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Te la faccio vedere nera

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Una nota
di
Igiaba Scego

Ok vivo in un paese assurdo! Me ne devo fare una ragione…ma a volte è proprio difficile capire tutto quello che ci sta succedendo (di negativo) intorno. Leggete qui di seguito l’articolo del Manifesto sulla contestazione di Torino al ministro Fornero. Beh ad un certo punto c’è scritto (e il manifesto cita fedelmente le parole del ministro che sono a dir poco sconcertanti): “Poi parla anche di violenza sulle donne, che è il tema del convegno, dicendo che è stata in Sudafrica, che ha letto un libro sulla violenza, e che è riuscita anche a capirsi con donne molto lontane da lei, donne di un altro continente, donne “nere” che la violenza la conoscono“.
Io sono una donna nera e da donna nera dico: la violenza la conoscono purtroppo tutte…e di tutti i colori. Non è una cosa specifica delle donne nere. In italia le donne vengono uccise, massacrate, seviziate tutti i giorni. Ci sono donne migranti e figlie di migranti tra le vittime della violenza, ma la maggioranza delle vittime è costituita da donne bianche, italiane da generazioni. Quindi dicendo quello che ha detto la sig.a Fornero fa torto a tutte: Nere, bianche, gialle, azzurre, rosse, a pois. Che tristezza infinita ragazze, che tristezza immensa.

Qui l’articolo del Manifesto

Troppa informazione – Un saggio sull’opera di David Foster Wallace

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(Poco più di quattro anni fa veniva a mancare lo scrittore David Foster Wallace. Gli animatori dell’Archivio David Foster Wallace Italia hanno pensato bene di rendergli omaggio traducendo il saggio che J.J. Sullivan ha scritto e pubblicato nel maggio 2011 su GQ USA. Ringraziando Andrea Firrincieli e Roberto Natalini sia per la traduzione sia per la generosità, lo ripubblichiamo qui.)

Tommaso Pincio “Ritratto di David Foster Wallace”, 2011, olio su tavola, cm. 65 x 60

Quando David Foster Wallace, scrittore simbolo della sua generazione, si è tolto la vita nel 2008, ha lasciato dietro di sé un romanzo incompiuto, Il Re Pallido, che potrà servire alternativamente a completare il corpus trascendente delle sue opere oppure a porre un inquietante punto interrogativo sulla fine della sua carriera. John Jeremiah Sullivan si immerge nel nuovo libro e considera quello che ci ha lasciato.

di John Jeremiah Sullivan

Una delle poche bugie che riusciamo a rintracciare nei libri di David Foster Wallace si trova nel pezzo su Michael Joyce, oscuro prodigio del tennis degli anni ‘90, incluso nella sua prima raccolta di saggi, Una cosa divertente che non farò mai più. A parte alcune pagine dei suoi romanzi, è la cosa migliore che Wallace abbia scritto sul tennis – migliore persino del pezzo giustamente lodato, ma spropositatamente famoso, su Roger Federer [1] – proprio perché Joyce era un operaio del tennis, uno sconosciuto, per Wallace era come una tela bianca. Wallace non aveva praticamente nulla su cui lavorare per quel pezzo [2]: un tortuoso accesso ai gironi di qualificazione di un torneo canadese, qualche ora passata a guardare attraverso la rete metallica un soggetto che era allo stesso tempo troppo gentile per essere divertente e non particolarmente articolato. Di fronte a quello che per molti scrittori sarebbe stata una disastrosa mancanza di materiale, Wallace scatenò tutti i suoi stupefacenti poteri d’osservazione sul tennis nel suo complesso, pescando in parte dalla sua personale conoscenza del gioco, ma soprattutto grazie alla sua genuina abilità di considerare una situazione, facendola ruotare mentalmente tra le sue dita come un gioiello di dubbia integrità. Scrive: “Tutti hanno l’aspetto infelice e introverso di persone che passano enormi quantità di tempo sugli aerei e ad aspettare con le mani in mano nelle hall degli alberghi, l’aria di persone che devono crearsi intorno un guscio di privacy usando soltanto la loro espressione.” Ascolta il “pang autorevole” delle corde della racchetta tese per il torneo e osserva i raccattapalle “riconfigurarsi in maniera complessa”. Passa il tempo nei campi dove i giocatori fanno pratica e si riscaldano, i loro corpi “si muovono con la compatta disinvoltura che ho imparato a riconoscere nei professionisti quando si allenano: danno l’idea di un motore potentissimo tenuto a bassi giri.”

La bugia arriva all’inizio del pezzo, quando Wallace sottolinea l’ironia potenziale di ciò che si prepara a fare, e cioè scrivere di persone di cui non abbiamo mai sentito parlare, che sono culturalmente marginali, ma comunque tra i migliori al mondo in un dato campo. Wallace dice: “Vi invito ora a immaginare cosa si proverebbe a essere fra i cento migliori al mondo in qualcosa. Qualunque cosa. Io ho provato a immaginarmelo; è difficile”. Quello che è strano è che questo pezzo è scritto nel 1996 – quando Wallace aveva già  completato il suo secondo romanzo che avrebbe influito sull’intero genere narrativo, Infinite Jest, così come i racconti, alcuni già considerati dei classici, della raccolta La Ragazza dai capelli strani. È difficile credere che non sapesse di essere tra i cento migliori in qualcosa, e precisamente nello scrivere narrativa, e che c’erano già persone serie e competenti disposte ad includerlo in una cerchia ancora più ristretta. Forse dobbiamo supporre che, essendo umano, qualche volta ne fosse consapevole e qualche volta avesse paura che non fosse vero. Ad ogni modo, questa falsa modestia – chiederci di accettare l’idea che lui non pensasse mai di essere così bravo e abbia proposto l’esperimento in maniera ingenua – non può che sembrarci strana. E forse era una cosa voluta. Non ci sono molte cose che accadono per caso negli affari di Wallace; il suo tratto profondamente ossessivo non lo permetteva. È possibile che ci sia qualcosa di stratificato in questo modo di usare lo sport come metafora per la scrittura – più strati di quanto già non ce ne si aspetti? È di per sé curioso che Wallace scelga un giocatore, tra i tanti, che si chiama Joyce, la cui irlandesità “etnica” Wallace enfatizza abbondantemente, alludendo quindi a un artista la cui propria fissazione sulla maestria tecnica lo aveva reso una sorta di mostruoso, splendente ma poco salutare, problema umano della letteratura. Di sicuro Wallace faceva dei giochi testuali a quel livello.

Ecco una cosa difficile da immaginare: essere uno scrittore così creativo che, quando muori, il linguaggio ne rimane impoverito. Questo è ciò che ha compiuto il suicidio di Wallace, due anni e mezzo fa. Non è stata solo una cosa triste, è stato un colpo durissimo.

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È difficile fare il classico paragrafetto biografico su Wallace per lettori che, in questo scenario mediatico soprassaturo, non sapessero chi è stato o perché fosse importante, perché ti torna continuamente in mente il suo racconto La morte non è la fine, in cui faceva la parodia del modo in cui si scrivono i paragrafi biografici sugli scrittori, con la lista delle loro onorificenze e quant’altro, lista che diventa sempre più inesplicabilmente ridicola quando si elencano i nomi dei premi vinti, e capisci come Wallace stia scavando dentro la solita stupidità auto-incensante del mondo letterario americano: “una Lannan Foundation Fellowship, […] un Mildred and Harold Strauss Living Award dell’American Academy e dell’Institute of Arts and Letters… un poeta che due diverse generazioni hanno acclamato come la voce della propria generazione.” Lo stesso Wallace aveva ottenuto molti dei premi di quella lista, come il ‘Genius Grant’ della prestigiona Fondazione MacArthur. Tre romanzi, tre raccolte di racconti, due libri di saggi, la cattedra Roy E. Disney di scrittura creativa al Pomona College.

Quando dicono che Wallace era uno scrittore generazionale, che “parlava per una generazione”, c’è un modo in cui questo è quasi scientificamente vero. Tutto quello che sappiamo su come la letteratura viene prodotta suggerisce che c’è un legame tra il talento individuale e la società che lo produce, l’organismo sociale. Le culture generano geni come un alveare trova una nuova ape regina quando la vecchia muore, ed è facile ora vedere Wallace come uno di questi geni. Ho il ricordo, abbastanza netto da sapere che non è solo il senno di poi, di averne sentito parlare e poi di aver letto per la prima volta Infinite Jest quando avevo 20 anni, e la sensazione immediata: eccolo. Uno di noi sta provando a fare questo. Il “questo” stava per tutto questo, ossia il provare a catturare la sensazione di vivere in una superpotenza frammentata alla fine del ventesimo secolo. È arrivato qualcuno con un intelletto potenzialmente abbastanza forte per rispecchiare questo spettacolo e con una serietà morale abbastanza profonda da voler essere in prima linea. Non si può dire che nessuno dei suoi contemporanei – anche quelli che in quanto ad abilità potevano competere con lui – abbia rischiato un fallimento così grande quanto Wallace.

Gente che non ha mai letto una parola di quello che ha scritto riconosce il suo stile, i cosiddetti vezzi, un mucchio di giochi tipografici presi dal romanzo comico del diciottesimo secolo e ricontestualizzati: le note e le parentetiche scettiche, proposizioni che compulsivamente tornano sui loro passi, ammettendo la loro stessa debolezza. È vero anche che corrispondevano alle idiosincrasie del suo modo di parlare e pensare. (E lo sappiamo bene ora che tutti quei video su YouTube delle sue letture e interviste ci sono diventati familiari – anche un po’ stranamente: per qualcuno che chiaramente si contorceva come un insetto in trappola se posto sotto attenta osservazione, Wallace si sottometteva e si assoggettava a molte di queste situazioni. Aveva molte più foto pubblicitarie di altri sui colleghi. Non si può dire che non fosse una persona combattuta.)

Il punto è che il suo stile ha fatto molto di più che limitarsi a riflettere la sua forma mentis; era una espressione di una sensibilità insolitamente coerente. Wallace era un implacabile revisore e avrebbe potuto semplificare tutti quei paragrafi sintatticamente barocchi. Ma non credeva che il mondo funzionasse in quel modo. La verità, o la ricerca della verità, non gli sembrava fatta così. Era auto-critica – o meglio, un’auto-interrogazione – alla ricerca dei propri diversivi. Da questo punto di vista, è interessante notare che il New Yorker, che ha pubblicato alcuni dei suoi migliori pezzi di narrativa, non abbia mai pubblicato i suoi saggi. Non è un disonore per Wallace o per il New Yorker, è solo un fatto tecnicamente interessante: non avrebbe saputo cambiare la sua voce per adattarsi allo stile tipico della testata. Lo “stile sobrio” si basa sul cancellare la propria presenza come scrittore e invocare una sorta di invisibile autorità narrativa, con l’idea che la personalità e la mente dell’autore sono manifeste in ogni riga, senza il cattivo gusto di dire al lettore quello che sta succedendo. Ma l’incessante strategia del parlare in prima persona di Wallace non deriva dal narcisismo, assolutamente no – era invece un segno di testardaggine filosofica. (Suo padre, filosofo di professione, aveva studiato con l’ultimo assistente di Wittgenstein; lo stesso Wallace da studente aveva offerto un effettivo contributo intervenendo nel dibattito sul libero arbitrio – di recente pubblicato come Fate, Time and Language). Il suo punto di vista sullo stile sobrio era che il suo scopo, alla fin fine, fosse solo quello di vendere qualcosa al lettore. Non in senso volgare, ma in quello retorico. La caratteristica moderazione della rivista, per quanto possa piacere, è una sorta di cuneo fascista che cerca di farti dimenticare i suoi problemi, le mezze verità, le decisioni arbitrarie, e di farti digerire un inesistente sigillo di autorevolezza. Wallace non avrebbe mai potuto escludere se stesso o i suoi articoli dall’insieme delle cose soggette ad un esame scrupoloso.

L’unica volta che l’ho incontrato, ad un rinfresco prima di una lettura, riuscii solo a biascicare qualche frase convenzionale del tipo “ammiro il suo lavoro” etc. Ma l’impressione visiva mi ha segnato fortemente, perché in quella atmosfera da cocktail party (Tom Wolfe era a tre metri da noi, nel suo vestito bianco), Wallace sembrava la persona più fisicamente a disagio che abbia mai visto. Se vi è mai capitato, ad un certo momento nella vostra vita, di essere intrappolato in una stanza di una casa di montagna con un animale selvaggio, un procione o una lince, ecco a cosa somigliava Wallace, pietrificato in quel modo. Aveva un sorriso sul viso come se stesse aspettando che qualcuno gli stesse per dare un pugno. Allo stesso tempo era educato e faceva spallucce quando ti parlava. Tutti erano vestiti elegantemente tranne Wallace, che portava una sorta di camicia da contadino russo ed era nella fase “ho i capelli lunghi come una signora, ma anche la barba”. Gli dava un’aria da barbone, uno che aveva visto una tavola piena di cibo e avesse deciso di unirsi alla festa. Tuttavia quando salì sul palco alla fine, insieme a George Plimpton e Seymour Hersh tra gli altri, non solo fece la sua parte, ma riuscì anche ad incantare il pubblico e più di una volta dovette interrompersi per far calmare le risate, pronunciando quelle vocali così rotondamente nasali.

Il suo stile era regionale in molti sensi – ad esempio nella scrupolosità dell’uso della lingua. Solo nel Midwest perdono tempo nella grammatica in una chiacchierata tra amici; da nessun’altra parte, quando chiedi “Posso avere un the freddo?” ti rispondono “Non saprei… puoi?” E Wallace si considerava in qualche modo uno scrittore regionale – altrimenti non avrebbe permesso a Marion Ettlinger, la fotografa per eccellenza degli scrittori arci-famosi, di scattare quella foto di lui con il trench che sorride in maniera ironica accanto ad un campo di grano ondeggiante. Come disse nel saggio che lesse quella sera, sapeva di provenire da un paesaggio “la cui vuotezza è al tempo stesso fisica e spirituale.” Il vero “massimalismo” del suo stile, che i detrattori trovavano auto-indulgente, sembrava suggerire un ambiente con molto spazio da riempire. In uno dei suoi primi saggi – sul giocare a tennis nella zona dei tornado – mitizza il suo rapporto con le pianure:

Amavo la precisa relazione delle linee rette più di ogni altro ragazzino con cui sia cresciuto. Penso che sia perché loro erano nativi del luogo, mentre io mi ci ero trasferito quando ero piccolissimo da Ithaca, che era dove mio padre aveva ottenuto il Dottorato. Perciò, quello che avevo conosciuto, seppure nella maniera orizzontale e semiconsapevole di quando si è bambini, era qualcosa di diverso: le alte colline e i tortuosi sensi unici dell’interno dello stato di New York. Sono abbastanza sicuro che conservai quella poltiglia amorfa di curve e dossi in controluce laggiù in qualche anfratto lucertolesco del mio cervello, perché i […] bambini con cui giocavo e facevo la lotta, ragazzini che non conoscevano e non avevano conosciuto niente di diverso, non vedevano nulla di assoluto o nuovi-mondesco nella disposizione planare dell’area cittadina […]

Nuovi-mondesco: era come se Wallace diventasse informale quando abbandonava il rigore e traeva delle conclusioni che non erano propriamente difendibili – un modo per averti dalla sua parte.

Probabilmente si tratta dell’unico scrittore notoriamente “difficile” che non abbia quasi mai scritto una pagina che non fosse piacevole, o almeno interessante, da leggere. Ma era il tema della solitudine, un tipo particolare di solitudine postmoderna, satura di informazioni, che, più di tutto, attirava folle ai suoi reading che per dimensione e livello di eccitazione erano più simili a ciò che si può vedere ai concerti di una nuova band in un negozietto di dischi. Molti dei lettori di Wallace (cosa che ora è facile da vedere visto che ognuno di loro ha scritto un messaggio di apprezzamento da qualche parte su internet) credevano che stesse parlando a loro nei suoi testi – che fosse una delle poche persone al mondo che potesse aiutarli a navigare in una nuova spiritualità selvaggia, in cui ogni possibile sorgente di consolazione è stata annullata. E Wallace stava parlando a loro; la sua innata consapevolezza gli impediva di sottrarsi interamente al suo ruolo di saggio. In questo senso possiamo capire le sue frequenti affermazioni, stranamente alla Pollyanna, sul presunto potere della narrativa contro il solipsismo, e cioè che solo nella letteratura sappiamo con certezza di avere “una profonda conversazione piena di significato con un’altra coscienza.”

Wallace sapeva che questo era un luogo comune. (Come dimostra il fatto che venne ripresa come una cosa da dire su di lui, negli articoli scritti dopo la sua morte.) La narrativa può solo sostituire il caos di un testo al caos di un discorso. Sostituisce gli specchi della stanza con altri specchi. Non voleva essere soltanto una cavolata, però; in più gli dava qualcosa da dire nelle interviste. Nei suoi libri, un’idea così leggera non sarebbe mai sopravvissuta alle tempeste fulminanti della sua analisi panottica. È proprio come in Caro vecchio neon, la storia di un ragazzo dell’elite dorata che si uccide, ricordata dal suo compagno di classe, David Wallace, che è “pienamente cosciente che il cliché secondo cui non si può mai veramente sapere quello che avviene nella testa di qualcun altro è vecchio e insulso, ma al tempo stesso cercava molto coscientemente di impedire a quella consapevolezza di farsi gioco di quel tentativo o di spedire tutta quella linea di pensiero in quella spirale ripiegata su se stessa che non ti permette di andare da nessuna parte.”

