di Giuseppe Zucco
Se del nuovo film di Kim Ki-duk, vincitore del Leone d’oro al 69° Festival di Venezia, sparissero di colpo tutte le copie, non so quanti ne sentirebbero la mancanza.
I protagonisti di Pietà risultano sempre catatonici o sopra le righe. La storia, una parabola sui rapporti umani tirata alle estreme conseguenze, non concede mai il lenimento di una qualche immedesimazione. I dialoghi sono irrimediabilmente programmatici: rivelano senza misura, svelano i nodi della trama, ostentano in modo grossolano i temi portanti. La colonna sonora, di una tristezza abissale, si avvera solo nei momenti più cupi, caricando senza freni lo strazio degli eventi. La regia è sporca, sciatta: le inquadrature, eccezioni a parte, sono tirate vie, e i piccoli o più evidenti oscillamenti da macchina a spalla legati alla cadenza a scatti di alcune zoomate assegnano all’intero film un’aura amatoriale. Il montaggio è nervoso, brusco, sconsideratamente veloce, ellittico anche quando il fluire naturale del tempo permetterebbe una migliore esposizione dei personaggi e delle loro intenzioni. La fotografia, come se il resto non bastasse, con le predominanti del rosso e del blu, appare troppo leccata, quindi tanto più stridente rispetto alla regia.
A conti fatti, è come se Kim Ki-duk, al suo diciottesimo film, avesse contratto una qualche miopia, una menomazione tale di cui non si è fatta carico neanche l’illustre parata dei giurati del festival, miopi anche loro, ma con una aggravante: perché se un regista può fallire un film, una giuria, soprattutto se composta da nomi tanto scintillanti, non può consegnare un regista al ridicolo, adagiando un film così poco riuscito sulla cima bene in vista di un premio internazionale. Proprio dove serviva tatto, una decorosa quanto defilata uscita di scena, qualche pacca sulle spalle, a Kim Ki-duk è stata prospettata, suo malgrado, la più nera delle soluzioni: una scarica di flash con il sorriso in posa.
Ma è impossibile liquidare con questa invisibile pugnalata uno dei migliori creatori di immagini in circolazione, il regista che in un pugno di anni, tra il 2000 e il 2004, ha inanellato, a tutto vantaggio degli spettatori, tre capolavori – L’isola, La samaritana, Ferro 3 – La casa vuota – film che a loro modo, sotto la superficie rovente di melodrammi a tratti insostenibili, illuminano l’idea piccola ma esplosiva che gli affetti, le passioni sentimentali, prima ancora che qualche sistema ideologico ci ricami su, diventando essi stessi ideologia, possano scardinare e ricomporre il mondo, ridisegnandolo al di là del bene e del male.
Così, in un film che sulla carta, con qualche miglioria, e un uso parco dei dialoghi, sarebbe stato geniale – una donna che vendica il figlio facendo credere al mandante morale del suo suicidio, uno strozzino solitario, violento, senza passato, di essere sua madre, di amarlo alla follia, di proteggerlo fino alla fine dei tempi, irretendolo poco per volta nelle spire della dolcezza materna, prima di abbandonarlo, suicidandosi, alla più catastrofica delle solitudini – bisognerebbe rintracciare con cura i motivi di una tale disfatta.
