Kaemmerle, con Roberto Cecchetti (violino), Massimo Barsotti (pianoforte). Allestimento, regia e musiche a cura di Maria Cassi e Leonardo Brizzi. Uno spettacolo folle,  allegro e surreale. Il primo pretesto sono le storie dei minatori di Maremma tratte dalla “Vita Agra” di Luciano Bianciardi, meraviglioso testo pieno di sagacia ed ironia, un libro che rappresentà un clamoroso caso editoriale e letterario.

Il senso di una fine

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 di Gianluca Veltri

Julian Barnes, Il senso di una fine, Einaudi, pag. 160, traduzione di Susanna Basso

Il libro vincitore del Booker Prize 2011 Il senso di una fine di Julian Barnes, ha suscitato reazioni di violento entusiasmo e acida avversione. A quanto pare, Barnes o lo adori o lo detesti. L’autore del Pappagallo di Flaubert gioca ai limiti della regolarità (letterariamente parlando, ovvio), perché se da una parte riesce accattivante, per altri versi si rivela sottilmente manipolatorio verso il lettore. Soprattutto perché lo obbliga a seguire la storia attraverso il punto di vista, le percezioni e i ricordi di un narratore a cui tutti rimproverano di «non capire». Questo ci conduce insieme a lui in un cul de sac, nella sostanziale incomprensione degli eventi-chiave, con effetti sorpresa a catena. Depistaggio totale, magistrale e vigliacco, da parte dell’autore.

Tony Webster, protagonista e io narrante, è un sessantenne che ha compiuto una scelta di normalità. Tony è un uomo medio, pallido, mediocre, assai diverso, a osservarlo da giovane, dall’adulto che sarebbe potuto diventare. (Sennonché, risulterà chiaro che la normalità non esiste mai.) Nei due tempi in cui il romanzo è scandito, c’è un prima e un dopo, assai nettamente tagliati in due dalla linea della vita, come un tracciante. Prima è gli anni ’60, la Londra più o meno swingante, scuola, prime relazioni, futuro spalancato davanti, delusioni, incontri. Il delta della gioventù. Dopo è quarant’anni più tardi: le carte sono state giocate, l’esistenza non è finita ma i sogni sì. Tony è divorziato, una moglie rimasta amica, una figlia distratta e lontana. Ormai da decenni si sono divaricate le strade dagli amici e dai compagni di allora. È come se la maggior parte della vita si fosse svolta, concentrata, consumata, in poche stagioni — quelle decisive, piene, luminescenti di una giovinezza inconsapevole. Della compagnia di Tony, Adrian era l’amico più brillante: intelligente, provocatorio, filosofico. Capace di teorizzare persino il suicidio e la sua obiettiva plausibilità. Veronica era stata il primo amore di Tony, una ragazza spigolosa con la quale il protagonista aveva vissuto una relazione complicata. Veronica aveva preferito proprio Adrian — il collega intelligente — al nostro narratore. Tony scrisse ai nuovi amanti una furiosa lettera: peccato che quarant’anni dopo si sia dimenticato della cattiveria di quella lettera. Abbiamo la tentazione di sottovalutare la nostra brutalità, come pachidermi che non avvertono la propria grevità. Oggi, decenni dopo, Tony riceve dalla madre di Veronica, conosciuta illo tempore in uno sconcertante e gelido weekend, un’eredità a dir poco inattesa: 500 sterline e il diario di Adrian, l’amico filosofico, che si suicidò ancora giovane, praticamente subito dopo essere uscito dai radar di Tony. Perché? Perché il suicidio (allora) e perché questo lascito (adesso)? Cosa accadde a quello studente così brillante? E cosa provocò in Adrian quella antica feroce lettera scritta ai due traditori? Tanti tasselli cercano di rimettersi a posto, avvenimenti dell’epoca vengono ripassati al setaccio ossessivamente. Quelle pagine che erano tutte bianche sono state scritte, forse imbrattate, ma intanto non si possono cancellare più. Nella prima parte della vita non ti accorgi che un pomeriggio vale quanto un anno, un fine-settimana quanto un decennio. Passati come un soffio, i giorni dell’incoscienza tornano indietro come quadri in serie, come specchi deformati. Tony ha conosciuto l’epoca di quella pienezza esplosiva, e poi un vasto tempo uniforme senza lampi e senza ricordi, come una spiaggia di sabbia levigata e intatta. Quasi dovesse rassegnarsi a una copia sbiadita della vita, una gara ad accontentarsi. Valutare, per tutto il resto dell’esistenza, le conseguenze di quella stagione, dal momento in cui si è messa in moto «la catena delle responsabilità».