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Si sente che in qualche modo Wallace non riusciva a risparmiarsi nessuna di queste spirali tortuose. Anche se tendeva a tenerlo per sé quando era in vita – sappiamo che aveva sofferto di depressione clinica e disturbi d’ansia da quando era adolescente e che aveva combattuto coraggiosamente per tutto quel tempo contro la chimica del suo cervello. Con la sua morte abbiamo perso uno scrittore che ha tenuto la scena della letteratura americana in uno stato di flusso energizzante, perché lui si metteva sempre in gioco e, tecnicamente parlando, si era dimostrato capace di quasi qualsiasi cosa. L’ultima raccolta di racconti pubblicata da lui in vita, Oblio, non a torto è considerato il suo libro più cupo e meno divertente, ma contiene storie che mostravano una nuova maestria e concisione, compreso il capolavoro in un paragrafo di Incarnazioni dei bambini bruciati. La nozione che Wallace non avesse altri capolavori dentro di sé sembrava insensata, come la predizione un cambiamento nelle leggi della natura.

Ci aiuta sapere tutto ciò, o sapere ad ogni modo che c’è un popolo di persone che prova la stessa cosa, se vogliamo capire il frastuono che si è creato intorno a Il Re Pallido, il romanzo che Wallace ha lasciato incompiuto, e che ora è stato pubblicato da Little, Brown. Voci di un romanzo incompiuto avevano incominciato a girare subito dopo la sua morte, e possiamo anche dire che negli ultimi anni i lettori fedeli erano rimasti aggrappati a questa promessa di un nuovo libro, quasi come un modo per difendersi dalla realtà e dalla violenza di quello che era accaduto. Un po’ del dolore collettivo per l’uomo si era sublimato nell’eccitazione per il nuovo libro. Mi sono sorpreso anche io, mentre finivo la mia copia per la recensione, di sentirmi mancare il fiato al pensiero – a lungo rimandato – che non ci sarebbero stati più nuovi libri di Wallace. Di sicuro ci offriranno ancora un bel mezzo scaffale di volumi: le sue lettere, la roba non raccolta in precedenza, “il meglio di”, la raccolta delle opere. Ci può stare.

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Il Re Pallido è diverso. Questo libro ce lo ha lasciato – le persone più vicine a lui sono d’accordo nel dire che voleva che lo vedessimo. Non si tratta quindi, in altre parole, del classico caso di Gran Romanzo Postumo, in cui dei professori vanno a stanare un manoscritto che l’autore probabilmente non voleva che leggessimo. Sembra che Wallace abbia lasciato questo libro dicendo qualcosa del tipo “fatene ciò che volete”. A quanto pare uno dei suoi ultimi gesti in vita è stato di ordinare le pagine già pronte da leggere e metterle in un posto dove la moglie, l’artista Karen Green, le avrebbe trovate. Dai suoi appunti si è risaliti a dei capitoli parziali, che il suo editor storico Michael Pietsch ha messo insieme creando una specie di bozza di romanzo come doveva apparire nella testa di Wallace – più rifinito in alcune parti, meno in altre. Pensate ad un murale finito a metà. Il Re Pallido (titolo che potrebbe riferirsi ad un’espressione popolare del diciannovesimo secolo, “il re pallido dei terrori” ad indicare la paura malinconica della morte) tratta la storia di un gruppo di persone che lavora in un palazzo dell’Agenzia delle Entrate nell’Illinois. Alcuni dei personaggi si relazionano tra loro in diversi modi, mai banalmente consequenziali. Due di loro si chiamano David Wallace. E questa è la trama. Non va mai avanti [3]. Non inizia praticamente mai.

Non c’è da vergognarsi se vi viene il sospetto che un libro su un gruppo di persone a caso che lavorano per il governo possa sembrare una cosa insopportabilmente noiosa. La ragione per cui non lo è però ha che fare con la parola su – non è il termine esatto, né la giusta preposizione. Wallace non scrive sui suoi personaggi; non lo ha fatto per quasi mai. Lui ci scrive dentro. Le cose che riesce a fare su un campo da tennis o in una crociera, o a una convention sulla pornografia, lo hanno reso una fonte di ispirazione e allo stesso tempo di invidia folle per il genere di persone che, come me, ha imparato a fare ”scrittura per riviste” alla sua ombra (era il genere di scrittore che anche quando non cercavi di copiare il suo stile ti faceva pensare a come non stavi cercando di copiarlo) – a Wallace piaceva fare così, nei romanzi, con le vite interiori dei suoi personaggi.

Immaginate di entrare in un posto, diciamo un’immensa copisteria di un grande magazzino. È mattina presto e siete il primo cliente. Vi fermate sotto le luci accese fosforescenti e lasciate che le porte si chiudano scivolando alle vostre spalle, osservate i commessi nella loro divisa con la camicia blu, le bocche aperte, che girano per il negozio ancora assonnati. Prendeteli come un’immagine unificata, con una vaga superficie impenetrabile di noia e insoddisfazione di cui siete contenti di non far parte, e partite per il vostro obiettivo, fare delle fotocopie o quello che sia. Ecco il momento in cui Wallace preme il pulsante di Pausa, quel breve istante in cui voi accendete la disattenzione, e vi concentrate in voi stessi. Lui porta indietro quel momento, e preme Play di nuovo. Adesso è diverso. Vi trovate in una stanza con un gruppo di esseri umani. Ognuno di loro è come voi, è stato ferito ed è guarito in modo strano. Ognuno di loro, anche il più superficiale, ha un romanzo dentro sé. Ognuno di loro è amato da Dio, o merita di esserlo. Hanno tutti qualcosa a che fare con te: quando lasci che la membrana della consapevolezza diventi porosa, l’osmosi è possibile, sapete che è vero, abbiamo tutti a che fare l’uno con l’altro, siamo parte di una narrazione – ma quale? Wallace vuole assolutamente scoprirlo. E capiva che il mondo moderno ci bombardava con scenari come quello della copisteria, in cui è molto facile scordarsi di questa domanda. Ci sentiamo “soli nella folla”, scrive in uno dei suoi racconti, ma non “ci fermiamo a pensare a cosa abbia dato vita a quella folla,” con il risultato che “siamo, sempre, volti in mezzo a una folla”.

Ecco cosa adoro in Wallace, questi dettagli osservati così bene, microdescrizioni di stati d’animo di intere ramificazioni del super-sistema sociale, frasi che mi fanno sentire come: “Se non lo capisci vuol dire che vivi in un altro mondo”. Era la cosa più simile ad un angelo custode che abbiamo mai avuto. Ci sono paragrafi in Infinite Jest in cui riesce ad intrappolare certe cose, qualità sfuggenti di nostri “momenti”, cose che non siamo sicuri che gli altri sentano, ma abbiamo il sospetto che forse sia così. Leggere quei passaggi è come guardare lo svilupparsi dell’inconscio collettivo su una lastra a raggi-X:

Con il braccio fuori dal finestrino come un tassista, Gately sfreccia nel territorio della Boston University. Nel territorio degli zainetti personalizzati e delle tute sportive firmate. Ragazzini senza barba con gli zaini e i capelli ritti e duri sulla testa e fronti spianate. Fronti completamente prive di rughe e di pensieri, come la crema di formaggio o le lenzuola stirate. […] Gately ha le rughe sulla fronte da quando aveva dodici anni. […] Sembra che le ragazze della Boston University non abbiano mangiato che prodotti caseari in tutta la loro vita. Queste ragazze fanno l’aerobica step. Hanno capelli lunghi puliti e spazzolati e belli. Non hanno nessun tipo di dipendenza. La strana sensazione di disperazione nel cuore del desiderio.

Il Re Pallido ha molto in comune con Infinite Jest, che pure si occupa di un gruppo di persone, unificate in maniera circostanziale – in questo caso i residenti di una casa di recupero per tossicodipendenti, o gli studenti di una accademia di tennis – si immerge nelle loro vite, creando alla fine una sorta di ruota di storie interconnesse tra loro. Ma Il Re Pallido non ricorda esattamente Infinite Jest, non ce lo fa tornare in mente, diciamo. Leggendolo si sente quanto Wallace era cambiato come scrittore, si era compresso ed era sprofondato dentro di sé. Ci sono diversi personaggi, e alcuni che possono essere definiti come personaggi principali. Come Claude Sylvanshine. Un veggente dei dati. Sa cose sulla gente, ma queste conoscenza si manifesta come piccole esplosioni di informazioni disconnesse, che non riesce a fermare. (Wallace presta parti di se a diversi personaggi, e talvolta i loro tratti si confondono). Troviamo Lane Dean Jr., che è stato un cattolico fervente ai tempi delle superiori. E Meredith Rand, la bella dell’ufficio – il resoconto passo-dopo-passo di cosa succede in una tavolata di uomini e donne (in questo caso in un bar dove i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate si ritrovano dopo il lavoro) quando arriva una persona estremamente attraente è allo stesso tempo doloroso e dotato di humor nero, un esempio di quello che cercavo di descrivere come il suo potere di osservazione, e di come doveva essere scoraggiante il trovarsi chiuso nella testa di Wallace, non nel senso della malattia, ma della sua chiarezza:

Basti dire che Meredith Rand mette i […] maschi in imbarazzo. O si innervosiscono piombando in un silenzio impacciato, come se partecipassero a un gioco in cui la posta è diventata improvvisamente altissima, oppure si scioglie loro la lingua e vogliono dominare la conversazione e si mettono a raccontare un mucchio di barzellette, e in generale sembrano volutamente privi di imbarazzo, mentre prima che Meredith Rand arrivasse, prendesse una sedia e si unisse a loro, volontà e imbarazzo erano totalmente estranei al gruppo. Le liquidatrici, da parte loro, reagiscono a questi cambiamenti in una varietà di modi: alcune si ritraggono rimpicciolendo visibilmente (come Enid Welch e Rachel Robbie Towne), altre osservano l’effetto che Meredith produce sugli uomini con una specie di cupo divertimento, altre ancora sprizzano antipatia e diventano inclini a sospiri ostili se non addirittura a fughe plateali. […] Alcuni liquidatori, al secondo bicchiere, danno spettacolo per Meredith Rand, anche se il succo dello spettacolo sta in una complessa ostentazione del fatto che non stanno dando spettacolo per Meredith Rand, anzi, non si sono quasi nemmeno accorti che è a quel tavolo. Bob McKenzie, in particolare, per poco non dà i numeri, rivolge quasi ogni commento o battuta alla persona che sta a destra o a sinistra di Meredith Rand […]

Immaginate di essere capaci di queste dissezioni, con quella risoluzione dei dettagli – come primati, se preferite – e, il che è peggio, non essere capaci di smettere. Bisognerebbe avere delle enormi quantità di empatia per riuscire a fare in modo che il mondo non si trasformi in un continuo assalto dai grotteschi toni swiftiani. Wallace non provava a rifuggirne – lo coltivava, come la sua arte richiedeva. C’è da ricordare i rischi psichici dello scrivere ai livelli che lui cercava. Come tutte le persone perbene, sono tra quelli che vogliono resistere alle tentazioni di definire il suo suicidio un gesto romantico, ma resta la sensazione che gli artisti siano esposti ai torrenti del tempo in un modo che non può che causare danni, e non c’è nulla di sbagliato nel definirlo come nobile, se fatto al servizio di qualcosa di bello. Wallace ha pagato per aver viaggiato così in profondità in se stesso, per non aver mai distolto gli occhi fino a quando era necessario per scrivere passaggi come quelli che abbiamo citato, per aver trovato gli altri interessanti tanto da dedicargli l’attenzione che serve per riuscire a scrivere scene come quelle. Ecco la ragione per cui la maggior parte di noi non riesce a scrivere un grande romanzo e neanche uno decente. Bisogna lasciare entrare una gran quantità di consapevolezza altrui nella nostra. È un male per il proprio equilibrio.

La scelta di Wallace dell’Agenzia delle Entrate come ambientazione ha senso se consideriamo che stava cercando di fare qualcosa di teologico con questo romanzo, e il ”servizio”, come lo chiamano gli impiegati, offre delle opportune sfumature gesuitiche. Usa l’Agenzia delle Entrate come Borges usava la biblioteca e Kafka i palazzi della legge: come un’analogia del mondo. Insinua un legame tra lo spostamento sotterraneo della politica dell’Agenzia delle Entrate che si trasforma da un’agenzia che ha il compito di raccogliere le tasse (cioè mettere in atto la legge) ad un ente che cerca di massimizzare il profitto, o come Wallace spiega in una nota a margine lasciata sul manoscritto, “Il vero problema è se l’Agenzia delle Entrate debba essenzialmente essere un’entità aziendale o morale”. Attraverso sottili ammiccamenti (tirando in ballo oscure cause civili), Wallace collega la nozione che l’Agenzia delle Entrate stia diventando un’azienda, all’idea, introdotta nella vita americana alla fine del diciannovesimo secolo, che agli occhi della legge, una grande azienda sia la stessa cosa che un individuo, con gli stessi diritti. Wallace non è arrivato a completare tutta l’opera, ma ci basta per capire che una versione completa de Il re pallido avrebbe operato in una logica simbolica in cui, se Agenzia delle Entrate=grande azienda, e grande azienda=individuo, allora Agenzia delle Entrate=individuo. L’agenzia sarebbe diventata una metafora per tutta l’anima politica americana.

Il romanzo ripete certe mosse, zoomando nell’infanzia o gioventù di certi personaggi, che incontriamo da adulti in altre parti del libro, nell’orbita dell’ufficio dell’Agenzia delle Entrate. La complessità dei personaggi si sviluppa in giustapposizione con questi scorci delle loro versioni giovanili. Wallace sta cercando di farci capire che siamo tutti complicati, che quando le persone ci sembrano stupide e sciocche, siamo noi che non stiamo facendo abbastanza attenzione, è la nostra innata testarda tendenza a vedere le altre persone come personaggi minori o maggiori nella nostra storia.

È facile farlo sembrare un libro pesante, ma invece spesso è divertente, e non sempre in maniera educata. Incontriamo il super ottimista Leonard Stecyk, con un “sorriso così largo da apparire quasi doloroso”, una versione di qualcuno che ognuno di noi conosce o forse anche è in qualche misura. Da bambino era così altruista che tutti quelli che incontrava non potevano che odiarlo. ’Un’insegnante nella cui aula il bambino propone un progetto di riorganizzazione per i ganci appendiabiti e gli armadietti delle scarpe che tappezzano una parete […] finisce col brandire le forbici smussate minacciando di uccidere prima il bambino e poi se stessa.” (Non vi rovinerò una bella scena dicendovi cosa l’insegnante di tecnica alle superiori pensa di lui.)

Tristemente, è attraverso questo aspetto del libro – il salto avanti e indietro tra il passato recente (all’Agenzia delle Entrate) e il passato più lontano (gli anni formativi dei personaggi) – che arriviamo a capire cosa l’editore intenda per romanzo ”incompiuto”. Lo schema non funziona. Anzi è quasi assente. Wallace ha faticato per comporre i temi di queste vite in maniera sinfonica, ma non c’è riuscito o, per dirla tutta, non c’è nemmeno arrivato vicino.

Eppure anche in questo stato frammentario, Il re pallido contiene quello che di sicuro è la migliore narrativa di quest’anno. È arduo descrivere la perfezione di alcuni di questi pezzi, tra cui il capitolo (pubblicato sul New Yorker) in cui Lane Dean Jr. cerca di capire se ama o meno la sua fidanzata del college, Sheri, che aspetta un figlio da lui. Se le dice che la ama, lei lo terrà, e passeranno il resto della vita assieme (come poi succede). Nessuno dei due ha però la minima idea di cosa sia l’amore o come interpretare l’uso di questa parola da parte dell’altro: si stanno basando su di una cattiva traduzione. Ma quello che diranno in questo momento determinerà le loro vite. Wallace tratta questa scena d’amore adolescenziale con enorme serietà e fedeltà alla consapevolezza emotiva, tanto da darle una grandezza degna di Madame Bovary. Piccoli dettagli descrittivi che gli sono congeniali sono disseminati ovunque – ad esempio che le figure nel foglio laminato con le istruzioni di sicurezza dell’aereo hanno “braccia incrociate in maniera funeraria”, o che dal finestrino dell’aereo il traffico sembra scorrere “con un pathos futile e senza senso di cui non ci si accorge da terra”. Questi non sono passaggi vistosi. Sono solo descrizioni stranamente precise delle cose che facciamo o vediamo. Entriamo dentro e riconosciamo l’ambiente degli uffici moderni: “La scrivania praticamente un’astrazione. Il sussurro di una climatizzazione priva di fonte”. Gli amici che si sono lasciati nelle cittadine vengono immaginati “vendersi assicurazioni tra di loro, bere liquori del supermercato, guardare la televisione, aspettare la formalità del primo infarto.” Michael Pietsch, l’editor del libro, mi ha indicato un capitolo surreale sul finale, dove Lane Dean Jr., ormai adulto e impiegato dell’Agenzia delle Entrate, ha una conversazione con uno degli spiriti di agenti morti che girano per gli uffici. Pietsch definisce questo passaggio “pienamente fiorente”, e “densamente intricato e fitto come niente di quello che aveva scritto prima”. Un tour de force in miniatura, nemmeno venti pagine, tutto dialoghi, che ricorda in alcune parti il capitolo “Nighttown” dell’Ulisse. Quando ho chiesto a Pietsch come si immaginava che Il re pallido sarebbe stato completato, mi ha risposto “Un libro in cui anche altri capitoli sarebbero stato così ricchi e fitti come questo”, ossia un libro che ci mancherà in maniera fervida.

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Le pagine più interessanti ne Il Re Pallido – che dominano in modo interessante il romanzo – hanno a che fare con l’infanzia della giovane Toni Ware, un personaggio che appare raramente nelle parti del romanzo sull’Agenzia delle Entrate. Resta nella periferia; Wallace non era ancora arrivato a lei. Ma i capitoli sui suoi ricordi di come era cresciuta in uno spettrale parco per roulotte, con una madre malata di mente che portava a casa una serie di fidanzati molesti, sono dei pezzi di prosa formidabili. In più, non somigliano a niente di ciò che Wallace aveva scritto prima. Non trovando parole migliori, potremmo dire che sono privi di coscienza di sé. Wallace si lascia scrivere nel modo in cui i grandi scrittori fanno, nel momento in cui le storie non hanno tempo per i tuoi stessi sofismi interiori. Se è vero, come è stato detto, che Wallace non riusciva con Il Re Pallido a trovare un altro livello per andare oltre Infinite Jest, forse lo trova almeno in questo pagine.

