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Il volto del nemico

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di Agostino Bimbo

Il volto del nemico è l’ossessione degli abitanti di Caffa. Il volto mai visto negli undici mesi di assedio, tracciato dai resoconti incerti degli esploratori e dalle indiscrezioni delle sentinelle. Il volto che temono di incrociare fra i cantoni silenziosi del bazar o nella piazza deserta. Il volto che la paura, nell’attesa di un assalto, ha ricoperto di disprezzo: non sanno bene come sono fatti, i demoni là fuori, ma sanno quanto siano distanti dal popolo meticcio di Caffa.

Non hanno la barba folta degli ebrei. La voce dei rabbini nelle sinagoghe della città deride in ogni predica la peluria attorno alle labbra infedeli. E il naso, con quelle narici di capra, non è quello dei greci stipati nei quartieri portuali. Nessuno assomiglia ai soldati di Gani Bek, neanche tra i fabbri armeni della zecca. I monetieri si coprono le pupille coi tondelli d’argento per mostrare ai figli l’aspetto bestiale degli assedianti mentre i mercanti genovesi, coi traffici in malora, maledicono il loro sguardo indolente.

Nessuno è capace di ammettere che il volto nemico, senza librare un colpo, ha già invaso le teste di tutti: larve umane popolano gli edifici di Caffa, fantasmi vagano nelle stanze del palazzo consolare e nei magazzini sforniti, un torpore luttuoso ha incrostato i movimenti del tempo.

Eppure, non vista, la vita si aggira ancora fra i bastioni in guerra. Striscia lungo le mura, ruzzola sulle gambe di una ragazza di quindici anni alla ricerca di un varco. La vita ha un nome, si chiama Miriam. E un piano: scappare da Caffa. Per andare dove non sa, ma sa che non può attendere le spade nemiche iniziando a morire.

Odia la stasi in cui è precipitata la sua terra, un tempo crocevia di carne e profumi. Odia l’assenza di voci nelle strade, delle urla nei caravanserragli, dei gemiti di bestie e di uomini travolti dalla festa dell’esistenza. Rimpiange ogni suono. Rimpiange la voce eccitata di suo padre al rientro dai traffici portuali e quella di sua madre, così giovane, inebriata dalle promesse di avvenire dopo la miseria da cui erano scampati.

L’ha lasciata in silenzio anche oggi. Con le dita impigliate nelle reti da pesca del suo uomo, fra quelle maglie ormai impossibili da rammendare. Lei e Miriam non si parlano dal primo giorno di assedio. Ognuna per sé, ad annientarsi come può, senza permettere alle parole di addomesticare l’assenza. Vorrebbe parlarle, lo sogna ogni notte, ma sua madre tace anche nei sogni. Quei sogni in cui prova a destarla, a convincerla a fuggire da quella terra irriconoscente: salpare verso Amasra, Trebisonda o Genova, il nome che più degli altri somiglia alla parola casa. Ma tutte le notti il sogno si perde fra le onde e lascia il posto alla rabbia del risveglio.

A un altro giorno da passare in strada a spiare il profilo delle trenta torri. A imparare i turni di ronda, gli ingranaggi che serrano i portoni. Da undici mesi sempre più sola. Con la sabbia a morsicarle gli stinchi e l’ombra dei corvi a vegliare sulla sua follia: evadere da un inferno immobile verso quello che si agita oltre le mura.

Quando la luce del mezzogiorno pungola il paesaggio, scruta lo scintillio dei loro elmi sul promontorio, l’affaccendarsi delle figure intorno alle catapulte in tensione. E poi la tenda fumante del capo, al centro dell’accampamento, col braciere sempre acceso attorniato di concubine. Anche oggi quel fumo intossica il mondo: Miriam lo guarda e ricorda quanto li odia

Tutti sapevano del loro arrivo, undici mesi fa. Soltanto un uomo conobbe il momento preciso. Assopito al largo in attesa dei guizzi delle palamite, quell’uomo vide la cupola di sabbia apparire all’orizzonte: i cavalli delle avanguardie già volavano sulla linea di costa in direzione di Caffa.

Allora eccolo rovistare nel ventre dell’imbarcazione. Stracci, una gabbia di giunchi, un remo a cui dar fuoco sul ponte. A rischio di morire – aveva altra scelta? – per allertare la città ignara. Per avvertire le sentinelle, scatenare le campane e dare tempo a sua moglie e sua figlia di nascondersi. Quel fumo era il suo congedo: mentre i cardini si smuovevano per l’ultima volta, la doppia punta di una freccia gli attraversava il petto.

Così Miriam, nostro angelo ingenuo, crede che le spire di fumo vomitate dall’accampamento nemico portino un suo messaggio. Un invito a salvarsi, e vendicarlo. Ma come? Poggia i palmi sulla parete in attesa di un segno. Come chiudere i conti col male venuto da Oriente? Come essere degna del sacrificio di un padre rannicchiato in fondo al Mar Grande con le ossa marcite e le orbite attraversate dai saraghi?

Merita risposte, il suo sguardo indurito. Merita una possibilità di vendetta, e conforto. È ormai tempo di ricompensa: sulle sue gambe veloci, nella rena bollente, il futuro tornerà a danzare fra le mura della città.

Un tonfo alle sue spalle. Una nuvola di terra la investe; si impasta ai capelli sudati, le entra nei bronchi. Tossisce. Poi il polverone si abbassa e scontorna una sagoma umana ai piedi della muraglia. Si avvicina, sicura: non è la prima volta che un soldato di ronda sviene per la fatica, la sete, o per sua scelta. Basterà un pezzo di pane a ripagare la vista oscena. Lo raggiunge. Gli agguanta il mantello, fa leva sulla gamba per capovolgere il corpo. Inciampa nell’elmo, che rotola via. Risale con le mani al corsetto. Slaccia, perlustra il ventre livido, il collo rigonfio. L’avidità delle dita si placa soltanto dinanzi al suo volto. A quegli zigomi sporchi di sabbia. Zigomi ossuti, lontani fra loro. A quelle narici appiattite. E a quegli occhi. Allungati, a forma di pesce: uguali ai loro.

Porta la mano alla bocca. Deve correre via, è già in piedi. Deve dare l’allarme: i nemici sono dentro Caffa. Urla di mettersi in salvo fra i vicoli della città vecchia. Annuncia che hanno invaso, i demoni, che sono dentro le mura – tocca a lei, come a suo padre, additare la morte per prima. Il grido trafigge ogni uscio e richiama le gambe a raccolta. Cresce il clamore, insieme al lamento. Ognuno bestemmia il suo Dio fra le lacrime.

Ma nessuno capisce. Nessuno sente il frusciare delle catapulte che schioccano a ripetizione verso le mura. Nessuno alza gli occhi al cielo chiazzato di stelle nere che sfilano sui cortili e sui tetti, sui capannelli di teste. Nessuno si accorge della pioggia di corpi nel cielo di Caffa.

Finché cominciano i boati. Cadaveri cadono sulle baracche dei pescatori. Spaccano il solaio dei granai, si vanno a incastrare fra i ponteggi, negli orti. Cadaveri impattano sui muri del palazzo consolare, incrinano gli stendardi della repubblica lontana. Perdono pezzi: spallacci e gambiere rotolano sui terrazzi, sbreccano i comignoli. Cadaveri si accucciano nei canali di scolo. Precipitano nei pozzi. Cadaveri si incastrano con una gamba fuori dai trogoli dei maiali, che li vanno ad annusare.

Ogni boato è un richiamo di guerra. Tamburi smuovono i soldati di ronda, la forza ritorna nelle braccia degli uomini che sospingono carri, impugnano forche. Miriam li scruta, e pensa che è arrivato il momento. Sfreccia verso casa con l’anima stretta, un piede che supera l’altro. Inciampa. Ed è superata a sua volta: milioni di impronte più veloci delle sue, mentre ha il ventre a terra, le calpestano la schiena. Dai fori delle cisterne e da ogni pertugio riemergono eserciti di zampe. Zampe furenti che brulicano, richiamate dall’odore, zampe di topi che vanno a cercarsi i corpi sbalzati fra le vie. E indignano la gente, che li addita scandalizzata. Le donne coprono il viso ai bambini col lembo dei grembiuli. E si prendono per mano, tutti. Si toccano per farsi forza, incitarsi a provvedere – ma a cosa? Caricano i corpi sulle carriole per rovesciarli nei fossi, all’esterno del perimetro domestico che credono al sicuro, mentre intorno è un boato di morte.

Miriam è la sola a tacere. Tutti sbraitano ordini e maledizioni mentre Miriam, in ginocchio, non sa neanche chiedere aiuto. Finché una mano la invita ad alzarsi. E una voce sospira: «Miriam.» Mille volte ancora: «Miriam, andiamo via.»

E lei risponde: «Sono dentro.» Balbetta: «Mi spiace. Ho provato ad avvisarvi per tempo.»

«Non è colpa tua. Andiamo via, amore mio.»

E inizia una fuga. Inizia nell’abbraccio di una madre e una figlia, finalmente insieme, unite dalla speranza. La stessa che anima la folla intorno, la folla che vortica in un girotondo sempre più ampio in cui io stessa, liberata, mi spando.

Sono nei baci dei fratelli, dei consorti. Nelle braccia dei padri che sprangano i battenti. Nelle labbra chine sulle culle che recitano preghiere. Nelle zampe che saltellano, nel morso pungente dei ratti, nelle gocce di saliva che scintillano in volo insieme alle grida. Sono nella vertigine dei corpi sospesi, dal precipizio allo schianto, nelle loro carni sparse sul selciato e in quelle dei corpi integri, madidi di febbre, di cui inizio a cibarmi. Corpi che singhiozzano, e sottovoce mi chiamano Morbo, Malora, Castigo.

Sono la necessità dell’incontro fra quegli uomini inermi che si contemplano, un volto nell’altro, e si riconoscono uguali. Stesse facce dello stesso amplesso. Stessa vita benedetta che risorge sempre, a ognuno nemica e sorella. Assediante e assediata. Bene e male supremo. Malattia che ci attraversa e ci salva.

Foto di IMG4FreeRgood1 da Pixabay

La nuda

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di Sara Sermini e Elena Gargaglia

[per Nino Aragno editore è uscito La Nuda, di Sara Sermini – testi – e Elena Gargaglia – fotografie. Con una nota di Andrea Cortellessa. Pubblichiamo alcuni estratti scelti da Sara Sermini, che ringraziamo]

 

 

[Dalla sezione “soggettive”]

Entra da destra nel quadro, la zampa levata, l’occhio giallo (si intuisce) acuto nella pelle tesa: una capra d’ossa appesa accanto alla porta di una cella. Una capra nomade, fuori e dentro due pupille a penzoloni. Un corpo – ora tronco di larice addobbato di muffe e licheni, i più cangianti. Guarda che ciondoli. Come nei giorni strabici della festa.  Quando nessuno può tagliare la corda.

 

[Dalla sezione “campi”]

Decor

La pelle di capra griffata splende sotto le lampade al neon. Minimal chic per gli interni. In terrazza il caffè è servito in tazze d’oro. Al Fondaco dei tedeschi i commessi parlano cinese. Di nicchia è la concia delle pelli. La nuda già lo sapeva, è scesa dal trono. Ora si ripara la pelle da sola. Si cuce le palpebre, spinge l’ago contro un ditale d’osso. Se cade in acqua, si stende al sole zuppa sul bordo del canale. A volte geme come i cormorani in amore. È indecorosa uno ha detto stornando gli occhi al bancone.

Marsia

Voleva calze di nylon seamless, diceva, ma la commessa non capiva la parola. Seamless significa senza cuciture, ma è anche un modo per dire le cose che trapassano banali come neve al sole: la mela rigonfia che cede al suo lusso e si stacca dal ramo crepandosi a terra; la regina che mite si accascia sulla moquette di velluto, come un agnello da latte scampato al macello. Raccogliendo frammenti sparsi di suono, la commessa rispondeva che no, non ci sono, che i modelli nude look stanno tutti lassù appesi al muro.

