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L’arte è una ferita che diventa luce – Proust e la pittura italiana

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(Eleonora Marangoni, classe 1983, laureata a Parigi in Letteratura Comparata, nel 2011 ha scritto e pubblicato in Francia il saggio “Proust e la pittura italiana” per Michel de Maule éditions, attualmente in ristampa. Nella speranza che trovi presto un editore anche in Italia, presentiamo qui l’introduzione.)

Samuel Morse, Gallery of the Louvre, 1831–1833

di Eleonora Marangoni

Alla ricerca del tempo perduto è il racconto di una vocazione letteraria. Come gli attanti delle fiabe di Propp, quattro personaggi scortano il protagonista delle Recherche nel suo lungo apprentissage [1] verso l’iniziazione artistica: sono il pittore impressionista Elstir, la Berma­ – regina dell’arte drammatica –, il letterato Bergotte e il compositore Vinteuil. Ciascuno riveste un ruolo emblematico nell’economia del romanzo: Bergotte è l’archetipo della creazione letteraria; Vinteuil e la sua sonata rappresentano l’universo musicale; la Berma e la Fedra di Racine vanno in scena per il teatro intero; i paesaggi impressionisti di Elstir sono sineddoche della pittura nel suo insieme.

L’excipit del romanzo, Il tempo ritrovato, suggella e conclude questo percorso interiore, e ci ricorda che l’arte può farsi solida certezza per chi la sceglie come guida solo a patto che la si intenda come rigorosa disciplina fisica e intellettuale e non come mero intrattenimento estetico. Creatrice di presenze impalpabili, carica di miraggi spaesanti e di punti di riferimento effimeri, l’arte diventa ricompensa solo nel momento in cui arriva a materializzarsi nello slancio luminoso della creazione.

Nella sua accezione classica, l’arte è culto della bellezza, e risponde alle esigenze di superiorità e di eccellenza del sacro. La parola “culto”, dal latino “colere”, coltivare, indica una pratica assidua, svela un processo quotidiano, suggerisce un omaggio ricorrente: su stessa “fede” riposa il dialogo di Proust con la creazione artistica, che “rappresentava per lui l’idea stessa della divinità (…) La sua vita intellettuale e quella fisica furono d’altronde entrambe subordinate a questo fine supremo” [2]. L’arte non va dunque intesa solamente come la chiave di lettura della Recherche. Essa è anche un mezzo, che permette di restituire l’essenza delle cose, “di ciò che è più reale della vita, e che costituisce la vita vera”[3].

Sebbene nella sua opera Proust insegua “il sogno romantico e simbolista che hanno condiviso Mallarmé e Wagner”[4] di una sintesi fra tutte le arti, nella Recherche è la pittura a regnare incontrastata. Si tratta di una preferenza marcata: dei quattro attanti che sostengono il protagonista nel suo percorso interiore, solo la figura del pittore Elstir sopravvive fino alla fine del romanzo.

La pittura per Proust è in primo luogo un esercizio dello spirito, una “cosa mentale”. Proust prende in prestito questa espressione da colui che designa nel 1890 come il suo pittore preferito, Leonardo da Vinci: “Ciò che sembra esteriore, è in noi che lo scopriamo. La nozione di cosa mentale, dice Leonardo da Vinci della pittura, può essere applicato a ogni opera d’arte.”[5] Solamente attraverso l’invisibile si arriva dunque a penetrare il visibile: un quadro non esiste senza la sua interpretazione, e qualunque espressione artistica si situa a metà strada fra materia e spirito. Al contempo imitazione e atto creatore, la pittura riunisce nel suo gesto due movimenti opposti e complementari: da un lato, essa cristallizza la bellezza del mondo esterno; dall’altro, la percezione della realtà è influenzata dalle visioni pittoriche. Lo spettatore è dunque parte attiva nel processo artistico in quanto, attraverso la contemplazione, non solo si trova a riconoscere delle realtà, ma ne inventa delle nuove: “I miei occhi, istruiti da Elstir a privilegiare proprio gli elementi che un tempo scartavo a bella posta, contemplavano lungamente ciò che il primo anno non erano stati capaci di vedere”.[6]

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Fine conoscitore in materia d’arte ed esteta devoto, Proust si appassiona alle arti visive in tenera età. Anche se “non è dotato per il disegno, e ne patisce”, riempie i taccuini di schizzi, figure accennate, personaggi abbozzati. Resterà sempre diffidente nei confronti della fotografia e, quando vuole farsi un’idea di una città che non conosce, il suo primo riflesso è quello di scoprirla attraverso la visione dei grandi artisti che l’hanno rappresentata: “Rimpiango il fatto di non aver guardato abbastanza la Veduta di Roma all’interno della quale si staglia uno degli uomini dipinti da Ingres (il ritratto dell’architetto Granet, n.d.e.) – scrive a Jean-Louis Vaudoyer, suo corrispondente dal 1910. Non conosco Roma, e vorrei, grazie allo studio di scorci come questo – rinforzati da qualche schizzo di Corot – immaginarla.”

Jan Vermeer, Veduta di Delft,1660, conservato al Mauritshuis dell’Aia.

Nella sua opera, Proust cita un centinaio di artisti, diversi per stile, tecnica, epoca e provenienza. Aldilà del leitmotiv del “pezzetto di muro giallo” di Vermeer, la Recherche trabocca di riferimenti pittorici: non mancano i tramonti di Whistler, l’Infanta di Velasquez, gli strapiombi di Turner, l’Inquisizione di El Greco, i tutù di Degas. Proust si serve dell’ opera dei grandi maestri per caratterizzare personaggi, cesellare descrizioni, sublimare in valori eterni fuggevoli realtà altrimenti schiave del Tempo.

Nella Recherche la pittura non è più mero elemento decorativo, come nei romanzi di Balzac o di Zola, ma una “peripezia, un evento, un vero e proprio personaggio”.

Le doppie dimensioni di vita/arte e letteratura/pittura se ne stanno abbracciate e, quello che Proust ricerca nei pittori, non è un semplice riferimento estetico, ma una nuova prospettiva, una visione del mondo unica e al contempo universale, eternizzata nel gesto dello scrivere. Il romanzo stesso sembra piegarsi alle leggi che la pittura detta, e pratica a sua volta vere e proprie trasposizioni d’arte, “care a Gautier e a Baudelaire, che dal campo della poesia passano ora a quello della narrazione”[7].

L’apporto dell’arte italiana appare, in questo contesto, decisivo quanto sottovalutato: gli artisti italiani citati da Proust sono poco meno di una trentina, secondi solo agli esponenti della scuola francese, e quasi il triplo dei pittori fiamminghi, olandesi e inglesi. L’Italia fornisce colori e sagome all’imponente affresco proustiano e, in un gioco perpetuo fra bellezza e verità, ogni artista riveste una specifica funzione, intessuta di prerogative estetiche e univoche originalità: il lusso e i fasti di una serata mondana dai Guermantes si nutrono delle opulenze veneziane delle tele di Carpaccio e di Veronese, l’attitudine sensuale di Odette de Crécy si profila nelle eteree fanciulle del Botticelli, l’ingenua modestia delle figure di Giotto modella i tratti autentici e pieni d’una domestica sempliciotta.

Sandro Botticelli, Madonna del melograno (dettaglio), 1487, museo degli Uffizi, Firenze.

I modelli, i maestri e le influenze di Proust in materia di critica ed educazione artistica furono numerosi, eterogenei e in definitiva troppo intricati per una mappatura lineare. Eppure, in un’ideale panoramica aerea, il dialogo dell’autore della Recherche con l’arte italiana sorvolerebbe tre grandi zone distinte, estese e a tratti confluenti. Queste fasi rinviano a loro volta ai luoghi cardine dell’estasi artistica: il Louvre, museo in cui Proust scopre l’Italia, la città di Venezia (e la cappella degli Scrovegni a Padova), dove per un momento s’illude di possederla, e una camera da letto foderata di sughero al 102 boulevard Hausmann, dove non smette di rimpiangerla sognando i campi d’oro di Firenze e i cieli rossi di Roma.

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Proust nasce affamato d’arte: ancora adolescente, si interessa alle opere minori di Leonardo, sa tutto di Whistler e Moreau e si estasia davanti alle delizie frugali di Chardin: “prima di aver visto dei Chardin non mi ero mai reso conto di cosa c’era di bello, nella tavola sparecchiata a casa dei miei genitori, in un lembo di tovaglia ripiegato su se stesso, o in un coltello contro un’ostrica vuota”[8].

Suo “professeur de beauté” in questa prima fase, il conte Robert de Montesquiou, personaggio mondano dell’epoca, modello del barone Charlus e icona del clima “decadente, languido, estetizzante”[9] della Parigi della fine dell’800. I due si conoscono il 13 aprile 1893 nel salotto di Madeleine Lemaire, ­celebre acquarellista dell’epoca. L’incontro con Montesquiou è la rivelazione di un mondo: Proust scopre le minuzie di Pisanello, l’esotismo orientale del japonisme e l’Art Nouveau. Quasi trent’anni dopo, la sua ammirazione per Montesquieu è ancora intatta: nel 1921, scrive a Jacques Boulenger definendolo “il miglior critico d’arte dei nostri tempi […] Non possiamo che arricchirci di fronte alla sua saggezza […] è un critico d’arte, un saggista incredibile, che sa rendere come nessuno, in prosa, l’opera di un pittore o di uno scultore che gli piacciono.”[10]

Il Louvre è dunque il tempio di questi primi anni da esteta devoto. All’epoca, il museo era lo spazio pubblico per eccellenza, primo luogo di cultura, “rivale trionfante del teatro, della biblioteca e della chiesa”[11]. È nelle gallerie dell’antico palazzo reale che il giovane Proust dá appuntamento ai suoi amici. Fra gli altri, lo scrittore Lucien Daudet (figlio del celebre drammaturgo Alphonse), il collezionista d’arte René Gimpel, lo stesso Montesquiou e l’esteta Charles Haas (uno dei modelli di Swann), che “lo iniziano ai raffinati segreti dell’amatore d’arte”[12].

Sono anni mondani, vivi e affamati: Proust fa il suo ingresso in società, divora il mondo con gli occhi e lo guarda brillare nei salotti.

Charles Ephrussi, noto collezionista e direttore della Gazette des Beaux-Arts, gli apre le porte del suo ufficio in rue Favart, che ospitava il fondo bibliotecario della rivista contenente le pubblicazioni d’arte più autorevoli – come il prestigioso Burlington Magazine – e i cataloghi di vendita delle case d’asta più esclusive.

Parigi non tarda ad accoglierlo nei suoi salotti: dagli Straus, Proust ammira dei Monet; in casa di Ephrussi contempla dei Manet; Georges Carpentier gli mostra i suoi Renoir, Jean Cocteau gli presenta Picasso. Alla galleria Durand-Ruel, nel 1900, Proust visita la memorabile esposizione delle ninfee di Monet, che consacrerà l’impressionismo. Incontra Degas, Forain, Rodin e Boldini, e nel corso della sua vita assisterà progressivamente al tramonto del simbolismo, all’apogeo del cubismo e all’alba del surrealismo.

In questa fase, ricordiamo anche la nascita dell’amicizia con il pittore Jacques-Emile Blanche, autore del più celebre ritratto dello scrittore, conservato oggi al museo d’Orsay. Proust scrive la prefazione di una raccolta di scritti di critica d’arte ad opera del pittore francese, dal titolo Da David a Degas.

Jacques Emile Blanche, Portrait de Marcel Proust, 1892.

Proust entra dunque in contatto coi maestri della sua generazione, li vede al lavoro nei loro ateliers e osserva, dalla prospettiva privilegiata delle collezioni private, attitudini e tendenze dell’arte del suo tempo. Tuttavia, per un uomo dell’inizio del ventesimo secolo – per mondano, curioso o potente che fosse – non era semplice entrare in contatto con i capolavori della pittura mondiale. All’epoca gli editori d’arte non esistevano quasi, le riproduzioni dei dipinti erano in bianco e nero e, anche per un parigino cultivé,  la conoscenza della pittura si limitava spesso alle grandi collezioni pubbliche e a capolavori universalmente consacrati. A dispetto della sua profonda cultura estetica, la conoscenza diretta di Proust in materia di arti visive resta dunque limitata.

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Una seconda fase è marcata dall’influenza fervente di John Ruskin. Per almeno un decennio (1895-1905) l’esteta inglese sarà l’incontestabile guida artistica e il mentore culturale dell’autore della Recherche. Proust entra probabilmente in contatto con Ruskin attraverso la mediazione del diplomatico inglese Robert de Billy. Ruskin non voleva che le sue opere venissero tradotte prima della sua morte, e Proust non conosceva a sufficienza ­l’inglese per apprezzare i suoi scritti in lingua originale. Egli fu dunque introdotto all’opera del critico anglosassone attraverso gli articoli e i saggi a lui consacrati, in particolare attraverso degli estratti tradotti e commentati nel Bulletin de l’Action Morale e per mezzo di due articoli di Maurice de la Suzeranne pubblicati nella Revue des deux Mondes.

Nei Pastiches et mélanges, leggiamo: “L’universo tutto a un tratto riprese ai miei occhi un valore infinito. La mia ammirazione per Ruskin donava una tale importanza alle cose che mi aveva fatto amare che queste mi sembravano cariche di un valore più grande di quello della vita stessa […]. È il potere del genio di farci amare il bello come una bellezza che sentiamo più reale di noi stessi, in queste cose che agli occhi degli altri restano limitate e caduche, come noi stessi siamo”[13].

Lo stile di Ruskin era innovativo, così come i temi prescelti, che ruotavano intorno a una teoria estetica originale fondata sulla “verità delle impressioni”, tematica che diventerà portante nella Recherche du temps perdu. Ma l’incontro con Ruskin è, prima di tutto, la messa in luce dell’opera dei grandi maestri italiani; l’immaginario proustiano, già rivolto a sud grazie alle collezioni parigine, si arricchisce ora delle visioni di Carpaccio, di Giotto, Bellini e Mantegna; si nutre – in contrapposizione alla “bellezza delle cose comuni” di cui Chardin è maestro – della sontuosità e della ricchezza dell’opera di Paolo Veronese, costruisce infine la sua visione incantata di Venezia: “Reincarnatosi in Swann e nella nonna del protagonista, Ruskin introduce il giovane narratore all’amore per Venezia e dei suoi artisti, grazie ai loro doni rispettivi: la riproduzione di un disegno di Tiziano e le litografie di alcune tele del Vecellio raffiguranti la laguna”[14].

È così che Proust si appassiona al Rinascimento italiano e scopre i tesori di Roma e Firenze, che “alimenteranno il testo con metafore, immagini, sfumature psicologiche, antichi volti che saranno accostati a quelli dei suoi contemporanei”[15]. Questi paesaggi, destinati a rimanere lieux rêvés, sollecitano incessantemente l’immaginario dello scrittore.

Poeta, critico d’arte, erudito, specialista di pittura religiosa, pittore egli stesso, Ruskin era anche l’autore di diverse copie di dipinti celebri. Attraverso uno dei suoi schizzi Proust s’innamora della bella e fragile Sefora di Botticelli, fanciulla i cui tratti delicati e l’attitudine languida ricordano a Swann un’Odette dimessa, dall’aria malinconica e vulnerabile.

John Ruskin, Sephora, 1874 (copia a partire delle Storie della vita di Mose di Sandro Botticelli alla Cappella Sistina).

Il critico inglese muore nel 1900: Proust scrive un In memoriam e, lo stesso anno, parte per Venezia. Arriva in Italia ad aprile, insiema a sua madre e gli amici Marie Nordilinger e Reynaldo Hahn. Con quest’ultimo si spinge poi fino a Padova, dove ammira gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. A ottobre torna di nuovo a Venezia: è da solo stavolta, e ne ripercorre le strade in silenzio come se volesse imprimere nella memoria le impressioni del primo soggiorno. Nei suoi viaggi in Italia, Proust integra le suggestioni ruskiniane all’esperienza del vissuto: le due visioni, riunite, popolano le pagine di Albertine scomparsa.