Viaggiarono ancora una volta di notte. Sotto una luna che sorgeva rotonda davanti a loro. Quello che veniva definito il sedile posteriore del furgone era una stretta mensola sulla quale la ragazzina poteva dormire se metteva le gambe nel vuoto dietro i veri sedili posteriori i cui poggiatesta possedevano il lucore opaco dei capelli sporchi. Il disordine e la puzza di lievito indicavano che in quel furgone qualcuno ci abitava o ci aveva abitato; il furgone e il suo uomo avevano lo stesso odore. La ragazzina con la maglietta di cotone e i jeans sbiaditi alle ginocchia. La concezione che la madre aveva dei maschi era che li usava come una fattucchiera gli animali, quale segno e oggetto dei suoi poteri soprannaturali. La parola che usava per loro, a cui la ragazzina non obiettava, era: “familiari”. Mori con le basette che succhiavano fiammiferi di legno e schiacciavano lattine con le mani. Di cui le falde dei cappelli avevano righe di sudore come anelli degli alberi. I cui occhi ti strisciavano addosso nello specchietto retrovisore. Uomini che era inconcepibile fossero mai stati a loro volta bambini o avessero guardato nudi dal basso in alto qualcuno di cui si fidavano, con un giocattolo. Ai quali la madre parlava come fossero dei poppanti facendosi trattare come una bambola senza testa: bistrattare.

A volte, anche nel mezzo della bellezza o del terrore, c’è un’ondata di parodia o di pastiche nelle sezioni con Toni Ware. Wallace sembra prendere in giro il peggior Cormac McCarthy, l’incorreggibile McCarthy che, quando vuole scrivere “funghi velenosi” scrive “funghi con strombature dentellate e membranose sotto cui i rospi pare facciano la siesta.” Wallace fa ricordare a Toni Ware i ragazzi che “portavano grossi cappelli spiegazzati e lacci di cuoio al collo e certi sfoggiavano turchesi sulla persona, e uno l’aveva aiutata a svuotare il serbatoio sanitario della roulotte pretendendo poi in cambio un rapporto orale.” Questa strana incertezza di tono è accresciuta quando il passato atroce di Toni ricorre successivamente nel libro, ma questa volta con il tono di un altro personaggio, che inizia con “La mamma di Toni era un po’ fuori di testa…blah, blah”, come se la storia di ognuno di noi non fosse che una questione di tecnica. Tuttavia questo passaggio a prima vista frivolo, successivamente scivola di nuovo nello stesso stile in terza persona, e ci riporta alla pagina più memorabile del libro, la scena della morte della mamma di Toni. Come se Wallace non riuscisse a resistere a questa nuova voce. Forse possiamo concludere che la sua era una ricerca di qualcosa di più soddisfacentemente convenzionale, di più adulto, nel suo lavoro, e che questi capitoli siano solo lampi entusiasmanti di un nuovo Wallace, tragicamente mai nato…

° ° ° ° °

Aspettate un attimo – stiamo parlando di David Foster Wallace. Le cose non possono essere così semplici, e tanto meno così melense. Ovviamente subito dopo l’ultima frase del capitolo su Toni Ware, come per punirci per il fatto che ci sia piaciuto più del resto del libro, Wallace fa una cosa che può essere descritta come un vero e proprio schiaffo sul torace. Dopo averci servito una dose di virtù vecchio stampo, pagine e pagine di scrittura di tipo classico, entra nel capitolo più arci-meta, più fitto di note, ammiccante e consapevole di esserlo, intelligente che la metà bastava, ubriacante con trucchetti da post-modernismo che abbia mai scritto. È qualcosa di perverso, come se Wallace ci ascoltasse, nella sua testa, scrivere la stessa lettera che lui ha scritto a Eggers per L’opera struggente di un formidabile genio e che Eggers ha messo nel retro di copertina come citazione e che dicevano, in parte, “Ho ammirato i molti inebrianti pezzi comici post-moderni,” ma “le parti in cui ti sei lasciato andare e hai costruito dei madrigali dolorosi […] sono le parti più artistiche del libro.” Riesce a sentire che gli diciamo qualcosa del genere, subito dopo che il pezzo su Toni Ware ci ha distrutto, e lui ci risponde, molto enfaticamente, “Scusami ma questo problema del testo è proprio parte di quello che sto cercando di dire. Senza di questo starei suonando musica da camera.”

Saranno i critici del futuro a dibattere sui meriti estetici di questa decisione. Wallace di certe non era per niente tranquillo su questo punto. Spesso mentre leggevo Il Re Pallido mi sono tornati in mente dei pensieri riferiti al saggio che ha scritto su Dostoevskij:

[Questa nuova] biografia ci spinge a domandarci come mai sembriamo richiedere alla nostra arte di tenere una distanza ironica da profonde convinzioni o domande disperate, costringendo cosí gli scrittori contemporanei a ridicolizzarle o a cercare di farle passare camuffandole con qualche trucco formale come citazioni intertestuali o giustapposizioni incongrue, relegando le cose veramente pressanti fra asterischi, come parte di qualche artificio polivalente di defamiliarizzazione o qualche altra cagata del genere. La povertà tematica della nostra letteratura si spiega ovviamente in parte con il nostro secolo e la nostra situazione.

È quasi come se stesse descrivendo Il Re Pallido. Come se avesse dentro la testa un critico ostile che odia il suo lavoro. Tutti gli scrittori hanno queste voci, ma in Wallace erano praticamente personalità aggiunte. Nel capitolo-trabocchetto ci viene detto che il romanzo che stiamo leggendo è in realtà un “libro di memorie in prima persona”, la vera storia di un uomo che si chiama David Foster Wallace. E c’è anche un altro personaggio nel libro che si chiama David F. Wallace. Come anche uno che si chiama David Cusck, che condivide tante cose, biograficamente, con il vero David Foster Wallace.

Non si tratta semplicemente di trucchi da giocoliere. E non è nemmeno una questione di cosa intendesse veramente Wallace, visto che non sappiamo cosa intendeva. Michael Pietsch ha fatto un lavoro egregio come editore – da lettori gli dobbiamo molto – ma non c’era molto da editare. Sarebbe disonesto dire altrimenti. La prosa non arriva mai a possedere quello che Poe chiamava “unità di impressione” nel modo in cui Infinite Jest, nonostante la struttura a matassa, ci riusciva, o ci riusciva a tratti. In più c’è la questione della pubblicazione postuma. Ti priva di quella sensazione di piacere, che si ha mentre si legge, di essere in dialogo con le decisioni dell’autore, dando i propri giudizi e allo stesso tempo provando l’eccitazione di esserne testimone, che è parte dell’emozione creata dai libri. Qui non sai quali sono queste decisioni. Ogni parola che leggi e che non ti piace pensi “Beh, l’avrebbe cambiata.” Mentre tutto quello che funziona, quello diventa il vero Wallace. Ma anche le scelte principali, come cosa usare come finale del romanzo, sono state fatte, per necessità, non da Wallace, ma da Pietsch. “Non c’era un sommario o una sequenza dei capitoli”, mi ha detto, “e nemmeno un’indicazione di cosa doveva essere il capitolo iniziale e finale.” A questo punto la questione se questo sia o meno “un romanzo di Wallace” rimane irrisolvibile.

Se volessimo un altro finale, potremmo dire una cosa: Il Re Pallido, per come lo conosciamo, è vero rispetto a Wallace almeno per un aspetto importante. Era egli stesso incompiuto e irrisolto. C’è una bella poesia di Stevie Smith che si chiama “Era sposato?” in cui sostiene che gli uomini siano più eroici degli dei. Le difficoltà degli uomini sono più grandi, dice, “perché sono così contrastati.”. Wallace era così contrastato. Era ambivalente e in conflitto, tra le altre cose, con i diversi modi di scrivere il suo romanzo. Non era sicuro di quale preferiva, o come potessero andare bene insieme. E cosa sarebbe successo se quello a cui dava più valore non sarebbe stato quello che gli veniva più congeniale?

Mettere da parte queste contraddizioni avrebbe significato abbandonare la fonte della sua forza. Queste contraddizioni lo hanno salvato dal suo moralismo. Era uno scrittore che, in lotta per sollevarsi dal rumore del suo tempo, restava disperatamente parte di esso, sensibile alle sue voci anche mentre cercava di controllarle. La sua realtà, come scrisse una volta, era stata “MTVizzata”. Ecco perché, meglio di tutti, sembra parlare dall’interno di un tornado. (Un simbolo che lo ha inseguito in tutta la sua opera, e che ricompare ne Il Re Pallido). Ed è questa qualità, di essere diviso all’interno, che rischia di essere appiattita e cancellata via dalla sua storia dall’idolatria post-mortem, che lo vuole un distributore di saggezza. Dobbiamo proteggerci da questo. Perderemmo il Wallace più essenziale, quello che ammicca di continuo, riconsidera, spera di non aver detto quello che ha appena detto. Quelli erano i momenti in cui la sua voce era più autenticamente parte del nostro tempo, e sono la ragione per cui la gente un giorno sarà capace di leggerlo e sentire cosa significava essere vivi oggi.

L’opera di Wallace sarà considerata un grande fallimento, e non nel senso peggiorativo, ma nel senso speciale che usava Faulkner quando diceva dei romanzieri americani “Giudico la nostra opera sulla base del nostro splendido fallimento nel fare l’impossibile”. Wallace ha fallito in maniera stupenda. Non c’è nessun mistero sul perché gli venisse così difficile finire questo romanzo. Gli scorci che vediamo di quello che voleva che fosse – un vasto modello di qualcosa di piatto e schiacciante, dentro cui una costellazione di anime individuali avrebbe splenduto nella sua luminosità, e le connessioni che ci tengono tutti insieme in questo mondo si sarebbero anche loro accese, come filamenti – questo avrebbe dovuto essere un romanzo di un livello straordinario, e crediamo che lo scrittore nel pieno delle sue forze sarebbe stato abbastanza forte per riuscirci. Ma non sempre ha avuto la forza necessaria.

 

John Jeremiah Sullivan collabora da molto tempo con la rivista GQ, e recentemente anche con The New York Times Magazine e The Paris Review. È stato premiato due volte con il National Magazine Award. È autore di due libri, Blood Horses (FSG, 2004) e la raccolta di saggi Pulphead (FSG, 2011).


[1] Questa nota a piè di pagina non è soltanto un tributo, ma un annesso reale e difendibile a questo pezzo: avrei dovuto scrivere io il pezzo su Federer per Play, la rivista sportiva pubblicata per troppi pochi anni dal New York Times. Come Wallace, avevo giocato a tennis a scuola e continuavo a seguire questo sport. Era stato facile rispondere quando Play mi chiamò per dirmi che avevano accesso a Federer a Wimbledon. Tuttavia GQ non mi permise di farlo. A quanto pare avevo firmato qualcosa che il mio agente descrisse come un “contratto,” che mi impediva di scrivere per altre testate. In più, per correttezza nei confronti di GQ, da qualche mese non rendevo molto, avevo mandato all’aria un paio di pezzi e non potevo certo mettermi a discutere. Alla fine della discussione con quello che sarebbe stato il mio editor, e dopo avergli detto che non se ne faceva nulla, fui io a suggerirgli di contattare Wallace, che per me era come dire “perché non chiami la Casa Bianca?” L’editor si trovò molto in imbarazzo. Disse “Beh, a dire il vero abbiamo chiamato prima lui. E non poteva farlo”. In ogni modo, Wallace doveva aver cambiato idea. Diversi mesi dopo, c’era il suo saggio sul mio tavolo di cucina. Leggendolo provai sentimenti complessi. Ad un certo livello era gratificante vedere che aveva usato una chiave di lettura che anch’io avevo vagamente pensato di trattare, e cioè che la grandezza di Federer si trovava nel modo in cui sviluppava il suo gioco elegante a tutto campo dall’interno della spietata velocità e brutalità del gioco di potenza dalla linea di fondo. Ma Wallace lo aveva spiegato con un’accuratezza e una naturalezza che sapevo di non poter raggiungere o nemmeno considerare come possibile. In questa umiliazione c’era una certa strana intimità. Riuscii a sentire, per un breve e confuso istante, esattamente come il cervello di Wallace avrebbe trattato un soggetto che io avevo avuto nel mio, come nel vuoto, prima di sapere che lo avrebbe trattato lui. Ad ogni modo, questo è il mio contributo all’opera di Wallace, il suo ultimo pezzo per una rivista. Non voglio far sentire in colpa il lettore che starà pensando che il mondo delle lettere abbia solo guadagnato da questa sostituzione. Sto solo dicendo che è stato un piacere.

[2] Spesso Wallace preferiva queste situazioni. Ricordiamoci che si fece invitare sul set di un film di David Lynch rassicurando lo staff che non aveva nessuna voglia di intervistare il regista. All’inizio del 2008, GQ gli chiese di scrivere sui discorsi di Obama, o più in generale, sulla retorica politica in America. Ancora una volta era un’idea evanescente che gli veniva presentata, ma Wallace vide delle potenzialità, e noi cominciammo a chiedere informazioni allo staff di Obama che organizzava la campagna, e facemmo anche qualche prenotazione per lui perché andasse a Denver durante la convention. La nostra idea era di piazzarlo il più vicino possibile a coloro che scrivevano i discorsi (e quindi il più vicino possibile ad Obama stesso). Ma Wallace rispose, molto educatamente, che non era questo che lo interessava. Avrebbe voluto essere messo assieme con qualcuna delle “api operaie” del team che preparava i discorsi – per scoprire come il linguaggio fosse usato da, come la definì, “la nona persona in panchina”. E forse era per una questione di carattere che Wallace si trovava meglio a fare il reporter stando lontano dalle luci della ribalta.

[3] In verità qualcosa cambia. Ci sono momenti da paura, e ci sono sdoppiamenti. Appaiono dei fantasmi. Uno dei personaggi si scopre essere un veggente. Una nota alla fine del libro suggerisce che un team di agenti-X, in qualche modo, tutti dotati di qualità inusuali, si stia venendo a formare sotto la guida di un piccolo gruppo di supervisori. La storia è ambientata in un mondo in cui Bush, e non Reagan, è stato eletto nel 1980 (Reagan era il suo vice). Ma queste intrusioni di misticismo non creano problemi nella trama realistica del romanzo.

Pillole di filosofia carvalhiana

5

A quarant’anni dalla pubblicazione di Yo maté a Kennedy, primo giallo della serie Carvalho di Manuel Vázquez Montalbán

di Alberto Giorgio Cassani

 «La polizia garantisce l’ordine. Io mi limito a scoprire il disordine»

Quintetto di Buenos Aires, 1999

Tutti i lettori di romanzi gialli, ma non solo quelli, sanno che José Carvalho Lario, meglio conosciuto come Pepe Carvalho, è il detective più famoso di Spagna. Questa la sua biografia in breve, tratteggiata magistralmente, in pochi tratti, da lui stesso: «La verità è questa. Ho un’anima marginale. La mia fidanzata era una puttana da telefono, una squillo. Il mio consulente tecnico, cameriere, cuoco e segretario, era un ladruncolo di macchine che si chiama Biscuter. Il mio confidente spirituale e gastronomico è un vicino di casa, Fuster che è anche il mio amministratore. Amministratore di quel poco che mi può amministrare. Mi piacciono le famiglie impossibili. Detesto quelle possibili. […] Detesto le famiglie possibili vive. Le famiglie morte, quelle le adoro» [Quintetto di Buenos Aires].

Meno noto è il fatto che Pepe è anche un non trascurabile filosofo. Un filosofo, però, non nel senso ironico-dispregiativo con cui lo stesso Carvalho apostrofa Carles Besté de Linyola – uno degli antagonisti de Il centravanti verrà assassinato verso sera – bensì un filosofo all’antica, un filosofo “delle origini”. Di quale corrente filosofica? Sicuramente di una setta cinico-scettica del XX secolo, come risulta evidente anche dal ritratto che si fa di lui nel romanzo Il premio: un uomo «tra il severo congenito e il disincantato storico» (anche se, bisogna dirlo, in Quintetto di Buenos Aires, Pepe si definisce un “marxista” della corrente «gastronomica»). Ma ciò che lo rende un filosofo a tutti gli effetti sono senz’altro le sue “sentenze”; infatti, la forma letteraria preferita da Carvalho è quella utilizzata dai suoi colleghi più antichi: la brevitas dei dicta.