 

[Dalla sezione “note per un’apparizione”]

(Ischeletrire — lo appunto qui. Annoto la bocca asciutta. Ripeto. Riprovo. Mastico a vuoto. Gli apparimenti iniziano per progressive sparizioni. Bianca è la cava dove la lingua abbocca)

*

Ischeletrendo nel cavo della notte, le cose si contano da sole — la sponda del letto dice la luna lo stolto insepolto guarda i resti conglobati alla terra.

                                   Si tenga nel salone d’onore la lucidatura delle sue ossa nel sole che filtra dai muri la nuda che danza ritrosa su cumuli bianchi di mare seccato

*

Un mucchio di conchiglie scricchiolanti

sotto ai piedi non c’è quasi più il mare.

Quel che resta nella sabbia melmosa

è un quadro senza impronta

una donna che sguscia via lenta

*

Disegna senza riga e matita senza aprire il compasso

traccia a mano

libera la mappa dal suo abbandono.

Tra i rovi di more il sentiero strisciato a colpi di reni

(una goccia di succo appassisce

sulla carta bianca)        la nuda

domanda a distanza

Un esperimento di fabbrica-laboratorio sociale: GKN

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di Roberta Salardi

Seconda parte del Cammino dell’acqua (la prima parte è uscita il 19 luglio, g.m.)

Da un certo punto in poi il Cammino dell’acqua dell’associazione culturale Repubblica nomade si trasforma in una marcia di solidarietà alla GKN di Campi Bisenzio. Il percorso attraverso le terre romagnole e toscane che furono alluvionate nella primavera e nell’autunno 2023, fra il 16 e il 29 giugno di quest’anno non è mai stato una flânerie anzi il contrario, per motivi organizzativi e d’impulso attivista; diventa comunque decisamente più arduo sull’appennino tosco-emiliano, soprattutto per motivi climatici. Un sorprendente nubifragio contrassegnato da allarme meteo si abbatte anche sui camminanti, ma non impedisce la continuazione a un drappello dei più determinati. Passata la burrasca, in prossimità dell’arrivo, il gruppo si ricompatta e si amplia. Vi si aggiungono altre e altri solidali con la lotta degli occupanti e si arriva davanti ai cancelli la mattina del 29 giugno.

Dal 18 maggio gli ex operai avevano iniziato una tendata di protesta sotto la Regione, in quanto da sei mesi erano stati lasciati senza stipendio né ammortizzatori sociali, sempre in attesa di risposte chiare a domande semplici. La tendata è poi durata 35 giorni con 13 giorni di sciopero della fame. In tutti questi anni ai lavoratori non sono mancate la forza di volontà, l’inventiva, la determinazione. Ben presto, a breve distanza da quel 9 luglio 2021, da quando tutti i 500 lavoratori GKN si ritrovarono licenziati dal fondo britannico Melrose con un semplice sms, insieme con ingegneri ed economisti solidali si iniziò a pensare a un piano di reindustrializzazione dal basso: così leggiamo nel libro di Valentina Baronti (una degli attivisti di supporto esterno), La fabbrica dei sogni, che ripercorre con chiarezza le varie tappe di un percorso complesso e accidentato. Si cercò di allargare l’orizzonte e di coinvolgere nella lotta il maggior numero di soggetti possibile. Questa era una pratica già nota agli operai molto sindacalizzati della fabbrica ex Fiat (il colosso GKN aveva rilevato il complesso dalla Fiat negli anni ’90, un colosso aveva inglobato un altro colosso); in seguito continuò a essere utilizzata e incrementata con sempre nuove trovate, per l’esigenza di tener viva l’attenzione su una questione anno dopo anno mai risolta. Un’intera comunità “ora è chiamata a farsi intelligenza collettiva, per uscire dal calcolo solito con cui si chiudono le fabbriche: un ammortizzatore sociale che serve solo a coprire, con soldi pubblici, la fuga della multinazionale o del fondo finanziario, la nomina di un advisor che deve trovare un reindustrializzatore, che però non arriverà mai e piano piano la vertenza si spegne, i lavoratori si licenziano alla spicciolata, lo stabilimento si svuota e rimane uno scheletro industriale su cui avviare una speculazione edilizia”: osserva Valentina Baronti (cit., pag 40). Del resto, si trova scritto poco più avanti, “quando ti compra un fondo finanziario, lo sai che prima o poi chiudi. Comprano per ristrutturare, dicono loro, che in realtà vuol dire licenziare e poi rivendere, guadagnando in borsa”. GKN fu acquistata dal fondo Melrose nel 2018; non si dovette attendere molto perché si concretizzasse ciò che un po’ si temeva fin dall’inizio. Diverse volte, fra il 2021 e la fine del 2023, i giornali cantarono vittoria annunciando una svolta decisiva a favore dei lavoratori, ma le speranze vennero puntualmente frustrate. Si rispose cercando di lanciare la palla sempre più lontano: fu organizzato, anche con l’apporto di sindacati e associazioni straniere, un Festival di letteratura working class a inizio aprile 2023, cui perfino il regista Ken Loach fece pervenire un forte messaggio di sostegno; nello stesso anno si promosse una consultazione popolare e si raccolsero 17000 firme che esprimevano il desiderio di una fabbrica pubblica e aperta alla società. Tanti giovani di diverse associazioni, fra cui Fridays for future, manifestano per un nuovo tipo di fabbrica che vuole avviare una produzione sostenibile. Scrive un autore fra i partecipanti al Festival di letteratura working class: “Siamo le seconde generazioni della classe operaia. Spesso siamo i primi in famiglia che sono andati all’università. Scriviamo sulle spalle dei nostri vecchi, a volte con un inquietante senso di colpa, pensando ai sacrifici che hanno fatto per farci studiare. Non di rado con le nostre scritture cerchiamo una sorta di giustizia poetica che possa in qualche modo compensare tardivamente la durezza della vita dei nostri genitori.” (Alberto Prunetti, Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class). Giustizia sociale e giustizia climatica che diventano giustizia poetica… una bella sintesi di tutto ciò che si vorrebbe nello slogan Abbiamo fame di un mondo nuovo… Si forma e si estende sempre più quel progetto di “fabbrica socialmente integrata” di cui parlano i volantini e che si propone come tema centrale anche alla festa-ricorrenza del 12 luglio 2024 a Firenze. Intanto si progettano e si cominciano a costruire prototipi di pannelli solari e cargo bike, biciclette per il trasporto ecosostenibile.

Da varie iniziative nel 2023 erano nate la società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo e la cooperativa Gff per avviare la nuova attività produttiva e la raccolta fondi, poi confluita nella campagna di azionariato popolare. Con questi atti era stato possibile fornire un aiuto concreto a lavoratrici e lavoratori, rimasti senza stipendio e senza ammortizzatori per lunghi periodi, ma anche costituire una prima base di capitale sociale per la neonata cooperativa, indispensabile per avviare la nuova impresa industriale; inoltre scrivere una proposta di legge regionale per la costituzione di consorzi industriali atti a sostenere la riconversione delle aziende in crisi.

Nella conversione ecologica dal basso di un’azienda, scrive Paola Imperatore nel saggio L’era della giustizia climatica, ci si domanda in primo luogo di cosa abbiamo bisogno noi, noi come lavoratori, come famiglie dei lavoratori, come esseri umani che vivono in quest’ambiente in cui è situata la fabbrica. Nel caso esemplare di GKN, si richiede il commissariamento di QF (nuovo nome della ex GKN) e la creazione di un consorzio pubblico per promuovere un’industria sostenibile che non abbia un impatto così grave da causare gli ingenti danni e i morti dell’alluvione 2023, per esempio. Nella piana di Campi Bisenzio, più in generale della provincia di Firenze, nulla sarebbe meno indicato di nuovi supermercati o dell’allargamento di un aeroporto, quella cementificazione a tutto spiano che è generalmente il primo obiettivo degli amministratori locali.

Ma in questi giorni si parla di tutt’altro. Proprio il 29 giugno, quando arriviamo alla fine del Cammino dell’acqua a Campi Bisenzio, leggiamo sul “Tirreno” che il Tribunale di Firenze ha dato ragione al Collettivo di fabbrica e torto a QF per “comportamento antisindacale”. QF dovrà attivare gli ammortizzatori sociali e pagare gli stipendi sospesi da gennaio. La Regione Toscana approva la decisione del tribunale e invita l’azienda a rispettare l’iter previsto dalla legge. Altrimenti il governo dovrà valutare il commissariamento di QF. Il commissariamento e una fabbrica “socialmente integrata” è proprio ciò che si desidera per il futuro. I lavoratori levano le tende del dissenso a Firenze ma non dichiarano finita, per il momento, l’agitazione, invitando tutti al grande evento del 12 luglio, in un’altra piazza fiorentina, piazza Poggi, in occasione della ricorrenza dell’inizio della protesta tre anni fa: una festa estiva con tanta musica, divertimento, discussioni e riflessioni.

Si riprende fiato per continuare.

Fa piacere condividere questa frase di Goffredo Fofi tratta da un articolo del Manifesto del 6 luglio 2024: “… il capitale ha vinto su tutti i fronti o quasi, e però il lavoro, il mondo dei lavoratori, non è mai stato sconfitto del tutto” (“Con la lotta GKN ritorna il sole”).

 

Libri (attinenti o sconfinanti) citati durante il Cammino dell’acqua

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, ed. Alegre, Roma 2024

Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli, Milano 2017

Nancy Fraser, Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta, Laterza, Bari 2023

Silvia Giagnoni, GKN diaries, Fandango, Roma 2023

Amitav Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza, Milano 2016

Paola Imperatore, Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica, Meltemi, Milano 2023

Paola Imperatore, Emanuele Leonardi, L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso, Orthotes, Napoli 2023

Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008

Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano 2020

Alessandro Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Feltrinelli, Milano 2016

Antonio Moresco, Repubblica nomade, Effigie 2016

Walter Orioli, Passo dopo passo. Perché camminare ci aiuta a pensare e vivere meglio, Sonda 2022

Paolo Pileri, L’intelligenza del suolo. Piccolo atlante per salvare dal cemento l’ecosistema più fragile, Altreconomia, Milano 2022

Leonardo Poli, Eugenio Dal Pane, Fatti accaduti in Romagna, Itaca, Castel bolognese, 2023

Alberto Prunetti, Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, Minimum fax, Roma 2022

Guido Viale, Vita e morte dell’automobile, Bollati Boringhieri, Torino 2007

(foto di Maria Luisa Guidi)

Io non ci volevo venire

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Gianni Biondillo intervista Roberto Alajmo

Roberto Alajmo, Io non ci volevo venire, Sellerio, 2021

Scegli come protagonista del tuo romanzo un non-eroe. Un inetto accidioso, Giovà, quello che nelle partitelle si mette in porta per non dare fastidio. Eppure, alla fine il lettore si identifica con lui. Siamo tutti Giovà?

Un fondo di Giovà c’è in tutti noi, così come c’è un fondo di Pinocchio, o di Paperino. È il motivo per cui questo genere di antieroi risulta così empatico. Ma in generale tutti gli investigatori nella storia del poliziesco risultano più empatici per i loro difetti, che per i loro pregi o la loro intelligenza. Giovà in questo senso è un vero campione: assieme a Clouseau è l’investigatore più incompetente della storia. Lui oltretutto non ha nemmeno titoli per investigare, visto che fa di mestiere la guardia giurata, e il suo committente è un mafioso.

Il mondo di Giovà non prevede l’aiuto delle autorità ufficiali. Il “potere quotidiano” in Sicilia è ancora nelle mani di più o meno piccoli potenti locali? Giovà è la versione moderna di Don Abbondio?