Il colpo di scena finale fa seguito a disvelamenti che mostrano come sia assai discutibile la nostra versione dei fatti, e quanto risulti fallace il monologo con cui ci costruiamo da soli la nostra storia autoassolutoria.

[pubblicato su Mucchio Selvaggio n. 699, ottobre 2012]

 

video arte #12 – omer fast

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Da: Omer Fast, CNN Concateneted, 2002.

Anonymous. La grande truffa. IV

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WarGames

(Termina con questo post la pubblicazione del pamphlet Anonymous. La grande truffa, fortunosamente arrivato nei database di Nazione Indiana. Qui la prima parte. Qui la seconda parteQui la terza parte.)

La legge del caos

 

È un gioco o è la realtà?
Che differenza fa?
Wargames (1983)

WarGamesQuando si entra in una chat sulla rete Anonymous, una stanza aperta a tutti, ci si trova in un ambiente potenzialmente infiltrato da curiosi, troll, giornalisti e agenti di polizia, nel quale in fin dei conti nessuno dice la verità. È probabile che in molte di queste chat vi siano soltanto infiltrati, che passano il tempo a manipolarsi a vicenda. O che registrano in silenzio, dal fondo della sala, ogni parola. Un curioso che volesse discutere con un Anonymous dovrebbe allora armarsi di molta pazienza. Muoversi pazientemente da una stanza all’altra. Legarsi di amicizia con altri utenti. Fornire via via prove più convincenti della propria sincerità. E alla fine, continuerebbe forse a non capire se si trova “dentro” o “fuori”.

Un biglietto nel calice d’argento

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di Antonio Sparzani

«Il Suo etichettare le idee [Vorstellungen] distinguendo quelle di origine spirituale (ideale) da quelle di origine fisica (o fisiologica) e la Sua corrispondente definizione della fisica come scienza delle idee della seconda categoria fa rivivere dentro di me alcuni ricordi giovanili.

Vi è tra i miei libri un astuccio polveroso che custodisce un calice d’argento Jugendstil, che a sua volta contiene un biglietto. Mi pare ora che da questo calice e da questa barbuta epoca si levi uno spirito quieto, benevolo e costantemente gaio. E scorgo come esso Le stringa amichevolmente la mano, come saluti la Sua definizione di fisica come un rallegrante segno di un magari tardivo ma profondo punto di vista; e prosegue aggiungendo quanto adatte siano le Sue etichette al proprio laboratorio ed esprime infine la propria contentezza per il fatto che i giudizi metafisici del tutto in generale (come egli accuratamente diceva) “siano stati relegati al regno delle ombre di un primitivo animismo”.

Il problema del tre per cento – Cosa significa essere un traduttore letterario negli Stati Uniti

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(Silvia Pareschi è una traduttrice, ha tradotto autori come Don DeLillo, Junot Diaz, Nathan Englander, Alice Munro, Cormac McCarthy, Denis Johnson, Jonathan Franzen, vive per metà dell’anno a San Francisco, cura questo blog. E così, in seguito alla pubblicazione del post La traduzione dei libri è un’azione politica, mi è venuto naturale chiederle un commento a riguardo. Prima di rimandarvi alla lettura dell’articolo, vorrei esprimerle qui la mia gratitudine per tutto il lavoro di ricerca svolto.)

La fotografia è di Lucie & Simon

di Silvia Pareschi

Si chiama Three Percent, il blog curato da Chad W. Post e dedicato alla letteratura tradotta negli Usa. Chad W. Post è anche il direttore di Open Letter, la casa editrice della University of Rochester che pubblica esclusivamente opere in traduzione, oltre che l’autore di un libro uscito l’anno scorso negli Stati Uniti con il titolo The Three Percent Problem.

Il “problema del tre per cento” che affligge i traduttori statunitensi consiste nel fatto che solo il tre per cento dei libri pubblicati negli Usa (come anche nel Regno Unito) è tradotto da altre lingue. Se poi restringiamo il campo alle opere di narrativa e poesia, la percentuale scende intorno allo 0,7%.