Ecco alcuni dei tanti esempi che si potrebbero fare, suddivisi per grandi temi filosofico-antropologici. Sulle cose “più serie”: «Il sesso e la gastronomia sono le cose più serie che esistano» (Tatuaggio); su cui, anche: «Avrebbe barattato l’opera completa di Rembrandt per un bel culo di donna o un piatto di spaghetti alla carbonara» (Tatuaggio); e, infine: «Bisogna sempre desiderare le donne ed i piatti altrui» [Assassinio al Comitato Centrale]; nonché, in sequenza, a postilla, sul cibo: «Si beve per ricordare, si mangia per dimenticare» [Quintetto di Buenos Aires]; «In realtà nessun essere umano indifferente al cibo è degno di fiducia» (Tatuaggio); «Non si può mangiare con prudenza. Non si deve mangiare con prudenza. Se non si può mangiare non si mangia e basta» [Il premio]; «Per me non c’è poetica al di fuori di quella del palato» [Il premio]; «O penso o mangio» [Assassinio al Comitato Centrale]; «Mi sento sicuro solo al ristorante» [Quintetto di Buenos Aires]; sulla vita: «È il ciclo della vita. Le colombe mangiano vermi, noi mangiamo le colombe e i vermi mangiano noi» [Quintetto di Buenos Aires]; sulla vita terrena: «Non c’è nulla su questa terra che non sia drammatico in prima istanza e tragico in ultima. Il riso è sempre il camuffamento di un teschio […]» [Pablo e Virginia, in Storie di fantasmi]; sul mondo: «Tutto il mondo è una stazione termale, con limitate e onorate eccezioni, come il Libano o El Salvador» [La rosa di Alessandria] o anche: «Tutto il mondo è Disneyland o Disneyland è ormai tutto il mondo» [La rosa di Alessandria]; su uomini e donne: Un uomo guarda una donna e la donna dice sì o no. E alla rovescia. Tutto il resto è cultura» [Tatuaggio]; sull’amore: «Chi non teme di perdere quello che non ama?» [Quintetto di Buenos Aires]; sulle parole: «Le parole hanno un padrone» [Per una malafemmina, in Il fratellino] e: «Le parole dette non bisogna bruciarle. Si bruciano da sole» [Il centravanti verrà assassinato verso sera]; sui libri, veri luoghi comuni della riflessione filosofica carvalhiana: «i libri non hanno ossa, né muscoli, né cervello, né fegato, né cuore, sono un prodotto da imbalsamatore, veri morti stecchiti» [La rosa di Alessandria] e: «[i libri] non mi hanno insegnato né a vivere né a invecchiare. Come non mi salveranno né dalla decadenza né dalla morte» [Puzzles 1, in Il fratellino]; sugli intellettuali: «Gli intellettuali sono più svergognati delle svergognate e soprattutto godono di maggiore impunità» [Il collezionista, in Il fratellino]; sui critici: «I critici sono ancora più parassiti degli stessi scrittori. A un lavoro improduttivo aggiungono una riflessione improduttiva» [Pablo e Virginia, in Storie di fantasmi]; sulle conferenze: «gli esseri umani si dividono in due grandi categorie: quelli che danno conferenze e quelli che le subiscono» [Il centravanti verrà assassinato verso sera]; sulla storia: «La Storia la vincono soltanto quelli che detengono il potere, qualunque sia» [Il fratellino]; sulla politica: «La politica è sicura solo quando smette di essere politica e si trasforma in boxe» [Quintetto di Buenos Aires]; sui popoli: «Un popolo che non beve il suo vino e non mangia i suoi formaggi ha un grave problema di identità» [La nave fantasma, in Storie di fantasmi]; su vincitori e vinti: «Alcuni nascono per fare la storia e altri per subirla. Alcuni danno, altri prendono» [Tatuaggio] e: «I vincitori opprimono la memoria dei vinti, e quando i vinti riescono a recuperarla, la memoria non è più quel che era» [Quintetto di Buenos Aires]; sulle dittature: «Il franchismo cominciò a crollare il giorno in cui Franco si mise a dire: “…Non che io…”. Un dittatore non può mai iniziare un discorso con una negazione che lo riguardi» [I mari del Sud]; sulla “coscienza di classe”: «materia dello spirito tanto delicata da volatilizzarsi come i gas più leggeri» [Come eravamo, in Il fratellino]; sui ricordi: «I miei ricordi non mi sopravviveranno» [Il labirinto greco]; sul futuro: «Il solo ad anticipare gli eventi è l’assassino» [La rosa di Alessandria]; sul vedere: «Dalla mia casa di Vallvidrera mi trattengo a volte a guardare le stelle. Se le vedo bene vuol dire che sono sobrio, se le vedo male sono ubriaco» [Quintetto di Buenos Aires]; sul “silenzio pitagorico”: «Non dissero una sola parola, il che non era prova di intelligenza, in quei due ceffi tanto accigliati e massicci. Erano la chiara conferma che quando uno non parla è perché non ha niente da dire» [Il fratellino]; sulla povertà: «È preferibile la povertà sordida a quella mediocre» [I mari del Sud]; sull’arte: «Finché ci saranno puttane giovani, ci sarà arte contemporanea» [Il centravanti verrà assassinato verso sera]; sui poliziotti: «Un poliziotto non è una faccia. È uno stato dello spirito» [Quintetto di Buenos Aires]; sui detective: «La polizia garantisce l’ordine. Io mi limito a scoprire il disordine» [Quintetto di Buenos Aires]; sulla città: «Tutte le città contaminano il passato e l’avvenire» [Quintetto di Buenos Aires] e: «le città nuove promettono l’avventura» [Assassinio al Comitato Centrale].

Impossibile trovare un filo conduttore in queste “pillole” di filosofia carvalhiana. Del resto l’autore stesso non vorrebbe che vi perdessimo un secondo del nostro tempo. Carvalho reagisce al mondo che lo circonda in una maniera ironico-cinica che nasconde, però, il suo carattere sentimentale. Proprio quel sentimento che, raramente, riesce a rompere la scorza da duro che Pepe ha voluto indossare e che si traduce, a volte, in pianti liberatori. Carvalho, come detective, scopre l’inutilità delle indagini: alla fine delle sue inchieste, il mondo non recupera mai l’armonia infranta dal delitto. Al contrario: quasi sempre gli assassinati non trovano giustizia e i mandanti, i veri colpevoli, rimangono impuniti. Il mondo, dopo la risoluzione del caso, non celebra l’ordine ricostituito e il motto «giustizia è fatta» non risuona nell’aria tersa di Barcellona. Il mondo non ritorna migliore, anzi, conferma ancora di più la sua spietata sordidezza. La soddisfazione, tutta intellettuale, per la scoperta dell’intreccio e del movente, si stempera e scompare completamente nell’amaro che rimane in bocca per l’inutile sforzo di Sisifo del detective. Il cinismo di Carvalho è il cinismo del tempo in cui egli si trova a vivere. In cui ci troviamo tutti a vivere. Una disillusione che scompare solo di fronte ad alcune bottiglie di Chablis o di Pardas Aspriu bianco e ad un piatto di escudella i carn d’olla (minestra e bollito catalani) o di botifarra amb mongetes (salsiccia con fagioli bianchi).

Le indagini di Carvalho, però, sono spesso anche un pretesto per descrivere i cambiamenti subiti dalla sua città, Barcellona. «Le città si accettano perché sono un rifugio, come le patrie o i ricordi», sentenzia Pepe in Assassinio al Comitato Centrale. Ma la Barcellona “città dell’infanzia” e “paesaggio della sua memoria” è inesorabilmente mutata davanti ai suoi occhi a causa delle speculazioni olimpiche e post-olimpiche. Una volta avviato, il volano della “distruzione ricostruttiva” non si ferma più (salvo che per le periodiche e sempre più ravvicinate crisi del sistema capitalistico). Barcellona, grazie ad uno scientifico processo di “pastorizzazione”, ha eliminato tutti i germi che la caratterizzavano come città portuale mediterranea, per diventare una vetrina olimpica al servizio del turismo di massa, nonché un «campionario architettonico di valore universale», come profetizzato da Montalbán in Il centravanti verrà assassinato verso sera. Non c’è architetto contemporaneo che non abbia lasciato il suo segno – positivo o negativo resta da vedere – a Barcellona. Perché, oltre all’intreccio della trama, propria del genere, i romanzi “gialli” di Carvalho sono molto di più: appartengono al tentativo di «trasformare il romanzo in mezzo di conoscenza sociale o psicologica, alla maniera di Sánchez Bolín o di Patricia Highsmith, per esempio», per usare in positivo le parole messe in bocca da Montalbán a due giallisti comprimari de Il premio.

Le sentenze carvalhiane, naturalmente, non possono nulla contro questo destino di Barcellona. Come un Diogene moderno, Carvalho si rintana sempre più nella sua “botte” di Vallvidrera, una villa moderatamente modern style, sempre più in decadenza e in balia dell’azione del tempo. Fino a finire i suoi giorni in una botte ancora più piccola: la cella della prigione del carcere Modelo, dove Pepe viene rinchiuso – per la seconda volta, dopo una prima detenzione durante la dittatura franchista – per l’omicidio, sul finale de L’uomo della mia vita, dell’odioso sociologo Jordi Anfrúns (i filosofi non hanno mai amato molto questi ultimi). Carvalho accetta di buon grado, verrebbe da dire come un Socrate catalano, la sentenza dei giudici, al punto da dichiarare che da quella prigione non sarebbe mai dovuto uscire.

A noi piace pensare che, pur dentro quella prigione, Carvalho continui a rimanere l’“anima critica” di Barcellona, lasciando al commissario Lifante il compito «di mantenere il disordine» di un mondo diviso «in vittime e carnefici, talvolta chiamati detenuti e carcerieri, bombardati e bombardatori, globalizzati e globalizzatori» [Millennio: 2. Pepe Carvalho, l’addio].

Grazie di essere esistito, Manolo. Grazie di continuare ad esistere, Pepe Carvalho.

 

Bibliografia

Romanzi citati:

Assassinio al Comitato Centrale, Palermo, Sellerio, 1984

Il centravanti è stato assassinato verso sera, Milano, Feltrinelli, 1991

Tatuaggio, Milano, Feltrinelli, 1991

Il labirinto greco, Milano, Feltrinelli, 1992

I mari del Sud, Milano, Feltrinelli, 1994

La Rosa di Alessandria, Milano, Feltrinelli, 1995

Il fratellino, Milano, Feltrinelli, 1997

Il premio, Milano, Feltrinelli, 1998

Quintetto di Buenos Aires, Milano, Feltrinelli, 1999

Storie di fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1999

L’uomo della mia vita, Milano, Feltrinelli, 2000

Millennio: 2. Pepe Carvalho, l’addio, Milano, Feltrinelli, 2005

(tutte le traduzioni dallo spagnolo, ad eccezione di quella di Assassinio al Comitato Centrale, che è di Lucrezia Panunzio Cipriani, sono di Hado Lyria)

Testi critici:

Quim Aranda, Piacere, Pepe Carvalho: Biografia autorizzata dell’investigatore più famoso di Spagna, Milano, Feltrinelli, 1997

Alberto Giorgio Cassani, Le Barcellone perdute di Pepe Carvalho, Presentazione di Manuel Vázquez Montalbán, Milano, Edizioni Unicopli, 2000 (2011, nuova edizione ampliata dal titolo: Barcellona: Sulle tracce perdute di Pepe Carvalho).

(tratto da GialloLuna NeroNotte, Catalogo del festival, Ravenna, 21-30 settembre 2012, Ravenna, PA•GI•NE Associazione Culturale, 2012, pp. 21-26)

Bruciati vivi

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Di Francesca Ceci

Ci sono crimini peggiori del bruciare i libri. Uno di questi è non leggerli”.
Iosif Brodskij

C’è un filo conduttore, che mi piace pensare sia di colore rosso, che del resto non potrei immaginare di nessun altro colore.

Unisce, o forse divide, le vicende e i punti di vista che ruotano attorno all’idea di libro in sé, al potere che le pagine sono in grado di generare e alle paure che le parole di altri messe per iscritto riescono a creare. A pensarci bene, appare inverosimile l’enorme differenza che assumono i concetti nel momento in cui vengono scritti o solo pronunciati, con netta prevalenza dei primi sui secondi, come se altrimenti, una volta espressi, evaporassero nell’aria con ciò che volevano significare. Come se gli stessi concetti, pensati e discussi a tavola, in assemblea o semplicemente tra sé e sé, cominciassero ad esistere solo nel momento in cui gli viene data forma concreta ed evidente. Col rischio che inizino a vivere di vita propria.

Anonymous. La grande truffa. III

3
i can has cheezburger?

(Continua la pubblicazione del pamphlet Anonymous. La grande truffa, fortunosamente arrivato nei database di Nazione Indiana. Qui la prima parte. Qui la seconda parte.)

La potenza della moltitudine

 

“I nomi erano cambiati, così come lo erano i volti, ma gli avversari rimanevano una costante permanente. L’impero degli schiavi contro coloro che lottavano per la giustizia e la verità.” Philip K. Dick, Radio Libera Albemuth (1976)

 

i can has cheezburger?Secondo una delle definizioni più diffuse e convincenti, Anonymous non è un gruppo, non è un partito, non è un’ideologia, bensì un meme. Meme è il termine che il biologo Richard Dawkins coniò per definire l’equivalente culturale dei geni: delle unità d’informazione che si diffondono e si moltiplicano, e di cui si occupa una strana disciplina chiamata memetica.

Un meme è come una stringa di codice, che replicandosi si trasforma ed evolve, si adatta al contesto. In questo senso, una moda è un meme. Ma è un meme anche ogni idea politica, come il comunismo o il fascismo o l’anarchismo pop in cui crede V. Quando nel fumetto e nel film il personaggio pronuncia la frase «Non si può uccidere un’idea», è proprio a questa persistenza dei memi che sembra fare riferimento.

Baumgartner

1

http://www.youtube.com/watch?v=6rxTXVpAyL4

video arte #11 – jesper just

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Jesper Just, Something to love, 2005.

Dall’Ufficio Architettura Morbida

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di Lisa Robertson 

 

Vogliamo una intelligenza che sia alta e argento, nera e obliqua, che faccia le fusa e amplifichi i suoi interni; una cosa sottile, una cosa lunga, un centinaio di video, una boutique. Essendo passivi e indipendenti, abbiamo bisogno di teoria. Studiamo la sintesi della sincerità, lo spazio dei sintetici, poiché sono contingenti e irriducibili. Dato che possiamo, schiviamo l’ansietà dell’origine. Vogliamo esercitare appieno il destino con cose estremamente normali come la nostra mente.

Una critica in diretta : Luca Ricci, Mabel dice sì

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di Francesco Forlani

Sono le 16 e 30 e alle 20 ho appuntamento con Giulia. Diciamo allora che mi rimangono poco più di tre ore per scegliere un libro, leggerlo e recensirlo qui su Nazione Indiana. Non me lo ha ordinato il dottore né commissionato un giornale ma devo dire che molte delle cose che faccio, per fortuna, non mi sono né ordinate né tanto meno commissionate. Entro alla Mood di Piazza Carignano, saluto Monica e Laura, e faccio un giro lungo i quattro lati del tavolo su cui sono esposte le novità. Tre titoli attirano la mia attenzione ma alla fine scelgo il romanzo di Luca Ricci, per tre ragioni: la prima è che si tratta di un volume di 137 pagine e dunque, tre ore dovrebbero bastare, la seconda è che costa 12 euro e 50 e in questo momento è una spesa sostenibile e la terza, non inessenziale, perché Luca Ricci è uno scrittore che mi piace. C’è anche una quarta ragione. Il libro comincia con la celebre frase, la formula secondo Gilles Deleuze, di Bartleby lo scrivano, di Melville: ” I would prefer not to “. Ed è curioso leggere incolonnati come sono, titolo ed esergo: Mabel dice sì, Bartleby, preferirebbe di no.

(D)istruzione pubblica. Una questione di linguaggio

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di Vincenzo Fatigati

Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo» non di buon senso.

                                                                                                 P.P. Pasolini

Quando   sei  giunto al termine di un “ciclo di studi”   parcellizzato in una quarantina d’esami,  per conseguire una di quelle lauree  come filosofia, allora ti viene da articolare  una sola certezza. Hai  – letteralmente –  maturato una percezione diversa del significato reale della parole. Certo, anche sui giornali, sui  vari volantini   si leggono slogan del tipo “difesa dell’istruzione pubblica” o anche  “ contro il  governo”,  siamo tutti “contro i tagli”, e  “per la meritocrazia”.

Il diritto speciale di rendersi utili – Le operazioni di pronto soccorso da Malcolm Lowry a Alice Munro

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di Giuseppe Zucco

  

Come si aiuta, come si soccorre, come si salva il prossimo – e quindi inevitabilmente se stessi – negli anni duemila? Nei momenti di estremo intervento, cosa differenzia le ultime generazioni da quelle che ci hanno preceduto? Siamo diventati più disponibili e generosi? Ci siamo qualificati come una massa di autentici calcolatori smidollati? Quale pressione etica accelera, se accelera, le nostre pulsazioni nei confronti di chi avverte, seppure inconsciamente, il proprio battito cardiaco sfumare o franare di colpo?

Questa e altre domande hanno fatto nido nella mia testa tutta l’estate. Nei telegiornali, puntuale come gli eritemi solari, più e più volte si è avverata la composta disperazione o la temperata euforia di un qualche annegamento o di un qualche salvataggio. Gente di ogni età, in preda a un malore, un affaticamento, una improbabile combinazione di eventi, non la finiva più di toccare il fondo o di essere trascinata a riva per una respirazione artificiale. E se del superstite apparivano sempre intensamente netti e sfigati i bordi della sua figura, del soccorritore in sé e per sé continuavo a saperne quasi nulla, come se fosse un’esemplare poco avvezzo alla gabbia di un riconoscimento.

Ai telegiornali, però, hanno fatto seguito i libri. Ne leggo sempre un paio d’estate – quest’anno è toccato, in rapida successione, a Sotto il vulcano di Malcolm Lowry (Feltrinelli, 2005) e Troppa felicità di Alice Munro (Einaudi, 2011). Con una partecipazione che i telegiornali ignorano, mi sono addentrato nelle loro pagine, senza aspettare di trovare nulla – cioè, nulla che avesse a che fare con l’attualità più stretta – e sorprendentemente, come se cose distanti cospirassero in segreto tra di loro, i due libri, il primo a metà, il secondo all’inizio, nel fitto intreccio della trama, aprivano una radura narrativa in cui staccava una scena di soccorso e la figura di un soccorritore.

Grido raramente al miracolo, ma le scene, anche se inscritte in due libri lontanissimi per destino, stile, struttura, periodo storico di pubblicazione – Sotto il vulcano è un romanzo del 1947, Troppa felicità è una raccolta di racconti del 2009 – erano anche parecchio simili. Uguali e contrarie, per essere precisi.