Di ritorno a Parigi, Proust si immerge nella traduzione della Bibbia di Amiens e di Sesamo e gigli, con l’aiuto dell’amica Marie Nordilinger e l’apporto “spesso occulto” di sua madre. Fino alla morte di quest’ultima nel 1905, Proust lavora all’edizione francese delle opere di Ruskin, interrompendo così la stesura del suo primo romanzo, Jean Santeuil: “Mi restano due Ruskin da fare e poi proverò a tradurre la mia stessa anima, sperando che, nel frattempo, questa non mi abbandoni”[16], scrive a Maurice Barrès nel 1908.

È proprio traducendo l’opera dell’esteta inglese che Proust affina il suo gusto estetico e riesce a definire uno suo stile personale. Nel corso dei cinque anni di lavoro, si distacca progressivamente dall’autore di Sesamo e gigli e decide di consacrarsi una volta per tutte al suo romanzo. Una volta acquisita la lezione che il poeta inglese aveva da impartirgli, Proust non tarda infatti a liberarsi del suo professore: traducendo Ruskin, si prepara a diventare uno scrittore.

Quello che Proust ammira in Ruskin è il lirismo, non certo il suo puritanesimo, e un mutato atteggiamento è particolarmente percepibile nell’ultimo capito della prefazione alla Bibbia di Amiens, che “tronca di netto con l’accecata ammirazione dei primi tre”. “Questo vecchio comincia a infastidirmi”, scrive nel 1904 a Marie Nordilinger. Lo scrittore inglese considera “il Bello” da una prospettiva moralistica ed esalta la “bellezza della religione”; in Proust invece è la “religione della bellezza” a regnare sovrana.

Inevitabilmente, dunque, la percezione proustiana dell’opera di alcuni artisti italiani conosciuti grazie alla mediazione di Ruskin differirà notevolmente dall’interpretazione del suo mentore. Ruskin sarà tacciato di idolatria: il senso veicolato dall’opera d’arte non è per Proust religioso ma estetico, dal momento che “il piacere estetico è precisamente quello che accompagna la rivelazione di una verità”[17]. Bisogna amare un’opera d’arte per quello che è, e non per il messaggio che veicola, ancora meno perché un altro scrittore ne parla. Proust rivolgerà la stessa critica a Robert de Montesquiou e, nella Recherche, a Swann e al barone di Charlus.

Raggiunta una pienezza intellettuale autonoma, Proust prende le distanze da Ruskin, e rivisita l’arte italiana in modo personale: la sua influenza rimane presente, ma è “smorzata e ridimensionata”. Questa fase rappresenta un momento chiave nel pensiero proustiano: stile ed opera da questo momento saranno costruite su una nuova estetica, sempre altrettanto nutrita di presenze italiane ma in modo più personale e forse (bisogna pronunciare questa parola a bassa voce, per non urtare la sensibilità del nostro genio suscettibile) meno idolatra. D’altronde, come lui stesso ha scritto, “Non c’è miglior modo di arrivare a prendere coscienza di quello che sentiamo in noi, che quello di provare a ricostruire quello che un maestro ha sentito. Grazie a questo sforzo profondo, è il nostro stesso pensiero che viene posto, insieme al suo, alla luce del giorno”[18].

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Le crisi d’asma si erano intensificate già dal 1982; dal 1905, Proust è costretto a rinunciare a una buona parte delle sue uscite mondane e visite culturali e, com’è noto, presto la malattia finirà per confinarlo a casa.  Fra il 1897 e il 1922, anno della sua morte, Proust non è stato più di tre volte al Louvre. Quando il suo amico Jean-Louis Vaudoyer gli chiede di indicare otto dipinti che, secondo lui, non sarebbero potuti mancare in una “tribuna francese” (riprendendo il modello espositivo della tribuna degli Uffizi di Firenze) Proust risponde: “Non vado al Louvre da  quindici anni. Ci tornerò non appena potrò alzarmi al mattino”. Nel 1920 non ci era ancora riuscito : “Sono vent’anni che non vado al Louvre, l’ultima volta che sono uscito mi ci è voluta una ­preparazione di otto giorni, ed è stato per andare a sentire un concerto”. Jean Cocteau ha scritto in proposito: “Le uscite pomeridiane di Proust avevano luogo una o due volte l’anno. Ne facemmo una insieme. Andammo a vedere delle tele di Moreau da Madame Ayen e poi al Louvre, ad ammirare il San Sebastiano di Mantegna e il Bagno turco di Ingres”[19].

In una lettera non datata, Proust confida a Montesquiou: “La ragione di questo malessere che mi trascino dietro da tutti questi giorni è il fatto che sono voluto a tutti i costi andare a vedere i dipinti di Whistler. Ho fatto per un morto quello che non farei per dei vivi, pensando “ora o mai più”, “amate quello che non rivedrete di nuovo” che sembravano dirmi queste bellezze nomadi pronte a ripartire per Boston”.

Ricostruzione della camera di Proust al museo Carnavalet di Parigi.

L’ultima visita a un museo Proust la farà un anno prima di morire, nel maggio del 1921. Al Jeu de Paume di place de la Concorde si apre una grande retrospettiva sui maestri olandesi: il “petit pan de mur jaune” dellaVeduta di Delft di Vermeer lo chiama, e lui non può resistere. Scrive a Vaudoyer, e lo prega di accompagnarlo: “Non sono andato a letto ieri per andare stamattina a vedere Vermeer e Ingres. Accettate di condurre sottobraccio con voi un morto che cammina?”. Questa uscita gli ispirerà l’episodio della morte di Bergotte, episodio che rintraccia molte delle angosce provate in quell’occasione e che è, al contempo, una vera e propria “promozione del museo come luogo letterario”[20].

Negli anni di claustrazione e malattia, il museo ideale dello scrittore si restringerà ulteriormente, alimentandosi esclusivamente dei supporti stampati e delle riproduzioni d’arte. Solo grazie ai libri illustrati la pittura rimarrà parte integrante di un quotidiano recluso, e popolerà le pagine della Recherche. L’enciclopedia proustiana non è dunque tutta stampata con lo stesso inchiostro: da un lato, ci sono i pittori che Proust ha conosciuto grazie alle opere originali, dall’altro ci imbattiamo in quelli che ha scoperto solamente attraverso le riproduzioni o le descrizioni romanzate; ai primi “riserva le sue abilità di critico d’arte, ai secondi, la sua fantasia.”[21]

 

Leonardo da Vinci, Cinque caricature, 1485-1490, Galleria dell’accademia, Venezia.

 

“Albertine annodava le braccia dietro ai capelli neri, il fianco arcuato, la gamba spiovente nell’inflessione d’un collo di cigno che s’allunga e s’inflette per ritornare su se stesso. C’era solo, quando si metteva del tutto su un lato, un certo aspetto del suo viso (così bello e buono se visto di fronte) che non potevo sopportare, adunco come in certe caricature di Leonardo, rivelante, si sarebbe detto, la malvagità, l’aspra avidità di guadagno, la furbizia di una spia, la cui presenza presso di me m’avrebbe fatto orrore e che sembrava smascherata da quel profilo. M’affrettavo a prendere fra le mani il volto di Albertine e a metterlo di faccia.”

La prigioniera, t.III, p.476

 

 

 

 

 

 

Jacopo Robusti, detto Tintoretto, autoritratto (dettaglio), 1588 circa, musée du Louvre, Parigi.

“Swann aveva sempre avuto questa particolare passione di ritrovare nella pittura dei maestri non solo i caratteri generali della realtà che ci circonda, ma ciò che, al contrario, sembra meno suscettibile di generalità, vale a dire i tratti individuali dei volti che conosciamo: così, nella consistenza di un busto del doge Loredano scolpito da Antonio Rizzo, il risalto degli zigomi, l’obliquità dei sopraccigli, insomma un autentico sosia del suo cocchiere Rémy; sotto i colori di un Ghirlandaio, la fisionomia del signor di Palancy; in un ritratto del Tintoretto, l’insediarsi dei primi peli delle fedine nel grasso della guancia, l’increspatura del naso, la penetrazione dello sguardo, la congestione delle palpebre del dottor du Boulbon.”

Dalla parte di Swann

 

 

 

 

[1] Cf. a questo proposito G. Deleuze, Proust e i segni. Tale scoperta si svolge in quattro movimenti che corrispondono a quattro classi di segni (mondani–amore–sensibili–artistici) e l’opera “si presenta come l’esplorazione dei vari mondi dei segni, che si organizzano in cerchi, intersecandosi in certi punti.” Il mondo dell’arte è il mondo ultimo dei segni, che reagisce su tuti gli altri: “è per questo che tutti i segni convergono verso l’arte, tutti gli apprendimenti, per le vie le più diverse sono già apprendimenti incoscienti dell’arte stessa”.

[2] A.V. Diaconu, « Considérations sur le thème de Proust et la peinture », in Bulletin de la Societé des amis de Marcel Proust et des amis de Combray, n° 12, Illiers-Combray, 1962, p. 546.

[3]  J.-M. Quaranta, « Art », in Dictionnaire Marcel Proust, Honoré Champion, Parigi, 2004.

[4] J.-Y. Tadié, Introduzione generale alla Recherche du temps perdu, Pléiade Gallimard, Parigi, 1987.

[5] M. Proust, Contre Sainte-Beuve  preceduto da Pastiches et mélanges e seguito da Essais et articles, Parigi, Gallimard, 1984, p. 640.

[6] M. Proust, ARDTP, III, p. 6.

[7] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, BNF, Gallimard/Réunion des musées nationaux, Parigi, 1999, p. 28.

[8] M. Proust, Correspondance, texte établi, présenté et annoté par Philip Kolb, Plon, Parigi, 1991, V, p. 39.

[9] A. Beretta Anguissola, « Proust et les peintres italiens » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 34.

[10] M. Proust, Correspondance, op. cit., III, p. 250.

[11] A. Compagnon, “Proust au musée”, dans Proust, l’Ecriture et les arts, BNF, Gallimard/Réunion des musées nationaux, Parigi, 1999.

[12] Ibid.

[13] M. Proust, Contre Sainte-Beuve ; preceduto da Pastiches et mélanges et seguito da Essais et articles, Gallimard, Parigi, 1984., p. 138.

[14] A. Beretta Anguissola, « Titien », in Dictionnaire Marcel Proust, op. cit.

[15] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 27.

[16] Proust, Correspondance, op. cit., xiv, p. 93.

[17] M. Proust, Introduction à la Bible d’Amiens, Bartillat, 2007, p. 84.

[18] M. Proust, Pastiches et mélanges, op cit.

[19] J. Cocteau, 1947, La Difficulté d’être, Le Livre de Poche, Parigi, 1993.

[20] A. Compagnon, Proust au musée, op. cit.

[21] T. Laghet, « Le vernis d’un autre maître. Proust et la peinture ancienne » in Proust, l’écriture et les arts, op. cit., p. 300.

 

Kenneth Anger alla Galérie du Jour

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Kenneth Anger – Inauguration of the Pleasure Dome (195di

 

di

Enrico Camporesi

 

È un’annosa questione, quella che circonda le esposizioni di cinema. Si sa come, nello spazio museale, una componente fondamentale del film, la sua stessa condizione di esistenza, venga a mancare – la proiezione. Ancora più inconcepibile è, a prima vista, la presenza di un cineasta in una galleria. Cosa si può vendere, infatti? Non certo una copia di un film, poco appetibile per i collezionisti. Del resto (ma questo è forse un altro corno del problema) siamo di fronte alle stessa trita questione dell’arte della riproducibilità tecnica. Più volte mi domando se non sarebbe proficuo accantonare questa definizione insoddisfacente, in favore di un paradigma diverso – Paolo Cherchi Usai proponeva, dal canto suo, un’arte della ripetizione. (1)

 

Non questa la sede per spingerci in un’inchiesta ontologica sul cinema. Più pragmaticamente, invece, in termini di mercato qualcosa è stato fatto. Nella sua estrema semplicità, sembra uno stratagemma soddisfacente, per il cineasta, trarre dalla copia del film stampe di qualche immagine. Dal film alla foto dunque, in edizione numerata e siglata. Questa la soluzione adottata da tempo da Jonas Mekas. Così è anche nella mostra di Kenneth Anger alla Galérie du Jour di Agnès B. a Parigi (che del resto, è anche la gallerista di Mekas). Vi è allora una stanza con qualche stampa di grande proporzioni. Lo spettatore si avvicina e l’occhio si dirige a scrutare la consistenza dell’immagine. La grana però pare svanita, dissolta in una piattezza sconcertante. Un pensiero lo assale, le stampe sono incredibilmente deludenti. Certo l’effetto dell’Osiride interpretato da Donald Cammell in Lucifer Rising, ad esempio, non è del tutto svanito, ma quando si scorge sul cartellino la scritta tirage numérique, l’insieme appare ben più deprimente.

 

Non mancano, ad ogni modo, i film esposti (in proiezione video): in una sala sta Inauguration of the Pleasure Dome (1954) accompagnato dalla Messa glagolitica di Janáček, nell’altra Puce Moment (1949), che l’occhio distratto del visitatore si può concedere di sbirciare. Certo rimane poca cosa dell’impatto dei film nella sala ma qualcuno potrebbe obiettare che fra le sparse membra della filmografia di Anger, così disseminata di progetti incompiuti, smarriti o appena abbozzati, una visione parziale non sia poi così fuori luogo, quasi come si stesse a guardare gli arti amputati caduti dal letto di Procuste. C’è però qualcosa che ha attratto prevalentemente la nostra attenzione. La sala di ingresso presenta alcune memorabilia dalla collezione di Kenneth Anger: ritratti del cineasta, volantini per le proiezioni di alcuni suoi lavori. Ancora meglio sono le pareti allestite coi formidabili ritrovamenti di Anger. Un muro è completamente ricoperto di immagini di Billie Dove.  Ricordi di una carriera folgorante, al fianco di Douglas Fairbanks in The Black Pirate (Albert Parker, 1926) ma soprattutto a fianco di Howard Hughes, del quale fu la compagna. Incastonato al centro di questa parete colma di ricordi sta un dipinto della stessa Dove, Masquerade, in guisa di testimonianza del suo talento in pittura. Anger, l’ammiratore, l’aveva risparmiata nel suo impietoso Hollywood Babilionia, citandola solamente di striscio in qualche riga dal sapore melanconico sulla Hollywood post crisi del Ventinove. (2)

 

Su muro di fronte si trova un altro fitto mosaico di fotografie e locandine, di un altro idolo di Kenneth Anger, Rodolfo Valentino. Altrove, il cineasta ricordava come fosse legato alla sua famiglia, per via di una nonna costumista che, a suo dire, gli avrebbe donato i bottoni del cappotto che Rudy indossava in The Eagle (Clarence Brown, 1925). Probabilmente si tratta di un’altra storia da intrecciare al suo vissuto fantastico, in perenne indecidibilità fra la realtà e la finzione, sulla falsariga dell’aneddoto che lo vuole attore bambino nel Midsummer’s Night Dream (1935) di Max Reinhardt. In fondo, non vi è poi alcuna ragione di voler provare il contrario. Ciò che conta è che gli avvenimenti del suo vissuto, anche qualora fasulli, sono eloquenti riguardo all’autore. Così come parlano queste foto disposte davanti ai nostri occhi, una sorta di atlante mirabile della Babilonia californiana della quale Anger aveva raccontato le peripezie a più riprese. C’è appunto più di un richiamo nelle sale agli scritti del cineasta sulla Hollywood tumultuosa: in una teca stanno alcuni articoli dai Cahiers du cinéma, un abbozzo del volume a venire (che sarà pubblicato inizialmente in francese, da Jean-Jacques Pauvert, nel 1959). (3) Vi è poi una sorta di scultura al neon, con un paio di labbra femminili aperte, stile insegna da night bar. Sulle labbra si legge, neanche a dirlo, Hollywood Babylon.