Confrontando queste percentuali con quelle dei libri tradotti in Italia, la differenza salta agli occhi. Anche se secondo gli ultimi dati dell’AIE le traduzioni sono in calo – nel 1997 il 24,9% dei titoli pubblicati erano traduzioni da una lingua straniera, nel 2009 erano il 20,1%, e oggi sono scesi al 19,7%: questo perché pubblicare libri di autori italiani in genere costa meno – resta comunque il fatto che in Italia circa il 20% dei libri pubblicati sono tradotti da altre lingue.

Ma cosa significa essere un traduttore letterario negli Stati Uniti, e perché in quel paese c’è un così scarso interesse per i libri di autori stranieri? Ho provato a chiederlo ad alcuni traduttori e membri di associazioni di categoria.

Secondo Brent Sverdloff, direttore del Center for the Art of Translation di San Francisco, le cose stanno lentamente migliorando. Innanzitutto il famoso 3% ha ormai quasi raggiunto quota 5%, mentre le nuove generazioni di immigrati, almeno in una città come San Francisco dove il 45% delle famiglie parla una lingua diversa dall’inglese, cominciano a capire che la conoscenza di una seconda lingua è un vantaggio da sfruttare, non un handicap di cui vergognarsi.

Un altro parere positivo è quello di Minna Proctor, scrittrice, traduttrice dall’italiano (premiata per la sua traduzione dei racconti di Federigo Tozzi) e editor in chief di “The Literary Review”. Proctor ritiene che la traduzione letteraria abbia raggiunto un livello assai elevato negli Stati Uniti, grazie all’abbondante offerta di formazione specializzata e all’influenza della piccola editoria indipendente che si concentra sulla pubblicazione di opere tradotte. Un’apertura importante, insomma, per un mercato tradizionalmente chiuso come quello americano, e la sensazione che i confini geografici e artistici del paese stiano finalmente cominciando a espandersi.

Secondo Susan Bernofsky (traduttrice dal tedesco di autori come Walser e Hesse, curatrice del blog Translationista, in cui riporta notizie sul mondo della traduzione negli Usa), invece, il mercato non ha mai favorito i traduttori, e le cose non stanno affatto cambiando. L’industria editoriale parte dal presupposto che i libri tradotti vendano meno di quelli scritti originariamente in inglese. Di conseguenza si investe meno nel marketing dei libri tradotti, generando una spirale negativa che solo di tanto in tanto viene interrotta dalla comparsa di bestseller stranieri, come ad esempio la trilogia di Stieg Larsson e L’eleganza del riccio. Anche Bernofsky, come tutti gli altri traduttori intervistati, cita le piccole case editrici specializzate in letteratura straniera, nate negli ultimi decenni anche grazie a Internet, che ha ridimensionato notevolmente il ruolo della pubblicità su carta stampata. La sopravvivenza di queste case editrici (tra cui Archipelago Books, Ugly Duckling Presse, Melville House), che pubblicano libri con tirature di poche migliaia di copie, è resa possibile anche dai finanziamenti delle istituzioni culturali dei paesi d’origine (soprattutto quelli dell’Europa occidentale).

Anne Milano Appel, che traduce dall’italiano (autori come Primo Levi, Claudio Magris, Giovanni Arpino, Goliarda Sapienza) ricorda che non solo i lavori di traduzione dall’italiano all’inglese sono sempre scarsi, ma anche che le sue tariffe non sono aumentate da quando ha cominciato a fare questo mestiere, molti anni fa; anzi, a volte gli editori vorrebbero pagare anche meno (in questo non ci sono molte differenze tra la situazione dei traduttori americani e di quelli italiani). Molti editori, continua Appel, sono riluttanti a mettere il nome del traduttore in copertina: questo non tanto per ignoranza o negligenza (come capita in Italia quando il nome del traduttore non viene citato nelle recensioni), ma piuttosto perché gli editori tentano di nascondere il fatto che si tratta di un libro tradotto, convinti che il lettore medio non sia in grado di apprezzare le traduzioni e quindi sia restio ad acquistarle.

