di Franco Buffoni
In Italia in questi mesi stiamo assistendo ad uno strano, risibile e ipocrita dibattito su ciò che dice effettivamente la nostra Costituzione, promulgata il 1 gennaio 1948, sul matrimonio civile.
Da una parte c’è chi sostiene, Costituzione alla mano, che – essendo tutti i cittadini uguali dinanzi alla legge – e poiché la Repubblica promuove l’uguaglianza e le pari opportunità, anche i cittadini omosessuali devono poter stipulare tra loro il contratto denominato matrimonio civile.
Dall’altra parte si risponde che l’articolo 7 della Costituzione parla di “famiglia naturale” basata sul matrimonio.
In linguistica, si sa, non esiste il “verbo”, non esiste l’ipse dixit. E la linguistica applicata al diritto è una scienza empirica, relativistica. Perché le lingue, come le società, sono in costante trasformazione. I termini, dunque, non posseggono un significato letterale determinato. I significati letterali non sono che i significati stabiliti da una pratica interpretativa. Qualcuno potrebbe replicare che i significati coincidono con le intenzioni degli autori dei testi: in questo caso si parla di teoria intenzionalistica dell’interpretazione, contrapposta alla teoria letteralistica.
Dall’altra parte, dicevo, si risponde che l’articolo 7 della Costituzione parla di “famiglia naturale” basata sul matrimonio. A questa risposta i primi replicano che la Costituzione non parla mai di matrimonio esclusivamente tra un uomo e una donna. E a questa replica i secondi rispondono che la Costituzione lo dà per sottinteso.
Eccoci nel cuore dello scontro tra teoria intenzionalistica e teoria letteralistica dell’interpretazione. Nel caso dell’articolo 7 la lettura intenzionale è dei giuristi di area cattolica, quella letterale è dei giuristi – come Stefano Rodotà – di area laica. Ma le posizioni potrebbero scambiarsi su un altro articolo, trasformando i cattolici in letteralisti e i laici in intenzionalisti, secondo le rispettive convinzioni ed esigenze.
E’ in questi casi che occorrono sensibilità, intelligenza e capacità di guardare lontano. Perché altrimenti non se ne esce, come è evidente ripercorrendo gli estremi del dibattito.
Dapprima, da parte cattolica, si sostenne che gli animali, che sono “naturali”, non praticano l’omosessualità. Da parte laica si è allora dimostrato scientificamente che la natura non disdegna affatto l’omosessualità; che in molte specie l’accoppiamento omosessuale è un dato di consuetudine anche in presenza di individui del sesso opposto, e non solo in cattività; e che in altre specie vicine all’homo sapiens il sesso è slegato dal ciclo riproduttivo: e che questo punto è fondamentale per i diritti degli omosessuali: la separazione tra sessualità e procreazione.
Da parte clericale si è allora replicato che, se gli animali praticano dei comportamenti “bestiali”, questo non giustifica l’uomo che li imiti.
E da parte laica: come si può negare che la pulsione omosessuale sia “naturale”? E’ forse stata creata in laboratorio?
Significativa al riguardo la mostra Against Nature?, proveniente da Oslo e ospitata dal Museo di Storia Naturale di Genova, che presentava in modo rigorosamente scientifico gli studi sui comportamenti omosessuali di oltre millecinquecento specie animali, dagli invertebrati ai mammiferi. La mostra era partita in sordina, ma venne alla ribalta quando le organizzazioni cattoliche protestarono perché il progetto era stato inserito nel catalogo didattico per le scolaresche. (Interessatissime, per altro, alle storie delle balene maschio che si comportano vistosamente da femmina per evitare i combattimenti; dei trichechi che si coinvolgono in giochi erotici omosessuali; dei pinguini reali tra i quali un maschio su cinque preferisce un partner dello stesso sesso. E dei fenicotteri, che si organizzano in coppie di maschi per allevare il doppio dei cuccioli, o dei cigni che creano coppie fedeli nel tempo sia etero che omo.) Magnus Enquist, etologo dell’Università di Oslo, per nulla turbato dalle polemiche, osservò: “Ci sono cose che vanno contro natura molto più dell’omosessualità, cose che soltanto gli umani riescono a fare, come avere una religione o dormire in pigiama”.
Come inquadrare la questione nell’ottica della sensibilità, dell’intelligenza e della capacità di guardare lontano? Per esempio, impostandola in questo modo:
I. Parlare di “omosessualità” tra gli animali è scorretto, significa antropomorfizzarli, attribuendo loro intenzioni decisamente umane.
II. Le persone omosessuali devono acquisire rispetto sociale e diritti non perché si dimostra scientificamente che i loro comportamenti esistono in natura, ma perché amano e si amano come persone.
III. Quindi, sia il ricorso da parte clericale al concetto di omosessualità contro-natura, sia la replica che si tratta di comportamenti largamente diffusi in natura, non sono argomentazioni convincenti perché il problema è interamente umano, cioè etico.
IV. E’ inutile appellarsi al non umano per giustificare l’umano. Solo la cultura ha il compito di compiere scelte etiche, cariche – per l’appunto – di una forza culturale.
V. E’ la parte più avanzata della filosofia del Novecento che considera obsoleto come categoria di pensiero il diritto naturale. Siamo ormai una specie troppo poco “naturale” per parlare di che cosa è naturale. La Sapiens-sapiens è diventata tale proprio perché si è distanziata dalla natura, dalla animalità. Per gli appartenenti alla Sapiens-sapiens, oggi, “naturale” dovrebbe essere l’accentuazione di educazione, gentilezza, civiltà: umanizzare il mondo, diceva Rilke. E che cosa è più gentile, umano, civile, di una promessa d’amore, di un patto di solidarietà, di un “contratto” stipulato solennemente tra due persone? E sottolineo persone.








di Carlo Ruggiero
Dopo un paio di giorni di stanza a Filtu torniamo a Negelle ripercorrendo l’unica strada della regione, quella voluta dal gerarca Rodolfo Graziani per invadere l’Etiopia sotto il Fascismo. Ormai il tappetino d’asfalto è completamente abraso e si saltella come sulle montagne russe. Ma ecco di nuovo un camion, velocissimo, che ci supera. Ma si può sapere chi sono quei pazzi?, chiedo al mio accompagnatore. “Il chat non può aspettare” mi viene risposto. Scopro così che sugli altopiani dell’Etiopia cresce una pianta autoctona che produce germogli che masticandoli danno una lieve ebbrezza. In pratica è uno stupefacente naturale, qui assolutamente legale, di cui l’intero corno d’Africa e buona parte della penisola arabica ne è consumatore accanito. Solo che il chat – qat nello Yemen – ha da essere consumato fresco, appena germogliato. E per questo ogni mattina un sistema logistico organizzato meglio di un esercito in assetto di guerra riesce a distribuire nel raggio di centinaia di chilometri le frasche allucinogene. Persino l’impenetrabile confine somalo si apre al passaggio dei camion di chat senza troppo discutere. Neppure a farlo apposta nel villaggio che abbiamo appena raggiunto notiamo il camion fermo che distribuisce fasci di verdura come fossimo al mercato. I due ragazzi col kalashnikov sul camion però mi fanno capire che la cosa è meno divertente e folkloristica di quanto immagini.
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