 

Anger sostiene di aver cominciato a raccogliere fotografie dalla tenera età di tre, quattro anni. Una passione febbrile lo ha sostenuto nell’accumulare vertiginosamente questi materiali, «come se si trattasse di proteggersi dal mondo tramite un fragile ma raffinato, efficace scudo», ha scritto giustamente Jean-Claude Lebensztejn. (4) Di tale pratica la mostra alla Galerie du Jour restituisce una visione avvincente e credibile: una sorta di tempietto portatile dove ci può recare per rendere omaggio agli idoli di celluloide.

 

Il culto della Hollywood tramontata pare correre parallelo, nell’opera di Anger alla venerazione di Lucifero. Del resto non c’è da stupirsi giacché più volte lo stesso ha identificato questo “angelo della luce” con il cinema e il fascio di luce emesso dal proiettore. Fra gli oggetti disseminati nella sala da Anger sta, a illuminare la parete dedicata a Valentino, una curiosa abat-jour che riprende un momento da The Sheik (George Melford, 1921). La tenue luce emessa dalla lampada carezza garbatamente i ritratti del divo. Forse anche in questo bizzarro soprammobile si annida un poco della potenza di Lucifero.

 

Kenneth Anger – Galerie du Jour Agnès B.: dal 13 settembre al 3 novembre 2012. 44 rue Quincampoix, 75004 Paris.


Note:

[1]) Cfr. P. Cherchi Usai, The death of cinema. History, cultural memory and the digital dark age, BFI, London 2001, p. 59.

2) Cfr. K. Anger, Hollywood Babylon, Dell Publishing, New York 19752, p. 152.

3) Cfr. K. Anger, L’Olympe ou le comportement des dieux, in «Cahiers du cinéma», n. 76, novembre 1957; Id., Hollywood où le comportement des mortels, in «Cahiers du cinéma», n. 77, dicembre 1957; Id., Les dieux aux enfers (fin), in «Cahiers du cinéma», n. 79, gennaio 1958.

4) J.-C. Lebensztejn, Figures de culte. Beckford avec Anger, in «Vacarme», n. 24, estate 2003.

 

Nuovi autismi 26 – La stupidità degli scrittori

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di Giacomo Sartori

Personalmente adoro gli scrittori un po’ stupidi, e diffido degli scrittori intelligenti. Si presuppone che i grandi scrittori debbano essere senza fallo molto intelligenti, e che proprio questo li caratterizzi, e invece a ben vedere quello che amiamo in loro è proprio l’ottusità e la stoltezza. Non dico che gli scrittori debbano essere deficienti, e che più ebeti sono meglio è, come si potrebbe dedurre da certa narrativa attuale, ma insomma una certa dose di scempiaggine mi sembra difficilmente rimpiazzabile. Uno scrittore troppo intelligente è come una pietanza con gusti scontatamente ridondanti e servita con troppa prosopopea, un dolce con un eccesso di burro e panna montata, un paludato salotto che richiama alla mente una rivista di arredamento, dove ti siedi in punta di poltrona. Senza voler indulgere in incauti biografismi, e guardandosi bene da una retorica della devianza, a ben guardare Dante era un bigotto pedantone con il dente avvelenato, Stendhal un presuntuoso sempliciotto, Flaubert un tetro maniaco depressivo, Baudelaire un irresponsabile sotto tutela, Cervantes un mezzo deficiente, Dostoevskij uno psicopatico, l’Ariosto un candido (con la compulsione all’adulazione) patito di macellerie sanguinolente e virginali fichettine, Thomas Bernhard e Céline due deliranti e logorroici fanatici, Dickens un lacrimoso buontempone, Marguerite Duras una melensa sognatrice, Robert Walser e Dino Campana due minorati mentali, Marina Cvetaeva e Virginia Woolf due derelitte lucidissime squinternate, le Brontë e Emily Dickinson non ne parliamo, Svevo un pedissequo frustrato, Hemingway un vitellone vieppiù patetico allo scemare del testosterone, Gadda un prematuro inacidito vecchiaccio, e via dicendo. Se fossero stati così sagaci la maggior parte di questi personaggi lo avrebbero dimostrato nella vita di tutti i giorni, o comunque non sarebbero finiti a scrivere. Gli scrittori davvero intelligenti, qualcuno ce n’è, si salvano solo affogando il loro acume nei meandri di bizantine mangrovie, come fa Proust, o invischiandolo nelle ragnatele enigmatiche dell’angoscia, Kafka e Beckett insegnano, o di qualche altro nemico giurato del raziocinio. Ma in linea generale non c’è peggior sicario di testi letterari che la superiorità cerebrale. Il pessimo Umberto Eco, rimanendo ai giorni nostri, è forse il paradigma dei danni irrimediabili che può causare l’intelletto alla narrazione, come anche Claudio Magris, e l’intoccabile Borges, seppure a un tutt’altro e squisito livello, e scendendo di quota Sartre e Simone de Beauvoir, e Jorge Semprun, e René de Ceccaty, e nella poesia Octavio Paz e Alberto Casadei, ma per me lo stesso Celati è un po’ troppo intelligente, anche se finge sempre il contrario, proprio come Vassalli, e quatto quatto l’inconsistente Baricco, e tanti altri, a tratti perfino Michele Mari, in qualche pagina perfino il sensibilissimo Giorgio Vasta. Gli intelligentoni di cui parlo a rigor di logica andrebbero chiamati algidi habitué della letteratura, ingegneri specializzati nel riciclo narrativo, ragionieri dell’estetica, ironici giocolieri, virtuosistici funamboli, scafati fantini del cavallo postmoderno, pedanti docenti, pensatori, superdotati della tastiera, non certo romanzieri e poeti. In moltissimi casi l’eccesso di perspicacia riesce a sabotare talenti e ispirazioni davvero possenti: pensiamo per esempio a Arbasino o a Aldo Busi. Del resto è una calamità nazionale, molti nostri scrittori debuttano benino, e poi pensano troppo, si lasciano fuorviare da una scontata deriva di solito commercialmente populista, ma a volte appunto cerebrale. Ne consegue un’inflazione esibizionistica, un’ipertrofia delle frasi o dell’opera alla lunga stomachevole, o anche solo una zavorra di cinguettii d’erudizione e presunte argutezze che impedisce ai testi di volare alto. Forse la ricetta migliore per avere uno scrittore di razza è quindi un’intelligenza mediocre e marezzata di manchevolezze che la inclinino verso una qualche forma di idiozia, seppure sovvertita o anche soverchiata da non ben assestate originalissime intuizioni, spesso in eroica o sciagurata lite con i tempi, da solforose chiaroveggenze, e da una moralità zoppicante o asmatica, il tutto beninteso schiaffeggiato da bordate di furibondo invasamento (notoriamente ingegno-repellente). Quello che viene impropriamente chiamato genio è in realtà il pedissequo frutto di uno squilibrio, un riuscito dosaggio di doti e tare, a mio modesto avviso affatto involontario, e non necessariamente legato a una qualche saggezza, per buona pace del teleologico panzone americano e del suo panteon in retromarcia. Non è però agevole dire perché una supremazia dell’intelligenza sia così ostile alla riuscita letteraria, e non sarò io a risolvere questo dilemma (abbisognerebbero neuroni più fini). Certo presupposto per qualsiasi forma di buona letteratura è la cognizione della sconfitta, una premonizione di catastrofe, un rimbombare raccapricciante o anche ilare del nulla, mentre l’intelligenza è hybris che repelle, insopportabile autosoddisfazione, stucchevole baldanza, genocidio delle antinomie. L’intelligenza sgomita per dominare e sottomettere, violando i silenzi, imprigionando qualsiasi afflato letterario: è soprattutto artificiosa e inverosimile, falsa. Quando invece la stupidità nei giorni fasti sa essere affascinante e struggente, profonda e umanissima, si intride di verità e saggezza. Si potrebbe certo obiettare che anche la cosiddetta intelligenza razionale è una forma di stolidità, forse la più grave di tutte, come sembrerebbe provare gran parte della filosofia occidentale, e quindi come tale potrebbe contribuire al gioco, ma ha la pecca irredimibile di prendersi troppo sul serio, diventando letterariamente inutilizzabile e anzi nociva. Il vero genio della stupidità letteraria è beninteso Rousseau, che con la sua illuminata ottusità ha aperto la via a fiumane di autori purtroppo meno stolti di lui, e quindi minori. Stiamo parlando di un personaggio, tanto per intenderci, cui gli oggettivi limiti cerebrali hanno impedito di imparare i rudimenti minimi della scrittura musicale. Ai ragazzi molto brillanti che mi chiedono un consiglio, qualche volta capita, io dico di abbracciare la metagenomica applicata, la fisica delle particelle elementari, la lessicografia sumerica, non certo la letteratura. Purtroppo sei troppo intelligente per queste cose, mi dispiace molto, gli dico. In certe circostanze bisogna essere franchi. Molti bravi scrittori nei loro discorsi orali perdono la ritenutezza che hanno negli scritti, e lasciano incautamente libero sfogo alla loro non eccelsa intelligenza: tolto l’interesse etologico, la prestazione si rivela quasi sempre assai spiacevole. Come si è già capito queste riflessioni, certo esse stesse un po’ ebeti, non sono gratuite, sono anzi intrinsecamente interessate. Contagiato da una vocazione precoce per la scrittura, per anni ho pensato di essere troppo idiota per mettermi a scrivere. Aizzato dalla cosiddetta educazione scolastica, quella macchina concentrazionaria che fuorvia generazione dopo generazione dalla reale essenza della letteratura, per anni ho rifuggito la scrittura. Solo molto tardi ho constatato che gli scrittori intelligenti devono ingaggiare una lotta titanica con il loro intelletto, sono costretti a battersi fino a riuscire a debellarlo, sterminarlo. Ho capito che a me era risparmiata questa prova dagli esiti spesso fatali: partivo quindi avvantaggiato. Ho capito che potevo provare.

(l’immagine: Sam Doyle, “Fishing boat”, 1980 circa)

 

 

video arte #10 – david lynch

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http://www.youtube.com/watch?v=jjQ99gMIEM8&feature=related

David Lynch, 1995; da: Lumière and Company.

Folla e follia, Walter Benjamin e i flash mob

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Paul Fusco
Untitled from RFK Funeral Train, 1968

di
Francesco Forlani
qui la prima parte

Folla e follia, Walter Benjamin e i flash mob

13

di
Francesco Forlani

“Quand on est plus de trois on est une bande de cons!”
(quando si è più di tre sì è una banda di stronzi)

Georges Brassens

Poedelaire

Vorrei partire da una fotografia, anzi da due. Quando ho letto che Charles Baudelaire si era fatto fotografare da Nadar in una posa ispirata a Edgar Allan Poe, la prima cosa che ho fatto è stata quella di andare a vedere le due fotografie. Commuove pensare a come si possa tradurre un sentimento, di ammirazione in questo caso, attraverso la dimensione mimetica del proprio corpo, lo sguardo, la postura. Baudelaire dopo avere tradotto Poe sulla carta si faceva tradurre da lui ancor prima che dal geniale Nadar su lastra. Che cosa ha fatto che mi imbattessi su queste due fotografie? Da dove ero partito per ritrovarmi in un’immagine allo specchio, nel double je animato dai due scrittori?

Galeotta era stata una ricerca fatta per un amico a Torino sulla creazione di un itinerario letterario da farsi in città. Ogni volta che devo esplorare la natura stessa di un itinerario mi rivolgo a Mr Walter e più particolarmente ai suoi Passages per identificare una traccia utile al lavoro che sto facendo.

“Le flâneur fait figure d’éclaireur sur le marché. En cette qualité il est en même temps l’explorateur de la foule. La foule fait naître en l’homme qui s’y abandonne une sorte d’ivresse qui s’accompagne d’illusions très particulières, de sorte qu’il se flatte, en voyant le passant emporté dans la foule, de l’avoir, d’après son extérieur, classé, reconnu dans tous les replis de son âme. Les physiologies contemporaines abondent en documents sur cette singulière conception.”

Scrive Walter Benjamin nel testo Baudelaire ou les rues de Paris e la definizione del flâneur come esploratore della folla e ancor più come “classificatore” dei tipi che la formano fa riecheggiare allora le note del celebre uomo della folla (The Man of the Crowd) di Edgar Allan Poe. Intanto scoprivo che esisteva eccome una traduzione di flâner, e l’ho scoperta al bancone di un bar qui a Torino. Me l’ha raccontata proprio l’amico per cui stavo lavorando: “far flanella”, bighellonare. Pare che fosse il rimprovero delle matrone rivolto ai clienti che sostavano a lungo nei salotti senza consumare.


Per chi non lo avesse letto il racconto di Edgar Allan Poe, ma ne consiglio a tutti l’incredibile lettura, il protagonista, seduto in un caffè nella via più trafficata di Londra, scruta i numerosi passanti che si trova di fronte. Li descrive e cataloga uno per uno, sa dire tutto di loro e, in particolare, riesce perfettamente a dedurre la loro posizione sociale. Particolarmente commovente il passaggio in cui racconta i differenti tipi di commesso, da abiti ed espressioni diverse a seconda delle “maisons” per cui lavoravano. La descrizione della folla va avanti, fino a quando l’attenzione del narratore non è attirata da un uomo sulla sessantina che non corrisponde ad alcuna delle categorie. Il protagonista si mette a pedinarlo con l’unico obiettivo di ottenerne una qualche informazione rivelatrice. L’unica conclusione a cui arriva, seguendolo negli strani itinerari senza una meta precisa è che il misterioso personaggio pare abbia come unica meta quella di stare sempre in mezzo alla folla.

Baudelaire, proprio lui, che aveva dedicato all’opera di Edgar Allan Poe, tutto l’amore e l’energia che soltanto un traduttore può conoscere – La prima volta che ho aperto un suo libro, ho visto, spaventato e affascinato, non solo dei temi da me sognati, ma delle FRASI che avevo pensato, e che lui aveva scritto vent’anni prima“- lo riassume così:

Vous souvenez-vous d’un tableau (en vérité, c’est un tableau !) écrit par la plus puissante plume de cette époque, et qui a pour titre L’Homme des foules ? Derrière la vitre d’un café, un convalescent, contemplant la foule avec jouissance, se mêle par la pensée, à toutes les pensées qui s’agitent autour de lui. Revenu récemment des ombres de la mort, il aspire avec délices tous les germes et tous les effluves de la vie ; comme il a été sur le point de tout oublier, il se souvient et veut avec ardeur se souvenir de tout. Finalement, il se précipite à travers cette foule à la recherche d’un inconnu dont la physionomie entrevue l’a, en un clin d’oeil, fasciné. La curiosité est devenue une passion fatale, irrésistible !

Publié la 1ère fois en 1863 Le peintre de la vie moderne

Un quadro! scrive Baudelaire e colui che dipinge è “un convalescente”. Il revenu récemment des ombres de la mort, ci ricorda la maschera dei fantasmi, dei “revenants”, ma forse, il regno dei morti a cui fa riferimento il poeta non sarà mica la follia?

A Charles Baudelaire Walter Benjamin dedica le pagine più belle della sua opera, Parigi, capitale del XIX secolo. e proprio quelle pagine le fa cominciare con una strana citazione.
«Je voyage pour connaître ma géographie», viaggio per conoscere la mia geografia. La stranezza è nell’attribuzione che fa della frase in esergo, ovvero «nota di un pazzo».

Folla vs Follia, che pazzia! Così dalle strade di questa immaginaria ricerca in mezzo alla gente emerge un nuovo quadro, l’inquietante visione di Hieronymus Bosch, conservato al Museo del Louvre, citazione dell’opera di Brant dedicata alla Stultifera navis che letteralmente stregò i filosofi, da Erasmo a Michel Foucault. Come un rimosso costante – in francese si dice refoulement e si usa anche per le maree che si ritirano, allontanano- riemerge ogni volta dalle acque più profonde facendoci dubitare sulla nostra stessa posizione in mezzo agli altri. Naufraghi o sommersi?