Questo parere viene confermato da Alison Anderson (che traduce dal francese autori come il premio Nobel J. M. G. Le Clézio, Amélie Nothomb e la già citata Muriel Barbery di L’eleganza del riccio), la quale, pur sostenendo che negli ultimi vent’anni la situazione sia migliorata, forse grazie al proliferare di piccole case editrici, siti internet e blog e dedicati alla letteratura tradotta, ritiene che ci sia ancora molta strada da percorrere per ottenere un degno riconoscimento degli autori stranieri sul mercato anglo-americano. Il problema nasce soprattutto dall’atteggiamento dei media e delle grandi case editrici, che considerano “difficili” le opere tradotte: il New York Times, per esempio, è noto per pubblicare pochissime recensioni di libri tradotti, e lo stesso si può dire per i programmi culturali della National Public Radio. Uno dei motivi della scarsa attenzione del pubblico americano per le opere tradotte risiederebbe, sempre secondo Anderson, nella percezione della traduzione come un’attività fondamentalmente accademica, svolta nel tempo libero da professori universitari e non da professionisti che traducono per mestiere. Questa immagine elitaria, spesso confermata dalle scelte di traduzione di case editrici come Dalkey Archive Press e Open Letter, che preferiscono opere sperimentali a romanzi di più larga diffusione, non ha certo contribuito ad avvicinare il grande pubblico dei lettori americani alla letteratura straniera. Anche Anderson cita il sostegno delle istituzioni come elemento fondamentale per la diffusione dei libri tradotti, e fa l’esempio della Francia, spiegando che quasi ogni libro tradotto dal francese può usufruire di un finanziamento da parte del Centre national du livre, o di un programma come French Voices, che finanzia testi non ancora acquistati da un editore americano. Questo sostegno, secondo Anderson, avrebbe incoraggiato almeno i piccoli editori ad assumersi il rischio di pubblicare testi tradotti (anche se questo forse potrebbe significare che il già piccolo mercato statunitense dei libri tradotti risulti addirittura “gonfiato” rispetto alle reali dimensioni che avrebbe senza le sovvenzioni).

A proposito di sostegno istituzionale, lo scorso luglio il National Endowment for the Arts ha annunciato i vincitori della Translation Fellowship per il 2013. I sedici traduttori premiati hanno ricevuto una sovvenzione di $12.500 ciascuno per un progetto di traduzione (Lynne Lawner, traduttrice dall’italiano, per la traduzione delle poesie di Giorgio Orelli). L’ammontare complessivo della Fellowship, che si aggira intorno ai $200.000, è significativamente calato rispetto ai circa $300.000 del 2010, ma rimane una cifra del tutto rispettabile. L’altro grant a cui i traduttori possono accedere è il PEN Translation Fund: creato da un donatore anonimo (di cui è appena stata rivelata l’identità: si trattava di Michael Henry Heim, morto lo scorso settembre, traduttore e professore di lingue slave alla UCLA) nel 2003 per sostenere un traduttore esordiente, questo grant consiste di una cifra di circa $3.000 assegnata ogni anno a ciascuno dei circa dieci vincitori.

Così, se da un lato i traduttori statunitensi devono fare i conti con un mercato molto ridotto a causa di un presunto scarso interesse dei lettori, dall’altro godono di un discreto sostegno istituzionale, potendo usufruire di finanziamenti provenienti non solo dai paesi d’origine della letteratura tradotta ma anche da istituzioni pubbliche e private statunitensi interessate a promuovere la traduzione di libri stranieri in inglese. Anche in Italia esistono programmi di sostegno questo tipo, come i premi e contributi per la traduzione offerti dal Ministero per gli Affari Esteri, e il concorso bandito dal Centro per il libro e la lettura per finanziare la traduzione in inglese di opere di narrativa, saggistica e letteratura per ragazzi (questi contributi, però, che l’anno scorso hanno raggiunto un ammontare complessivo di 25.000 euro – “ferme restando le attuali disponibilità di bilancio” – vengono erogati agli editori e non ai traduttori). Quando però ho chiesto a Anne Appel se avesse mai ricevuto una sovvenzione per la traduzione dal governo italiano, mi ha riferito quello che le ha detto di recente un’editrice americana: “Noi siamo sempre in cerca di libri da pubblicare, eppure sentiamo parlare piuttosto raramente di quelli italiani, perché gli organismi che sostengono e promuovono la letteratura tedesca e francese, per esempio, non esistono per quella italiana. Molti editori non ci mandano neppure i loro cataloghi.” Non a caso, fa notare Appel, Best European Fiction, la serie pubblicata da Dalkey Archive Press e curata da Aleksandar Hemon, ha smesso di inserire autori italiani perché l’Italia si rifiuta di contribuire al progetto.