In certi quartieri di Palermo nemmeno sanno come è fatta la divisa dei vigili urbani, e Partanna è uno di questi quartieri. La mafia di borgata quindi viene vista come un riferimento per l’amministrazione delle piccole controversie. È il grado zero di Cosa Nostra: non ci sono grandi affari, ma un minuzioso controllo del territorio. Lo Stato viene vissuto come un’entità remota, e tutte le sue manifestazioni vengono considerate un’ingerenza. Persino certi semafori, che a loro modo sono un segnale della presenza dello Stato, vengono regolarmente presi a pietrate e distrutti. Siccome poi nessuno li ripara, si conferma l’idea che lo Stato sia un fantasma. In questo contesto si muove Giovà, e Don Abbondio è senz’altro uno dei riferimenti letterari più calzanti.

Lo Zzu e suo figlio Giampaolo sembrano i rappresentanti di un patriarcato senza discussioni, eppure il libro ha nelle donne le vere protagonista: sono vittime, indagatrici, portatrici di segreti, risolutrici. Le uniche che agiscono per davvero.

Nel nucleo portante della società siciliana, cioè la famiglia, vige una forma di maschilismo matriarcale. Può sembrare contraddittorio, ma è così. Comandano formalmente gli uomini, le donne però sono quelle che prendono le decisioni, parafrasando Woody Allen. Le donne lasciano che gli uomini si prendano il merito, ma sono loro che manipolano la realtà a uso e consumo della famiglia.

Il tuo è un “giallo sbagliato” dove l’investigatore non solo non vuole indagare, ma non ne è capace. Quanto ti sei divertito a prendere in giro un genere che oggi si prende troppo sul serio?

Non è tanto il fatto di non prendersi sul serio, perché una vena di commedia attraversa quasi tutti i polizieschi, almeno italiani. Io mi sono prefissato semmai di sovvertire certe convenzioni di genere. L’investigatore riluttante che ho immaginato non solo non è in condizioni di investigare, ma nemmeno vuole scoprire la Verità. In un certo senso alla fine è la Verità a scoprire lui.

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(pubblicato precedentemente su Cooperazione, nel 2021)

Breviario dell’inaspettato (Kalos Edizioni) – racconti di Gabriele Ajello

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Lo sparo

Il signor Roy fu distratto dal fragore di un colpo pro­veniente dalla strada. Non era una via trafficata, quella su cui si affacciava il suo studio, quanto piuttosto si­lenziosa.

Il colpo di pistola, o cos’altro fosse stato, gli fece ca­dere di mano la penna, che impattò sul parquet in listo­ni di rovere producendo un suono impercettibile. Spe­rava non si fosse rigato. Raccolta la penna, ancora preso dallo sparo, notò che a graffiarsi era stata invece la Par­ker nera. Una leggera scalfittura bianca lineava la stilo­grafica in modo geometrico. Come era potuto accade­re? Un rigo così perfetto per una caduta tanto maldestra.

Poiché ancora echeggiava il boato nelle sue orec­chie, si affacciò scostando appena le tende in mussola di lino, nascondendosi circospetto. Da lì non si vedeva nulla. Era il caso di scendere giù per accertarsi se dav­vero qualcosa di grave fosse capitato o se il rumore secco altro non fosse stato che l’eco di un petardo lan­ciato da un monello del quartiere o un banale tampo­namento tra autovetture a un incrocio a qualche iso­lato di distanza. Tanto valeva andare a vedere. In fondo era domenica e quella pausa sarebbe valsa come una passeggiata. Un calore tiepido, nonostante l’inverno, lo invitò ad allentare la presa della sciarpa attorno al collo. Il nodo lo teneva stretto. Soffriva spesso di tonsillite e sotto il cappotto ocra di astrakan indossava un cardi­gan di cashmere color cammello. Sembrava un uomo di sabbia. Il cappello, modello Borsalino, anch’esso sca­mosciato chiaro, impreziosiva il suo charme, esibito con speciale naturalezza. Si arrotolò d’istinto le punte dei baffi neri disegnati sulle labbra carnose.

Per strada tutto era ordinario. Il giornalaio tirava boccate dalla sigaretta godendosi per qualche secon­do il fumo in bocca. Una signorina in scarpe da ginna­stica rosa passeggiava con un cagnolino minuscolo che si affannava allo strozzo del guinzaglio. Signore al balcone stendevano panni approfittando di sparu­ti rimasugli di sole. Uomini in abiti eleganti tergiver­savano appoggiati a un’auto d’epoca chiacchierando di facezie.

Nessuna traccia della schioppettata. E se fosse stata la sua immaginazione, o peggio un sintomo dell’invec­chiamento? O ancora il bisogno di distrarsi? Propende­va per quest’ultima ipotesi.

Girato l’angolo, però, qualcosa di non abituale at­tirò la sua attenzione. Sul lato destro della strada, pro­prio sopra un marciapiede, era stato allestito un gaze­bo colorato su cui campeggiavano i loghi di diverse aziende locali. Dalla pizzeria, al salone di bellezza per signore, al canile comunale. Un uomo, in maniche di camicia, stava fumando una sigaretta, mentre leggeva le notizie del giorno. Teneva le gambe distese e incro­ciate sulla sedia di fronte a sé. Nessuna ruga sul viso. Sfogliava le pagine con destrezza. Accanto, su di un tavolino in plastica da camperista, posata con noncu­ranza, una pistola.

Eccola. Si illuminò con soddisfazione. La pistola c’era. Si avvicinò al chioschetto oscillando il capo, ma fissando gli occhi del giovane.

«Che si fa oggi?».

«La maratona cittadina. Ma ormai è tardi per iscri­versi».

«No, grazie. Ero solo curioso».

«Il Comune ha scelto di farla di domenica per evita­re le lamentele dei residenti. L’anno scorso fu organiz­zata di venerdì e scoppiò una rivoluzione» e rise.

«Non ricordo. Di sicuro lavoravo e non me ne sarò accorto».

«Partecipano da tutte le parti del mondo, sa? Persino dal Giappone. C’è un famoso scrittore di Tokyo che vie­ne ogni anno».

«Davvero?» finse interesse.

«Sì, ora non ricordo il nome, ma per la corsa è tutta pubblicità».

«Lei è l’organizzatore?».

«Io? No, per niente. Sono una specie di tutto fare del Comune».

«E qui che fa?».

«Sto in postazione. Prima ho distribuito le pettori­ne ai gareggianti. Sono qui dalle cinque di mattina. Chi la voleva cotta e chi la voleva cruda. Qualcuno addirittura per questioni di scaramanzia voleva una pettorina con un numero scelto da lui. Cose dell’altro mondo».

«E adesso?».

«Adesso aspetto. Devo presidiare la postazione».

«E la pistola?».

Il camioncino elettrico della raccolta differenziata si fermò proprio in quel momento davanti al marcia­piede di fronte. Un signore barbuto col gilet catarifran­gente, non senza difficoltà, si sforzava nello svuotare il cestino pubblico pieno di sacchettini colorati usati per gli escrementi dei cani a passeggio. Alcuni si erano in­crostati sul fondo e con un bastoncino metallico li ra­schiava via con minuzia.

«Pistola?» sorrise. «Non mi serve una pistola. Perché dovrei averne una?» proseguì con evidente imbarazzo.

«Mi scusi, intendo dire lo starter. Il colpo di pistola alla partenza che ho sentito qualche minuto fa» e indi­cò il tavolino in plastica a pochi metri dal custode.

L’uomo guardò proprio dove puntava l’indice del signore dopodiché tornò alla lettura del quotidiano scrollando le spalle e sussurrando tra sé «Chi la vuole cotta, chi la vuole cruda».

Il signor Roy, dopo aver scrutato con attenzione, vide che sul tavolino stava poggiato un porta-vivande in allu­mino, di una forma allungata, con dentro molliche e resti di quella che doveva essere stata la colazione del custode.

«Mi scusi, ma ero certo di avere sentito un boato. Pensavo allo starter».

«Non si usa più da anni nelle gare in città. C’è una specie di affare che fa un suono tipo campanella. Sa… i permessi alla Questura e tutto il resto. O almeno è quello che so».

«Quindi non c’è stato nessun…» si interruppe da solo. Salutò con un impercettibile cenno della mano e scomparve dietro il tendone.

Non c’era nessuno. Persino nella grande piazza cen­trale le saracinesche dei locali erano chiuse. Di solito la domenica la gente andava a fare l’aperitivo dopo essere uscita dalla chiesa. Sarà per via della maratona, si per­suase. Nessuno si metterebbe di intralcio nel bel mez­zo di una gara podistica.

La temperatura adesso stava scendendo insi­nuandosi tra le nervature delle sue articolazioni. Ebbe un tremito ai polpacci. Toltosi il cappello, inar­cando all’indietro il busto quasi a perdere l’equili­brio, osservò banchi di nuvoloni umidi che annun­ciavano rovesci. Non vi era traccia neanche delle file ordinate di corridori.

Decise di ritornare a casa. Superò il gazebo della partenza e proseguì lungo la strada principale da cui si innervava il vicoletto dove risiedeva. Nonostante la desolazione, quella breve camminata gli fece ap­prezzare la sua zona. Si riempì la vista di antiche resi­denze in stile liberty con piante ben curate che ralle­gravano le finestre. Pose orecchio alla gente silenziosa protetta dalle mura domestiche. Si inorgo­glì delle grondaie che conservavano l’originale fattura in rame senza aver subìto ossidazioni a causa degli anni. Gli piaceva il suo quartiere. Ci godeva a dire di vivere nel salotto della città. Salì a casa prendendo le scale, fatte due gradini alla volta facendo scricchiolare le ginocchia anchilosate. Una volta dentro raggiunse la finestra e spiò attraver­so le tende. Tutto era uguale a prima.

Sedette alla scrivania per continuare ciò che aveva interrotto. Impugnò la Parker lineata e ultimò la let­tera con cui presentava le proprie dimissioni alla Ban­ca. Dopo aver preso tra le mani il foglio, osservò sod­disfatto la sua calligrafia ben rappresentata dall’inchiostro nero della stilografica. Gli piaceva so­prattutto la raffinatezza della sua firma.

 

Roy Castrense Antonio Linetti.

 

Mise via il manoscritto e posò lo sguardo sul tavoli­no radente al muro portante della stanza su cui riposa­vano whiskey di marca scozzese. Nel mezzo, mischiata alla collezione di pipe in noce, in radica e schiuma di mare, gli sembrò un’intrusa, seduta sul portapipe, una pistola color argento il cui scintillio era dovuto ai raggi del sole tornati a illuminare quel lembo di vita ordina­ria sperduta nel centro della grande città.

Allora sì. Lo sparo fece vibrare i vetri delle case, af­facciandosi alle orecchie del custode del gazebo che per un attimo si destò dalla sua inerzia guardandosi intor­no, ma ritornando presto alla lettura del giornale locale alla pagina dei necrologi.

 


Gabriele Ajello  vive e lavora a Palermo. Ha pubblicato il racconto Oscuro lucore per la raccolta Sfocature edizioni Emuse e il racconto Blackout sulla rivista on line Risme. Ha vinto la seconda edizione del Premio Queneau con il racconto L’impiegatoBreviario dell’inaspettato è il suo libro d’esordio.

L’occhio di Dio

1

di Silvia Belcastro

Sono diventata una fabbrica notturna”.

(Ingeborg Bachmann)

Me ne sto immobile sul letto, come un’ape regina troppo pesante. Dal mio corpo escono tubi da mungitura perché devo allattare la notte, devo mettere al mondo le sue creature: su un nastro trasportatore sfilano, a distanza regolare, i miei fantasmi contornati di luce.

Indosso la sottoveste di lana azzurra.

Bianca, dice l’abuelita.