Hugh, nel capitolo 8 di Lowry, e Doree, nel racconto Dimensioni della Munro, stanno viaggiando su un autobus. Entrambi, prima di ogni altro passeggero, distinguono una persona versare in pessime condizioni sul lato della strada. Entrambi smontano veloci dall’autobus, cercando per come possono di darsi da fare, avvicinandosi alla persona ferita, prestando un primo soccorso. Entrambi sono duri di orecchi ai richiami di chi sta intorno, richiami che li sollecita ripetutamente a non invischiarsi con quel sangue, e di venire via, lasciando fare ad altri. Solo il finale della scena non combacia: Hugh è costretto a non toccare il ferito e a risalire sull’autobus, Doree assiste e rimane accanto al ferito fino all’arrivo di un’autoambulanza.

Immagino che dal confronto serrato di queste scene possa ricavarci qualche informazione utile sulla natura del soccorritore, e così ci torno su. La diversa chiusura di scena non è dovuta solo alla biografia unica dei personaggi in questione, ma anche dal periodo storico che attraversano.

Hugh è un eroe della Repubblica Sovietica, è sul punto di partire dal Messico per aiutare i repubblicani spagnoli dagli attacchi di Francisco Franco, è completamente imbevuto di valori comunisti, basta poco per vederlo e sentirlo schierarsi dalla parte degli ultimi, chiunque essi siano, ma la cultura politica che alimenta le fiamme del suo idealismo lo spinge a individuare in ogni situazione i possibili vantaggi o svantaggi che potrebbe ricavarne – per esempio, in questo caso, se avesse soccorso davvero l’indio aggredito e lasciato a terra sanguinante, molto probabilmente una non specificata e altrettanto sanguinaria polizia fascista lo avrebbe ritenuto una specie di complice post-factum. Anche se questa forma di sensibilità, che a tratti si declina in un opportunismo calcolatore, non è una sua esclusiva, ma costituisce parte dello spirito del tempo – soprattutto l’opportunismo, a quanto pare. Ecco cosa scrive Lowry a proposito degli altri passeggeri affacciati sulla scena del delitto: Anche se l’ostacolo più grave e definitivo al muoversi in aiuto all’indio era il fatto che ognuno avesse scoperto che non era affar suo, ma di qualche altro. E, guardandosi intorno, Hugh vide che proprio questo era l’argomento di cui tutti stavano discutendo. Non è cosa che riguardi me, dicevano tutti, riguarda, poniamo caso, voi; e poi scuotendo il capo: anzi, nemmeno voi, ma qualche altro, e le loro obiezioni si facevano sempre più complesse, sempre più astratte, finché la discussione prese a poco a poco una piega politica. Idea ancora meglio codificata nel ritratto collettivo di alcune signore rimaste sull’autobus: Sedevano tutte in fila, ora, immobili, pietrificate, senza parlare di nulla, senza una parola, come statue di ghiaccio. Era stato naturale lasciare il problema agli uomini. E tuttavia, in quelle vecchie era come se, attraverso tutte le varie tragedie della storia messicana, la pietà, quel moto impulsivo di fraternizzare, e il terrore, quell’impulso a fuggire (che si impara da ragazzi), fossero stati alla fine riconciliati dalla prudenza, dalla convinzione che è meglio rimanere dove si è, che chi sta bene non si muove.

Questione molto diversa quella di Doree. Essendo la protagonista di un racconto breve, di Doree, Alice Munro rivela alcune scarne ma preziosissime informazioni. Doree è una cameriera, un tempo è stata sposata, dopo il lavoro risponde alle domande di una psicoterapeuta, cura la sua persona giusto per risultare il più anonima possibile, suo marito, qualche tempo prima, al culmine di un attacco di gelosia e ossessione, aveva ucciso i suoi tre bambini. Il primo impulso che la spinge a praticare la respirazione bocca a bocca al ragazzo dalla cui testa fuoriesce un’orrenda schiuma rosa è il ricordo dei suoi bambini, la rievocazione di tutte le strategie di soccorso – liberazione delle vie respiratorie, posizione della spina dorsale – apprese negli anni per rimediare con chirurgica precisione e amore materno a una sciagura che avrebbe potuto coinvolgere i suoi figli. Del resto, il mondo che le si dispiega intorno ha qualcosa di freddo, razionale, burocratico, e partecipando al mondo Doree non fa altro che incontrare o mettere in pratica un numero imprecisato di strategie – o ancora meglio, di procedure – che governano e mantengono l’ordine degli spazi sociali: le strategie/procedure per lavorare e conservare il posto di lavoro, per frequentare a suo vantaggio le sedute psicoterapeutiche, per incontrare nell’istituto di sicurezza il suo ex-marito pallido come un fantasma.

Così, una volta esplorate le scene, volendo tracciare una stilizzata ma non esaustiva parabola della figura del soccorritore, usando Hugh e Doree come segni di una qualche mutazione, trovando finalmente sfogo alle inquietudini appiccate dai telegiornali, potrei azzardare questo: se prima il soccorritore, le operazioni di soccorso, erano reperibili all’interno di un sistema di valori predefinito, e potevano essere ricondotte a una forma di idealismo, o in molti casi di ideologia, motivo per cui le azioni del singolo appagavano un qualche bisogno collettivo o una qualche aspettativa sociale – la manutenzione costante di un’idea di giustizia, per dirne una – oggi è più probabile che il soccorritore si muova per sé, per sé soltanto, nella speranza luminosa di intraprendere, attraverso la propria perizia e il proprio coraggio, la ricomposizione dei bordi scheggiati di un personalissimo trauma.

La svolta non è di poco conto. Si è passati dal soccorrere uno per soccorrere tutti, al soccorrere uno per soccorrere se stessi. Con un risultato: se nel primo caso è molto più semplice temporeggiare, calcolare i pro e i contro delle proprie azioni, dato che il ritorno personale dell’operazione di soccorso, a parte la pace dei giusti che spirerebbe sulla propria coscienza, non è immediato né spendibile, nel secondo caso ogni minuto sottratto alle operazioni di soccorso potrebbe incrinare la possibilità di ricomporre il proprio trauma, alleviarlo o mettergli su una qualche sordina. Brutalmente parlando: davanti a una gravità assoluta, si passerebbe dal calcolo all’urgenza delle proprie azioni.

Ovviamente, la generalizzazione è una pistola fin troppo calda, ma questa idea della ricomposizione del trauma attraverso un’azione di soccorso potrebbe svelare qualcosa del nostro presente e del nostro futuro. Scrive Alice Munro di Doree mentre segue l’autista dell’autobus che le intima di restare a bordo: Come se non l’avesse sentito, o si fosse guadagnata il diritto speciale di rendersi utile, Doree lo seguì, smontando dall’autobus.

Tra le righe, la Munro sembra convenire che sia proprio il trauma subito, e la volontà di superarlo – o comunque sia, di attenuare il male e il dolore che dispensa – a conferire a Doree il diritto speciale di rendersi utile.

Potrebbe apparire un’annotazione marginale, e invece ribalta la questione: perché, mettiamo, se il trauma subito da singolare diventasse collettivo – la perdita del posto di lavoro, per dare un’idea neanche tanto fantascientifica, la perdita di uno o più diritti – e le azioni di soccorso scivolassero dal piano puramente materiale di un danno fisico a quello più rarefatto dei bisogni e dei desideri, tutti i soccorritori, nella speranza luminosa di superare o attenuare il trauma, potrebbero fare gruppo, riconoscendosi l’uno nel trauma dell’altro, rinfocolando una qualche forma di idealismo, mettendo mano a un piano generale di prevenzione. La respirazione bocca a bocca, in fondo, visti i tempi in cui tocca avventurarsi, potrebbe diventare la più decisiva azione politica del futuro.

Scene dal buio

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di Marino Magliani

Il disastro non era che si accorgesse che m’ero svegliato da poco, ma che avevo dormito a casa. E ogni giorno si ripeteva la stessa scena: io che facevo in tempo ad alzarmi, a lavarmi faccia e denti, e poi mi sedevo a tavola con loro, e lui che se ne accorgeva subito, perché quella cosa lì, intendo che avevo dormito in casa, non mi riusciva di nascondergliela. Lui era mio padre. E io ormai da un anno, ossia da quando non frequentavo più l’università perché s’era sfasciato tutto, dormivo in casa. Lui non voleva. Diceva che prima o poi venivano, mi prendevano e mi mandavano in Germania, oppure mi attaccavano al muro e ci attaccavano anche loro, lui e mia madre. I primi tempi, parlo di settembre, erano tornati i soldati, sbandati e mezzi in borghese, a piedi o in treno, da soli e in gruppetti, e sembrava che fosse finito davvero tutto, poi un giorno, verso la fine del mese, i soldati hanno iniziato a sparire e a nascondersi nei beudi, molti a salire  in montagna. Allora mio padre disse che dovevo sparire anch’io. Che un giorno a l’altro prendevano anche gli studenti e li facevano andare in quella cosa di Salò. Mio padre le cose le vedeva. Quel giorno infatti erano arrivati i tedeschi a rastrellare la valle fin giù a Sanremo e s’erano portati via tutti. La sera girò voce che tra i presi c’era gente d’ogni età e tra i giovani, chi si era salvato è perché aveva aderito a quella cosa là di Salò. A uno gli avevano sparato mentre scappava. E quel giorno no, ma il giorno dopo mio padre tirò fuori dalla cantina un vecchio materasso di lana e me lo mise in spalla. L’umidità aveva appesantito il materasso, sembrava d’avere in spalla un sacco di olive, con la differenza che per portare un materasso devi continuamente fartelo girare addosso. Ricordo che mio padre mi guardava che barcollavo e scuoteva la testa. Non andavamo molto d’accordo, esami non ne avevo mai dato, ma mia madre mi proteggeva. Lui diceva che m’ero iscritto a lettere per non far niente e che anche un professore di Genova gli aveva detto che un’aquila non lo ero e che perdevo tempo.

Passammo un portico e una vigna e finimmo davanti all’entrata del Beudo Grosso. Il beudo, per capirci, è un condotto. Una valle ligure è costituita da tante vallette e gole, e ogni valletta ha il suo condotto d’acqua piovana, che a volte è asciutto, coperto o scoperto, e porta giù al torrente o ad altri beudi. Là dentro ci trovammo a dormire sei o sette uomini, un paio di giovani come me, dalla voce, gli altri dovevano essere sui trent’anni o giù di lì. Uno degli anziani disse che non c’era più posto, ma mio padre non ci pensò due volte a sistemarmi il materasso e disse che se non c’era posto si stringevano. In realtà ci si stava anche in centocinquanta. Mi sedetti sul materasso, mio padre mi passò la mano sui capelli e se ne andò. Doveva camminare curvo, perché il soffitto in certi punti era basso, e anche perché mio padre era grande, zoppo per una ferita rimediata sul Carso, ma grande per essere ligure. Rimasi a sentire i suoi passi che si allontanavano e rimbombavano e quando non li sentii più pensai che con mio padre ci parlavo sempre troppo poco.

Tremavo dal freddo, e così rimasi sveglio fino all’alba. Ogni tanto si sentivano dei versi di bestia. E uno che era accanto a me, ma senza materasso e mi aveva chiesto se poteva sdraiarsi un attimo da un lato, mi disse che era la civetta che si fermava all’entrata e aspettava che uscissero i topi. Aveva una bella voce anche se balbettava un po’. Un bersagliere sardo, così almeno me lo presentò quello che balbettava sdraiato accanto a me e traduceva cosa diceva (spiegandomi che il bersagliere aveva disertato e aspettava la volta buona per contattare i partigiani e mettersi con loro) disse in sardo che la civetta era una bestiaccia e sputò sulle pietre. Le pietre erano fredde, ogni tanto se ci mettevi la mano ti saliva addosso uno di quei ragni o di quei grilli che vivono nelle tane, pieni di antenne. Che fossero ragni e grilli me lo disse quello sdraiato accanto a me, a me sembravano formiche. E c’erano anche le formiche e le salamandre e le lumache che lasciavano la bava, e c’erano i nidi di ragno, mi disse sempre quello accanto. Gli chiesi come si chiamava. Italo, studente anche lui, agraria, prima a Torino, poi a Firenze. Forse ti ho già visto alla spiaggia, gli ho detto. Forse se all’alba uscivamo e ci guardavamo ci riconoscevamo.

All’alba tornai a casa, Italo disse che non usciva. Dormii in camera tutta la mattina e quando mio padre tornò e mi trovò in pigiama se la prese con mia madre. Che era pericoloso, che non dovevo presentarmi e lei anziché lasciarmi dormire mi doveva rimandare nel beudo. Quando mi ripresentai nel beudo portai qualche mela e la rosicchiammo in silenzio con Italo. Sul materasso ci si era sdraiato uno. Un po’ ce lo lasciai, poi lo feci sloggiare. Una mezz’ora soltanto disse. Va bene, dissi. Ma il tempo laggiù non si riusciva mica a dire. Come si faceva a dire se era giorno o era di nuovo notte. Secondo Italo era già notte. Mi aveva raccontato di dov’era, viveva nella villa sulla strada per San Giovanni. Suo padre studiava le piante, il giardiniere di casa era quel ragazzo coi capelli ricci e lunghi che avevo visto un mucchio di volte. Poi stavamo delle ore senza parlare.

Rimasi nel beudo qualche giorno, mio padre mi portava delle patate bollite, delle mele, acqua, ma poi a volte mi prendeva un attacco e allora andavo a dormire a casa e a mezzogiorno quando mio padre entrava si arrabbiava. Io gli dicevo che ero appena arrivato, che ero venuto per cibo o per un impacco di varma agli occhi che si riempivano di orzaioli. Ma lui non ci credeva e se la prendeva con mia madre. Si mordeva un dito, che per lui significava: mi tengo dal metterti le mani addosso.

Nel beudo parlavo solo con Italo. A volte non ce lo trovavo perché era uscito anche lui per una scappata a schiena bassa nelle vigne fino a casa. E poi tornava con uva e uova sode. Gli altri non erano sempre gli stessi. Il bersagliere sardo girava voce che fosse passato coi partigiani, e Italo mi assicurava che era anche per lui questione di giorni e poi con suo fratello salivano coi garibaldini di Vittò. Cosa farai quando sarà finito tutto, gli chiesi una volta. Lo scrittore, disse. E cosa scriverai? Scrittore di teatro. Poesie alla Montale. Guarderò la Liguria di giorno, finalmente di giorno, e la scriverò. L’ubagu e l’aprico. Agraria, dissi, sarebbe piaciuto farla a me. Facevo lettere perché a Genova avevamo una zia che viveva vicino alla facoltà e ci lavorava, e mio padre s’era intestardito per le lettere. Non io. Insistetti per farmi dire cos’aveva scritto e cos’altro avrebbe scritto là sotto se solo avesse avuto carta e inchiostro e una candela. Romanzi sulla resistenza, e racconti per bambini, disse. Mi rivelò un segreto. A Sanremo, nella pensione ebrea, ci aveva vissuto un tal Walter Benjamin, scrittore tedesco di origine ebrea che poi era morto sui Pirenei, e lui sapeva dove questo Benjamin aveva nascosto una valigia pieni di racconti per bambini, e quando finiva tutto andava in quel posto che era una soffitta e si portava la valigia e  traduceva i racconti dal tedesco, si faceva aiutare. Ma di suo, gli chiesi, cos’avrebbe scritto? Disse di tutto. Racconti soprattutto, ne aveva in mente a centinaia. Pesci grossi, pesci piccoli. Le storie di Adamo, che era il giardiniere di casa e si chiamava Libereso. Bastimenti pieni di granchi. I loro bagni, le ultime estati innocenti, prima della guerra. Storie di caccia, a Colla Bracca. Le storie di Giuà dei Fichi e di Marcovaldo. Io sbadigliavo. Storie di campagna, disse credendo che mi piacesse la campagna. Ma io dissi che non mi piaceva neanche la campagna, avrei semplicemente voluto fare agraria perché mi sembrava semplice, mio padre era contadino, aveva 1.500 piante di ulivi e se finita agraria o se nel mezzo di agraria mollavo potevo sempre andare in campagna. Quando gli raccontavo cose del genere, sospirava come se ci pensasse.

Un giorno tornarono i tedeschi e bruciarono delle case sopra san Giovanni o San Romolo, o in entrambi i posti. Neanche mia madre seppe dirmi con precisione. Io, che dopo il pranzo, scacciato da mio padre, rientravo nel buio, quel giorno ripassai svelto sotto i portici e mi infilai terrorizzato negli orti prima ancora di uscire dalle case. Da quella sera il Beudo Grosso si popolò tanto che non mi fu nemmeno facile trovare Italo. Ne convenimmo che non era più un luogo sicuro. E lui disse che a breve sarebbe andato via. Anzi, una volta o l’altra rientravo e non ce lo trovavo più. Mi chiese se volevo salire con lui in montagna. Cosa facevo là dentro, a sentire le bestie, i topi e le lumache passare, in quella puzza che ci saremmo mai più tolti di dosso. C’era il grande Cascione, u megu, in montagna, c’era la libertà. Io dissi che mio padre i partigiani non li poteva soffrire, erano straccioni e avevano i pidocchi. Queste cose lo irritavano e per rispondermi che non era vero balbettava ancora di più.

Siccome il Beudo Grosso ogni giorno che passava era davvero sempre più affollato, Italo disse che andava a trascorrere gli ultimi giorni nel Beudo della Polveriera, un beudo che stava tra casa nostra e il paese di Bastieto, e dai miei orti ci si arrivava benissimo in tre minuti di scorciatoia o di risalita del Beudo delle Capre. E così lo persi di vista, ossia, anche se forse non l’avevo mai visto, non lo vidi mai più. Chiesi a mio padre di condurmi nel Beudo della Polveriera, ma mio padre disse che là dentro un giorno o l’altro ci entravano i tedeschi perché ci giravano troppi delatori a Bastieto. Ed ebbe ragione. Un giorno si sentì una cagnara e i saloini si misero a correre inviperiti per i carruggi di Bastieto, e spararono a più di uno. Gli spari dentro il Beudo Grosso, dove mi trovavo ancora in quel tempo, si sentivano come da un’altra valle e fin dopo la fine della guerra non saprò mai che Italo quella notte s’era salvato ed era riuscito a salire in montagna.