Torniamo a Walter Benjamin che nei Passages ci dice:
“Il XIX secolo, un lasso di tempo in cui […] la coscienza collettiva cade in un sonno sempre più profondo. Ora però il dormiente – simile in questo al folle – intraprende attraverso il suo corpo un viaggio macrocosmico: grazie allo straordinario affinamento della sua autopercezione, i rumori e le sensazioni dei suoi organi interni – pressione del sangue, movimenti intestinali, battito cardiaco e tensioni muscolari – che nell’individuo sano e sveglio si perdono nella risacca della buona salute, generano le immagini del delirio o del sogno che nedanno una traduzione o spiegazione. […] Questo stato della coscienza, suddivisa dalla veglia e dal sonno in una molteplicità di sezioni e dispicchi, va ora solo trasposta dall’individuo alla collettività. Va da sé che gran parte di ciò che per l’individuo è esterno appartiene per la collettività alla propria interiorità; le opere architettoniche, le mode, persino il tempo atmosferico, sono, all’interno della collettività, ciò che i processi organici, i sintomi della malattia e della salute, sono all’interno di un individuo”.

La folla può dunque cedere alla propria follia senza che questa ne pregiudichi la propria stessa sopravvivenza?
Come spiegarsi diversamente fenomeni di massa come i Rave party degli anni novanta? Quelli in cui individui a se stessi sconosciuti si ritrovavano in grandi spazi ascoltando musica Techno e House assumendo ogni tipo di sostanza in grado di mantenerli in posizione eretta per delle ore di marcia sul posto? Del resto il verbo inglese « to rave » si traduce con delirare, farneticare, vagheggiare o “estasiarsi”. ma c’è chi lo traduce con “divagare”. Flânerie collettiva? Forse. To rave come “andare pazzi” ?( she raves about that singer va pazza per quel cantante) .Ma allora perché mo i Flash Mob com’è indicato nel titolo? Beh, dei flash mob parleremo nella seconda puntata. Forse.

Falling Man – Sulla quinta stagione di Mad Man

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di Gianluca Didino

Tra una ventina d’anni, quando a qualcuno toccherà il compito ingrato di rovistare tra i frammenti di cultura pop di inizio Millennio per dare loro un senso, una serie televisiva come Mad Men giocherà un ruolo da padrone. E questo non solo perché la vicenda dei pubblicitari di Madison Avenue, tutta concentrata in una manciata di anni che vanno dal 1960 in poi, si sta candidando a diventare la serie tv più cool di sempre, e nemmeno per il realismo narrativo di qualità sopraffina che negli anni l’ha fatta accostare a nomi vertiginosi come quelli di Philip Roth o Richard Yates: ma anche perché la parabola del suo successo non è estranea a una forma sottile di sospetto. Matthew Weiner, il suo geniale e ossessivo creatore (il genere di persona, per capirci, che va al mercato a scegliere la frutta che dovrà comparire sul set per accertarsi che abbia l’aspetto più vintage possibile), ha detto una volta che Mad Men è un’opera di fantascienza al contrario, che utilizza il passato per parlare dei nostri giorni. La metafora è perfetta, perché invita lo spettatore diffidare del proprio sguardo. In altre parole: se vi innamorate di una ragazza che si veste come si vestiva sua madre quando aveva la sua età siate ben consci che state compiendo un’operazione mediata dallo spirito del tempo. Il passato è passato, e ogni ricostruzione è una rielaborazione. Fantascienza al contrario, appunto.

Che il presente abbia nei confronti degli anni Sessanta un debito culturale è cosa palese, ma altrettanto evidente è il fatto che la retorica della nostalgia ha la tendenza a spacciare versioni della storia recente edulcorate al limite della stucchevolezza. Uno dei principali meriti di Mad Men, fin dai suoi esordi nel 2007, è sempre stato quello di fornire di un decennio così carico di mitologia una lettura radicalmente alternativa. Niente musica rock, esperienze lisergiche di vario tipo dosate con il contagocce, rivoluzioni culturali relegate sullo sfondo. La trasformazione sociale è un fuoco d’artificio solo se vista a quarant’anni di distanza, vissuta sulla propria pelle più facilmente assume la forma del terreno che ti cede sotto i piedi giorno dopo giorno, un cadavere eccellente dopo l’altro (da Marilyn a Kennedy e oltre). Non è un caso che nella sigla d’apertura si veda una sagoma nera precipitare da un palazzo, circondata dagli emblemi del desiderio della (allora) neonata società dei consumi, né che questa sigla abbia attirato su di sé tante critiche perché ricorda le sagome umane in caduta libera dal World Trade Center il giorno degli attentati. Come dire: ciò che vedete crollare oggi sotto i vostri occhi ha iniziato a cadere molti decenni fa, e proprio nel momento in cui meno ve lo sareste aspettato.

Arrivata alla quinta stagione, lasciato il ghetto dei consumatori seriali della forma breve e annidatasi in ogni anfratto dell’immaginario collettivo, oggi Mad Men richiede una scelta di campo. Da una parte c’è l’hype più sfrenato, il draping virale che rimbalza per la Rete (draping = fotografarsi in posa alla Don Draper, il protagonista interpretato da Jon Hamm), il numero celebrativo di “Newsweek” dedicato all’estetica vintage. Dall’altro, più sobria e inquietante, l’immagine che quest’autunno ne pubblicizzava il ritorno sugli schermi, Don che in una metafora metafisica degna di De Chirico osserva un manichino esposto nella vetrina di un negozio, riflettendo la propria immagine sbiadita (verrebbe da dire: in via di dissoluzione). La presa di posizione è necessaria perché, con la cronologia narrativa arrivata a fine 1966, la tensione sottocutanea sta progressivamente venendo a galla, lo scontro generazionale è alle porte e i toni si sono fatti se possibile ancora più cupi. In quella che con ogni probabilità diventerà la scena cardine della stagione Don si chiede: «da quando la musica ha cominciato a diventare così importante per noi?». Quando la giovane moglie gli regala un disco dei Beatles e gli consiglia di ascoltare quel capolavoro dimenticato che è Tomorrow Never Know, Don interrompe l’ascolto a metà, si chiude in camera e improvvisamente diventa chiaro che da questo punto in poi la caduta sarà più rapida.

Tocca fare delle scelte. Se schierarsi dalla parte del vecchio che declina, ma che si è imparato ad amare, o del nuovo che avanza, con la consapevolezza che di lì a pochi anni la fiammata cupa degli anni Settanta si porterà via ogni sogno di cambiamento. Se mettere in primo piano la bellezza formale di un mondo che scompare o il lamento che produce disgregandosi. A ogni spettatore tocca il compito di estrarre la bellezza dal disfacimento, e viceversa.

[Questo articolo è stato pubblicato sul Mucchio Selvaggio, luglio 2012. La fotografia è tratta da Collider]

Anonymous. La grande truffa. I

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anonymous

(Mesi fa, su Amazon, è apparso un pamphlet, autopubblicato da un anonimo, dal titolo Anonymous. La grande truffa. L’ebook criticava, in modo puntuale e per nulla benigno, un gruppo di attivisti altrettanto anonimi, dediti a operazioni globali di hackeraggio in sostegno a lotte e movimenti di tutto il mondo: Anonymous.  Recentemente, in uno dei canali di chat più elitari dell’hacking tedesco, sono stato contattato dall’autore, che mi ha messo a disposizione il testo. Per quanto non mi trovi del tutto d’accordo su più di un punto, la lettura che dà del fenomeno Anonymous mi sembra comunque utile, mettendo in luce diversi punti cruciali della politica e dei movimenti ai tempi della rete e della deterritorializzazione. Per questo ho deciso di mettere su Nazione Indiana tutto il pamphlet. Data la lunghezza del testo, l’uscita sarà in quattro post, uno alla settimana, a partire da quello di oggi. Buona lettura!)

anonymousAnonimi e falsi anonimi


Della nebulosa Anonymous, alcuni sostengono che non si possa dire nulla. Troppo sfuggente, troppo composita per essere definita. Troppo mutevole perché le parole non risultino presto già vecchie. Anonymous imporrebbe dunque il silenzio, come una divinità neo-platonica? Invitiamo coloro che lo pensano a ritirarsi in preghiera, in buon ordine assieme ai novelli teologi dell’evo cibernetico.

Un paio di cose

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di Daniele Ventre

 

1.

 

Liberaci, signore, dalle astuzie

di tecnici grifagni e sofi idioti

lesti a insegnare fra genie d’iloti

che in principio era solo la balbuzie.

 

Ceronetti in Magna Grecia: l’affetto graffiante di un viaggiatore cinico

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di Domenico Talia

Se ci si aspetta di leggere un libro di viaggio che racconti le bellezze del Bel Paese è meglio non aprire “Un viaggio in Italia” di Guido Ceronetti. Il libro contiene il corrosivo resoconto del viaggio in Italia che lo scrittore fece circa trent’anni fa, dal maggio 1981 all’aprile 1983. Ceronetti partì per il suo tour italiano su invito di Giulio Einaudi, l’editore torinese che conosceva il suo stile di scrittura indignato e satirico. Einaudi di certo non si attendeva di leggere descrizioni edulcorate delle bellezze italiche ma resoconti taglienti dei disastri che l’era del consumismo aveva fatto sull’Italia e Ceronetti, credo senza far una gran fatica, lo accontentò con un reportage antiretorico, fazioso ma pieno di passione, quasi un’inchiesta, non necessariamente obiettiva ma intelligente e unica.

Com’era facile attendersi, nel suo libro Ceronetti non racconta un’Italia da cartolina, ma un paese e un paesaggio in cui la modernizzazione ha creato disastri anche se per esso la speranza non è del tutto perduta. Ceronetti scelse come titolo per il libro l’apparentemente scontato “Un viaggio in Italia”. Ma paradossalmente aggiunse l’articolo indeterminativo per determinare meglio e distinguere la sua opera dai tanti resoconti di viaggio in Italia che fino ad allora erano stati scritti, a partire dal famosissimo “Viaggio in Italia” di  Johann Wolfgang Goethe.

Guido Ceronetti, torinese del 1927, è un artista la cui innata creatività e la voglia di provocazione gli hanno fornito mille interessi e mille facce: scrittore, giornalista, drammaturgo, traduttore dal latino e dall’ebraico antico, filosofo e giornalista. Nonostante la sua notevole produzione letteraria, oggi Ceronetti vive con il sussidio previsto dalla «legge Bacchelli» che aiuta le personalità di chiara fama che si trovano in precarie condizioni economiche. In questo diario di viaggio Ceronetti non si fa prendere da sentimentalismi o da visioni romantiche da viaggiatore del Grand Tour. Racconta un’Italia in cui convivono bruttezze paesaggistiche ed esperienze poetiche al tempo stesso. Lo fa per tutte le regioni che visita e dunque anche, in fondo allo stivale, per la Calabria. Lo scrittore visita i monumenti ma anche i cimiteri. Lo fa a Lamezia ricopiando pure le iscrizioni delle lapidi e facendone l’analisi logica. Riporta le tantissime scritte sui muri che vede nelle città, e si esercita nei tirassegni ambulanti o con le corna del toro di plastica – come accade a Reggio Calabria in un piccolo lunapark in piazza – come farebbe un ragazzo che deve trovare un passatempo con il quale trascorrere il sabato sera.

Durante il suo viaggio italiano, Ceronetti passa due volte dalla Calabria. La prima volta si ferma a Reggio Calabria, mentre nel secondo viaggio visita Lamezia Terme. In ambedue i casi, le caratteristiche della scrittura di Ceronetti e i suoi occhi descrivono i paesaggi reggini e lametini con la stessa passione, la stessa faziosità e lo stesso sdegno implacabile con cui descrive anche le altre sue mete italiane visitate durante i due anni di viaggi.

A Reggio, Ceronetti in un “lunaparkino” fa la prova della forza con le corna di un toro di plastica e quando il marchingegno lo dichiara mezzo uomo, parola che a Reggio assume un significato ancora più grave di quello normale, Ceronetti ne approfitta per dichiararsi anche peggio: un quarto d’uomo perché, dice lui, non riesce ad abituarsi alle bruttezze del paesaggio. Reggio non gli piace, non gli piacciono il suo corso che lui chiama “via americana” che non arriva in nessun posto, non gli piace Reggio di notte, i suoi rumori feroci. Ma mentre Ceronetti ha parole di fuoco per il paesaggio reggino – tranquilli, lo stesso accade in quasi tutte le città d’Italia che lui visita – riesce a spendere parole di miele per il contenuto del Museo di Reggio, per i resti di infinita, anche se mutilata, bellezza. La Kore, i Pinakes del tesoro della Mannella di Locri, e i tanti reperti che gli fanno dire: “Con una di queste testine sul mio tavolo, gli occhi nei suoi occhi fissi, l’annuncio che sta già fischiando il colpo di balestra nucleare destinato alla mia casa mi lascerebbe indifferente.” Lo scrittore ammira e si sublima con i resti scavati a Medma e naturalmente visita anche i Bronzi di Riace. Il suo racconto delle orde di corpi di carne che girano attorno a quei due corpi di bronzo perfetti e ideali è un capolavoro di estetica e antropologia. Per Ceronetti è l’occasione per esaminare la differenza tra forma ideale (i Bronzi belli e perfetti) e la forma reale (i visitatori affannati e sudati), distanti inesorabilmente tra loro. Il cinismo distruttivo di Ceronetti si diverte a confrontare i glutei dei Bronzi con le “nostre chiappe malaticce” per concludere che non ci rimane altro da sperare che “Non dalla scimmia di Darwin discendiamo, ma dai Bronzi di Riace!”, i quali in una terra greca come la Calabria possono rappresentare gli dei di un culto pagano che potrebbe guadagnare terreno sul cristianesimo.

I giudizi taglienti e settari, Ceronetti non li risparmia neanche quando ritorna in Calabria e si ferma a Lamezia che lui descrive come un “luogo texano, italianamente inesistente.” A Nicastro Ceronetti descrive “un funebre vagare di giovani nei bar, raggruppati intorno al Niente…”. Sono frasi quasi offensive se prese alla lettera ed isolate dalla sua narrazione italica. Ma basta ricordarsi di cosa scrive Ceronetti di Firenze (“Gli è rimasto solo il centro storico, ridotto una spugna di demenze, bene imbevuta.”) per relativizzare e comprendere il senso di quelle frasi che non hanno nulla di antimeridionale o di razzista ma sono frasi dolorose di una persona che cerca le tracce della bellezza e si arrende scrivendo: “Di bellezza restano poche, assurde tracce: beato chi le ritrova e le segue, fuori di questo mondo.”

Un’ulteriore dimostrazione di quanto Ceronetti sia un viaggiatore singolare è data dalla sua visita al cimitero di Lamezia. Nel suo resoconto della passeggiata nel camposanto lametino sono riportate anche alcune iscrizioni tombali che lui si diverte ad analizzare con interpretazioni filologiche che generano un certo divertimento nel lettore. Oltre ad osservare e denigrare il paesaggio, Ceronetti osserva anche le persone e scrive: “Facce concentrate hanno tutti i calabresi. Sembrano, anche non pensando, una nazione di filosofi.”

Le note sulle giornate lametine di Ceronetti si concludono con il breve racconto di un barbiere che fa la barba ad un vecchio che secondo l’autore dovrebbe avere almeno duecento anni e con alcune taglienti considerazioni sul Sud possibile rovina del resto d’Italia per legittima vendetta dopo aver patito troppo delle scelte governative che lo hanno snaturato, inquinato e depauperato di risorse e uomini.

Il libro, dopo la prima edizione del 1983, è stato ripubblicato nel 2004 arricchito da una nuova introduzione e da un nuovo capitolo. Giovanni Raboni, lo incluse nei “Cento romanzi italiani del Novecento”, perché secondo lui è basato su “una scrittura che combina feroci artigliate satiriche con le meditanti osservazioni di un implacabile scrutatore delle rovine e del nulla sottesi ai nostri giorni”. Le visioni magnogreche di Ceronetti sono ciniche e appassionate allo stesso modo di quelle raccontate negli altri luoghi da lui visitati lungo la penisola. Si può giudicarle nel merito ed essere d’accordo o dissentire profondamente. Tuttavia, se le leggiamo con la stessa passione con cui Guido Ceronetti le ha scritte potremo trovarci il significato vero di quelle impressioni di viaggio così inconsuete e insieme così faziose e sagaci: la ricerca della bellezza in luoghi in cui gli uomini l’hanno maltrattata e ciò nonostante in quegli stessi luoghi essa talvolta riappare lasciandoci ancora una qualche speranza.