Dipende dalla luce della luna.

La indosso in un sogno di realtà: sul balcone, per l’esattezza.

La camerata è divisa in due da un solco profondo, una ferita camminamento che scorre tra le file di letti e punta alla finestra. Dormono tutti: hanno sempre dormito tutti, tranne nel momento in cui il mio corpo, scosso dai tremiti del fuoco malato, si muoveva e si esponeva alla vivisezione come una marionetta nuda.

“Pavor nocturnus? Schizofrenia? Guardate: l’occhio non vede! Qui si innesta il pensiero intrusivo che crea il cortocircuito. Antipsicotico, sì? Il rischio è minimo: al massimo, un torpore della mente.”

Ti stacco la carne dall’osso coi denti e non mi lavo la bocca dal sangue. Hanno sempre dormito tutti, tranne quando l’urlo mi gettava sul pavimento e sbattevo la faccia contro il legno. Piegavo il braccio sotto il letto nel tentativo di fuggire e quasi mi rompevo l’osso finché, della visione, non restava che un livido del colore della notte.

“Una catena alla finestra, sì?”

L’ho comprata io stessa: una catena da orso ballerino, di quelle in acciaio. Un anello entra dentro un altro anello che entra dentro un altro anello e avanti così, di chiusura in chiusura, fino alla fine del tempo, facendo ogni sera un rumore di catena.

La prima volta ho disegnato la finestra: tra le ante socchiuse, la colonna del cielo reggeva la luna, e la lama della notte entrava nella stanza interrotta solo dall’ombra della catena.

Ho nascosto la chiave dove la marionetta nuda non poteva raggiungerla e ho calcolato quanto tempo avrebbe impiegato a trovarla, prima che il corpo si svegliasse. Ho pensato che infilare la chiave dentro un calzino e mettere il calzino dentro un altro calzino e questi due calzini sotto tutti gli altri calzini mi avrebbe salvato dal balcone.

Era difficile trovare la chiave prima che lei, cioè io, mi svegliassi. Appena mi sono addormentata, mi ha raggiunto il lampo verde e mi sono alzata di scatto. Sono andata a sbattere contro il cassettone, come se il tempo non mi riguardasse, e ho trovato la chiave. L’ho infilata nel lucchetto che stringeva la catena e ho aperto la finestra: la notte mi ha guardato, senza svegliarmi.

Ho appoggiato il piede nudo sulla soglia argentata e ricordo che la finestra era diventata una meridiana che accarezzava i letti uno dopo l’altro, fino al mattino. Aveva una tenda finissima, che rispondeva soltanto alla brezza.

Le mattonelle del balcone erano coperte di fiori in braille. Sotto il balcone c’erano le colline e in fondo, in una coppa di montagne, il mare. Ho stretto la ringhiera con la mano sinistra e ho alzato la gamba destra, come una bertuccia. Ho arrotolato le dita del piede attorno al ferro e ho fatto leva sul gomito. Mi sono dondolata avanti e indietro, avanti e indietro e sono rimasta sospesa, come un gatto su una spada. Poi, mi sono gettata nel vuoto.

Tavola ispirata alle fotografie di Vincenzo Aragozzini nel manicomio di Mombello

Subito, l’aria si è fatta di pietra e mi ha colpito sulla spalla con dita rugose e ricoperte di terra. La pressione era così forte che ho sentito gli occhi chiudersi e un livido rovesciarsi nel braccio, come inchiostro.

La mia abuelita era tornata da un tempo precedente: mi stava guardando con gli occhi della fiera che spolpa l’osso senza lavarsi la faccia dal sangue e mi stringeva la spalla, come se volesse ridurla in cenere.

“Lasciami andare!” ho urlato.

Lei mi ha abbandonato con la mano, ma non con gli occhi. A terra, dicevano gli occhi di gelatina.

L’abuelita si è tolta lo scialle e lo ha steso sulle mattonelle: era nero, cosparso di minuscoli specchietti. Siediti, ha detto l’indice che puntava al firmamento di stoffa. Io mi sono seduta, lei si è seduta di fronte a me. Ha messo tra noi una pentola scura e Spogliati hanno detto gli occhi di gelatina, che ora riflettevano la luna.

Mi sono spogliata e l’abuelita ha messo la mia sottoveste di lana nella pentola. La sottoveste usciva un po’ dai bordi, come riso bollito, ma l’abuelita la rimestava come stesse preparando il pranzo dopo una lunghissima camminata. Finché, si è alzato un profumo d’arancia e la sottoveste ha preso fuoco.

L’abuelita si è messa a cantare e piangere insieme: l’occhio, dicevano le lacrime, deve piangere. Allora, ho cominciato a piangere anch’io ma, più piangevo, più mi montava nel corpo nudo una rabbia nuova e trasparente, un pianto di figlia tolta a sua madre e di madre tolta a sua figlia e mi chiedevo: che cos’è questa maternità?

Qualche tempo fa, mi ha visitato un pinguino: una femmina.

Mi trovavo in una cattedrale di ghiaccio ed era appena iniziata una funzione di pinguini. La pinguina era lì con il suo cucciolo, che somigliava ancora a un grosso uovo grigio ricoperto di lanugine, e se ne stava un po’ discosta dalla folla, distratta dalla luce che attraversava i fregi azzurri. All’improvviso, un’orca lucida, verde di pensiero dimenticato, è sgusciata fuori dall’acqua ed è scivolata sulla navata. Sembrava che avesse in mente quell’entrata da mille anni, per la precisione con cui ha puntato il piccolo della pinguina e… l’ha rubato! Poi, è ritornata negli abissi.

Sulla cattedrale si è alzata un’onda che ha sommerso i pinnacoli e tutti i pinguini sono corsi sul pulpito, ciascuno controllando di avere con sé il proprio ovetto di lana appena consapevole. Tutti, tranne una.

Ho bisogno di dire cosa è accaduto.

La mia pinguina è rimasta immobile per un istante, come crocifissa dalla verità rivelata: qualcuno le aveva tolto il suo bene. Ha lanciato un grido da pancia sventrata e ha iniziato a correre in tondo, come un orso ballerino. Nella cattedrale è caduto il silenzio e la pinguina ha continuato a correre. Quanto correva, anche se non aveva le gambe! Correva e cadeva e si rialzava, e gli altri pinguini scostavano i loro piedi corti perché non finissero sotto quella pancia disperata, che sbatteva sul ghiaccio come un sacco vuoto.

Poi, la pinguina si è fermata al centro dell’arena e ha messo su lo sguardo della fiera che spolpa l’osso senza pulirsi il sangue dalla bocca. Ha puntato la folla del suo popolo come una reietta, si è tuffata tra i fedeli e ha allungato l’ala per rubare il figlio di una sorella. “Ehi!” ha urlato l’altra, come se la vedesse per la prima volta. Poi, l’ha colpita sulla testa e si è rimessa il piccolo tra le gambe, là da dove le era sfuggito. Allora, la pinguina si è gettata su un altro cerchio di fedeli e di nuovo ha allungato l’ala: “È mio! È mio!” ha gridato.

Dove l’ala arrivava, strappava i piccoli dalle pance calde e li gettava lontano, finché si è scatenato il putiferio e nessuno sapeva più di chi era il genitore, il figlio, il fratello. “Dammi tuo figlio!” diceva uno. “No, TU dammi mio figlio!” urlava l’altro. “E allora TU: ridammi mia madre!” rispondeva un altro ancora, all’altro capo della volta azzurra.

È stato in quel momento che ho capito che qualcosa di irreparabile era avvenuto: in quella danza miserabile, la mia pinguina si chinava sul ghiaccio per cercare il suo bene, perché era figlia del suo bene.

È per questo che getto per terra mia madre, allungo l’ala per rubare e fuggo nell’acqua gelata, dove nessuno può sentirmi?

L’abuelita dice che partorisco fantasmi per via di un panico d’amore, un filo di lana teso e poi spezzato e poi di nuovo teso, e che è questo filo che mi fa impazzire. Perciò, ha tessuto per me l’occhio.

Mi ha denudato tutta, come se fossi ancora una bimbetta avvolta in sangue appiccicoso e Io ti partorirò, ha detto. Perché noi produciamo sangue e latte e ci lasciamo lavare la carne dagli uomini, ma ci partoriamo tra di noi e l’abuelita mi ha partorito, anche se io l’avevo abortita. Anche questo è normale, dice. L’amore ci precede, avviene in un tempo precedente.

L’occhio è sul mio comodino. Attraverso di lui, Dio mi vede e io lo vedo. Lui crea il dolore come un finissimo orafo e lo fa coi miei fantasmi, perché io sono la sua ape regina. Mi ha rinchiuso qui dentro, con questi matti che dormono all’ombra dei loro sessi, perché voleva farsi conoscere così, nell’assenza. Dio è un vanesio: vuole che io lo ami, vuole che io lo partorisca. L’abuelita dice che Lui ha disegnato la mia danza imperfetta, perché quale perfezione si muove? Quale perfezione cerca il suo completamento? Lui mi guarda e io lo guardo, e questa croce di lana è la croce dei pazzi. È il suo cuore spettrale, il cuore del mio figlio rubato, ma sono così stanca di allattare le tenebre.

Oggi il mio bene mi ha fatto visita un’altra volta. Ero su una spiaggia dove vado in cerca del mio dolore, ma la spiaggia è sempre più profonda, perché il mare se la mangia un boccone dopo l’altro. La discesa è diventata così ripida che qualcuno ha messo un cartello che dice: “PERICOLO!”.

Mi sono aggrappata a una fune che scende lungo la roccia ma, quando sono arrivata di sotto, ho scoperto che la sabbia era fredda come un ricordo irraggiungibile. Il mare era fatto di diamante e c’era una luce senza conforto, che non avevo mai visto: proprio in quel sole trasparente mi è venuto incontro il mio bene.

Nel tempo della sua assenza, era diventato mostruoso. Mi cercava col suo muso bambino e i capelli sporchi di latte, ma il resto del suo corpo era ricoperto di lana. Il mio bene si era trasformato in una pecora adulta, enorme e non ancora filata! Aveva gli occhi chiusi e il viso di un poppante senza memoria, ma quel faccino di anima non nata non mi faceva alcuna compassione. Piangeva e piangeva, e mi cadeva in grembo col suo puzzo di lana sporca ma, più cercava il mio seno, più mi faceva orrore. L’ho staccato da me come un errore di me stessa, e sono fuggita.

Più tardi, ho aperto la scatola di cartone, in cerca di non ricordo che cosa. Mi sono affacciata sul bordo ed eccolo di nuovo lì: questa volta era piccolo, sul fondo della scatola, e mi dava le spalle. Era seduto a un tavolo di quercia, come in una casa di bambole povere, e scriveva una lettera grande come un francobollo. Sul tavolo pendeva una luce bianca e ho avvicinato il viso senza far rumore, un po’ per sbirciare la miniatura d’orefice e un po’ per non disturbare l’intimità di quella stella d’inverno, sospesa a illuminare le pareti del salotto di carta, come un occhio riflesso nel mio occhio.

D’un tratto, alle spalle del mio bene è comparsa una donna che era mia madre. Il mio bene non ha fatto in tempo a nascondere la lettera, o forse non ha voluto nasconderla, perché sentiva una tensione di verità e voleva sia nascondere, che dire, il contenuto della lettera.

“Che cosa stai scrivendo?” ha detto mia madre.

“Una lettera.”

“A chi?”

Il mio bene ha risposto il mio nome, ma io so che non intendeva me, perché in quel momento mi sono ricordata che la destinataria della lettera si chiamava come me e doveva avere dodici anni. Il mio bene ne aveva nove e conteneva a stento i suoi boccioli di buio. Livia, l’insegnante di danza, diceva che c’era come una “sorellanza”: nella forma del corpo, ma soprattutto in come l’uno danzava soffrendo i suoi argini e l’altra danzava rompendo i suoi. Il fatto che il nome fosse lo stesso non aggiungeva nulla al sigillo dei loro mondi infantili: era una lealtà magica e silenziosa, totale.