Una prima risposta è di carattere biografico. Secondo le interviste che Kim Ki-duk ha rilasciato, lo slum di Seul dove si inscrive questa storia, un alveare di officine microscopiche in cui moltitudini di operai si affaticano su minute manifatture di metallo, sarebbe stata casa del regista per cinque anni. Lui stesso dichiara di essere stato un operaio, prima di evadere da lì, stabilirsi a Parigi, e coltivare il sogno di diventare un pittore. E infatti, la descrizione di questo set a cielo aperto è quanto di più avvincente del film: officina per officina, il capitalismo avanzato dei paesi asiatici dimostra di essere più plumbeo e tagliente della lamiera che ricopre tutto. Ma alla spietata ricognizione del paesaggio, non segue un identico vaglio degli esseri umani che lo abitano: gli operai, ritratti sempre all’interno delle officine, sono buoni, dolci, proni, pronti a sacrificarsi per il bene del prossimo. Tranne alcune scene, più che nobili, appaiono stucchevoli – come se il loro ricordo fosse glassato, questo sì, di una pietà eccessiva. In fondo, più che la vendetta, sembrerebbe questo il reale soggetto del film. E nel trattamento di questi personaggi si insinua ancora più evidente l’idea che il regista avesse voluto trattenere, attraverso la memoria addolcita di questi operai, tutte comparse intorno alla sua età più verde, qualcosa della sua gioventù: la speranza, la fiducia, la fede nel destino.
Però, se il dato biografico è l’acido che corrode dall’interno la sceneggiatura e i suoi caratteri, altro affiora sulla superficie delle immagini. In un film dove il suicidio è continuamente esibito, e gli operai si uccidono per sfuggire alle richieste dello strozzino, anche Kim Ki-duk sembra perversamente attratto da una morte esemplare da infliggersi davanti agli occhi degli spettatori. Rispetto al passato, alla pellicola sceglie il digitale, alla calligrafica esattezza delle inquadrature preferisce il rollio incidentale della camera a spalla, alla confezione di immagini memorabili privilegia quelle di servizio narrativo (la Pietà raffigurata nella locandina è parte di una scena tagliata), al silenzio o alla laconicità dei dialoghi opta per il chiacchiericcio, alla sintesi fulminante di una parabola sentimentale sostituisce una narrazione più dispersiva. Cinematograficamente parlando, un suicidio. Come se avesse deciso dopo diciotto film di dismettere non solo ciò che lo ha da sempre contraddistinto, ma le sue doti, la sua forza.
Soprattutto per questo alle pacche sulle spalle andrebbero sostituiti degli abbracci. Perché con il coraggio estremo che ogni harakiri comporta, Kim Ki-duk sembra avere ripudiato davanti a migliaia di testimoni seduti in sala tutto ciò che rischia di farlo diventare un’involontaria parodia di se stesso. Da qui in poi gli spetta il compito difficilissimo di trovare una nuova via degna dei suoi migliori trascorsi. Sempre che la maledizione del premio ricevuto non ostacoli la strada in salita su cui sembra essersi avventurato.



di Franco Buffoni






di Carlo Ruggiero
Dopo un paio di giorni di stanza a Filtu torniamo a Negelle ripercorrendo l’unica strada della regione, quella voluta dal gerarca Rodolfo Graziani per invadere l’Etiopia sotto il Fascismo. Ormai il tappetino d’asfalto è completamente abraso e si saltella come sulle montagne russe. Ma ecco di nuovo un camion, velocissimo, che ci supera. Ma si può sapere chi sono quei pazzi?, chiedo al mio accompagnatore. “Il chat non può aspettare” mi viene risposto. Scopro così che sugli altopiani dell’Etiopia cresce una pianta autoctona che produce germogli che masticandoli danno una lieve ebbrezza. In pratica è uno stupefacente naturale, qui assolutamente legale, di cui l’intero corno d’Africa e buona parte della penisola arabica ne è consumatore accanito. Solo che il chat – qat nello Yemen – ha da essere consumato fresco, appena germogliato. E per questo ogni mattina un sistema logistico organizzato meglio di un esercito in assetto di guerra riesce a distribuire nel raggio di centinaia di chilometri le frasche allucinogene. Persino l’impenetrabile confine somalo si apre al passaggio dei camion di chat senza troppo discutere. Neppure a farlo apposta nel villaggio che abbiamo appena raggiunto notiamo il camion fermo che distribuisce fasci di verdura come fossimo al mercato. I due ragazzi col kalashnikov sul camion però mi fanno capire che la cosa è meno divertente e folkloristica di quanto immagini.
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