Il Beudo Grosso era ormai diventato pericoloso, c’era mezza Sanremo. Si poteva tentare nel Beudo della Crosa, secondo mio padre. Il Beudo della Crosa raccoglie le acque di diverse vallate ed è coperto, un tunnel perfetto, col soffitto a volta, di blocchi di pietra tufalina. Mio padre le cose se le sente. Un mezzogiorno viene dall’uliveto, mi dice che nel giro di mezz’ora arrivano i tedeschi e si portano via mezzo paese. Mi ordina di prendermi due stracci e di seguirlo nel Beudo della Crosa. E infatti, quando è un po’ che son là sotto le campagne della Crosa, nascosto nel beudo, in quel nuovo odore di umido (perché ogni beudo ha il suo odore),  con la mano che devi sempre toglierti le ragnatele davanti, sento il soffitto rimbombare e le camionette dei tedeschi che bloccano le uscite del paese. Spari pochi, ma urla e luci che penetrano l’entrata del Beudo della Crosa. Io e la dozzina della mia età che eravamo lì siamo indietreggiati in salita. E stavamo lí, immobili, seduti perché in piedi non ci si stava. Uno mordeva una mela e si è mangiato un calcio negli stinchi da uno dei più vecchi. Non c’è cosa che viaggia come i minimi rumori nei beudi. Lo impari presto. Mi dicevo: ecco che questa cosa ti mancava, ci passavi cento volte al giorno per la mulattiera della Crosa e qui dentro non ci conoscevi, quest’odore te lo saresti perduto. Ragionavo come Italo ormai, mi raccontavo le storie. O forse lo facevo perché mi mancavano i suoi sospiri che avrei riconosciuto tra i sospiri di cento persone.                                                     Quando tutto tacque, gli spari, e i passi, uno dopo l’altro uscimmo. Il sole tramontava, era luce che feriva.

Nel 44′ mi nascondevo ancora nel Beudo della Crosa. I partigiani avevano preso una batosta. Quel comandante Cascione, medico, era stato ucciso, aveva risparmiato un prigioniero e questo bastardo era riuscito a scappare e aveva portato in montagna i tedeschi, li aveva condotti nel luogo dove si accampavano e c’erano stati molti morti. Pensavo a Italo, alle storie che non gli avevo mai raccontato e che ora mi inventavo durante l’ozio. Erano storie piene di luce e di amicizia. Ne avevo sempre in mente una, che avevo sognato una volta che avevo la  febbre in quel freddo. Era la storia di due ragazzi di Sanremo che non si conoscevano e che per puro caso, esattamente nello stesso tempo, avevano letto un manuale su come si costruiscono i trampoli e allora s’erano messi a fabbricare i loro trampoli, in cantina o in soffitta, e quando li avevano pronti erano andati a provarli in piazza – nella stessa piazza e c’erano arrivati esattamente assieme. Era una piazza dove non passavano né tram, né bici, né carri, per questo era venuta loro in mente. E si erano messi i loro trampoli, uno da un angolo della piazza e l’altro dall’altro e si erano mossi, a piccoli passi, prima rasente i muri e poi senza tenersi a nulla, fin quando non stavano bene in equilibrio e procedevano, stupiti, mentre si avvicinavano incerti uno all’altro e si sorridevano, fino ad arrivare a un passo uno dall’altro senza riuscirsi a dir nulla.

Passavano i mesi, i partigiani riformavano le file e progettavano colpi di mano alle polveriere. A volte scendevano fino in città. Mio padre non li poteva soffrire perché gli rubavano la verdura, ma sotto, lo sapevo, stava dalla loro parte.

Dormivo sempre nel Beudo della Crosa, ci avevo portato un altro materasso. Di giorno mangiavo a casa, e quel paio d’ore al caldo a letto in attesa che mio padre rientrasse dalla fatica e si pranzasse, era un lusso. Un mezzogiorno mio padre mi chiese quanti eravamo là sotto. Gli dissi che non lo sapevo, c’era pieno, e sul  materasso, dall’alba a mezzogiorno quando non c’ero ci si sdraiava Beppe, il figlio di quello delle bottiglie, che poi nel pomeriggio non si voleva togliere perché diceva che là sotto le cose erano di chi se le prendeva. E allora risate e quando uno faceva aria di nuovo risate… Allora il vecchio non volle che gli dicessi altro e finito il pranzo ordinò a mia madre di mettermi qualche straccio in un sacco da olive, di prepararmi un bottiglione d’acqua di vichy, e un sacchetto di mele e arance e cosa c’era. Quando lei preparò tutto, lui si prese il sacco in spalla, tanto, disse, lui non dava nell’occhio perché zoppo com’era non lo mandavano neanche in Germania. All’imbrunire ci trovavamo nelle terrazze di San Giovanni, dietro quel casone bruciato, ben sopra la villa di quello che l’anno prima si nascondeva con me nel Beudo Grosso, disse. Al primo buio, attenzione, le giornate sono corte, mi avvisò. Io dissi che allora andavo a recuperare il materasso nel Beudo della Crosa, era roba nostra, perché lasciarcelo. Ma lui non ha voluto, davo  nell’occhio, poi quelli che erano lì parlavano: “Ha tolto il materasso perché ha cambiato posto…”. E mi avrebbero seguito. Ma dietro il casone bruciato non c’erano beudi, dissi. Te obbedisci, disse. Quel pomeriggio, prevedendo che la notte seguente avrei dormito ben male – anche se mia madre era contraria, temendo più le scenate che avrebbe fatto lui se l’avesse saputo, che per il pericolo di finire in Germania se mi sorprendevano in casa i tedeschi – feci una dormita nella mia stanza come se fosse l’ultima, colazione abbondante, e all’imbrunire uscii di casa e mi nascosi sotto il portico. Secondo gli ordini, dovevo aspettare che la colonna di gente che veniva dalla campagna attraversasse il ponte e risalisse tra le case. Mio padre non si fidava di nessuno. Era la fine di febbraio, l’aria ancora umida e il pettirosso balzellava sui rami. Il torrente era gonfio, e copriva gli zoccoli dei muli che risalivano le rampe. Ma quando voltavano e passavano per la stradina di là del portico si sentiva tutto, anche i colpi di frusta che ogni tanto Bacì da Nea, attaccato alla coda, dava al bue. Li lasciai passare, aspettai il giusto e mi infilai giù per la stradina incassata tra le case. Le capre nelle stalle mi sentivano e scornavano le tavole. I lumi nelle finestre erano accesi, ma tempo un amen iniziava il coprifuoco e si sarebbe spento tutto.

Passai il ponte, e poi rasente i muri, e davanti a villa Meridiana tirai un sospiro. Avrei voluto chiedere se avevano notizie di Italo. Se era vivo. Avrei voluto parlare con quel giardiniere che dicevano conoscesse le erbe come i vecchi. Poi arrivai a San Giovanni, non c’era luna, e faticai a trovare il casone bruciato. Poco dopo sentii mio padre. Lo annunciarono gli scarponi inzuppati, era scivolato in qualche bealera, immagino. Mi bisbigliò un ordine. “Vai su fino ai limoni, e non voltarti a guardare, dalle prime canne ti ci infili, entri profondo e mi aspetti. Ubbidisci senza aprir bocca”. Mentre ubbidivo sentii un rumore di passi arrivare da sotto. Capii che l’avevano seguito o avevano seguito me. Lo sentivo allontanarsi con i suoi scarponi che facevano rumore nell’erbaccio. Io una volta dentro le canne m’ero fermato un attimo a guardare. Gli inseguitori si chiamavano, urlavano, spari, qualcuno si avvicinava al canneto. Entrai.

L’avevano ucciso, avevano ucciso mio padre? Stavo lì, mezzo piegato come se stessi cagando, e pensavo a tutte le cose che mi erano passate per la mente in quei mesi quando mi toccava sopportare le prediche di quel vecchio zoppo al quale ora stavano sparando. Trovavo sempre molto umiliante tutto questo obbedire senza poter dir la mia, mentre i miei coetanei erano sui monti a imbracciare il 91. Gregorio Sanderi, anni 21, studente di lettere a Genova, residente nei condotti perché saloini e nazisti gli danno la caccia. Saolini e tedeschi non sanno manco che esista un Gregorio Sanderi, ma lui ha la sfortuna di abitare a Sanremo, nido di teste calde, sfollati, renitenti di leva, profughi ebrei, e allora se danno la caccia a costoro, potrebbero mettere le mani pure su di lui. Evidentemente non era nemmeno questo (quanta gente scappava a schiena bassa in quel periodo o si infilava nei beudi), era che la mia vita l’avevo sempre lasciata decidere da quel padre che fra poco moriva. O era già morto.

Non sparavano più, ma gridavano ancora. I passi da intorno al canneto s’erano allontanati, ma non ne ero sicuro. Non ero più abituato ai rumori che non fossero rumori sotterranei, dopo un po’ che si sta in un beudo non si distinguono più le cose come una persona normale, ma come un grillo o una lumaca. E più passava il tempo, più ogni vibrazione si allontanava, più mi era chiaro che quell’uomo che non dava mai consigli, ma parlava come se la sua parola fosse legge, se n’era andato. E ci aveva sempre indovinato. Ci pensavo ora, che uscivo con la testa dalle canne e guardavo le montagne buie. Poi rientrai e prosegui nel folto, forse in una specie di solco di quelli che si fanno le bestie, le volpi e i tassi.

A un certo punto inciampai in qualcosa. Stoffa ruvida… Era il sacco. Doveva essere stato qui nel pomeriggio e aveva già portato il sacco, o era il sacco di stracci di qualcun altro che passava le notte nelle canne? Lo aprii, toccai. C’erano mele e stracci, e dal tatto riconobbi il giaccone di fustagno che avevo chiesto a mia madre di infilare nel sacco. Mi sedetti su una pietra e attesi.  Ora da qualche parte entrava uno sputo di luce di luna, o forse era il chiarore di colpi di mortaio. Arrivavano rimbombi, echi lontani. Un campanile suonò delle ore. Dopo un po’ davanti a quel chiarore passò qualcosa. Rumori che si avvicinavano come qualche ora prima. Era lui. Me lo disse per non spaventarmi. Io lo rassicurai, sapevo che era lui, dissi. A chi altri veniva in mente di entrare in certi posti, se non a lui e a me che dovevo ubbidire. Non parlare, disse, scemo. È possibile che sei sempre così scemo, non lo capisci che una parola si sente fin giù sul ponte? Taci allora, gli dissi. Il sacco, disse, l’ho portato io, è nostro. Di chi altri poteva essere, chi vuoi che venga qui, dissi di nuovo, a farsi sparare dai fascisti. Chi è furbo se ne sta nel Beudo della Crosa, che è bello asciutto, e stanotte dorme sul mio materasso. Non mi stava neanche a sentire, diceva che l’indomani si rompeva il tempo perché gli faceva male la gamba.

(questo racconto deliziosamente maglianesco uscirà su “Reportage”, n. 12, ottobre-dicembre 2012, in uscita la prossima settimana; l’immagine, scelta dall’autore: Farideh Farivar-Bölling, “der Ursprung”, alias “L’origine”)

 

Hotel du Lac

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di Gianni Biondillo

Anita Brookner, Hotel du Lac 

Neri Pozza editore, 183 pagine, traduzione Marco Papi

A quasi trent’anni dalla vittoria del Booker Prize, Neri Pozza ripubblica Hotel du Lac, romanzo che potrebbe essere scritto oggi, così come cento anni fa. La lingua di Anita Brookner sembra senza tempo, la sua è una scrittura che, codificata agli inizi del secolo scorso, continua a ripetersi identica, con minime variazioni stilistiche e con rari aggiornamenti psicologici o linguistici.

Il romanzo racconta di Edith Hope, scrittrice di narrativa romantica, che passa una vacanza inquieta in un quieto albergo svizzero sul lago, nei pressi di Losanna. Edith, single quarantenne schiva e ordinata, scrive lettere che non spedisce mai a David, un uomo sposato col quale ha una relazione extraconiugale. Le giornate passano noiosamente (quasi la noia fosse una maledizione satanica) in questo austero albergo, fra personaggi dell’alta borghesia anglosassone che sfilano all’ora di cena con le loro ipocrisie e i loro non detti, più assordanti delle vacue discussioni sul tempo o sullo shopping.

C’è la frivola signora Pusey dall’età indefinibile, sua figlia Jennifer, mansueta e febbricitante di desiderio, il signor Nelville, garbato e crudele, e pochi altri attori di una commedia delle parti che se dapprima affascina la protagonista, nel tempo si trasforma in soffocante e claustrofobica. La verità è che Edith s’è nascosta in questo hotel come a cercare di decantare dalle sue intemperanze londinesi, lei che s’è sempre comportata così come il suo ruolo le imponeva.

È d’amore che si parla in questo libro, e di libertà femminile. Di tutti i lacci e i laccioli che l’etica borghese stringe sadicamente attorno alle vite dei suoi educati rappresentanti, dei vincoli indissolubili di casta, dai quali fuggire può sembrare impossibile. Anita Brookner è brava a restituire, col garbo che questa storia chiede, gli scenari e le tipologie umane. Il talento vero della sua scrittura è saper essere femminile, così come la convenzione richiede. Però, ad essere sinceri, è anche il suo limite.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, n° 29 del 17 luglio 2012)

Adage Adagio – Appunti I-IX

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di David Nettleingham e Christopher Hobday

studio e traduzione a cura di Federico Federici

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Strange fruit

Scritto nell’arco di un anno, Adage Adagio, uscito originariamente in Inghilterra nel 2009 per The Conversation Paperpress, è un dialogo in versi tra due poeti di formazione diversa: David Nettleingham, ricercatore e insegnante di sociologia presso l’Università del Kent e Christopher Hobday, specializzatosi in Letteratura inglese e americana presso la stessa Università in Canterbury.

L’ispirazione per questo lavoro nasce dall’infittirsi delle discussioni tra i due autori sull’origine del vivere sociale, su quel nature versus nurture che separa la “naturalità” dalle sue elaborazioni o trasposizioni nella “società” degli uomini. Adage Adagio esprime il serrato confronto tra due posizioni distinte che tentano a ogni verso di misurare la propria distanza, di spiegare o confutare le rispettive ragioni. L’intera raccolta funziona sull’espediente dialettico di antitesi e tesi nel tentativo di risolvere la contrapposizione di fondo: da un lato Nettleingham, convinto di una matrice essenzialmente sociale dell’uomo, dall’altro Hobday, che non separa mai completamente i contesti da un a priori naturale, quasi una predisposizione genetica al libero arbitrio. Le due prospettive convergono su ciò che Nettleingham chiama “memoria” e Hobday “ereditarietà”, qualità innate o espressioni di una volontà che rendono però ogni individuo parte di qualcosa di radicale. Con una metafora, si potrebbe dire che ogni foglia è tale secondo la propria specie, ma vive solo se sono vive le radici dell’albero cui appartiene.

Una rete per il Pensiero Debole

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L’Essere tradotto.
(Nota del traduttore)
di
Lucio Saviani Questo volume contiene ventidue saggi con una introduzione del curatore ed è la mia traduzione dall’inglese del libro pubblicato nel 2007, a cura di Santiago Zabala, dalla McGill-Queen’s University Press con il titolo Weakening Philosophy.
Gli autori dei saggi sono francesi, italiani, spagnoli, americani, tedeschi, ciascuno dei quali – eccetto uno – ha scritto nella propria lingua.
I testi che ho tradotto erano dunque, in alcuni casi, stati scritti in inglese, in altri casi erano, a loro volta, traduzioni in inglese – ad opera di quattro diversi traduttori – dal francese, dallo spagnolo, dall’italiano, dal tedesco. Di volta in volta, soprattutto per i termini filosofici centrali nel pensiero di Vattimo, ho avuto cura di tenere presenti le tracce e gli effetti di quel primo ‘passaggio’ di lingua.

E’ stata mia cura, inoltre, uniformare la traduzione in italiano dei termini fondamentali del pensiero di Vattimo (ma anche di Heidegger, Nietzsche, Gadamer) a partire dalle differenti occorrenze nei testi già tradotti in inglese e poi da me in italiano.
Per i saggi degli autori italiani, ho comparato la versione inglese con il testo originale, rendendo in ogni caso la versione finale la più vicina possibile all’edizione americana.
In particolare, il testo di Umberto Eco era originariamente in francese; ho dunque comparato la traduzione inglese con l’originario testo in francese e con il testo in italiano pubblicato nel frattempo da Eco, all’interno del suo Dall’albero al labirinto, con il titolo “Il pensiero debole vs i limiti dell’interpretazione”.

Uniformare la traduzione dei termini che maggiormente caratterizzano il pensiero di Vattimo (indebolimento, torsione, verità, convalescenza, credere, emancipazione, uomo dell’oltre), ma anche dei termini fondamentali di alcuni degli autori, come Nancy, Rorty, Savater, Taylor così come appaiono nelle loro opere pubblicate in Italia,  ha inoltre reso possibile una serie di rimandi interni agli interventi nel volume, non rintracciabili nell’edizione americana – all’interno di una sezione, come nel caso dei saggi di Taylor, Welsch e Schürmann e tra le diverse sezioni del volume, come per i saggi ora citati e quello di Risser. In particolare, ciò è risultato più evidente a proposito della traduzione vattimiana del plesso Überwindung/Verwindung, anzi, della stessa scelta di Vattimo di interpretare la coppia concettuale come ‘plesso’. La traduzione che Vattimo propone di Verwindung, ossia un superamento in termini di ripresa, recupero, rimettersi-da (come da una malattia) è centrale nel saggio di Risser sull’ermeneutica come “convalescenza”, ossia quel percorso di recupero della salute in cui la malattia rimane come una resistenza all’interno dell’organismo. Intorno al discorso di Risser sembrano poter raccogliersi diversi saggi del volume, proprio grazie al loro riferirsi alla Verwindung vattimiana in chiave di avvitamento e torsione (termini che, a mio parere, rimandano anche al mancante verbo italiano che possa tradurre il per-plectěre latino – origine di “perplesso” – che  denota un per-implicare, complicare, piegare, muovere e allo stesso tempo tenere in “plesso”).