[La fotografia ritrae l’opera I Bronzi di Riace, di Sasha Sosno, collocata in piazza XI Settembre, a Cosenza, appartenente al MAB, Museo all’aperto Carlo Bilotti]

La visione del vuoto – In memoria di Michelangelo Antonioni

1

(Oggi sono cento anni dalla nascita di Michelangelo Antonioni. Questo lungo saggio di A.G. Cassani, docente all’Accademia di Venezia e caro amico,  è un modo per ricordarlo. G.B.)

di Alberto Giorgio Cassani

«GIULIANA. Ma cosa vogliono che faccia coi miei occhi?… Cosa devo guardare?»

Deserto rosso

Il Vocabolario Etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, del 1907,1 uno dei più longevi ed autorevoli nel suo campo, alla voce «visione», recita: «Funzione sensoria per la quale gli occhi pongono gli uomini e gli animali in rapporto col mondo esteriore, coll’intermedio della luce; Vista o apparizione di cose soprannaturali in sogno o in momento di grande astrazione di mente». Sottolineerei tre punti chiave: «luce», «mondo esteriore» e «astrazione». Penso che queste quattro parole si adattino perfettamente anche al mondo poetico di Michelangelo Antonioni. Del grande regista ferrarese, di cui il 29 settembre di quest’anno ricorrerà il centenario della nascita, si sono sempre citati i temi dell’alienazione, della malattia dei sentimenti, dell’ambiguità del reale. Altrettanto fondamentale, nel suo cinema, è la presenza delle visioni. In particolare la visione del vuoto. Su questo punto, vorrei brevemente soffermarmi in questo testo.

Antonio Costa ha parlato per Antonioni di sguardo del flâneur. Se «lo spazio di Antonioni è uno spazio urbano»2 e se, di più, lo stesso «paesaggio extraurbano, “naturale”, è visto, indagato, interrogato dallo stesso sguardo che vede e interroga lo spazio urbano»,3 lo «sguardo di Antonioni è lo sguardo del flâneur», perché «la flânerie è la forma che organizza la visione dello spazio urbano».4 È lo stesso regista a confermarlo: «Ecco un’occupazione che non mi stanca mai: guardare. Mi piacciono quasi tutti gli scenari che vedo: paesaggi, personaggi, situazioni».5

Rifacendosi sempre ad un dizionario etimologico, questa volta il Larousse, Costa cita la definizione del verbo flâner: «errare senza meta fermandosi spesso a guardare»6 e ne conclude che il «reporter, figura emblematica del cinema di Antonioni, può essere considerato l’ultima incarnazione del flâneur ottocentesco».7

Il flâneur antonioniano, dunque, non fa differenza tra metropoli, parchi urbani – «i parchi-giardini sono un luogo fondamentale della mappa urbana di Antonioni»8 – deserti o giungle9 e non si limita al mondo che lo circonda, bensì immagina anche luoghi “altri”: in Deserto rosso Corrado pensa di trasferirsi in Patagonia; nella baracca di Ugo è presente un manifesto con una radura tropicale e delle zebre;10 Giuliana – se possiamo definirla una flâneur – immagina isole misteriose (nell’episodio della favola raccontata al figlio) o luoghi di un’impossibile felicità («Chissà se c’è nel mondo un posto dove si va per stare meglio. Forse no»).11 In conclusione, per Costa, la città si presenta come «crittogramma», per il flâneur come per Antonioni: «L’immagine come enigma e come «malìa» sembra essere l’ossessione attorno a cui si organizza il cinema» del maestro ferrarese.12

Il flâneur, dunque, è continuamente colpito da “visioni”. Ma quali visioni? Pascal Bonitzer,13 che è daccordo con l’idea della flânerie – «si cammina molto nei film di Antonioni»14 – parla di «una insistente fascinazione per l’informe, l’informale, la figura che si nasconde, che si cancella, che scivola verso l’indifferenziato».15 In un caso, nella celeberrima sequenza dell’esplosione della villa in Zabriskie Point, la “sparizione” delle cose avviene attraverso questa deflagrazione, creando delle immagini, dei veri e propri quadri, che si avvicinano alla pittura informale. Contrariamente a quanto ancor oggi una certa “vulgata” di Antonioni ama sostenere, «ciò che caratterizza il suo cinema è un positivo interesse per quei deserti di un genere nuovo, quegli spazi amorfi, sconnessi, vuoti, per quel tessuto de-differenziato del mutamento urbano».16 E in questi “deserti urbani” i «personaggi di Antonioni sono attirati fino all’estremo limite dal vuoto, dal freddo, dagli spazi astratti che assorbono e inghiottono la figura umana, il viso amato, le forme del simile. L’avventura che essi vivono è una scomparsa».17 È quella tecnica di Antonioni che i francesi chiamano del temps mort e che

consiste […] nello svuotamento dello spazio rappresentato, contenuto o tagliato dall’inquadratura, un luogo abitato fino a un attimo prima che acquista presenza formale – pienezza astratta, quasi pittorica, in virtù di un’assenza narrativa che si rivela allo sguardo dello spettatore.18

Basterà ricordare il dileguamento di Anna ne L’avventura – Roberto Chiesi ha parlato di «autocancellazione»19 –, dell’aereo nelle nuvole20 e di Vittoria e Piero nel finale de L’eclisse,21 della fabbrica nella nuvola di vapore,22 della nave “contaminata”23 e del gruppo di amici nella nebbia in Deserto rosso24 (ma la stessa Giuliana e il figlio scompaiono25 dall’inquadratura finale del film), del cadavere e di Thomas, nella famosissima sequenza finale, in Blow up; Niccolò, per un attimo, nella nebbia, in Identificazione di una donna, con Mavi che lo supplica: «Non sparire, ti prego». È significativo che sia spesso la nebbia a cancellare le cose e le persone – «è stata la nebbia a confondermi…»,26 si giustificherà Giuliana per aver sbagliato la direzione del molo – quella nebbia che Antonioni, nato a Ferrara, ben conosceva, e che gli fece scrivere che «poteva pensare d’essere altrove».27 Come la nebbia, anche il fuori fuoco: come in una sequenza di Zabriskie Point, in cui la cinepresa segue per un po’ Mark e Daria e poi«li lascia fuori campo per guardare le montagne azzurre, e poi la vista si annebbia, tutto il paesaggio va lentamente fuori fuoco».28 Sull’“azzurra lontananza” si leggerà più avanti. Ma, per tornare all’interpretazione di Bonitzer, vi è un elemento positivo in Antonioni, secondo l’attore-sceneggiatore-regista francese, che va di là di qualunque malattia dell’anima o disperazione esistenziale: il fatto di tendere ad

un universo non umano e non figurativo, una apoteosi astratta. L’universo si dilata, si dissemina, si raffredda, ma in questa entropia vi è una felicità segreta, la felicità informale delle macchie. Vi è un altro punto di vista, oltre a quello, semplicemente umano, incarnato dai protagonisti, vi è quello che esprime in modo non umano la macchina da presa, quel punto di vista astratto sui movimenti qualsiasi – esplosioni, nuvole, moti browniani, macchie – sullo spazio neutro riempito di movimenti qualunque, nel quale finisce il movimento dei film di Antonioni.29

Per Bonitzer si può parlare di una vera e propria ricerca della “bellezza” del vuoto, che non è il nulla,30 ma forse si avvicina al «Poco» di cui parla Walter Benjamin in Esperienza e povertà,31 un vuoto che è allo stesso tempo un pieno, come il Tao:

Niente è più bello (e ogni film sembra non essere costruito che per questa sola fine), in un film di Antonioni, del momento in cui i personaggi, gli esseri umani si cancellano per non lasciare sussistere, sembra, che uno spazio senza qualità, lo spazio puro, “lo spazio uguale a se stesso che si accresce o si nega”. Il campo vuoto non è vuoto: pieno di nebbia, di visi fugaci, di presenze evanescenti o di movimenti qualsiasi, rappresenta quel punto ultimo dell’essere alla fine liberato dalla negatività dei progetti, delle passioni, dell’esistenza umana.32

L’“estinzione” – il nirvana – non è uno dei concetti chiave della religiosità orientale? Non è un caso che Antonioni amasse così l’Oriente e che a quel mondo fosse così vicino, come Roland Barthes aveva così ben compreso.33

Semplificando forse troppo, non è forse questo il percorso che “insegnano” i film di Antonioni?: l’uscire dal proprio egoismo, l’imparare a guardare al di fuori di sé (fin da Le amiche), il saper riconoscere l’esistenza degli altri, il riuscire a guardare con gli occhi degli altri; infine, lo svanire nel nulla. L’essere capaci di “guardare il vuoto”. Sandro Bernardi, in un suo bellissimo libro che parla anche del cinema di Antonioni, ha fatto un confronto illuminante tra due scene di Professione reporter. Nella prima, Locke e Robertson guardano il deserto: «robertson È bello, non trova? – locke Bello… non so…»;34 nella seconda, Locke e Maria sono in auto nel deserto vicino a Osuna: «locke C’è un buco nella coppa dell’olio. – maria (seduta tranquillamente sullo schienale) Che bello qui, vero? – locke Sì, molto bello…».35

Bernardi commenta:

A dire il vero, non c’è alcun paesaggio da ammirare: solo polvere, vento e sole che confondono il cielo la terra e le piante. Le parole, visibilmente, sono le stesse del dialogo con Robertson; il luogo è molto simile, e anche lo stato d’impasse è completo. Tuttavia l’atteggiamento di Locke è maturato. Ha imparato a guardare il vuoto, e questo vuoto gli appare ormai pieno di cose. Giunto allo stadio etico [da quello estetico, da cui era partito, NdA], Locke capisce che questo non consiste nel guardare gli altri per trovare una conferma della propria identità […] ma, al contrario, nella rinuncia alla propria identità, per poter guardare il mondo.36

L’occhio di Antonioni ci insegna «a contemplare l’invisibile e con esso a riconoscere, anzi ad amare i [nostri] limiti, limiti del soggetto, della conoscenza e dello sguardo».37

Mentre la protagonista di La signora senza camelie, Clara Manni, nella laguna veneziana trova solo desolazione e disperazione, Niccolò, in Identificazione di una donna, «va in laguna per guardare il vuoto, per ascoltare il silenzio».38

«Ascoltare il silenzio», perché quest’ultimo, cifra quasi scontata della poetica di Antonioni, è in realtà pieno di suoni e di rumori: riferendosi al parco della villa del padre, l’ingegner Gherardini, una villa progettata dal celebre architetto verbanese Luigi Vietti – «il Vietti. Le piace?»,39 esclama l’ingegnere rivolgendosi a Giovanni – la figlia Valentina (Monica Vitti) lo definisce «pieno di silenzio fatto di rumori».40 Anche il cielo, è pieno dei “rumori” delle stelle e lo strumento per ascoltarli è il radiotelescopio di Medicina (Deserto rosso): «giuliana Di chi sono questi cosi qua? – tecnico Questi? Dell’università di Bologna […] – giuliana Ma a cosa servono? – tecnico Servono a formare un’antenna per ascoltare i rumori delle stelle. – giuliana Me li fa sentire?».41

E poi le “visioni”, appunto. A partire da L’avventura: «Claudia si avvicina a una panchina dalla vernice tutta sgretolata, ma non siede. Tiene gli occhi fissi, quasi sbarrati sul mare, sulle onde del mare che sono un mistero anche loro».42 Deserto rosso, poi, ne è pieno: dalle sequenze iniziali dei titoli di testa con la visione delle fabbriche inquadrate col teleobiettivo, che sembrano miraggi nel deserto, dalla nave che sembra attraversare lentamente la pineta (in realtà gli alberi nascondono il canale retrostante),43 a quando Giuliana si ferma a guardare il territorio intorno alle fabbriche: «Giuliana non si è mossa. È ferma sul bordo della strada, un po’ in disparte, e guarda verso la palude, in quel punto coperta di un’erba rossiccia: un paesaggio desolato. Corrado si avvicina a Giuliana. – corrado Cosa guardi?»,44 a quando, infine, dall’interno della baracca di Max, guarda incantata il mare: «giuliana Non sta mai fermo, mai, mai, mai, mai…»,45 fino a esclamare: «Io non riesco a guardare a lungo il mare, se no tutto quello che succede a terra non mi interessa più».46 Inoltre, in tutto il film compaiono visioni di macchie di colori astratte, frutto della “malattia” di Giuliana: «corrado Cosa guardi? Giuliana indica la parete e dice: – giuliana Lì. Si lascia andare sul letto. Il suo sguardo va al soffitto sul quale appare una macchia di vario colore. Allora si copre con la coperta per non vedere»;47 o ancora: «Attorno a lei tutto è viola»48 e infine: «Qualche tempo dopo Giuliana e Corrado sono nel letto completamente nudi, immobili in una luce rosa, irreale. Tutta la stanza è rosa, gli oggetti, i mobili, i vestiti, il pavimento».49

È ancora Giuliana a raccontare al piccolo Valerio la favola in cui viene descritta la visione più misteriosa di tutte, quella del veliero:

Una mattina dal mare spuntò un veliero. Le barche che passavano di lì erano diverse, generalmente. Ma questo era un vero veliero: di quelli che hanno attraversato i mari e le tempeste di tutto il mondo e anche, chissà, fuori del mondo. Visto da lontano faceva uno splendido effetto.

Da vicino invece diventava misterioso. A bordo non si vedeva nessuno.

Restò fermo pochi minuti, poi cominciò a virare e si allontanò, silenziosamente com’era venuto.

La bambina era abituata alle stranezze degli uomini e non si stupì. Ma appena tornata a riva, ecco che…

Una voce femminile incomincia a cantare una musica molto dolce.

voce di giuliana Un mistero va bene, due sono troppi. Chi cantava? La spiaggia era deserta come sempre, eppure la voce era lì, ora vicina ora lontana. A un certo momento le parve che venisse proprio dal mare… …era una caletta tra le rocce… tante rocce che… non se n’era mai accorta… erano come di carne… e la voce in quel punto era molto dolce…

bambino [Valerio] Ma chi era che cantava?

giuliana Tutti cantavano… tutti…50

Infine, una grande visione (allucinazione?) è anche la scena del love-in fra le montagne della Death Valley in Zabriskie Point.

Anche in un altro senso si può forse parlare di visioni in Antonioni. Quando si è messo a dipingere, Antonioni ha raffigurato spesso delle montagne.51 E montagne compaiono spesso anche nei suoi film: le isole Eolie e l’Etna innevato, nella scena finale, de L’avventura, le montagne della Death Valley, in Zabriskie Point. Come non pensare al racconto di Hermann Hesse, L’azzurra lontananza?