Non ho fatto in tempo a leggere il contenuto della lettera.

“È troppo” ha detto mia madre.

“È troppo” ho detto io, dal futuro.

Di qui, intuisco che dalla penna era uscito il latte.

Questa impudicizia morale ha aperto una voragine. Ora voglio strapparmi di dosso questi tubi da mungitura e voglio ridurre in mille pezzi la lettera del mio bene, affinché nessuno possa trovarla, ma l’abuelita dice che le lettere dei bambini sono eterne, anche quelle non spedite: rimbalzano nell’aria come un intorpidimento d’anima, come una brezza che parla la lingua di un tempo precedente. La gente teme il tempio tenero, teme l’incommensurabile del mondo: per questo ha bisogno di questa psicanalisi di letti freddi. La gente vuole sedare le braci del mistero.

Io sono la gente di me stessa: lei si divide in madre e in figlia, e si rifiuta. Teme la notte, teme il pianto del cuore per le creature che non sono figlie sue e se ne fa uno scudo, per ogni amore concesso e non concesso a sé stessa. Lei desidera lasciare un segno caldo e tenero, per questo si allontana da sé stessa: per fuggire, per tornare. Se questo non è possibile, sia la notte.

Costeggiando un terreno franoso

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di Roberta Salardi

Prima parte: un esperimento di agricoltura sostenibile, la comunità Terrestra

“Attenti alla macchina!”. All’uscita da Ravenna percorriamo chilometri su asfalto statale e provinciale, a tratti senza marciapiede. Paolo Pileri (ordinario di pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano), che ci accompagna per un lungo tratto, ci segnala le varie brutture, tecnologiche e no, che si sarebbero potute evitare o mascherare meglio (armadi tecnologici, ex capannoni, aree dismesse recintate e incolte, mancanza di siepi, soste degli autobus senza marciapiede), ma deve spesso interrompersi perché dobbiamo soprattutto prestare attenzione alle auto, che possono sorprenderci alle spalle in qualsiasi momento, persino in qualche via laterale. Benché Guido Viale abbia scritto Vita e morte dell’automobile, con una certa fiducia in una svolta decisiva, nel lontano 2007, eccoci ancora completamente circondati… La vettura privata con motore a scoppio è dura a morire, purtroppo lo constatiamo giorno dopo giorno. Ma qui siamo solo all’inizio di un percorso che vuole portarci fuori dal tessuto urbano in pieno ambiente rurale.

Turismo di prossimità, agroecologia, visita solidale a realtà alternative e a una fabbrica occupata… il cammino di quest’anno di Repubblica nomade si preannuncia particolarmente denso di eventi e significati.

Di chi stiamo parlando? Parafrasando alcune parole di Moresco, contenute nella prefazione a Stella d’Italia, potremmo dire che Repubblica nomade (che a quel tempo era ancora in germe, ma molto desiderosa di nascere) non è qualcosa di puramente culturale, anche se si denomina “associazione culturale” e c’è dentro una forte spinta culturale e ancor più poetica; non è qualcosa di puramente politico, anche se c’è dentro una forte spinta politica e una trascendenza civile; non è qualcosa di puramente atletico, anche se ha comportato per molti partecipanti un superamento delle possibilità fisiche individuali. In parole più povere, prive di tutte le sfumature sopra accennate, Repubblica nomade è un’associazione che organizza cammini, in Italia e in Europa, caratterizzati da una forte connotazione simbolica e politica (non partitica, dal momento che le idee sono varie e le scelte in cabina elettorale pure). Inevitabile, il notevole impegno fisico, dal momento che è proprio il passaggio dal pensiero all’azione (dalla passività abitudinaria del nostro tran tran quotidiano all’attivarsi per qualcosa di socialmente significativo) che si desidera, sebbene in modo giocoso, incentivare. Perché, invece delle solite vacanze organizzate o familiari o di consumo (nel distruttivo turismo transcontinentale), non utilizzare parte dei nostri giorni liberi dell’anno per un’esperienza di turismo di prossimità, che ci faccia riscoprire una vita in comune con altri, ci faccia incontrare persone anche molto diverse da quelle del nostro ambiente, ci porti, gambe-cervello-cuore, a contatto con realtà di cui magari si è sentito parlare, si è letto fuggevolmente qualcosa ma non si sono mai viste né conosciute, benché fossero qui a due passi, a qualche centinaio di passi… prendendo il treno subito raggiunte, da poter vedere e conoscere camminandoci dentro.

Il Cammino dell’acqua, fra il 16 e il 29 giugno di quest’anno, si propone di attraversare le terre alluvionate l’anno scorso in due ondate successive, nella primavera e nell’autunno 2023, romagnole e toscane, per raggiungere una realtà di lotta sindacale attiva da tre anni, da quando, nel luglio del 2021 alla GKN di Campi Bisenzio, si attuò uno dei primi licenziamenti dopo il periodo di sospensione della pandemia. Da un tipo di solidarietà all’altro… da quel prodigare aiuti e partecipazione in Romagna, da parte di genti affluite da tutt’Italia, alla capacità di reazione e di organizzazione dimostrata dal Collettivo di fabbrica GKN in Toscana, insieme con le moltissime associazioni solidali del territorio e oltre, nel corso di tre anni per difendere i posti di lavoro in una vertenza che non si è ancora conclusa (… e difenderli per giunta con attenzione consapevole alla sostenibilità e al futuro che ci attende). Pure il territorio di Campi Bisenzio, sempre nel 2023, a novembre, fu investito da un’alluvione, che vide i lavoratori della fabbrica sia nelle vesti di soccorritori sia nelle vesti di vittime, quindi il cammino può definirsi correttamente “dell’acqua” fino alla fine.

Nelle settimane della camminata, sul territorio nazionale due notizie fanno particolarmente parlare di sé: l’omicidio doloso nell’ambito del bracciantato ai danni del trentenne Satnam Singh, abbandonato e morto per dissanguamento senza soccorso fra il 17 e il 19 giugno dopo un incidente sul lavoro in un’azienda in provincia di Latina, preceduto e seguito purtroppo da altre morti bianche, che cadono ormai con regolarità quasi quotidiana (nel 2024 sono in aumento rispetto agli anni precedenti); l’approvazione alla Camera il 19 giugno del disegno di legge sull’autonomia differenziata. Questo lo sfondo su cui ci muoviamo: lavoro precario e sfruttato mentre vengono emanate nuove leggi molto contestate, di dubbia utilità, forse addirittura pericolose. A proposito delle morti fra i lavoratori agricoli, più che altro irregolari e trattati come schiavi, viene ricordato più volte Uomini e caporali di Alessandro Leogrande, ma non trovo avulso dal discorso il capitolo “Affamato di diseredati. Perché il capitalismo è strutturalmente razzista” in Capitalismo cannibale di Nancy Fraser. Sull’autonomia differenziata scrive subito qualcosa Paolo Pileri: il 24 giugno su Altreconomia sottolinea che questa nuova direttiva “poggerà sui piedi dell’ignoranza ecologica”. Verrà trasferita alle Regioni anche la tutela degli ecosistemi e questo renderà tutto più difficile. È noto infatti che i piccoli comuni sono meno efficienti dei grandi nella tutela; inoltre la gestione degli ambienti sarà più frammentata e per parti differenziate (“Un Paese fatto a pezzi in nome dell’autonomia differenziata. L’addendum ecologico”).

 

Si parte da Ravenna il 16 giugno, a pochi giorni dalla ricorrenza dell’alluvione del   maggio 2023. Sulle colline dell’Appennino, raggiunte dopo qualche giorno, dopo Faenza, vediamo i segni profondi dei calanchi di questa terra argillosa e, un po’ più in alto, dopo Brisighella, prima dell’arrivo al rifugio Fontana Moneta, nei pressi di Palazzuolo sul Senio, pure le tracce di alcune delle migliaia di frane che si verificarono da queste parti un anno fa. Puntale, Pileri: la terra franata purtroppo va a intasare i corsi d’acqua e rende più difficile il defluire degli allagamenti, ma il danno non si limita a questo: le frane significano anche perdita di suolo in quota. Le strade sono riparabili, il suolo scivolato a valle è ormai perduto. All’origine di questi disastri: l’abbandono delle alture, per cui nessuno più cura e coltiva il terreno montano, lasciato a sé stesso e all’erosione delle piogge; il consumo di suolo a valle, con la cementificazione che toglie ai suoli, con le erbe e le piante, il respiro, la possibilità di rigenerarsi, drenare e frenare le acque.

In mezzo a tutto questo, si dialoga con associazioni virtuose (come gli Ortisti di strada della Casa volante di Ravenna, che curano un orto in un’area dismessa e piantano alberi da frutto dove possono lungo le strade; il Vascello vegano, sempre in provincia di Ravenna, fonte inesauribile di ricette rispettose degli altri animali; la Cooperativa di comunità a Legri; l’instancabile attività a favore di chi ha bisogno della Collegiata di Lugo, tra cui il “velocibo”, raccolta e rapida distribuzione con le biciclette del cibo recuperabile ogni giorno rimasto invenduto nei mercati; l’Orto collettivo di Calenzano, che si propone di coltivare pure le zone di mezza montagna, oltre a quelle di pianura e collina, per non abbandonare all’incuria e al disboscamento un terreno prezioso), mentre gli amministratori locali vengono pungolati con domande rigorose, talvolta indisponenti da alcuni di noi, considerato che l’Emilia-Romagna è fra le regioni con maggiore consumo di suolo (la Lombardia è la peggiore),

Ma ecco un fiore all’occhiello: incontriamo una realtà che ha accettato la sfida di fare agricoltura nel modo più virtuoso possibile, e naturalmente può costituire un esempio. Ciascuno di noi può scegliere di appoggiare questo nuovo modo di fare agricoltura, poiché le CSA (comunità a supporto dell’agricoltura), sono diffuse sul territorio italiano e se ne trovano anche in provincia di Milano e Bergamo, rintracciabili su internet. La cooperativa agricola che visitiamo a Sant’Agata sul Santerno (il comune, molto vicino a Lugo, maggiormente colpito dall’alluvione del 2023 in Romagna), Terrestra appunto, si propone di agire in armonia con la terra da coltivare e tutti i suoi abitanti, nei limiti del possibile: gli animali, le piante selvatiche, la boscaglia, l’argine del torrente, cittadini e compaesani del circondario. Si è calcolato che gli animali possono danneggiare le coltivazioni solo fino a un certo punto e si è messa in conto questa perdita piuttosto che adottare l’uso di prodotti di sintesi, che avrebbero effetti peggiori. Questo vecchio podere era già molto impoverito e rovinato per la trascuratezza di decenni quando Silvia Pattuelli, laureata in economia, ha deciso di cambiare la sua vita, spostandosi dalla città alla campagna, e di orientarsi con alcuni amici verso un’agricoltura che non depauperasse irrimediabilmente il suolo, come già avvenuto in passato, gli permettesse di rigenerarsi, di ospitare radici e alberi, con particolare attenzione alla biodiversità, valutando con accuratezza cosa coltivare in modo da non esaurire le risorse nutritive del terreno in poco tempo. Occorreva decostruire le tecniche agricole convenzionali, che vanno sempre più verso il latifondo (vaste estensioni di terra chimicamente trattate nelle mani di pochi possessori di ingenti capitali), per rendere l’agricoltura un bene comune. L’agroecologia, cui ci si ispira, è lievemente diversa dall’agricoltura biologica, ha un approccio più globale e organizza l’economia del cibo in funzione del rispetto dell’ecosistema (molte volte l’agricoltura biologica si è dimostrata uno specchietto per allodole, più apparenza che sostanza).