Tirando le somme si può dire che, per quanto vivere di sola traduzione letteraria in Italia sia quasi impossibile, negli Stati Uniti lo è ancora di più, perché i finanziamenti, per quanto generosi, non possono supplire alla mancanza di un mercato. La speranza, per i traduttori americani, è che il loro 3% venga sempre più incrementato grazie a quelle case editrici che hanno scelto di costruire un catalogo con il 100% di libri tradotti. La speranza per i traduttori italiani, invece, è che la nostra quota del 20% non continui a diminuire.

A Mal di libri

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MAL DI LIBRI on the road: La prima festa in strada dedicata alla lucida follia di
inventare, scrivere, leggere e pubblicare storie.

Sabato 20 e domenica 21 ottobre 2012
Roma, Isola pedonale del Pigneto e dintorni. Dall’aperitivo a mezzanotte. Mal di Libri: non un festival, ma una vera e propria festa nata dall’idea dell’Associazione Fortebraccio, formata da giovani lavoratori dell’editoria romana e non, una festa in strada completamente dedicata alla mania di inventare, raccontare, scrivere e leggere storie. Mal di Libri nasce dall’idea che la crisi non è che un punto di partenza per re-inventare l’aggregazione, proprio riunendo la gente intorno alle storie, da sempre collante e incentivo alla conoscenza e allo scambio, facendo perno sul lavoro prezioso di editori indipendenti e di riviste, blog e associazioni. In accordo con il progetto “Riprendiamoci la notte” dell’Assessorato alla Famiglia, all’Educazione e ai Giovani di Roma Capitale, Mal di Libri quest’anno invade l’isola pedonale del Pigneto, quartiere romano dell’effervescenza artistica, delle idee, ma anche dell’immigrazione e del fermento sociale.

Mal di Libri ha deciso di creare un vero e proprio percorso per locali (mappato su flyer e in rete), così da fare di un aperitivo o di un sabato sera un’occasione sì per evadere, ma portandosi a casa qualcosa di diverso oltre agli eventuali postumi di una bevuta: un libro, una storia, una nuova amicizia, un ricordo, attraverso laboratori, reading, piccoli concerti, incontri con autori e psicologi.
Insieme ai locali e agli editori uniti per due giorni in un’inedita partnership, sarà protagonista della festa dedicata alle storie la Biblioteca Goffredo Mameli situata nel cuore dell’Isola Pedonale, che aprirà questa seconda edizione di Mal di Libri sabato 20 ottobre alle 17 con Ascanio Celestini che, proprio nella biblioteca intitolata a chi ha dato voce e musica al Risorgimento, presenterà Pro Patria (Einaudi), il nuovo romanzo che racconta l’Italia di oggi attraverso le lettere dei protagonisti della Repubblica Romana rilette e riportate alla vita da un detenuto. Per proseguire con le storie dal Senegal del griot e suonatore di kora Madya Diop accompagnato da Silvia Balossi. E conoscere da vicino autori come Christian Raimo (che si esibirà in una jam session a voce e musica), Giorgio Vasta, Luca Telese, Vincenzo Sparagna, Carlo Sperduti, Stefano Sgambati, e molti altri. Sarà tra l’altro l’occasione per celebrare insieme i settant’anni di due musicisti americani che hanno scelto Roma come casa, con il concerto di Mike Cooper e Jack Wright, e proseguire in bellezza con il Balkan Beat di Mondo Cane, nella festa di sabato sera dedicata a tutti gli amanti dei libri.