Negli anni della mia prima giovinezza ho sostato spesso, solo, sulle alte montagne, e il mio occhio indugiava a lungo nella lontananza, nella vaporosa foschia trasfigurante delle ultime delicate alture, dietro alle quali il mondo affondava in un’infinita azzurra bellezza. Tutto l’amore della mia fresca anima bramosa confluiva in una grande nostalgia e si mutava in lacrime, mentre l’occhio beveva con sguardo ammaliato la soavità del lontano azzurro. La vicinanza delle cose patrie mi pareva fredda, dura e chiara, senza alito e mistero; al di là, invece, tutto era accordato su toni soavi, traboccante di melodia, di enigma e di seduzione.52

La «vaporosa foschia trasfigurante» non ha forse qualche affinità con la nebbia di Antonioni? E al dubbio di Giuliana che esista nel mondo un posto dove si possa essere felici – l’azzurra lontananza di Hesse –, Corrado non risponde forse: «È probabile che tu abbia ragione. Uno gira e rigira e poi finisce per ritrovarsi com’era»,53 confermando, in qualche modo, il finale del racconto di Hesse.54

Bernardi ha scritto che il sole, metafora del «mistero stesso della luce», è l’«immagine con la quale [gli] piacerebbe pensare che termini il cinema di Antonioni».55 La visione del sole compare nel fotogramma finale de L’eclisse, sotto forma della luce abbagliante del lampione nella notte incipiente – un paradossale sole “notturno” – in Identificazione di una donna, inquadrato dopo la visione dello strano oggetto, sasso o astronave, posato sul ramo di un albero e metaforizzato nel “giallo” lampeggiante del semaforo che fora la nebbia) e nei due tramonti su cui terminano Zabriskie Point e Professione reporter (una delle più belle scene finali di Antonioni).56

Dicevo che sarei ritornato sul tema della sparizione. Un altro grande artista del Novecento ha fatto della dissolvimento delle figure umane il tema centrale della sua ultima, grande fase pittorica: Mark Rothko. Come sappiamo, Rothko e Antonioni si conoscevano e si stimavano.57 Uno dei maggiori studiosi del pittore lettone, ma statunitense d’adozione, Riccardo Venturi, ha scritto che, ad indirizzare le sue ricerche sono stati

due autori lontani dalla galassia degli storici dell’arte: il poeta Emilio Villa e il regista Michelangelo Antonioni. In un periodo in cui si disquisiva sulle squisitezze degli accostamenti cromatici delle sue tele, Antonioni scriveva una lettera all’artista in cui parlava, singolarmente, dell’acciaio di New York, di panico e di angoscia, di “quadri fatti di niente” o di “quadri sul niente”.58

Molti studiosi di Rothko – e non poteva che essere così visto che da artista che indaga sulla figura umana passa nella fase finale della sua vita a dipingere rettangoli di colore (qualcuno ha parlato di “tombe”) – hanno sottolineato il tema della “sparizione” come cifra della poetica del grande pittore statunitense: da James Elkins, secondo cui l’artista «ci mostra, nel senso più profondo e generale, che cosa sia la perdita. O, per dirla con le sue parole, i dipinti contengono “presagi di mortalità”. Sono insistentemente vuoti […]»,59 a Georges Roque, secondo cui Rotkho, “sacrifica” la figura, non la nega, la fa sparire,60 a Mario Dal Bello, che definisce l’artista americano «un cieco che si sforza di vedere ciò che è oltre, il non-visibile. La realtà “altra”».61 Ma è inutile continuare. Ci interessa di più sapere cosa vedeva Antonioni nei quadri di Rothko. E allora bisogna tornare alla lettera62 che il regista scrisse all’artista da Roma il 27 maggio 1962,63 l’ultimo giorno di chiusura della mostra, visitata ben quattro volte da Antonioni, allestita alla Galleria d’Arte Moderna. Ecco il passaggio chiave della lettera:

[…] in questi quadri che sembrano fatti di niente, ossia di solo colore, scopro qualcosa di nuovo, si scopre tutto quello che c’è dietro il colore, a dargli senso, drammaticità, insomma poesia. Sono stupendi, questi quadri, signor Rothko, e del resto è ormai pacifico che questo è il limite massimo a cui può arrivare la pittura oggi.64

Antonioni riesce addirittura a cogliere uno dei temi sottesi all’opera di Rothko: che il rapporto non è tra Rothko e l’osservatore, ma tra il quadro e quest’ultimo: «Ho dovuto cercare di isolarmi e di isolare i quadri, di considerarli non tanto in rapporto gli uni con gli altri quanto in rapporto a me».65

Avendo saputo, come scrive all’inizio della lettera, che Rothko aveva acconsentito a dargli uno dei suoi quadri, Antonioni prova ad indicarne alcuni. Due, in particolare, in ordine di preferenza: il N. 7 del 1960 (catalogo Anfam 673) e il N. 9, del 1958 (Anfam 632). Del primo, Antonioni scrive:

C’è un equilibrio portentoso in questo quadro, e tutto il quadro appare come fatto di luce, come se la luce venisse da sotto il colore. È assolutamente miracoloso, per me. È veramente quello che vorrei avere davanti agli occhi tutti i giorni.66

Un quadro fatto di luce, come il fotogramma di un film.

Del secondo:

Quest’opera è di una purezza e di una forza fenomenali. C’è tutto l’acciaio di New York nel colore del quadrato superiore, così isolato dal fondo scuro: ti dà il panico, un panico cosmico.67 Questa è l’angoscia dipinta. Straordinario. Anche questo è un quadro che vorrei avere vicino.68

Ma è nel finale della lettera che Antonioni “azzarda” un legame, una profonda affinità elettiva tra la sua opera e quella di Rothko:

Ebbi già occasione di dirle quanto io senta – forse presuntuosamente – la sua pittura vicina al mio lavoro, come esperienza fantastica se non altro. Ma dietro al nostro fantasticare, sappiamo tutti che c’è il mondo intero, come oggi lo vediamo: com’è nei suoi superbi dipinti.69

Su questa frase può forse terminare, provvisoriamente, vista la complessità e inesauribilità del tema, questa mia breve riflessione sulla “visione” in Antonioni. Che è al tempo stesso sì «fantastica», ma profondamente legata alla realtà, a questo mondo. Bernardi conclude il suo saggio su Antonioni proprio con questa rivendicazione di realtà:

La realtà, suggerisce il cinema di Antonioni, è uno di questi concetti-limite, che segnano i confini della conoscenza. Non sapremo mai che cos’è, ma guai se non ci fosse, saremmo perduti anche noi. Non potremo mai raggiungerla né toccarla, è sempre altrove rispetto a dove la cerchiamo. Come il sole, come la giungla o come la natura, essa si chiude in se stessa e si allontana nel suo stesso darsi, ma ignorarla sarebbe una grave sconfitta, una terribile mancanza. Solo conoscendo i nostri limiti possiamo ancora sapere chi siamo. Sostenere che la realtà non esiste o che qualunque cosa può prendere il suo posto significa perdere appunto la coscienza dei limiti, cadere dentro la vertigine di onnipotenza cui l’illusione del cinema postmoderno si avvicina.70

E cita una frase dello stesso Antonioni:

Il momento è drammatico, ma il personaggio può anche non guardare l’altro, conosce la sua faccia, sa perfettamente cosa pensa e perché, deve guardare altrove per capire, nel vuoto.71

«Guardare altrove per capire, nel vuoto». Come nei quadri di Rothko. Come Al di là delle nuvole. Non può essere un caso che le parole finali di questo film, co-diretto con Wim Wenders, citino nella sequenza finale – in cui la telecamera scorre tra le finestre di una vecchia casa di Aix-en-Provence, osservando per un attimo le vite delle persone che ci abitano – una delle riflessioni che Antonioni aveva inserito nella Premessa all’edizione einaudiana delle sceneggiature dei suoi Sei film:

Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.

Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere.72

È quell’“astrazione” che Antonioni ha inserito, quasi subliminalmente, nei suoi film, come “scatti” di pittura informale, per farci forse intravedere, per la sequenza di un attimo, quella «realtà, assolta, misteriosa, che nessuno vedrà mai».

 

Note

1 Roma, Albrighi & Segati, cui fa seguito un volume di Aggiunte, correzioni e variazioni (Firenze, E. Ariani, 1926); è ripubblicato più volte in versioni praticamente identiche: Milano, Sonzogno, 1937, Genova, Dioscuri, 1998, La Spezia, Fratelli Melita, 1990, Vicchio di Mugello (FI), Polaris, 1993; attualmente è disponibile in rete all’indirizzo www.etimo.it (fonte it.wikipedia.org).

2 Antonio Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, in Michelangelo Antonioni: Identificazione di un autore: Forma e racconto nel cinema di Antonioni, A cura di Giorgio Tinazzi, Saggi di Chatman et alii, Parma, Pratiche Editrice, 1985, pp. 67-76: 68. «Paesaggio “naturale” e paesaggio urbano sono intercambiabili: il primo non è altro rispetto al secondo; la sua alterità è puramente fantasmatica e illusoria; esso non rappresenta nessuna alternativa, ma riconduce sempre e comunque al medesimo luogo da cui prende avvio la quête dei personaggi», ibid., pp. 68-69.

3 Ibid.

4 Ibid., p. 69.

5 Michelangelo Antonioni, Prefazione, in Id., Sei film: Le amiche, Il grido, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso, Torino, Einaudi, 1964, p. xiii.

6 A. Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 71.

7 Ibid.

8 Ibid., p. 70. Basterà ricordare il parco de La notte, il parco di Blow up e il Parc Güell a Barcellona, dove avviene l’incontro tra Locke e la ragazza.

9 Ci riferiamo al non realizzato Tecnicamente dolce (dal 1966).

10 «Una parete [della baracca di Ugo] è ancora coperta quasi interamente da un manifesto turistico raffigurante una radura tropicale con delle zebre: dà l’impressione di essere in un altro luogo, in un altro clima. Corrado si appoggia allo stipite della porta e guarda il manifesto», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 456. L’Africa è uno dei luoghi “altri” che ritornano nel cinema di Antonioni, da Cronaca di un amore (vedi, sotto, la nota 34) a Professione Reporter. Ma compare anche il Venezuela e il Cile, citati da Gualtiero ne Il grido: cfr. ibid., p. 180.

11 Ibid., p. 491. Una delle rarissime volte in cui ci si trova “a casa” in un luogo è all’aeroporto di Verona ne L’eclisse, dove Vittoria sospira: «Si sta così bene qui…», ibid., p. 386. Paradossalmente, un posto dove si parte e si arriva, dunque, non si sta. Il senso di mancanza di radicamento emerge perfettamente dalle parole di Corrado in Deserto rosso: «Delle volte mi sembra di non avere alcun diritto di trovarmi dove sono. Sarà per questo che ho sempre voglia di andarmene», ibid., p. 456.

12 A. Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 72.

13 Pascal Bonitzer, Il concetto di scomparsa, in Michelangelo Antonioni: Identificazione di un autore…, cit., pp. 147-150.

14 Ibid., p. 149.

15 Ibid.

16 Ibid., p. 148.

17 Ibid.

18 Jeffrey Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, in Rothko, Catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 6 ottobre 2007-6 gennaio 2008), a cura di Oliver Wick, Milano, Skira, 2007, pp. 44-55: 52.

19 Roberto Chiesi, Michelangelo Antonioni, i paesaggi del silenzio, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna dall’Ottocento al Contemporaneo, vol. III: Gli anni Cinquanta-Sessanta, a cura di Piero Pieri e Luigi Weber, Bologna, C.L.U.E.B., 2010, pp. 129-146: 136.

20 «L’aereo vira in quella direzione e penetra gradatamente nella nuvola. Per alcuni istanti è come inghiottito dalla nebbia e solo a tratti ne scorgiamo le ali», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 385. È emblematico che la richiesta di dirigersi dentro le nuvole venga da Vittoria: «Ecco. Andiamo dentro quella nuvola là!», ibid.

21 Ne L’eclisse, scrive Chiesi, «è come se il film si fosse svuotato dei protagonisti», ibid., p. 138.

22 «Annunciato da lievi sbuffi di fumo, e poi di colpo trasformandosi in una violenta nuvola sibilante, un violentissimo getto di vapore scaturisce dal muro laterale della fabbrica coprendo la luce grigia del cielo, i silos, le baracche», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 441.

23 «La nebbia corre sul molo e sul canale a banchi bassi, velando la massa scura della nave», ibid., p. 475. La stessa baracca di Max è «immersa nella nebbia», ibid., p. 467.

24 «Giuliana osserva i quattro che stanno davanti a lei. Dietro a loro il paesaggio è quasi completamente cancellato dalla nebbia portata dal vento. E a poco a poco anche le persone cominciano a perdere i loro contorni, a confondersi, e anche quel po’ di colore che è rimasto sparisce», ibid., p. 476.

25 «Scompare» è proprio il verbo che si legge nella sceneggiatura: «Resta la fabbrica, con le ciminiere, il fumo bianco, il fumo giallo, il vapore, i bidoni», ibid., p. 497.

26 Ibid., p. 477.

27 Quel bowling sul Tevere, Torino, Einaudi, 1983, p. 85, citato in Saverio Zumbo, Al di là delle immagini: Michelangelo Antonioni, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2002, p. 6.

28 Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p. 202.

29 P. Bonitzer, Il concetto di scomparsa, cit., p. 149.

30 Com’è invece il paese fantasma nei pressi di Noto de L’avventura: «claudia Oooh… Oooh!… Senti l’eco?… Come mai è vuoto? – sandro Chi lo sa! Io mi domando perché l’hanno costruito», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 275; o il quartiere romano attorno alla casa dei genitori di Piero ne L’eclisse: «Davanti alla casa la strada si allarga per far posto ad una chiesa stupenda. Tutt’intorno, case ammucchiate le une sulle altre, con tante finestre vuote. Tutto un mondo fermo e stanco, come in attesa di morire. Anche il barocco della chiesa, anche il gruppo di persone che stanno uscendo dalla messa pomeridiana. Anche il soldato che mangia un gelato appoggiato al muro», ibid., p. 426.

31 Cfr. Erfahrung un Urteil, 1933, in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, herausgegeben von Rudolf Tiedermann und Hans Schweppenäuser, IV, 1: Kleine Prosa, Baudelaire-Übertragungen, herausgegeben von Tillman Rexroth, Frankfurt am Main, 1972, trad. it. di Fabrizio Desideri: Esperienza e povertà, in Franco Rella, Critica e storia: Materiali su Benjamin, Venezia, Cluva, 1980, pp. 203-208.

32 P. Bonitzer, Il concetto di scomparsa, cit., p. 150.

33 Cfr. Cher Antonioni, in «Cahiers du Cinéma», n° 311, mai 1980, pp. 9-11, testo letto in occasione dell’assegnazione ad Antonioni del premio Archiginnasio d’Oro il 28 gennaio 1980 a Bologna, ed anche I quadri di Michelangelo Antonioni, in «La Repubblica», 27 agosto 2006.

34 S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 206.

35 Ibid., p. 208.

36 Ibid.

37 Ibid., p. 212.

38 Ibid., p. 211.

39 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 331.

40 Ibid., p. 350. Per il padre, è semplicemente un parco «magnifico», ibid., p. 331.

41 Ibid., pp. 453-454. Guido, nel Planetario, in Cronaca di un amore, si limita ancora a “guardarle”: «Sembra di essere in Africa. Guardavo sempre le stelle quando ero lì», brano citato, in un altro contesto, da Antonio Costa, in Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 71.

42 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 298.

43 Cfr. ibid., pp. 458-459.

44 Ibid., p. 459.

45 Ibid., p. 471.

46 Ibid., p. 472.

47 Ibid., p. 492.

48 Ibid., p. 493.

49 Ibid.

50 Ibid., p. 487.

51 Una volta Antonioni ha scritto, con tono quasi “evangelico”: «Come seconda cosa devi imparare a guardare. Quando le cose più piccole t’appariranno grandi come montagne, torna a me», A volte si fissa un punto, Valverde (CT), Il Girasole, 1992, p. 33, citato in S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 212.

52 Die blaue Ferne, 1904, trad. it. di Luisa Coeta: L’azzurra lontananza: Il viaggio e il nirvana, Milano, SugarCo Edizioni, 1980, pp. 19-21: 19.

53 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 491].

54 H. Hesse, L’azzurra lontananza…, cit., p. 21: «Così […] la vecchia patria è divenuta per te cara e lontana, forestiera la nuova e troppo vicina. Lo stesso accade per ogni possesso e per tutte le assuefazioni della nostra povera vita inquieta». Non c’è nemmeno bisogno di ricordare, a proposito di Oriente, che Hesse è l’autore di Siddharta.

55 Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 211. Ad Antonioni è dedicata la seconda parte del libro, dal titolo: «Antonioni: la perdita del centro»; per il nostro discorso, è centrale l’ultimo capitolo: «Guardare il vuoto».

56 Ma un piccolo sole rosso compare anche in Deserto rosso: è la lampadina del robot giocattolo che spicca nel buio – ancora una volta un sole nella notte – della camera di Valerio, il figlio di Giuliana. Cfr. M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 442.