Il cibo di per sé crea comunità. L’agricoltura può essere pure un vettore d’inclusione (le donne, per esempio, racconta Silvia, sono sempre meno impiegate in questo settore economico, a prevalenza maschile e maschilista; alcune poche donne le troviamo pastore in montagna, in ambiente più povero). “Chi si associa può prendere parte ad ogni fase del processo produttivo ed economico, condividendo i rischi e i benefici dell’attività agricola. Smette quindi di essere semplice consumatrice o consumatore e diventa co-produttrice o co-produttore solidale con le contadine e i contadini…” si trova scritto nella home page di Terrestra. E ancora “ci si riconosce come esseri eco-dipendenti”. I molti soci di questa CSA consentono con una quota annuale, versata in anticipo ma flessibile (eventualmente concordata, rinegoziata in caso di imprevisti) un tipo di agricoltura sostenibile anche un po’ sperimentale (non viene usato, per esempio, nemmeno il letame affinché non ci si debba appoggiare ad allevamenti che potrebbero non rispettare gli animali*; si usano invece dei macerati e fermentati naturali), che si sottrae alla volatilità dei prezzi e delle speculazioni del mercato; ogni settimana gli stessi soci ritirano una cassetta di frutta e verdura sana. Il desiderio di avere un controllo sulla filiera del cibo che si mangia è sicuramente una delle motivazioni più forti nella scelta di far parte di una delle CSA che in Italia sono in aumento, attualmente sono molto diffuse soprattutto in Germania, per quanto attiene all’Europa; nate secondo alcune ricerche in Giappone negli anni Settanta (Alessandra Piccoli, ricercatrice presso la libera università di Bolzano, in un articolo su Humusjob del 15.06.2021 che si può reperire in rete: “Le comunità a supporto dell’agricoltura o CSA. Un modello concreto per costruire un cambiamento in agricoltura e nelle comunità”). Tuttavia, sempre in rete, si trova che l’agroecologia in senso lato era già presente in Sudamerica nell’agricoltura indigena, ripresa e rilanciata negli anni Ottanta (viene nominato soprattutto il Messico). L’agricoltura preindustriale in ogni caso anche qui in Italia consentiva una maggiore cura del territorio, si osserva da più parti durante il cammino. Io non me ne intendo e lascio la parola a chi volesse aggiungere o puntualizzare qualcosa. Mi limito ad aggiungere che chiunque può decidere di collaborare a queste esperienze di sostegno all’agricoltura (tranne a Terrestra, che ha già raggiunto il numero massimo di soci), le quali sono più complesse dei GAS, gruppi di acquisto solidale: nelle CSA, abbiamo detto, il socio è in qualche modo coproduttore non soltanto consumatore. Le “CSA sono forme di economia sociale e solidale che offrono reali opportunità di superare logiche capitaliste, imperialiste e inique verso le persone e il pianeta” conclude Alessandra Piccoli nell’articolo citato.

*Breve appendice sugli allevamenti

Va detto che nei bar, come nei supermercati come nei locali che s’incontrano lungo le strade e che ci circondano nella nostra vita quotidiana, quasi tutto è farcito di affettati e di carni. Anche la semplice focaccia o pizza, in origine vegetariana, si trova spesso arricchita di ciò che vegetale non è, con conseguente sovrapprezzo. Prezzo a parte, non ci è ignoto il problema degli allevamenti. Il 27 giugno esce su Extraterrestre del Manifesto “L’orrore di una vita vicino agli allevamenti”, dove si ribadisce ancora una volta che i territori dove si allevano più animali (in Italia nella Pianura padana, più in generale lungo tutta la valle del Po) sono inquinati nell’aria e nell’acqua. L’allevamento intensivo, metodo prevalente in Europa e nel mondo per produzione di carne, latticini e uova, è fra i settori più inquinanti al mondo, in crescita a partire dagli anni Ottanta, responsabile di circa il 15% dei gas serra. Soprattutto per via dell’emissione di ammoniaca, ha come conseguenza difficoltà respiratorie, asma e malattie bronchiali nelle popolazioni circonvicine. L’ammoniaca unita ad altre sostanze presenti si trasforma in particolato e polveri sottili, che possono penetrare nel terreno e raggiungere le falde acquifere, da qui il rischio di malattie più gravi ed epidemie. In cifre, l’articolo firmato Helena Spongenberg, che parla di situazioni di angoscia e disagio nei pressi di allevamenti in Italia, Spagna, Danimarca e Polonia, riporta purtroppo i numeri elevati di una grande bruttura (e di una grande ingiustizia, quando già si potrebbero produrre e diffondere maggiormente carne coltivata e proteine vegetali): “142 milioni di suini, 76 milioni di bovini, 62 milioni di pecore, 12 milioni di capre, oltre 11 miliardi di polli: questa è la popolazione degli animali invisibili allevati in Europa ogni anno, che nascono e muoiono all’interno di una enorme catena di montaggio e smontaggio”.

 

Libri (attinenti o sconfinanti) citati durante il Cammino dell’acqua

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, ed. Alegre, Roma 2024

Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli, Milano 2017

Nancy Fraser, Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta, Laterza, Bari 2023

Amitav Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza, Milano 2016

Paola Imperatore, Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica, Meltemi, Milano 2023

Paola Imperatore, Emanuele Leonardi, L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso, Orthotes, Napoli 2023

Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008

Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano 2020

Alessandro Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Feltrinelli, Milano 2016

Antonio Moresco, Repubblica nomade, Effigie 2016

Walter Orioli, Passo dopo passo. Perché camminare ci aiuta a pensare e vivere meglio, Sonda 2022

Paolo Pileri, L’intelligenza del suolo. Piccolo atlante per salvare dal cemento l’ecosistema più fragile, Altreconomia, Milano 2022

Leonardo Poli, Eugenio Dal Pane, Fatti accaduti in Romagna, Itaca, Castel bolognese, 2023

Guido Viale, Vita e morte dell’automobile, Bollati Boringhieri, Torino 2007

 

Foto della frana scattata da Letizia Debetto sul tratto di strada tra Fognano e il rifugio di Fontana Moneta, non lontano da Palazzuolo sul Senio

 

Jon Fosse: «così sai che esiste / l’incomprensibile / che tutti comprendono»

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È uscito per Crocetti il libro di poesie Ascolterò gli angeli arrivare del premio Nobel Jon Fosse. La traduzione e la cura è di Andrea Romanzi.

Ospito qui alcune poesie scelte.

 

 

da I movimenti del cane (1990)

 

14

così sai che esiste

l’incomprensibile

che tutti comprendono

perché ciò che è detto

è sempre il contrario

ma proprio allora esiste

allora capiamo

allora al contrario siamo presenti

nelle belle oscurità della pioggia

nella luce nera della pioggia

 

***

 

Amore, un giorno di marzo

 

La confusione

non attraversa l’amore pratico

che filtra nei nostri cuori puntuali

e diventa quotidianità, diventa un rifiuto sempre più

crescente

un disprezzo sempre più grande

per tutto il mondo

Inafferrabili

come acqua

siamo noi

nel bel mezzo del quotidiano

dèi della maledizione

 

***

da Poesie 1994-1997

 

Le montagne non stanno più insieme

 

e il fiordo si è disteso in un

movimento continuo

che tuttavia non si muove

ma è immobile

come movimento nel movimento          Il silenzio non è più

avvertibile

ma, come il movimento, si è ribaltato

ed è diventato, insieme al bianco fiordo, un cielo di luce

tanto simile a un buio in un buio.       Non ho più nulla da

dire

e sento il cielo accarezzarmi i capelli

così lascio che il fiordo sia fiordo

in tutto il nostro           respiro E lascio gli altri pensare e

pensare

e continuo con il mio respiro nella sicurezza incrollabile

del silenzio insensato

che può trasformarsi

come può trasformarsi una montagna

come movimento nel movimento         Non ho nulla da dire

Non partecipo più

che mi portino dove vorranno

 

***

 

da Occhi nel vento (2003)

 

Non è passato molto tempo

solo qualche giorno

forse qualche anno

qualche settimana

È appena successo

Era lì

e poi non c’era più

È apparso

e poi scomparso

era lì

non c’era più

come un movimento ondeggiante

là dentro dove si può vedere

e abbandonare

e restare

senza che nulla cambi

Quando i pesci hanno i piedi

2

di Romano A. Fiocchi

Antonio Vangone, Bosco, déclic edizioni, 2024.

La copertina è così: accattivante ma nuda, senza titolo, né autore, né editore. Che sono però sul dorso con caratteri che sembrano il loro riflesso tremolante nell’acqua. Scelte editoriali di Déclic, neonata casa editrice di Perugia ideata da Carlo Sperduti. Dietro questa copertina minimalista, ci sono ventisei racconti brevi di Antonio Vangone, millennial del 1995. Il titolo della raccolta è Bosco. Nessuno dei racconti si intitola così. Sono piuttosto gli stessi, tutti insieme, a formare il ‘bosco’: una proliferazione di storie, ciascuna con le sue ramificazioni e le sue germinazioni improvvise. Un ‘bosco’ di racconti entro cui la lettura del mondo – specie quello urbano – assume forme imprevedibili, talvolta surreali, e perciò anche umoristiche, proprio perché riflettono il contrario di quello che dovrebbe essere la realtà (Pirandello docet).

Per effettuare questa trasformazione, Vangone ricorre spesso a manipolazioni del linguaggio, espandendolo o contraendolo, costringendo il racconto in forme verbali rigide di gusto oulipiano. Troviamo così racconti composti da soli aggettivi femminili plurali privi di punteggiatura e di qualsiasi predicato (Disappunti di Camilla Peluso), racconti narrati con un solo o al massimo due modi verbali (infinito presente in Cavaliere di giugno, gerundio e futuro semplice in Condominio “Parco dei pini”, gerundio presente in Canalizzare il piccione), racconti in cui asserzioni nette scatenano domande o viceversa, come in Salvatore vittima («Da quando Salvatore non sogna? Quando Salvatore non sogna, Salvatore si sveglia spaventato – lo spavento sveglia Salvatore – la sveglia lo salva dallo spavento» … «Eppure è la legge. Cosa stava leggendo?»).

Il rimboschimento letterario di Vangone non si avvale solo della manipolazione del linguaggio, che renderebbe i racconti pura sperimentazione tecnica, ma interviene sulla narrazione, come si è accennato più sopra, attraverso distorsioni della realtà che ne alimentano nuove chiavi di lettura. L’ambiente lavorativo di Nella grotta viene deformato con l’impiego di metafore e di immagini appunto surreali: il capo è un gamberetto con mille spilli che conficca nella nuca dei subalterni. Nel Condominio “Parco dei pini” gli inquilini compiono gesti e azioni dormendo. Nella «cameretta di legno tinta di bianco e di rosa» del racconto Gli occhi, è la fantasmagorica apparizione di un occhio sulla fronte di un neonato a colorare di magia il presentimento di un evento terribile.

Un altro vincolo strutturale, forse meno evidente ma che caratterizza tutti i ventisei racconti, è l’assenza assoluta di dialoghi. Al massimo si trovano discorsi indiretti del tipo: «Solo una volta gli chiese di fare a metà», «lo domanda a un ragazzo di vent’anni», «Sente una vicina chiedere cosa facciano sempre lì davanti». Tutto viene raccontato da una voce narrante in terza persona, lungi da qualsiasi forma di autofiction (una mia nota personale: finalmente un autore giovane che scrive così!). I protagonisti sono spesso soggetti anonimi, come «l’uomo molto anziano» o «il ragazzo dorato», o addirittura vengono indicati unicamente nel titolo, come nel caso di I duellanti di piazza Vargas, tant’è che all’interno del testo troviamo solo espressioni prive di soggetto: «Non duellarono mai», «Non si fecero mai troppo male», «Non ne parlarono mai con nessuno». Insomma, non si saprà mai chi sono.