La concezione di questo volume e la sua traduzione in italiano sembrano insomma poter essere un utile esempio di quanto Gadamer afferma in Verità e metodo a proposito della necessaria, essenziale, costitutiva relazione tra interpretazione e traduzione. Nella tradizione ermeneutica, come è noto, ogni attività di interpretazione è da ritenere una traduzione. Quest’ultima, secondo Gadamer, a sua volta presuppone sempre un dialogo ermeneutico; ossia, ogni traduzione giunge a compimento di una interpretazione ad opera del traduttore. Scrive Gadamer: “Come nel dialogo (…) ci si sforza di collocarsi nella posizione dell’altro, per capire il suo punto di vista, così il traduttore si sforza di trasporsi completamente nel suo autore. Ma questa trasposizione non equivale ancora, nel dialogo, alla piena comprensione, né, nella traduzione, si identifica senz’altro con la riuscita della riproduzione. (…) La condizione del traduttore e quella dell’interprete sono quindi sostanzialmente identiche”. (Verità e metodo, pp. 346-347).
Come è noto, il traduttore di Verità e metodo in italiano è stato Gianni Vattimo. Sul Vattimo traduttore – come ricorda Zabala nel suo intervento in questo volume –  lo stesso Gadamer ha affermato: “Un certo gusto per i giochi – e un certo gusto per il rischio, che è peculiare di ogni giocatore – lo ha costantemente messo al riparo da ogni infelice dogmatismo: queste stesse caratteristiche lo hanno reso un eccellente traduttore”. Vattimo è stato  finissimo traduttore di Gadamer e di Heidegger – come spesso viene ricordato nei saggi di questo volume –  ma anche di Nietzsche, Schelling, Moore, Tatarkiewicz e curatore delle edizioni italiane di opere di Fink, Rorty, Deleuze, Derrida. Quanto Gadamer afferma sul Vattimo traduttore vale, evidentemente, per il  Vattimo filosofo; così come nella filosofia ermeneutica di Vattimo è sempre all’opera l’intrinseca relazione tre interpretazione e traduzione. Basti pensare alle traduzioni vattimiane di Übermensch, Geviert, Erinnerung, Ge-ring, An-denken.

Del tema della traduzione (intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica) ho avuto modo di parlare con Vattimo in più occasioni. Vorrei ricordare qui tre episodi, risalenti a periodi molto lontani tra loro, che mi ricordano il senso e lo spirito dell’affermazione di Gadamer sul Vattimo traduttore. Nella primavera del 1983, a Napoli, poco prima che fosse pubblicato “Il pensiero debole”, in una pausa di un seminario Gianni confessava di stare rileggendo a fondo “don Benedetto” e, parlando della traduzione, mi diceva che era sempre più interessato alla storia dell’essere come ad una traduzione, dell’essere nelle sue concrezioni, ovvero istituzioni. In un seminario di qualche anno dopo, sempre a Napoli, sul senso della Kehre heideggeriana, commentando le molteplici possibilità di traduzione  in italiano del termine Verwindung (sul quale si concentrano diversi dei testi raccolti in questo volume, a partire dal saggio di James Risser), Gianni giunse a dire più volte che un tornante di montagna (Kehre), semplicemente, ad un certo punto “fervinde”. Infine, in un seminario su Rete e Società trasparente che organizzai a Roma nel 2005 all’interno del mio corso di Storia della filosofia alla “Sapienza” e per il quale ospitai Gianni Vattimo e Santiago Zabala, proposi di rileggere insieme una delle prime pagine (l’intervista a “Lotta Continua” del 1980) di Al di là del soggetto in cui appare, a mio avviso, una formidabile anticipazione di temi e riflessioni sulla Rete e sulla società della comunicazione generalizzata. In quell’intervista, rispondendo a una domanda che, a proposito del compito della filosofia, cita le immagini della mosca nella bottiglia (Wittgenstein) e del pesce nella rete (Bobbio), Vattimo dice di preferire l’immagine della rete “non però pensando gli uomini come pesci, ma per esempio come acrobati. La rete diventa trapezio, attrezzo, intrico di vie che si può percorrere; anzi, l’esistenza consiste forse proprio in questo movimento lungo le maglie della rete, intesa come reticolo di connessioni. (…) Il reticolo, la rete in cui è presa, e data a noi, la nostra esistenza, è l’insieme dei messaggi che, nel linguaggio e nelle varie ‘forme simboliche’, l’umanità ci trasmette”.

Quando ebbi finito di leggere la pagina, Vattimo si disse meravigliato perché non ricordava quel passaggio dell’intervista e che quella che io chiamavo sua intuizione era stata una sua semplice traduzione “della rete nella rete”, così come la mia lettura, secondo lui, era riuscita a mettere “lungo le maglie della stessa rete” due momenti così lontani del suo cammino di pensiero.

E’ per me motivo di grande soddisfazione aver potuto consegnare i testi raccolti in questo volume ai lettori italiani. Non avrei potuto immaginare un mio migliore contributo a questo volume in onore di Gianni Vattimo. Sono felice che proprio loro, Gianni Vattimo e Santiago Zabala, curatore del volume nell’edizione americana, abbiano chiesto che fossi io a curarne la traduzione italiana.

Nel volume i contributi di Rüdiger Bubner, Paolo Flores d’Arcais, Carmelo Dotolo, Umberto Eco, Manfred Frank, Nancy K. Frankenberry, Jean Grondin, Jeffrey Perl, Giacomo Marramao, Jack Miles, Jean-Luc Nancy, Teresa Oñate, Richard Rorty, Pier Aldo Rovatti, Fernando Savater, Reiner Schrümann, James Risser, Hugh J. Silverman, Charles Taylor, Gianni Vattimo, Wolfgang Welsch, Santiago Zabala.

Post da altre vite possibili di D.O.

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Questa iguana ama le albicocche, D.O.

di Davide Orecchio

STATUS DEL VERROBLOGGER
E ora che sono il verro spero che il mondo abbia posto per me. Che ci sia spazio nel mondo per il verro attraverso i pensieri e desideri del verro. Che il mondo accetti il mio lavoro e riposo attraverso il mio pensare e desiderare lavoro, riposo. Per non dire di sogni e ambizioni. E se il mondo sarà anche il verro, troverà facile pretendere giustizia per il verro ossia anche per sé, id est per me.

Dall’8 ottobre in edicola e in libreria il nuovo numero di «alfabeta2»

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 Il numero 23 di «alfabeta2» in arrivo nelle edicole e nelle librerie si apre

con quattro sonorissimi CONTRO:

–   contro gli spettri dell’Uno e a favore di un politeismo politico (Augusto Illuminati);

–  contro l’economia della creatività e la «cultura che fattura» (Christian Caliandro e

Fabrizio Federici);

–  contro il lavoro intraprendente e le retoriche aziendali (Andrea Sartori);

–   contro il bullismo degli insegnanti (Paolo Mottana).

Anonymous. La grande truffa. II

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V for Vendetta

(Continua la pubblicazione del pamphlet Anonymous. La grande truffa, fortunosamente arrivato nei database di Nazione Indiana. Qui la prima parte.)

La maschera e il canovaccio

 

“Vedete? Non potete uccidermi. Non ci sono carne e sangue sotto questo mantello: c’è solo un’idea.” V for Vendetta (2006)

V for VendettaC’era una volta V, un misterioso personaggio mascherato che combatte…

Il crimine! — diranno subito i miei piccoli lettori.

Non esattamente: nella celebre serie a fumetti di Alan Moore e David Lloyd, V combatte un potere totalitario e corrotto, ben più minaccioso di qualsiasi Joker, Pinguino o Enigmista. Prendendo in prestito molti aspetti della mitologia del supereroe — la maschera e il mantello, l’identità segreta, il covo, il modus operandi — non senza una certa ironia, V si presenta come perfetta e seducente icona rivoluzionaria postmoderna. Un terrorista buono. Un Batman politicizzato. Un Robin Hood radicale.

Per una valutazione del barocco

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(Carlo Emilio Gadda, Il primo libro delle favole, Garzanti, Milano 1976; disegno di Mirko Vucetich)

A.I.M.: 9 inediti di Massimiliano Bossini

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non badare
aperti nella pelle
ai rombi delle reti metalliche –

perché sentivo picchiare
l’attesa nelle unghie
l’ora
della stella decifrata

 

L’arte è una ferita che diventa luce – Proust e la pittura italiana

2

(Eleonora Marangoni, classe 1983, laureata a Parigi in Letteratura Comparata, nel 2011 ha scritto e pubblicato in Francia il saggio “Proust e la pittura italiana” per Michel de Maule éditions, attualmente in ristampa. Nella speranza che trovi presto un editore anche in Italia, presentiamo qui l’introduzione.)

Samuel Morse, Gallery of the Louvre, 1831–1833

di Eleonora Marangoni

Alla ricerca del tempo perduto è il racconto di una vocazione letteraria. Come gli attanti delle fiabe di Propp, quattro personaggi scortano il protagonista delle Recherche nel suo lungo apprentissage [1] verso l’iniziazione artistica: sono il pittore impressionista Elstir, la Berma­ – regina dell’arte drammatica –, il letterato Bergotte e il compositore Vinteuil. Ciascuno riveste un ruolo emblematico nell’economia del romanzo: Bergotte è l’archetipo della creazione letteraria; Vinteuil e la sua sonata rappresentano l’universo musicale; la Berma e la Fedra di Racine vanno in scena per il teatro intero; i paesaggi impressionisti di Elstir sono sineddoche della pittura nel suo insieme.

L’excipit del romanzo, Il tempo ritrovato, suggella e conclude questo percorso interiore, e ci ricorda che l’arte può farsi solida certezza per chi la sceglie come guida solo a patto che la si intenda come rigorosa disciplina fisica e intellettuale e non come mero intrattenimento estetico. Creatrice di presenze impalpabili, carica di miraggi spaesanti e di punti di riferimento effimeri, l’arte diventa ricompensa solo nel momento in cui arriva a materializzarsi nello slancio luminoso della creazione.

Nella sua accezione classica, l’arte è culto della bellezza, e risponde alle esigenze di superiorità e di eccellenza del sacro. La parola “culto”, dal latino “colere”, coltivare, indica una pratica assidua, svela un processo quotidiano, suggerisce un omaggio ricorrente: su stessa “fede” riposa il dialogo di Proust con la creazione artistica, che “rappresentava per lui l’idea stessa della divinità (…) La sua vita intellettuale e quella fisica furono d’altronde entrambe subordinate a questo fine supremo” [2]. L’arte non va dunque intesa solamente come la chiave di lettura della Recherche. Essa è anche un mezzo, che permette di restituire l’essenza delle cose, “di ciò che è più reale della vita, e che costituisce la vita vera”[3].

Sebbene nella sua opera Proust insegua “il sogno romantico e simbolista che hanno condiviso Mallarmé e Wagner”[4] di una sintesi fra tutte le arti, nella Recherche è la pittura a regnare incontrastata. Si tratta di una preferenza marcata: dei quattro attanti che sostengono il protagonista nel suo percorso interiore, solo la figura del pittore Elstir sopravvive fino alla fine del romanzo.

La pittura per Proust è in primo luogo un esercizio dello spirito, una “cosa mentale”. Proust prende in prestito questa espressione da colui che designa nel 1890 come il suo pittore preferito, Leonardo da Vinci: “Ciò che sembra esteriore, è in noi che lo scopriamo. La nozione di cosa mentale, dice Leonardo da Vinci della pittura, può essere applicato a ogni opera d’arte.”[5] Solamente attraverso l’invisibile si arriva dunque a penetrare il visibile: un quadro non esiste senza la sua interpretazione, e qualunque espressione artistica si situa a metà strada fra materia e spirito. Al contempo imitazione e atto creatore, la pittura riunisce nel suo gesto due movimenti opposti e complementari: da un lato, essa cristallizza la bellezza del mondo esterno; dall’altro, la percezione della realtà è influenzata dalle visioni pittoriche. Lo spettatore è dunque parte attiva nel processo artistico in quanto, attraverso la contemplazione, non solo si trova a riconoscere delle realtà, ma ne inventa delle nuove: “I miei occhi, istruiti da Elstir a privilegiare proprio gli elementi che un tempo scartavo a bella posta, contemplavano lungamente ciò che il primo anno non erano stati capaci di vedere”.[6]

***

Fine conoscitore in materia d’arte ed esteta devoto, Proust si appassiona alle arti visive in tenera età. Anche se “non è dotato per il disegno, e ne patisce”, riempie i taccuini di schizzi, figure accennate, personaggi abbozzati. Resterà sempre diffidente nei confronti della fotografia e, quando vuole farsi un’idea di una città che non conosce, il suo primo riflesso è quello di scoprirla attraverso la visione dei grandi artisti che l’hanno rappresentata: “Rimpiango il fatto di non aver guardato abbastanza la Veduta di Roma all’interno della quale si staglia uno degli uomini dipinti da Ingres (il ritratto dell’architetto Granet, n.d.e.) – scrive a Jean-Louis Vaudoyer, suo corrispondente dal 1910. Non conosco Roma, e vorrei, grazie allo studio di scorci come questo – rinforzati da qualche schizzo di Corot – immaginarla.”

Jan Vermeer, Veduta di Delft,1660, conservato al Mauritshuis dell’Aia.

Nella sua opera, Proust cita un centinaio di artisti, diversi per stile, tecnica, epoca e provenienza. Aldilà del leitmotiv del “pezzetto di muro giallo” di Vermeer, la Recherche trabocca di riferimenti pittorici: non mancano i tramonti di Whistler, l’Infanta di Velasquez, gli strapiombi di Turner, l’Inquisizione di El Greco, i tutù di Degas. Proust si serve dell’ opera dei grandi maestri per caratterizzare personaggi, cesellare descrizioni, sublimare in valori eterni fuggevoli realtà altrimenti schiave del Tempo.

Nella Recherche la pittura non è più mero elemento decorativo, come nei romanzi di Balzac o di Zola, ma una “peripezia, un evento, un vero e proprio personaggio”.

Le doppie dimensioni di vita/arte e letteratura/pittura se ne stanno abbracciate e, quello che Proust ricerca nei pittori, non è un semplice riferimento estetico, ma una nuova prospettiva, una visione del mondo unica e al contempo universale, eternizzata nel gesto dello scrivere. Il romanzo stesso sembra piegarsi alle leggi che la pittura detta, e pratica a sua volta vere e proprie trasposizioni d’arte, “care a Gautier e a Baudelaire, che dal campo della poesia passano ora a quello della narrazione”[7].

L’apporto dell’arte italiana appare, in questo contesto, decisivo quanto sottovalutato: gli artisti italiani citati da Proust sono poco meno di una trentina, secondi solo agli esponenti della scuola francese, e quasi il triplo dei pittori fiamminghi, olandesi e inglesi. L’Italia fornisce colori e sagome all’imponente affresco proustiano e, in un gioco perpetuo fra bellezza e verità, ogni artista riveste una specifica funzione, intessuta di prerogative estetiche e univoche originalità: il lusso e i fasti di una serata mondana dai Guermantes si nutrono delle opulenze veneziane delle tele di Carpaccio e di Veronese, l’attitudine sensuale di Odette de Crécy si profila nelle eteree fanciulle del Botticelli, l’ingenua modestia delle figure di Giotto modella i tratti autentici e pieni d’una domestica sempliciotta.

Sandro Botticelli, Madonna del melograno (dettaglio), 1487, museo degli Uffizi, Firenze.

I modelli, i maestri e le influenze di Proust in materia di critica ed educazione artistica furono numerosi, eterogenei e in definitiva troppo intricati per una mappatura lineare. Eppure, in un’ideale panoramica aerea, il dialogo dell’autore della Recherche con l’arte italiana sorvolerebbe tre grandi zone distinte, estese e a tratti confluenti. Queste fasi rinviano a loro volta ai luoghi cardine dell’estasi artistica: il Louvre, museo in cui Proust scopre l’Italia, la città di Venezia (e la cappella degli Scrovegni a Padova), dove per un momento s’illude di possederla, e una camera da letto foderata di sughero al 102 boulevard Hausmann, dove non smette di rimpiangerla sognando i campi d’oro di Firenze e i cieli rossi di Roma.

***

Proust nasce affamato d’arte: ancora adolescente, si interessa alle opere minori di Leonardo, sa tutto di Whistler e Moreau e si estasia davanti alle delizie frugali di Chardin: “prima di aver visto dei Chardin non mi ero mai reso conto di cosa c’era di bello, nella tavola sparecchiata a casa dei miei genitori, in un lembo di tovaglia ripiegato su se stesso, o in un coltello contro un’ostrica vuota”[8].