57 In un manoscritto di Rothko dedicato all’incarico per i Seagram Murals – per il ristorante del Seagram Building di Mies van der Rohe e Philip Johnson – si legge: «Quando il progetto fu ultimato mi resi conto di non aver mai dimenticato la stanza di M. A.». Si tratta naturalmente di Michelangelo Buonarroti; ma le iniziali, sembrano prefigurare il futuro incontro col regista. Il testo si trova in Rothko, Catalogo della mostra, cit., pp. 169-170. Nel catalogo compare il già citato e fondamentale saggio di Jeffrey Weiss sui rapporti tra il cinema di Antonioni, in particolare Deserto rosso, e la pittura di Rothko: Temps mort: Rothko e Antonioni (vedi, sopra, la nota 18).

58 Dalla scheda di presentazione del volume Mark Rothko: Lo spazio e la sua disciplina, Milano, Electa, 2007, in http://www.electaweb.it/catalogo/focus-on/978883705501/it [24 aprile 2012].

59 Pictures & Tears: A History of People Who Have Cried in Front of Paintings, New York & London, Routledge, 2001, trad. it. di Francesco Saba Sardi, Dipinti e lacrime: Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 15.

60 Qu’est-ce que l’art abstrait?: Une histoire de l’abstraction en peinture (1860-1960), Paris, Éditions Gallimard, 2003, trad. it. di Lucia Schettino: Che cos’è l’arte astratta? Una storia dell’astrazione in pittura (1860-1960), Roma, Donzelli, 2004, p. 167.

61 Ritratti d’autore: Figure della pittura europea da Duccio a Rothko, Roma, Città Nuova, 2009, p. 106.

62 Pubblicata per la prima volta in Rothko, Catalogo della mostra, cit., p. 55.

63 Dal 27 aprile al 20 maggio 1962.

64 Lettera di Antonioni a Rothko, Roma, 27 maggio 1962, cit. p. 55.

65 Ibid.

66 Ibid.

67 Come non pensare al “panico” – nel suo senso etimologico: che rimanda al dio Pan – del canto delle rocce dell’isola misteriosa in Deserto rosso?

68 Ibid.

69 Ibid. Alla fine di dicembre dello stesso anno, Antonioni riuscirà ad incontrare Rothko nel suo studio, presenti Monica Vitti e un traduttore d’eccezione, Furio Colombo, in occasione della proiezione newyorkese de L’eclisse, avvenuta il giorno 20. Peter Selz, curatore al Museum of Modern Art, che forse era presente all’incontro, riferì che Antonioni avrebbe affermato: «I suoi quadri sono come i miei film, parlano del niente [nothing]… con esattezza», cfr. Seymour Chatman, Antonioni, or the Surface of the World, Berkeley, University of California Press, 1985, pp. pp. 54 e 249 n. 2, citato da J. Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, cit., p. 45. “Niente”, scrive Weiss, non è “nulla”. E cita Richard Gilman (About Nothing – with Precision, in «Theatre Arts», July 1962, p. 11): «“In effetti, i film di Antonioni riguardano il niente, che non è la stessa cosa del nulla” […]. I suoi film, continuava “senza essere astratti, senza una storia particolare, hanno invece, come la pittura più recente, un’esistenza autonoma e assoluta, sono azioni, non descrizioni di azioni”», J. Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, cit., p. 45.

70 S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 212.

71 A volte si fissa un punto, cit., p. 26, citato ibid.

72 M. Antonioni, Prefazione, cit. p. xiv.

(pubblicato su: Ravenna Festival 1012: Nobilissima Visione, Catalogo della Manifestazione, Fusignano, Grafiche Morandi, 2012, pp. 85-91)

Quando

8

di Fabio Franzin

Il cassintegrato culla la sua emicrania
vestendo il nulla delle ore con la pelle
rossa del divano, contando con l’alluce
destro le stecche oblique della tapparella.

Atene / Marco Benedettelli

5
Magnisias II / Mattia Santini
Magnisias II / Mattia Santini
Magnisias II / Mattia Santini
Magnisias II / Mattia Santini

C’è una strada che si dirama a spina di pesce, proprio sotto l’Acropoli di Atene. Una lingua d’asfalto sul dorso di un colle, un’arteria che si irradia in altri vicoli, altri vasi sanguigni. Le vie si otturano contro le pareti marce dei palazzi che squilibrati presidiano lo spazio e gli angoli dei balconi si sbriciolano atrofizzati nell’immobilità del sole bollente di luglio.

Intervista-dialogo con Lello Voce intorno a una concezione pluriversa della poesia

32

a cura di Andrea Inglese

… dove si parla di oralità, avanguardia, poetry slam, ibridazioni, arti poetiche…

Come è nato il progetto di “Piccola cucina cannibale”, che si presenta come un libro di poesia musicata a fumetti? Libri di poesia accompagnati da CD audio oggi non sono rari, ma libri di poesia a fumetti non mi sembra di averne ancora visti, al di fuori del tuo.

Sono ormai più di vent’anni che faccio ‘spoken word’, poesia ‘oralizzata’, e dunque il mio rapporto con la forma libro è necessariamente più complicato, complesso, di chi si limita a scrivere versi (e magari a pronunciarli sul palco, in occasione di questo, o quel reading).

Forma vs processo. Su una poesia di Bob Perelman

14

di Andrea Raos

L’8 maggio 2012 ho pubblicato sul blog collettivo “Nazione Indiana” la mia traduzione di una poesia dello statunitense Bob Perelman, dal titolo La marginalizzazione della poesia [The Marginalization of Poetry]. Intendo qui brevemente spiegare cosa ho fatto con quel testo e perché.

Scrivete sonetti!

18
Carlo Oliva – foto di Marina Magri

Oggi pomeriggio, al cimitero di Lambrate, si sono svolti i funerali di Carlo Oliva. Uomo di rara e acuminata intelligenza. Chi l’ha conosciuto – e io mi fregio della fortuna – sa di cosa parlo. Per ricordarlo “rubo” dal suo sito un pezzo che qui ripropongo. Ciau Carlett, te voeri bén. G.B.

Appello ai nuovi scrittori italiani di giallo e di noir
(sperando che smettano di essere tali)

Amici carissimi, so che la stagione vi è propizia e che, probabilmente, vi par d’essere nel paese della cuccagna. Gli editori vi aprono le braccia, prendono qualsiasi cosa gli proponiate e la riversano senza pietà sugli scaffali delle librerie e sulle scrivanie dei critici, che ormai gemono sotto il peso. Probabilmente non vi pagano molto, ma c’è sempre la prospettiva di giungere, presto o tardi, in televisione, con una miniserie, una fiction, una rubrica, o semplicemente una bella comparsata in uno spazio che conti, e allora sì che ci sarà da mietere. I gialli, come si sa, “tirano” e ormai si sono messi a scriverne anche autori che fino a dieci anni fa non li avrebbero toccati neanche con un palo lungo dieci metri. Perché non dovreste farlo voi, che di questo peccato originale siete ovviamente immuni e godete dei vantaggi generazionali e culturali di chi è cresciuto in questa triste Italia slabbrata e casinara e sa, se non altro perché l’ho scritto io, che non è più la tragedia, come ai tempi di Eschilo e di Shakespeare, ma appunto il giallo lo strumento per rendere conto del dissesto dei tempi? Se non ci si deve più vergognare di trafficare in thriller mystery e non è più obbligatorio celarsi dietro qualche pseudonimo anglosassone, ma si viene, anzi, considerati da tutti come autori impegnati e meritevoli di ascolto sui principali problemi del paese (uno, anche se, credo, non dei più giovani, è persino finito in Parlamento), perché non cogliere l’occasione? E allora dagli a pestare sui tasti del computer e speriamo che duri.

Ecco. Non vorrei fare, proprio in questa fase della mia vita, la parte del menagramo, ma io non sono affatto sicuro che duri. Siete troppi, ragazzi miei, e scrivete troppo. Per di più gli editori, dimentichi dei saggi principi cui si attenevano, un tempo alla Mondadori, alla Garzanti e alla Longanesi i nostri padri spirituali (gente del livello di Alberto Tedeschi, Mario Monti e Oreste Del Buono) di tascabili, paperback e fascicoli da edicola non ne vogliono più sapere: pubblicano i vostri capolavori in edizioni rilegate, delle specie di in folio di dimensioni tali da determinare la più clamorosa impennata dei costi e del prezzo sul mercato (e per di più pesano, occupano spazio e non si possono leggere in tram o nella vasca da bagno). Presto o tardi, la gente comincerà a comprarne di meno, anche perché tenersi in pari con il flusso incessante delle novità è sempre più difficile e cresce di continuo la pila degli arretrati da smaltire. E se gli acquirenti comprano meno, gli editori, si sa, meno pubblicano e se si innesta l’effetto valanga si fa presto, ahimè, a tornare alla situazione in cui di gialli non ne vuole sapere nessuno. Meglio fareste a prendere esempio dagli sceicchi arabi e simili potentati esotici, che sanno quanto giovi, anche al fine del mantenimento del prezzo, ridurre la produzione (del petrolio, nel loro caso, ma lo farebbero – ne sono certo – anche con i gialli). Tutti i lettori, occasionali e professionali, ve ne sarebbero grati.

Fosse tutto qui, poco male. Ma c’è di più. C’è il fatto, ragazzi miei, che exceptis (i pochi) excipiendis, voi non siete poi bravi come pensate di essere. Lo sa chi, come me, è tenuto a tener d’occhio le novità e per fortuna che l’Einaudi Stile Libero non mi manda mai niente, per cui la galera ne risulta un poco ridotta. Scrivete tutti le stesse cose. Avete rinunciato, lo ammetto, alle storie del classico maresciallo dei carabinieri che gioca a bocce e, sotto sotto, ha simpatia per il ragazzaccio scapestrato (non ne scrivono più neanche le professoresse che partecipano al premio Tedeschi), ma questo, francamente, non basta. Di thriller metropolitani (che rappresentano poi l’espressione moderna del genere) ne tirate fuori davvero pochini: sono più difficili da scrivere di quanto non sembri e poi, che volete che vi dica, questo tipo di romanzi ambientato nelle prospere cittadine della Toscana e dell’Emilia, per quanto vi sforziate di dipingerle come sentine di nequizia, suona un po’ farlocco. Al contrario, di esangui mistery di provincia, tutti con il loro bravo commissario dal volto umano, sempre di mezza età, magari con l’ulcera o la psoriasi, o qualsiasi altro fastidio di livello medio alto, meglio se afflitto da qualche casino in famiglia e uso a scazzi ripetuti con i superiori, ne scrivete davvero troppi. Al massimo, visto che gli investigatori privati hanno libero corso – a quanto sembra – solo nel Canton Ticino, fate lo sforzo di trasformare il commissario in un magistrato o qualcosa di simile. Sì, d’accordo, Simenon, Mankell, la Elizabeth George, Camilleri, Markaris e tanti altri ci hanno fatto dei bei soldi, ma appunto per questo potrebbe valere la pena di cambiare. E non è detto, naturalmente, che i vostri eroi si conquistino tutti la loro serie televisiva, con il conseguente incremento delle vostre finanze. Il sottogenere è saturo, bei giovani, lasciatelo agli specialisti, finché ce la fanno anche loro.

Che c’è d’altro? Pochissimo, in verità. In Italia, per fortuna, si scrivono meno gialli storici che altrove e meno romanzi con la setta misteriosa che tramanda un antico segreto, spargendo peraltro per ogni dove gli indizi necessari a scoprirlo, ma quelli che ci sono restano sempre troppi. C’è, in compenso, tanta, troppa Letteratura. Non nel senso della letteratura italiana, che è una cosa seria, ed è ovvio che la narrativa di genere ne faccia parte, non siamo fermi a quelle polemiche lì. No, io dico la Letteratura con la maiuscola e, magari, le virgolette: quella di cui il vecchio De Sanctis deprecava con tanta energia la presenza nella produzione nazionale dal XVI secolo in poi. Dico l’insopprimibile pulsione verso la bella pagina, la passione per i valori formali, per il gioco di parole, per il mix linguistico dialettale, per la citazione dotta abilmente nascosta, per la descrizione a catalogo dei tratti boschivi, per il gusto dei termini tecnici e rari e quello della variazione raffinata su temi già noti, insomma, tutto quell’apparato da poetae novi che con la narrativa – e voi siete narratori, no? – stride sempre un poco. E non mi dite che queste cose sono anche loro al servizio della trama (il plot, o il mythos, come lo chiama Aristotele), che rafforzano, evidenziano nei suoi svolgimenti e arricchiscono di dimensioni ulteriori . Questa dovrebbe essere, in effetti, la loro funzione, ma perché funzioni (scusate il bisticcio) una trama, una vicenda ben congegnata, deve ben esserci. Invece no: voi, cari amici, ricorrete alla Letteratura come fine a se stesso, come esibizione di qualità e autoproposta di promozione, come mezzo per dra di gomito al lettore ogni due pagine e dirghli “Ahò, hai visto come so scrivere bene?” E di questo, alla fine, potrei perdonarvi, perché un po’ di narcisismo vive in noi tutti, ma il peggio è che ve servite soprattutto a fini cosmetici. Non so se l’avete notato ma il giallista che fa soprattutto della Letteratura è quello che dispone, al massimo, di una mezza idea di trama, di solito ripetitiva o sussunta chissà da dove, con una storia che parte per caso, si impantana dopo due coincidenze e si estingue senza motivo (magari con un bel massacro finale), coinvolgendo dei personaggi dei cui casi non potrebbe importare di meno a nessuno: tutta roba che se, raccontata pulita pulita, susciterebbe orde di lettori a marciare verso le librerie imbracciando picche e agitando fiaccole accese. E allora, via con il Letterario, inteso come un velo che abilmente ombreggi i difetti di quanto sta sotto, la fragilità dei personaggi, la banalità delle situazioni, la povertà dell’ideologia di fondo. Pastiches linguistici, dilatazione del vocabolario, incursioni in ambiti semantici diversi, contrapposizione di registri espressivi discordanti, estraniamento polisemico? Ma sì, grazie. Sfasamenti della sincronia narrativa, montaggio alternato di piani temporali diversi, deviazioni dall’asse narrativo, compresenza non dichiarata di più punti di vista, messa in crisi dell’io narrante, uso non sistematico e sussultorio della terza persona… D’accordo, d’accordo. Tutto fa brodo e fa, soprattutto, impressione. Il risultato narrativo sarà forse un po’ misero, ma tanto si spera che non se ne accorga nessuno.

Di tutto questo, tuttavia, il pubblico finirà presto o tardi con lo stancarsi. Ed ecco la necessità di prendere qualche opportuno provvedimento. Il primo dei quali, appunto, è che smettiate di scrivere. Il sacrificio, me ne rendo conto, sarà doloroso, ma è indispensabile. Qui c’è il rischio che vada in malora tutta la baracca, travolgendo quei pochi che ancora onestamente vi agiscono. È per il bene del giallo italiano, credetemi, che ve lo chiedo.

Oppure, in seconda, assai più deprecabile, istanza, potete provare a cambiare. Potete prendere esempio, tanto per dire, dai vostri colleghi del genere avventuroso di azione, quello contaminato dalla spy story, che infatti è stato confinato per anni dalle parte di “Segretissimo”, dove, non a caso, capita ancora a parecchi di dover inalberare improbabili pseudonimi anglosassoni, francesi e catalani (e non tutti dirigono una casa editrice in cui ripubblicare a nome proprio). Non sono, credetemi, cattivi scrittori, anche se si servono, di solito, di una sorta di basic italian essenziale, con ben pochi abbellimenti e lenocini di quelli che piacciono a voi (magari un certo abuso di termini tecnici, soprattutto in tema di armamenti e arti marziali, ma è un peccato veniale). Hanno persino imparato, con gli anni, a maneggiare il congiuntivo e il trapassato, che pure continuano a trattare con una certa, eccessiva cautela. Eppure, vi assicuro, sanno raccontare una storia e le loro storie, per quanto trucide, improbabili, tirate, eccessive (ma si potrebbe anche considerarle “stilizzate”) riescono più spesso che no a dire qualcosa sul mondo in cui viviamo.

Certo, la loro non è Letteratura, nel senso in cui dicevamo prima. Ma, in fondo, se la Letteratura via piace tanto, nulla vi impedisce di coltivarla liberamente. Soltanto vi prego, per favore, di non metterla nei gialli. Non è obbligatorio. Saltate il fosso e passate direttamente al Parnaso.