È un mondo eterogeneo ma compatto di storie quello che germoglia nel ‘bosco’ di Vangone. Lo popolano i già citati inquilini di condominio che vivono dormendo, ragazzi dorati, ma anche fotografi con la forfora che costruiscono album di famiglia, robot che compongono haiku, astronomi dilettanti che battezzano con nuovi nomi le infinite lune di Giove, suore che fabbricano mattoni, pesci con i piedi e comignoli che diventano corvi, piccole isole nebbiose che si chiamano Piccola Isola Nebbiosa (qui si gioca di nuovo sul linguaggio, assegnando alle cose un nome proprio ‘trivocabolo’, come appunto «la Piccola Isola Nebbiosa», oppure «il Largo Golfo Scuro», «gli Annoiati Turisti Delusi», «l’Arido Mare Brumoso», «le Luminose Insegne Elettriche», e così via). C’è anche, nel racconto Immersione, un omaggio al gusto futurista nell’effetto visivo del carattere tipografico: «LA GRANDE DISTANZA», «Il corsivo ricorsivo», «Una strada è sbarrata», «Quattordici vie uguali» ripetuto quattordici volte. Tutto questo velato di sottile ironia.

Ma se l’ironia bene o male è sempre presente, in alcuni racconti di Vangone affiora un’assenza che si impone come una sua cifra stilistica. È una specie di punto vuoto, un anti-Aleph che sostiene il meccanismo narrativo, in pratica un dettaglio importante che viene intenzionalmente omesso. A volte il lettore non se ne rende neppure conto. Come, ad esempio, in Nuovo testamento, dove le vicende del cartello finiscono per accantonare la domanda più logica e fondamentale: qual è il contenuto dell’iscrizione? Oppure nel racconto Guardare il sole, dove l’anti-Aleph si incarna nell’assenza di una spiegazione: perché i pesci con i piedi? E perché, quando sono scomparsi i pesci, è la volta dei comignoli trasformati in corvi? Dove accadono questi fenomeni surreali? Nel ‘bosco’ di Vangone, ovviamente. Del resto basta leggere l’incipit dello stesso Guardare il sole per comprendere come, tra quella rigogliosa vegetazione letteraria che forma il ‘bosco’, tutto sia possibile senza dover fornire alcuna spiegazione:

«In un mondo vecchio come il nostro, la notizia che nella fontana ci fossero dei pesci coi piedi fece presto il giro. La fontana è lì da sempre, bassa e obliqua, vuota o piena a seconda di chi dovrebbe ricordarsene, grigia, stesa all’angolo di una piazza altrettanto grigia popolata da cani senza guinzaglio e lettori di quotidiani, eclissata dalla brutta statua del limite ignoto e dalla strana sfera che dovrebbe rappresentare la Pace, circondata di manifesti gualciti, necrologi avvisi pubblici nuove aperture.

Non si capì chi mise i pesci nella fontana e perché avessero i piedi, da dove vennero e se arrivarono con i loro stessi piedi. Nessuno si domandò perché i pesci avessero scelto di restare nella fontana e questo credo fu un grosso errore. Li sottovalutammo, credo, perché parlavamo e non ci ascoltavano, li guardavamo ma loro non ci guardavano: preferivano guardare il sole». […]

 

La pietra di scandalo della modernità. Octavio Paz e la poesia

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Su Octavio Paz, L’altra voce. Poesia e fine del secolo, a cura e con un saggio di Massimo Rizzante, Milano, Mimesis, 2023 (qui ne avevamo pubblicato l’introduzione).

di Neil Novello

Quando Octavio Paz si interroga sull’atto poetico, sulla poesia come prassi, la domanda immette l’autore di L’altra voce. Poesia e fine del secolo in una terra «assai ambigua». Così la dubbiezza di Paz, scaturita da un quesito riguardante la pratica della scrittura versale, pur apparendo infine meno compromessa con l’ambiguità rimane pur sempre irrisolta. Se l’atto poetico è un «esercizio», la poesia resta una forma indefinita, un «mistero». L’atto scrittorio del poeta, dal lato dell’esperienza esprime un’azione, dal lato del suo significato profondo dà vita a un enigma. Allora la parte di «attività», il poetare, è un esercizio misterioso, qualcosa che richiama il lavoro dell’artista e lo statuto dell’arte. È qui espressa una realtà esperienziale innominabile perché limitrofa al «sacro». Alla fine del volume, nel saggio I pochi e i molti, pensando alle «poesie» Paz scrive che «si tratta di oggetti fatti di parole destinati a contenere e a secretare una sostanza impalpabile, refrattaria a ogni definizione, chiamata poesia».

L’altra voce è un libro in cammino nella sacralità poetica. Quel che però chiarisce in Paz la logica dell’itinerario critico, fin dal primo contributo del volume, Raccontare e cantare (Sulla forma lunga della poesia) del 1976, illumina il lettore sulla volontà di capire la sacralità del verso osservando il testo, la sua forma al di qua del significato. Intorno all’interpretazione tecnica della cosiddetta «poesia lunga», Paz compie un’incursione verso le origini risalendo al «poema epico» di Omero. Qui la poesia – l’omerica o anche l’esiodea e la virgiliana – espone una forma «lunga» e un contenuto, l’espressione di un contenuto, che si manifesta nell’«oggettività del racconto». Così il poeta «oggettivo» guarda al mondo come a una realtà in sé compiuta, perché il reale gli appare come qualcosa di finito, di confinato entro il perimetro dell’impersonalità.

Non vi è dunque faglia nel mondo chiuso della scrittura versale impersonale, non un’apertura in cui il poeta che scrive sia anche colui che si scrive. È un problema di assenza antilirica o di presenza, di scrittura impersonale oppure personale. Quest’ultima determina una concezione del poetare come terra non più separata, straniera, ma come scena dell’«io». Per Paz, l’allegoria nella Commedia è proprio quella faglia in cui la «storia di Dante», l’emblema dell’homo viator, il pellegrino singolare e universale, si fa sostanza nell’«io» del poeta, quel «corpo» vivo di Dante-personaggio dell’Inferno che nella Poesia della Divina Commedia così tanto sbalordisce Singleton. L’Ulisse omerico o l’Enea virgiliano o più indietro nel tempo il viaggio di Gilgameš nell’altro mondo, anche al momento della nekyia non genera allegoria. Nella fictio letteraria si resta radicati alla letteralità. Alla luce dell’epica classica, Paz legge la letteratura rinascimentale, l’Orlando furioso di Ariosto e la Gerusalemme liberata di Tasso, quali capostipiti dell’«epica fantastica italiana». Le opere figurano l’esito di una metamorfosi in confronto alla concezione epica classica determinando così un confine tra due mondi. Da un lato, troviamo l’epoca greco-latina e l’umanistico-rinascimentale, dall’altro la modernità letteraria.

Nella storia della forma poetica «lunga», la modernità inizia con il Paradiso perduto di Milton. Il topos della caduta di Lucifero permette al poeta messicano di cogliere l’avvento del moderno, perché l’«infinito cosmico», l’infinito precipitare di Satana non appare un mero volo celeste. Esso esprime soprattutto una caduta nell’«infinito psichico» del grande peccatore di Dio. Anzi la modernità letteraria si identifica alla maniera di una ferita nel cuore del finito, del concluso, perché decreta una nuova apertura estetico-ontologica. In essa, il creaturale è un resto, quel che resta di una realtà colta dopo l’infinito geografico, quando diviene infinito interiore. Il Romanticismo inaugura la modernità. E la poesia romantica è moderna, perché l’«elemento soggettivo» non è più neanche l’«io» allegorico di Dante ma qualcosa di diversamente creaturale. Paz porta al centro della scena il Don Juan di Byron. L’allegoria qui è diventata una «maschera simbolica», perché il «tema» dell’opera ora è il «poeta stesso», e Don Juan è la «persona» di quel poeta. La modernità romantica di Byron è colta dunque nell’inedita sovrapposizione di «poesia del poeta» e «poesia della poesia». In altre parole, essa sta in una nuova e duplice soggettività. Ma il mutamento che Paz definisce «radicale», e che costituisce il centro stesso della nuova poesia simbolista, si colloca in una concezione e insieme in un altrettanto nuovo sentimento. Il verso simbolista non «racconta» né «dice». Perde in letteralità disarticolando dall’interno la forma «lunga» in luogo di un’«estetica della poesia breve». E la stessa parola parlante è sostituita da una parola più silente. La poesia simbolista, anziché dire, «suggerisce». E il suo luogo estetico, il frammento, abolisce sia l’ecfrasi sia la narratività. Se il «miglior esempio della nuova poetica» è la calligrammatica Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897) di Mallarmé, con la sua vertiginosa mise en abîme tutta infinitamente aperta a una versificazione riflessa in se stessa, al «polo opposto» Paz colloca la soggettività di Canto di me stesso (1855) di Withman, con la sua vertiginosa «espansione dell’io poetico». Se Un colpo di dadi mallarmeano è il «canto del poeta solitario di fronte all’universo», il Canto whitmaniano è un testo corale, l’atto di «fondazione di una libera comunità di eguali».

Nel saggio del 1986, Rottura e convergenza, Paz guarda alla modernità entro un quadro dialettico tra la «critica» e l’«utopia». L’epoca in cui le due cognizioni definiscono un’esemplare cifra culturale è il Settecento. Se è vero che le «utopie sono i sogni della ragione», agli albori dell’età moderna la «critica» riguarda lo status quo ma anche un’idea di «futuro non dell’altro mondo ma di questo» mondo. Così se il Romanticismo opera per un «cambiamento» contro il corso culturale della modernità, per Paz l’«età Contemporanea» inizia propriamente dalla crisi del moderno. Anzi quella crisi si cristallizza nello «Stato burocratico totalitario» e nella formidabile accelerazione del progresso scientifico. Quando Paz scrive che l’«arte e la letteratura sono forme di rappresentazione della realtà» rivela lo specifico della modernità. È pertanto la «rappresentazione della realtà» a dare luogo alla poesia moderna.

Tra Baudelaire e Poe, il topos creaturale del moderno è l’uomo «solitario nella folla», l’uomo solo socializzato alla macchina. E anche qualcosa in più. A riguardo, Paz intende la possibilità tecnica di riprodurre, secondo l’arcinota categoria di Benjamin, la facies tecnica dell’arte. Ma l’arte del XX secolo non si riproduce soltanto, riproduce lo spirito del nuovo secolo. In pittura, tra il Cubismo o la decostruzione dello spazio e l’avanguardia futurista o la dilazione del tempo, la riproduzione del moderno non riguarda soltanto la possibilità tecnica della produzione seriale, richiama anzitutto l’evoluzione tecnica dello stile artistico in sé.

L’arte ora espone lo Zeitgeist. Ma lo spirito del tempo, la parte di critica al progresso nel discorso di Paz, guarda alla modernità, all’idea di «futuro come terra promessa», per trovare che la crisi di tale cognizione nasca dall’empito scientifico proprio al moderno. Esso, con le «armi atomiche» e la «bomba» fa «evaporare letteralmente la nostra idea di progresso». E ciò perché se la «bomba non ha distrutto il mondo», nell’idea di Paz certamente ha «distrutto la nostra idea del mondo». Per il poeta messicano, l’illusione del progresso, l’inganno della modernità, nel XX secolo si è riflessa e rivelata nell’impossibilità di naturalizzarsi nell’arte moderna. E ciò perché la «fine dell’idea dell’arte moderna» si manifesta nel rinnegamento di una «promessa», alla fine rivelatasi una colossale impostura. Tra il postmoderno e l’«ultramoderno» si gioca dunque la partita terminologica per identificare l’età contemporanea, lo scorcio del XX secolo. Per Paz, che scrive nel 1986, l’epoca di fine secolo non viene dopo il moderno ma è la plastica rappresentazione della sua agonia. Così «ultramoderno» vuol dire estenuazione del moderno, sua crisi determinata dall’inettitudine al rinnovamento: è la riduzione dell’opera a serialità, a prodotto di iterazione.