Suo “professeur de beauté” in questa prima fase, il conte Robert de Montesquiou, personaggio mondano dell’epoca, modello del barone Charlus e icona del clima “decadente, languido, estetizzante”[9] della Parigi della fine dell’800. I due si conoscono il 13 aprile 1893 nel salotto di Madeleine Lemaire, ­celebre acquarellista dell’epoca. L’incontro con Montesquiou è la rivelazione di un mondo: Proust scopre le minuzie di Pisanello, l’esotismo orientale del japonisme e l’Art Nouveau. Quasi trent’anni dopo, la sua ammirazione per Montesquieu è ancora intatta: nel 1921, scrive a Jacques Boulenger definendolo “il miglior critico d’arte dei nostri tempi […] Non possiamo che arricchirci di fronte alla sua saggezza […] è un critico d’arte, un saggista incredibile, che sa rendere come nessuno, in prosa, l’opera di un pittore o di uno scultore che gli piacciono.”[10]

Il Louvre è dunque il tempio di questi primi anni da esteta devoto. All’epoca, il museo era lo spazio pubblico per eccellenza, primo luogo di cultura, “rivale trionfante del teatro, della biblioteca e della chiesa”[11]. È nelle gallerie dell’antico palazzo reale che il giovane Proust dá appuntamento ai suoi amici. Fra gli altri, lo scrittore Lucien Daudet (figlio del celebre drammaturgo Alphonse), il collezionista d’arte René Gimpel, lo stesso Montesquiou e l’esteta Charles Haas (uno dei modelli di Swann), che “lo iniziano ai raffinati segreti dell’amatore d’arte”[12].

Sono anni mondani, vivi e affamati: Proust fa il suo ingresso in società, divora il mondo con gli occhi e lo guarda brillare nei salotti.

Charles Ephrussi, noto collezionista e direttore della Gazette des Beaux-Arts, gli apre le porte del suo ufficio in rue Favart, che ospitava il fondo bibliotecario della rivista contenente le pubblicazioni d’arte più autorevoli – come il prestigioso Burlington Magazine – e i cataloghi di vendita delle case d’asta più esclusive.

Parigi non tarda ad accoglierlo nei suoi salotti: dagli Straus, Proust ammira dei Monet; in casa di Ephrussi contempla dei Manet; Georges Carpentier gli mostra i suoi Renoir, Jean Cocteau gli presenta Picasso. Alla galleria Durand-Ruel, nel 1900, Proust visita la memorabile esposizione delle ninfee di Monet, che consacrerà l’impressionismo. Incontra Degas, Forain, Rodin e Boldini, e nel corso della sua vita assisterà progressivamente al tramonto del simbolismo, all’apogeo del cubismo e all’alba del surrealismo.

In questa fase, ricordiamo anche la nascita dell’amicizia con il pittore Jacques-Emile Blanche, autore del più celebre ritratto dello scrittore, conservato oggi al museo d’Orsay. Proust scrive la prefazione di una raccolta di scritti di critica d’arte ad opera del pittore francese, dal titolo Da David a Degas.

Jacques Emile Blanche, Portrait de Marcel Proust, 1892.

Proust entra dunque in contatto coi maestri della sua generazione, li vede al lavoro nei loro ateliers e osserva, dalla prospettiva privilegiata delle collezioni private, attitudini e tendenze dell’arte del suo tempo. Tuttavia, per un uomo dell’inizio del ventesimo secolo – per mondano, curioso o potente che fosse – non era semplice entrare in contatto con i capolavori della pittura mondiale. All’epoca gli editori d’arte non esistevano quasi, le riproduzioni dei dipinti erano in bianco e nero e, anche per un parigino cultivé,  la conoscenza della pittura si limitava spesso alle grandi collezioni pubbliche e a capolavori universalmente consacrati. A dispetto della sua profonda cultura estetica, la conoscenza diretta di Proust in materia di arti visive resta dunque limitata.

***

Una seconda fase è marcata dall’influenza fervente di John Ruskin. Per almeno un decennio (1895-1905) l’esteta inglese sarà l’incontestabile guida artistica e il mentore culturale dell’autore della Recherche. Proust entra probabilmente in contatto con Ruskin attraverso la mediazione del diplomatico inglese Robert de Billy. Ruskin non voleva che le sue opere venissero tradotte prima della sua morte, e Proust non conosceva a sufficienza ­l’inglese per apprezzare i suoi scritti in lingua originale. Egli fu dunque introdotto all’opera del critico anglosassone attraverso gli articoli e i saggi a lui consacrati, in particolare attraverso degli estratti tradotti e commentati nel Bulletin de l’Action Morale e per mezzo di due articoli di Maurice de la Suzeranne pubblicati nella Revue des deux Mondes.

Nei Pastiches et mélanges, leggiamo: “L’universo tutto a un tratto riprese ai miei occhi un valore infinito. La mia ammirazione per Ruskin donava una tale importanza alle cose che mi aveva fatto amare che queste mi sembravano cariche di un valore più grande di quello della vita stessa […]. È il potere del genio di farci amare il bello come una bellezza che sentiamo più reale di noi stessi, in queste cose che agli occhi degli altri restano limitate e caduche, come noi stessi siamo”[13].

Lo stile di Ruskin era innovativo, così come i temi prescelti, che ruotavano intorno a una teoria estetica originale fondata sulla “verità delle impressioni”, tematica che diventerà portante nella Recherche du temps perdu. Ma l’incontro con Ruskin è, prima di tutto, la messa in luce dell’opera dei grandi maestri italiani; l’immaginario proustiano, già rivolto a sud grazie alle collezioni parigine, si arricchisce ora delle visioni di Carpaccio, di Giotto, Bellini e Mantegna; si nutre – in contrapposizione alla “bellezza delle cose comuni” di cui Chardin è maestro – della sontuosità e della ricchezza dell’opera di Paolo Veronese, costruisce infine la sua visione incantata di Venezia: “Reincarnatosi in Swann e nella nonna del protagonista, Ruskin introduce il giovane narratore all’amore per Venezia e dei suoi artisti, grazie ai loro doni rispettivi: la riproduzione di un disegno di Tiziano e le litografie di alcune tele del Vecellio raffiguranti la laguna”[14].

È così che Proust si appassiona al Rinascimento italiano e scopre i tesori di Roma e Firenze, che “alimenteranno il testo con metafore, immagini, sfumature psicologiche, antichi volti che saranno accostati a quelli dei suoi contemporanei”[15]. Questi paesaggi, destinati a rimanere lieux rêvés, sollecitano incessantemente l’immaginario dello scrittore.

Poeta, critico d’arte, erudito, specialista di pittura religiosa, pittore egli stesso, Ruskin era anche l’autore di diverse copie di dipinti celebri. Attraverso uno dei suoi schizzi Proust s’innamora della bella e fragile Sefora di Botticelli, fanciulla i cui tratti delicati e l’attitudine languida ricordano a Swann un’Odette dimessa, dall’aria malinconica e vulnerabile.

John Ruskin, Sephora, 1874 (copia a partire delle Storie della vita di Mose di Sandro Botticelli alla Cappella Sistina).

Il critico inglese muore nel 1900: Proust scrive un In memoriam e, lo stesso anno, parte per Venezia. Arriva in Italia ad aprile, insiema a sua madre e gli amici Marie Nordilinger e Reynaldo Hahn. Con quest’ultimo si spinge poi fino a Padova, dove ammira gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. A ottobre torna di nuovo a Venezia: è da solo stavolta, e ne ripercorre le strade in silenzio come se volesse imprimere nella memoria le impressioni del primo soggiorno. Nei suoi viaggi in Italia, Proust integra le suggestioni ruskiniane all’esperienza del vissuto: le due visioni, riunite, popolano le pagine di Albertine scomparsa.

Di ritorno a Parigi, Proust si immerge nella traduzione della Bibbia di Amiens e di Sesamo e gigli, con l’aiuto dell’amica Marie Nordilinger e l’apporto “spesso occulto” di sua madre. Fino alla morte di quest’ultima nel 1905, Proust lavora all’edizione francese delle opere di Ruskin, interrompendo così la stesura del suo primo romanzo, Jean Santeuil: “Mi restano due Ruskin da fare e poi proverò a tradurre la mia stessa anima, sperando che, nel frattempo, questa non mi abbandoni”[16], scrive a Maurice Barrès nel 1908.

È proprio traducendo l’opera dell’esteta inglese che Proust affina il suo gusto estetico e riesce a definire uno suo stile personale. Nel corso dei cinque anni di lavoro, si distacca progressivamente dall’autore di Sesamo e gigli e decide di consacrarsi una volta per tutte al suo romanzo. Una volta acquisita la lezione che il poeta inglese aveva da impartirgli, Proust non tarda infatti a liberarsi del suo professore: traducendo Ruskin, si prepara a diventare uno scrittore.

Quello che Proust ammira in Ruskin è il lirismo, non certo il suo puritanesimo, e un mutato atteggiamento è particolarmente percepibile nell’ultimo capito della prefazione alla Bibbia di Amiens, che “tronca di netto con l’accecata ammirazione dei primi tre”. “Questo vecchio comincia a infastidirmi”, scrive nel 1904 a Marie Nordilinger. Lo scrittore inglese considera “il Bello” da una prospettiva moralistica ed esalta la “bellezza della religione”; in Proust invece è la “religione della bellezza” a regnare sovrana.

Inevitabilmente, dunque, la percezione proustiana dell’opera di alcuni artisti italiani conosciuti grazie alla mediazione di Ruskin differirà notevolmente dall’interpretazione del suo mentore. Ruskin sarà tacciato di idolatria: il senso veicolato dall’opera d’arte non è per Proust religioso ma estetico, dal momento che “il piacere estetico è precisamente quello che accompagna la rivelazione di una verità”[17]. Bisogna amare un’opera d’arte per quello che è, e non per il messaggio che veicola, ancora meno perché un altro scrittore ne parla. Proust rivolgerà la stessa critica a Robert de Montesquiou e, nella Recherche, a Swann e al barone di Charlus.

Raggiunta una pienezza intellettuale autonoma, Proust prende le distanze da Ruskin, e rivisita l’arte italiana in modo personale: la sua influenza rimane presente, ma è “smorzata e ridimensionata”. Questa fase rappresenta un momento chiave nel pensiero proustiano: stile ed opera da questo momento saranno costruite su una nuova estetica, sempre altrettanto nutrita di presenze italiane ma in modo più personale e forse (bisogna pronunciare questa parola a bassa voce, per non urtare la sensibilità del nostro genio suscettibile) meno idolatra. D’altronde, come lui stesso ha scritto, “Non c’è miglior modo di arrivare a prendere coscienza di quello che sentiamo in noi, che quello di provare a ricostruire quello che un maestro ha sentito. Grazie a questo sforzo profondo, è il nostro stesso pensiero che viene posto, insieme al suo, alla luce del giorno”[18].

***

Le crisi d’asma si erano intensificate già dal 1982; dal 1905, Proust è costretto a rinunciare a una buona parte delle sue uscite mondane e visite culturali e, com’è noto, presto la malattia finirà per confinarlo a casa.  Fra il 1897 e il 1922, anno della sua morte, Proust non è stato più di tre volte al Louvre. Quando il suo amico Jean-Louis Vaudoyer gli chiede di indicare otto dipinti che, secondo lui, non sarebbero potuti mancare in una “tribuna francese” (riprendendo il modello espositivo della tribuna degli Uffizi di Firenze) Proust risponde: “Non vado al Louvre da  quindici anni. Ci tornerò non appena potrò alzarmi al mattino”. Nel 1920 non ci era ancora riuscito : “Sono vent’anni che non vado al Louvre, l’ultima volta che sono uscito mi ci è voluta una ­preparazione di otto giorni, ed è stato per andare a sentire un concerto”. Jean Cocteau ha scritto in proposito: “Le uscite pomeridiane di Proust avevano luogo una o due volte l’anno. Ne facemmo una insieme. Andammo a vedere delle tele di Moreau da Madame Ayen e poi al Louvre, ad ammirare il San Sebastiano di Mantegna e il Bagno turco di Ingres”[19].

In una lettera non datata, Proust confida a Montesquiou: “La ragione di questo malessere che mi trascino dietro da tutti questi giorni è il fatto che sono voluto a tutti i costi andare a vedere i dipinti di Whistler. Ho fatto per un morto quello che non farei per dei vivi, pensando “ora o mai più”, “amate quello che non rivedrete di nuovo” che sembravano dirmi queste bellezze nomadi pronte a ripartire per Boston”.

Ricostruzione della camera di Proust al museo Carnavalet di Parigi.

L’ultima visita a un museo Proust la farà un anno prima di morire, nel maggio del 1921. Al Jeu de Paume di place de la Concorde si apre una grande retrospettiva sui maestri olandesi: il “petit pan de mur jaune” dellaVeduta di Delft di Vermeer lo chiama, e lui non può resistere. Scrive a Vaudoyer, e lo prega di accompagnarlo: “Non sono andato a letto ieri per andare stamattina a vedere Vermeer e Ingres. Accettate di condurre sottobraccio con voi un morto che cammina?”. Questa uscita gli ispirerà l’episodio della morte di Bergotte, episodio che rintraccia molte delle angosce provate in quell’occasione e che è, al contempo, una vera e propria “promozione del museo come luogo letterario”[20].

Negli anni di claustrazione e malattia, il museo ideale dello scrittore si restringerà ulteriormente, alimentandosi esclusivamente dei supporti stampati e delle riproduzioni d’arte. Solo grazie ai libri illustrati la pittura rimarrà parte integrante di un quotidiano recluso, e popolerà le pagine della Recherche. L’enciclopedia proustiana non è dunque tutta stampata con lo stesso inchiostro: da un lato, ci sono i pittori che Proust ha conosciuto grazie alle opere originali, dall’altro ci imbattiamo in quelli che ha scoperto solamente attraverso le riproduzioni o le descrizioni romanzate; ai primi “riserva le sue abilità di critico d’arte, ai secondi, la sua fantasia.”[21]

 

Leonardo da Vinci, Cinque caricature, 1485-1490, Galleria dell’accademia, Venezia.

 

“Albertine annodava le braccia dietro ai capelli neri, il fianco arcuato, la gamba spiovente nell’inflessione d’un collo di cigno che s’allunga e s’inflette per ritornare su se stesso. C’era solo, quando si metteva del tutto su un lato, un certo aspetto del suo viso (così bello e buono se visto di fronte) che non potevo sopportare, adunco come in certe caricature di Leonardo, rivelante, si sarebbe detto, la malvagità, l’aspra avidità di guadagno, la furbizia di una spia, la cui presenza presso di me m’avrebbe fatto orrore e che sembrava smascherata da quel profilo. M’affrettavo a prendere fra le mani il volto di Albertine e a metterlo di faccia.”

La prigioniera, t.III, p.476

 

 

 

 

 

 

Jacopo Robusti, detto Tintoretto, autoritratto (dettaglio), 1588 circa, musée du Louvre, Parigi.

“Swann aveva sempre avuto questa particolare passione di ritrovare nella pittura dei maestri non solo i caratteri generali della realtà che ci circonda, ma ciò che, al contrario, sembra meno suscettibile di generalità, vale a dire i tratti individuali dei volti che conosciamo: così, nella consistenza di un busto del doge Loredano scolpito da Antonio Rizzo, il risalto degli zigomi, l’obliquità dei sopraccigli, insomma un autentico sosia del suo cocchiere Rémy; sotto i colori di un Ghirlandaio, la fisionomia del signor di Palancy; in un ritratto del Tintoretto, l’insediarsi dei primi peli delle fedine nel grasso della guancia, l’increspatura del naso, la penetrazione dello sguardo, la congestione delle palpebre del dottor du Boulbon.”

Dalla parte di Swann

 

 

 

 

[1] Cf. a questo proposito G. Deleuze, Proust e i segni. Tale scoperta si svolge in quattro movimenti che corrispondono a quattro classi di segni (mondani–amore–sensibili–artistici) e l’opera “si presenta come l’esplorazione dei vari mondi dei segni, che si organizzano in cerchi, intersecandosi in certi punti.” Il mondo dell’arte è il mondo ultimo dei segni, che reagisce su tuti gli altri: “è per questo che tutti i segni convergono verso l’arte, tutti gli apprendimenti, per le vie le più diverse sono già apprendimenti incoscienti dell’arte stessa”.

[2] A.V. Diaconu, « Considérations sur le thème de Proust et la peinture », in Bulletin de la Societé des amis de Marcel Proust et des amis de Combray, n° 12, Illiers-Combray, 1962, p. 546.

[3]  J.-M. Quaranta, « Art », in Dictionnaire Marcel Proust, Honoré Champion, Parigi, 2004.

[4] J.-Y. Tadié, Introduzione generale alla Recherche du temps perdu, Pléiade Gallimard, Parigi, 1987.

[5] M. Proust, Contre Sainte-Beuve  preceduto da Pastiches et mélanges e seguito da Essais et articles, Parigi, Gallimard, 1984, p. 640.

[6] M. Proust, ARDTP, III, p. 6.

[7] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, BNF, Gallimard/Réunion des musées nationaux, Parigi, 1999, p. 28.

[8] M. Proust, Correspondance, texte établi, présenté et annoté par Philip Kolb, Plon, Parigi, 1991, V, p. 39.

[9] A. Beretta Anguissola, « Proust et les peintres italiens » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 34.

[10] M. Proust, Correspondance, op. cit., III, p. 250.

[11] A. Compagnon, “Proust au musée”, dans Proust, l’Ecriture et les arts, BNF, Gallimard/Réunion des musées nationaux, Parigi, 1999.

[12] Ibid.

[13] M. Proust, Contre Sainte-Beuve ; preceduto da Pastiches et mélanges et seguito da Essais et articles, Gallimard, Parigi, 1984., p. 138.

[14] A. Beretta Anguissola, « Titien », in Dictionnaire Marcel Proust, op. cit.

[15] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 27.

[16] Proust, Correspondance, op. cit., xiv, p. 93.

[17] M. Proust, Introduction à la Bible d’Amiens, Bartillat, 2007, p. 84.

[18] M. Proust, Pastiches et mélanges, op cit.

[19] J. Cocteau, 1947, La Difficulté d’être, Le Livre de Poche, Parigi, 1993.

[20] A. Compagnon, Proust au musée, op. cit.

[21] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 300.