Ma Mal di Libri non è solo ascolto, ma anche “istigazione a creare”: sabato 20 ottobre due occasioni uniche per proporre i propri scritti nel cassetto a editor professionisti, in maniera totalmente gratuita: “La posta dell’editor”, per sottoporre racconti brevi o incipit di romanzi ai due scrittori Francesco Pacifico e Michele Vaccari, con la consulenza (sempre gratuita) dell’Agenzia Vicolo Cannery e de L’Erudita, neonata casa editrice gestita da tre under trenta, e il Premio Carlo Sperduti, il primo premio dedicato a uno scrittore vivente e ignoto, il cui tema è l’ossessione per qualcosa o qualcuno. In entrambi i casi, i migliori racconti saranno letti in pubblico alla presenza di editori e addetti ai lavori e vinceranno un premio in libri.

Hanno già aderito all’iniziativa: Donzelli, Indiana, La Nuova Frontiera, Totem Libri, Del Vecchio editore, Bel Ami, Aliberti, Voland, Tunuè, L’orma editore, Giulio Perrone editore, Red Star, NDA Press, Agenzia Vicolo Cannery, Agenzia Totem Libri, Il Nuovo Male e molti altri.
Mal di Libri nasce da un’idea del Circolo Fortebraccio, un’associazione che nel 2010 decide di dare vita a forme insolite e il più possibile originali per promuovere la lettura come un vero e proprio mezzo di aggregazione. Nel 2011 nasce così l’idea di una festa di idee e di contenuti più che di nomi, che coinvolga una rete di addetti ai lavori accomunati dall’inesauribile passione per il narrare, convinti che un libro possa accompagnare egregiamente e in maniera divertente un buon bicchiere di vino o un mojito. Alla sua seconda edizione, Mal di Libri si propone di nuovo come un diversivo alla rassegnazione da crisi che ci porta a perdere la fantasia e a bruciare il nostro tempo in evasioni spesso pericolosamente senza idee. Mentre la fantasia, da sempre, è la linfa delle idee. E con le idee non c’è crisi che tenga.
Qui i programmi di sabato e domenica Per ulteriori informazioni: maldilibri@gmail.com

Mal di Libri:
Da un’idea del Circolo Fortebraccio e di Chiara Di Domenico. Con il sostegno di Assessorato alla Famiglia, all’Educazione e ai Giovani di Roma Capitale, Regione Lazio e Dipartimento della Gioventù presso il Consiglio dei Ministri.
Con il patrocinio gratuito di Biblioteche di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali e al Centro Storico di Roma Capitale, Municipio VI e Università di Roma Tor Vergata – Corso di Laurea Magistrale in Scienze dell’Informazione, della Comunicazione e dell’Editoria.
Con la Media Partnership del quotidiano Pubblico e UndeRadio, la web radio di Save the Children interamente gestita dai ragazzi delle scuole medie di Roma.
In collaborazione con Les Flaneurs, Colla (una rivista in crisi), Sette per Uno, Tropico del Libro, Legambiente e Book Cycle

Ufficio stampa Mal di Libri: Chiara Di Domenico, maldilibri@gmail.com e 3389350282.

Libra, la figlia che verrà

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Libra (Bilancia) è il cortometraggio su donne, lavoro e maternità della regista spagnola Carlota Coronado.

Per una critica comparata dei dispositivi culturali

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di Andrea Inglese

La questione del “lavoro culturale”, che si è rifatta centrale da almeno un anno a questa parte grazie ai diversi movimenti attivi a livello nazionale per una riappropriazione della cultura (Teatro Valle, TQ, ecc.), appare assai diversa se guardata non più dall’Italia ma dalla Francia. Uno spostamento di visuale ci sembra necessario, tanto più che il termine “cultura” non solo risuona come vuota tautologia nei ritornelli pubblicitari delle industrie culturali, ma spesso anche nei programmi nati dall’esigenza politica di contestare e trasformare istituzioni o monopoli esistenti. Inoltre, in Italia, dopo il ventennio berlusconiano, il “ritorno alla cultura” pare incontrare un nuovo consenso: bisogna salvarla, difenderla, produrne e farne circolare di più. Questi gli imperativi largamente condivisi.

Violenza e nuova violenza in Sudafrica

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di Corrado Benigni 

A un criminale non importa più se sei bianco o nero (e i criminali frutto della miseria, ora che non c’è più un regime di polizia, sono ovunque), ma quanto è gonfio il tuo portafoglio. Questa è la nuova faccia della criminalità in Sudafrica, uno dei Paesi più violenti al mondo, soprattutto in questi anni che la “lotta” è finita, che il regime segregazionista è crollato.