Potreste, per esempio, mettervi a scrivere sonetti. Non è difficile, ve lo assicuro: mi ci sono provato, ogni tanto, persino io. Quattordici endecasillabi, nella forma tipo: due quartine a rime alterne o incrociate e due terzine a rime parimenti alterne, o – per chi proprio vuole complicarsi la vita – a tre rime ripetute. Nulla vi vieterà, naturalmente, di introdurre tutte le varianti del caso, creando, con soddisfazione sempre crescente, sonetti caudati, rinterzati, doppi, continui, minori e minimi (troverete le relative definizioni su qualsiasi buon manuale a uso dei bienni delle medie superiori, o, naturalmente, in Internet), ma vi assicuro che lo schema base dà già abbastanza da fare e già garantisce, in caso di successo, sufficienti soddisfazioni. È faticoso, certo, ma non più di ammucchiare mattoni, bacchiare le olive, lavorare in miniera o scrivere un giallo quando non si hanno idee in testa, come certamente saprete. Per cui, procuratevi un buon rimario e buon lavoro. Seguirò i vostri progressi con la più partecipata attenzione.

Milano, 3 maggio 2008

Cordialmente vostro
Carlo Oliva

 

Abbiate Pietà di Kim Ki-duk

12

di Giuseppe Zucco

Se del nuovo film di Kim Ki-duk, vincitore del Leone d’oro al 69° Festival di Venezia, sparissero di colpo tutte le copie, non so quanti ne sentirebbero la mancanza.

I protagonisti di Pietà risultano sempre catatonici o sopra le righe. La storia, una parabola sui rapporti umani tirata alle estreme conseguenze, non concede mai il lenimento di una qualche immedesimazione. I dialoghi sono irrimediabilmente programmatici: rivelano senza misura, svelano i nodi della trama, ostentano in modo grossolano i temi portanti. La colonna sonora, di una tristezza abissale, si avvera solo nei momenti più cupi, caricando senza freni lo strazio degli eventi. La regia è sporca, sciatta: le inquadrature, eccezioni a parte, sono tirate vie, e i piccoli o più evidenti oscillamenti da macchina a spalla legati alla cadenza a scatti di alcune zoomate assegnano all’intero film un’aura amatoriale. Il montaggio è nervoso, brusco, sconsideratamente veloce, ellittico anche quando il fluire naturale del tempo permetterebbe una migliore esposizione dei personaggi e delle loro intenzioni. La fotografia, come se il resto non bastasse, con le predominanti del rosso e del blu, appare troppo leccata, quindi tanto più stridente rispetto alla regia.

A conti fatti, è come se Kim Ki-duk, al suo diciottesimo film, avesse contratto una qualche miopia, una menomazione tale di cui non si è fatta carico neanche l’illustre parata dei giurati del festival, miopi anche loro, ma con una aggravante: perché se un regista può fallire un film, una giuria, soprattutto se composta da nomi tanto scintillanti, non può consegnare un regista al ridicolo, adagiando un film così poco riuscito sulla cima bene in vista di un premio internazionale. Proprio dove serviva tatto, una decorosa quanto defilata uscita di scena, qualche pacca sulle spalle, a Kim Ki-duk è stata prospettata, suo malgrado, la più nera delle soluzioni: una scarica di flash con il sorriso in posa.

Ma è impossibile liquidare con questa invisibile pugnalata uno dei migliori creatori di immagini in circolazione, il regista che in un pugno di anni, tra il 2000 e il 2004, ha inanellato, a tutto vantaggio degli spettatori, tre capolavori – L’isola, La samaritana, Ferro 3 La casa vuota – film che a loro modo, sotto la superficie rovente di melodrammi a tratti insostenibili, illuminano l’idea piccola ma esplosiva che gli affetti, le passioni sentimentali, prima ancora che qualche sistema ideologico ci ricami su, diventando essi stessi ideologia, possano scardinare e ricomporre il mondo, ridisegnandolo al di là del bene e del male.

Così, in un film che sulla carta, con qualche miglioria, e un uso parco dei dialoghi, sarebbe stato geniale – una donna che vendica il figlio facendo credere al mandante morale del suo suicidio, uno strozzino solitario, violento, senza passato, di essere sua madre, di amarlo alla follia, di proteggerlo fino alla fine dei tempi, irretendolo poco per volta nelle spire della dolcezza materna, prima di abbandonarlo, suicidandosi, alla più catastrofica delle solitudini – bisognerebbe rintracciare con cura i motivi di una tale disfatta.

Una prima risposta è di carattere biografico. Secondo le interviste che Kim Ki-duk ha rilasciato, lo slum di Seul dove si inscrive questa storia, un alveare di officine microscopiche in cui moltitudini di operai si affaticano su minute manifatture di metallo, sarebbe stata casa del regista per cinque anni. Lui stesso dichiara di essere stato un operaio, prima di evadere da lì, stabilirsi a Parigi, e coltivare il sogno di diventare un pittore. E infatti, la descrizione di questo set a cielo aperto è quanto di più avvincente del film: officina per officina, il capitalismo avanzato dei paesi asiatici dimostra di essere più plumbeo e tagliente della lamiera che ricopre tutto. Ma alla spietata ricognizione del paesaggio, non segue un identico vaglio degli esseri umani che lo abitano: gli operai, ritratti sempre all’interno delle officine, sono buoni, dolci, proni, pronti a sacrificarsi per il bene del prossimo. Tranne alcune scene, più che nobili, appaiono stucchevoli – come se il loro ricordo fosse glassato, questo sì, di una pietà eccessiva. In fondo, più che la vendetta, sembrerebbe questo il reale soggetto del film. E nel trattamento di questi personaggi si insinua ancora più evidente l’idea che il regista avesse voluto trattenere, attraverso la memoria addolcita di questi operai, tutte comparse intorno alla sua età più verde, qualcosa della sua gioventù: la speranza, la fiducia, la fede nel destino.

Però, se il dato biografico è l’acido che corrode dall’interno la sceneggiatura e i suoi caratteri, altro affiora sulla superficie delle immagini. In un film dove il suicidio è continuamente esibito, e gli operai si uccidono per sfuggire alle richieste dello strozzino, anche Kim Ki-duk sembra perversamente attratto da una morte esemplare da infliggersi davanti agli occhi degli spettatori. Rispetto al passato, alla pellicola sceglie il digitale, alla calligrafica esattezza delle inquadrature preferisce il rollio incidentale della camera a spalla, alla confezione di immagini memorabili privilegia quelle di servizio narrativo (la Pietà raffigurata nella locandina è parte di una scena tagliata), al silenzio o alla laconicità dei dialoghi opta per il chiacchiericcio, alla sintesi fulminante di una parabola sentimentale sostituisce una narrazione più dispersiva. Cinematograficamente parlando, un suicidio. Come se avesse deciso dopo diciotto film di dismettere non solo ciò che lo ha da sempre contraddistinto, ma le sue doti, la sua forza.

Soprattutto per questo alle pacche sulle spalle andrebbero sostituiti degli abbracci. Perché con il coraggio estremo che ogni harakiri comporta, Kim Ki-duk sembra avere ripudiato davanti a migliaia di testimoni seduti in sala tutto ciò che rischia di farlo diventare un’involontaria parodia di se stesso. Da qui in poi gli spetta il compito difficilissimo di trovare una nuova via degna dei suoi migliori trascorsi. Sempre che la maledizione del premio ricevuto non ostacoli la strada in salita su cui sembra essersi avventurato.

Lessico 2.0. Istruzioni per salvarsi su iCloud

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di Davide Orecchio

Fai un backup delle chiavi di casa. Salva una copia delle chiavi di casa sulla nuvola. Fai un backup di te stessa; usa la nuvola: Google Drive (5 giga gratis) per le parti ingombranti (testa, torso, membra) Dropbox (2 giga gratuiti) per il resto (pelle, unghie, software).

Di fede e speranza non c’è backup: hanno bisogno della memoria RAM.

Attenzione #1: la fede tende a bruciare processore e scheda madre. Se si ha fede, scegliere un ambiente climatizzato.

Attenzione #2: se la tua fede opera su piattaforme Flash e Java, non è compatibile con iPad e iPhone (scegli una fede compatibile).

Attenzione #3: puoi disinstallare la tua fede con Faith Uninstall©, ma solo se vivi sotto un regime non teocratico; Faith Uninstall© è incompatibile con: Teocrazia (in genere), Città del Vaticano, Medio Oriente.

Attenzione #4: l’upgrade della fede è tecnicamente possibile ma spiritualmente sconsigliato.

Puoi salvare la tua anima su iCloud, ma devi acquistare spazio: 10, 20, 50 giga. Sai quanto pesa la tua anima? Tieni conto che in certi individui col passare del tempo diventa più leggera, mentre al contrario in altri s’aggrava. Tu che tipo di individuo sei? Leggi bene le istruzioni nella tua anima prima di caricarla su iCloud, così da non subire perdite di dati. Proteggi la tua anima con una password alfanumerica, cripta la tua anima. Se qualcuno s’introduce nella tua anima per rubarla, Apple declina ogni responsabilità.

Un pensiero fulmineo è un tweet. Un pensiero più lungo di 140 caratteri è uno status. Un pensiero più lungo di uno status è un post. Se non si hanno pensieri, svuotare la cache. I sogni sono SEMPRE trojans o virus. Spybot e Tea Timer neutralizzano i sogni.

Un pisolino è stand by, il sonno è log out, la morte è switch off, per la resurrezione bisogna attendere il nuovo sistema operativo.

Il volto che intravedi riflesso nello schermo non è tuo, è il tuo avatar.

Usa sempre firewall e antivirus, altrimenti è sesso non protetto (vedi anche MORTE, ANIMA, BACKUP, ICLOUD).

Impostazioni di privacy consigliate per l’accesso della app cervello a Facebook: Super io, pubblico; Io, solo amici; Es, nessuno (neanche tu).

Connettere lo sguardo all’account Flickr. Connettere lo sguardo all’account Instagram. Condividere lo sguardo. Se lei ti piace, mettile un like. Se lui ti piace, mettigli un like. L’inverso è implicito nell’assenza di like.

“Che disordine la mia testa! Forse dovrei deframmentarla, che dici?”

Non si viaggia, si naviga. Il web non è affatto inestricabile.

Se hai perso le chiavi di casa e non hai fatto il backup, cercale su Google. Altre cose che puoi cercare e trovare su Google: il caro estinto, te stessa, quello che resta. Chi cerca su Google, trova.

Matrimonio

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di Franco Buffoni

In Italia in questi mesi stiamo assistendo ad uno strano, risibile e ipocrita dibattito su ciò che dice effettivamente la nostra Costituzione, promulgata il 1 gennaio 1948, sul matrimonio civile.
Da una parte c’è chi sostiene, Costituzione alla mano, che – essendo tutti i cittadini uguali dinanzi alla legge – e poiché la Repubblica promuove l’uguaglianza e le pari opportunità, anche i cittadini omosessuali devono poter stipulare tra loro il contratto denominato matrimonio civile.
Dall’altra parte si risponde che l’articolo 7 della Costituzione parla di “famiglia naturale” basata sul matrimonio.
In linguistica, si sa, non esiste il “verbo”, non esiste l’ipse dixit. E la linguistica applicata al diritto è una scienza empirica, relativistica. Perché le lingue, come le società, sono in costante trasformazione. I termini, dunque, non posseggono un significato letterale determinato. I significati letterali non sono che i significati stabiliti da una pratica interpretativa. Qualcuno potrebbe replicare che i significati coincidono con le intenzioni degli autori dei testi: in questo caso si parla di teoria intenzionalistica dell’interpretazione, contrapposta alla teoria letteralistica.
Dall’altra parte, dicevo, si risponde che l’articolo 7 della Costituzione parla di “famiglia naturale” basata sul matrimonio. A questa risposta i primi replicano che la Costituzione non parla mai di matrimonio esclusivamente tra un uomo e una donna. E a questa replica i secondi rispondono che la Costituzione lo dà per sottinteso.
Eccoci nel cuore dello scontro tra teoria intenzionalistica e teoria letteralistica dell’interpretazione. Nel caso dell’articolo 7 la lettura intenzionale è dei giuristi di area cattolica, quella letterale è dei giuristi – come Stefano Rodotà – di area laica. Ma le posizioni potrebbero scambiarsi su un altro articolo, trasformando i cattolici in letteralisti e i laici in intenzionalisti, secondo le rispettive convinzioni ed esigenze.
E’ in questi casi che occorrono sensibilità, intelligenza e capacità di guardare lontano.  Perché altrimenti non se ne esce, come è evidente ripercorrendo gli estremi del dibattito.
Dapprima, da parte cattolica, si sostenne che gli animali, che sono “naturali”, non praticano l’omosessualità. Da parte laica si è allora dimostrato scientificamente che la natura non disdegna affatto l’omosessualità; che in molte specie l’accoppiamento omosessuale è un dato di consuetudine anche in presenza di individui del sesso opposto, e non solo in cattività; e che in altre specie vicine all’homo sapiens il sesso è slegato dal ciclo riproduttivo: e che questo punto è fondamentale per i diritti degli omosessuali: la separazione tra sessualità e procreazione.
Da parte clericale si è allora replicato che, se gli animali praticano dei comportamenti “bestiali”, questo non giustifica l’uomo che li imiti.
E da parte laica: come si può negare che la pulsione omosessuale sia “naturale”? E’ forse stata creata in laboratorio?
Significativa al riguardo la mostra Against Nature?, proveniente da Oslo e ospitata dal Museo di Storia Naturale di Genova, che presentava in modo rigorosamente scientifico gli studi sui comportamenti omosessuali di oltre millecinquecento specie animali, dagli invertebrati ai mammiferi. La mostra era partita in sordina, ma venne alla ribalta quando le organizzazioni cattoliche protestarono perché il progetto era stato inserito nel catalogo didattico per le scolaresche. (Interessatissime, per altro, alle storie delle balene maschio che si comportano vistosamente da femmina per evitare i combattimenti; dei trichechi che si coinvolgono in giochi erotici omosessuali; dei pinguini reali tra i quali un maschio su cinque preferisce un partner dello stesso sesso. E dei fenicotteri, che si organizzano in coppie di maschi per allevare il doppio dei cuccioli, o dei cigni che creano coppie fedeli nel tempo sia etero che omo.) Magnus Enquist, etologo dell’Università di Oslo, per nulla turbato dalle polemiche, osservò: “Ci sono cose che vanno contro natura molto più dell’omosessualità, cose che soltanto gli umani riescono a fare, come avere una religione o dormire in pigiama”.

Come inquadrare la questione nell’ottica della sensibilità, dell’intelligenza e della capacità di guardare lontano? Per esempio, impostandola in questo modo:
I. Parlare di “omosessualità” tra gli animali è scorretto, significa antropomorfizzarli, attribuendo loro intenzioni decisamente umane.
II. Le persone omosessuali devono acquisire rispetto sociale e diritti non perché si dimostra scientificamente che i loro comportamenti esistono in natura, ma perché amano e si amano come persone.
III. Quindi, sia il ricorso da parte clericale al concetto di omosessualità contro-natura, sia la replica che si tratta di comportamenti largamente diffusi in natura, non sono argomentazioni convincenti perché il problema è interamente umano, cioè etico.
IV. E’ inutile appellarsi al non umano per giustificare l’umano. Solo la cultura ha il compito di compiere scelte etiche, cariche – per l’appunto – di una forza culturale.
V. E’ la parte più avanzata della filosofia del Novecento che considera obsoleto come categoria di pensiero il diritto naturale. Siamo ormai una specie troppo poco “naturale” per parlare di che cosa è naturale. La Sapiens-sapiens è diventata tale proprio perché si è distanziata dalla natura, dalla animalità. Per gli appartenenti alla Sapiens-sapiens, oggi, “naturale” dovrebbe essere l’accentuazione di educazione, gentilezza, civiltà: umanizzare il mondo, diceva Rilke. E che cosa è più gentile, umano, civile, di una promessa d’amore, di un patto di solidarietà, di un “contratto” stipulato solennemente tra due persone? E sottolineo persone.