Nel 1989, quando Paz riceve il Premio Tocqueville, scrive il «discorso» per la cerimonia, Poesia, mito, rivoluzione. Qui si fornisce, in senso retrospettivo e autobiografico, l’immagine riassuntiva sia di Raccontare e cantare (1976) sia di Rottura e convergenza (1986). È il modello di una figura intellettuale rivissuta, in particolare, nella «libera partecipazione del poeta agli affari della città». Soprattutto Rottura e convergenza, nella sua critica alla modernità, sintetizza il ruolo del poeta al di là della poesia o, attraverso essa, dinanzi alla realtà. «L’Età Moderna ha rotto l’antico vincolo che univa la poesia al mito, ma solo per unire la poesia all’idea di Rivoluzione» scrive Paz. Alla poesia non è più affidata la rivoluzione ma la sua «idea». Anzi il poetico diviene pensiero, la possibilità stessa di pensare in modo rivoluzionario ciò che cade entro il perimetro epocale dello status quo. Perché «attraverso la bocca del poeta parla – e sottolineo parla, non scrive – l’altra voce» scrive Paz, la parola, il monito di un oracolo alla fine del mondo, una parola di risveglio nel sonno della menzogna.

Poesia e fine di secolo è la terza e ultima parte del libro. Quattro i testi di Paz: I pochi e i molti, dedicato al libro, al lettore di versi e al lettore generico; Quantità e valore, riguardante il destino contemporaneo della poesia; Bilancio e pronostico, sugli antidoti per la sua auspicata rinascita, e L’altra voce, su un sogno palingenetico o soteriologico, la scrittura poetica come «fraternità cosmica». A differenza dei precedenti, sine data, Paz termina di scrivere L’altra voce a Città del Messico il primo dicembre 1989. È il tempo in cui in Europa un mondo sta finendo per rivelarne un altro. A proposito della lettura, l’esperienza che implica l’intero discorso di Paz sulla letteratura sia come esplicito statuto ontologico sia come implicita proiezione verso la «fraternità cosmica», si legge:

Leggere è una pratica nemica della dispersione; leggere è un esercizio mentale e morale di concentrazione che ci porta in mondi sconosciuti che a poco a poco si rivelano la nostra patria più antica e più vera: è da lì che veniamo. Leggere è scoprire strade insospettate verso noi stessi: è riconoscersi.

Se è vero che i «poeti sono i figli ribelli della modernità», lo stesso lettore ricapitola l’atto di ribellione del poeta e della sua opera. Così un contributo come Quantità e valore si pone in continuità al discorso di I pochi e i molti. Paz riannoda cognizione a cognizione e ritorna ai «lettori di poesia», alla loro «quantità». Si ha l’impressione che si attribuisca all’opera in versi, e al lettore che ne permette l’esistenza, un valore appunto palingenetico, qualcosa di paragonabile a una terra promessa, a una venuta in salvamento dell’intera umanità. Ma Quantità e valore, oltre la «questione quantitativa» pone la domanda su «chi» legge versi. Non sorprende che Paz pensi, con riferimento all’antichità e all’età premoderna, al lettore come alla «testa» e al «cuore della società», al suo «nucleo pensante e dinamico». Ma l’età moderna, e ancora di più l’età «ultramoderna», nel nuovo attore dell’«industria editoriale» elegge anche l’effetto principale di una causa ancora misteriosa. Così se il «valore supremo» dell’industria editoriale è il «numero di acquirenti di un libro», il destino della poesia risiede nella distinzione tra la «logica del mercato» e la «logica della letteratura». Una distinzione improba, poiché la «logica del mercato» tende a «uniformare», a produrre, insieme al libro, anche il modello economico di un «solo e unico pubblico». E la scrittura poetica, la sua agonia e la stessa agonia del suo lettore, per Paz sono fenomeni da ricercare proprio nello strappo compiuto dall’«ultramoderno», dall’apertura allo «scientismo», alla religione del «qui e ora». Tutto ciò infligge un’impietosa etichetta di disvalore a un fondamentale valore culturale. La poesia – si legge in Bilancio e pronostico – non risponde al «criterio del profitto». È una via umana. Degradata ad «attività inutile» e a «passatempo obsoleto», in Bilancio Paz guarda a una sua auspicata rinascita partendo dalla funzione cosiddetta non multinazionale delle «case editrici indipendenti». Anche però da una pedagogia sociale, comunitaria e appunto fraterna cui si delega il compito di recuperare e la funzione di riattualizzare un cruciale valore culturale.

Allora un argine al «processo economico senza volto, senza anima e senza direzione», nell’ultimo scritto del volume, L’altra voce, potrà essere eretto da quegli «esseri solitari e anticonformisti» che per Paz sono i lettori di poesia. E i poeti. Coloro che leggendo e scrivendo versi si collocano accanto, anzi dentro un mondo poetico, identificano la «pietra di scandalo della modernità». Perché la «poesia è una voce antimoderna», una diversa realtà e un’altra esperienza. Il lettore e il poeta finalmente sono i portatori di una nuova ontologia, di un immaginario veramente umano, nell’auspicio di Paz non più e non solamente «anteriore» al nostro mondo ma proprio di questo nostro mondo.

 

Alcuni appunti a margine di Milano-poesia

1

di Marilina Ciaco

Il volume di Eugenio Gazzola, Gli anni di Milano-poesia (Milano, Il verri edizioni, 2024) è stato presentato insieme all’autore da Barbara Anceschi, Biagio Cepollaro e Marilina Ciaco il 28 maggio presso la Fondazione Mudima di Milano.

 

«Non si esce vivi dagli anni Ottanta», cantavano gli Afterhours nel 1999, qualche anno dopo l’avvenuta fine del decennio reaganian-thatcheriano, già simbolo condiviso dell’egemonia del tardocapitalismo in Occidente e dell’imporsi della società dei consumi. Sin dalle prime pagine del ricco e documentatissimo volume pubblicato per «il verri», Eugenio Gazzola parla di «anni di “finali di partita”» (p. 5), «tempo di tempi andati. Di ripensamenti» (p. 15). Jean-François Lyotard nel celeberrimo saggio del ’79 intitolato La condizione postmoderna aveva coniato un’espressione tuttora pregnante, la fine delle «grandi metanarrazioni», mentre in chiusura di decennio, nel 1992, Francis Fukuyama non avrebbe esitato a parlare di «fine della storia» presagendo l’imminente crisi di un mondo ormai svuotato di senso, privato degli orizzonti valoriali che avevano animato i movimenti, le lotte, la proliferazione di idee e di prassi lungo quel secolo che si avviava al tramonto.

Per coloro che, come la sottoscritta, quegli anni non li hanno vissuti – per ragioni meramente anagrafiche –, il libro di Gazzola si rivela un prezioso strumento di ricerca letteraria, tra critica e storia della cultura, perché permette di scandagliare la complessità e le stratificazioni di un’epoca guardandola attraverso la specola di un fenomeno letterario, solo all’apparenza circoscritto. Se ci si sta chiedendo che cosa sia stato, in fondo, Milano-poesia, la questione è di non facile scioglimento, e si dovrà tener conto (come lo studioso fa) della possibilità, da parte della poesia, di occupare uno spazio (deterritorializzato) di resistenza e di rielaborazione critica del presente – una zona di confine. Sarà opportuno riflettere, in primo luogo, sulla sua natura di evento in senso forte, con tutte le implicazioni materiali e immateriali che questo comporta: la fenomenologia e gli sviluppi nel tempo di Milano-poesia riflettono appunto un carattere di assoluta immanenza, dove centrali saranno la partecipazione collettiva, il dialogo, la riflessione teorica “orizzontale”, relazionale e rizomatica, la verifica ininterrotta (e incerta) di modi, forme e tempi atti a esprimere una “necessità di dire” che poteva essere singolare e intersoggettiva, senza temere la contraddizione.

Altro fattore determinante sarà infatti l’irriducibilità di Milano-poesia a delle dicotomie troppo stringenti, a partire dalla genesi stessa del progetto: continuità con il passato prossimo delle neoavanguardie (la fortunata stagione delle sperimentazioni internazionali degli anni Sessanta e Settanta) e presa di coscienza della mutazione sociale, politica, antropologica in atto; evidente eredità del marxismo e dei movimenti del ’68, ma anche apertura nei riguardi di un tipo di industria culturale sino ad allora inedita, una forma di cooperativismo “aggiornato” che potesse dar voce ai bisogni di una comunità reale; non da ultimo, un approccio decisamente “inclusivo”, si direbbe oggi, in termini di idee, discorsi e pratiche coinvolte, accogliendo appieno l’invito al dibattito dal vivo e alla dialettica tra posizioni anche sensibilmente distanti, tanto su di un piano strettamente artistico-letterario quanto su quello ideologico in senso ampio.

L’arco decennale è rispecchiato integralmente dalla durata di Milano-poesia, se si considera che nell’ ’82 e nell’ ’83 vi furono i primi due banchi di prova della squadra organizzativa di questo laboratorio artistico permanente, e cioè, rispettivamente, le manifestazioni «Guerra alla guerra» e «polyphonix 5». In seguito, nell’ ’84, si sarebbe svolta la prima edizione propriamente detta di Milano-poesia (l’ultima risale al ’92), festival che avrebbe avuto una risonanza straordinaria per il tempo e non solo – il focus, si badi bene, resta sempre sulla «poesia», pratica marginale per antonomasia –, e che molto deve a una figura eclettica, di rara acutezza, quale fu quella di Gianni Sassi. Il lavoro svolto da Sassi e dalla Coop Intrapresa, che curò anche la grafica particolarmente caratterizzata dei cataloghi del festival, rappresentò un nuovo modello di progettazione culturale che avrebbe dato origine a innumerevoli riprese negli anni a venire (il format dell’“intrattenimento di qualità”). E tuttavia, come ricorda Gazzola, Milano-poesia costituì di fatto un unicum nel panorama italiano, perché soltanto in quella particolare fase di transizione era stato possibile costruire un evento di tale portata sulla base di premesse “autenticamente” comunitarie, collettive. La tradizione di movimenti internazionali quale era stato Fluxus si stava rivelando, di fatto, ancora vivace e condivisa, come pure la volontà di preservare una visione militante, attiva, intensamente partecipata del “fare” poesia.

La struttura dell’oggetto-libro ricalca, in certa misura, una tale concezione rizomatica e “incarnata”: troviamo, non a caso, diversi riferimenti al monumentale Millepiani di Deleuze-Guattari, finanche nel movimento orizzontale-sincronico che si registra al livello dell’organizzazione macrotestuale. Intendo, cioè, che si ha l’impressione che tutti i materiali (assai eterogenei) convogliati nel volume siano dispiegati su di un’unica superficie di senso, a partire dai numerosi approfondimenti storico-critici fino ai saggi teorici e di poetica, passando attraverso gli accurati “cappelli” monografici e, naturalmente, la mole tutt’altro che trascurabile dei testi di poesia performati durante il festival.

Il montaggio di questi innumerevoli lacerti segnici e semantici, paradossalmente dotati di una certa coerenza intrinseca, dà origine a un fitto tessuto dialogico, bachtinianamente polifonico.

Ricordiamo, inoltre, che Eugenio Gazzola ha scelto di includere non soltanto i testi da cui traspare un legame diretto con Milano-poesia, ma anche una nutrita serie di fonti “secondarie”, vale a dire di riflessioni filosofiche, estetiche, politiche, senz’altro rappresentative della temperie di quegli anni, riflessioni a partire dalle quali si diramano ulteriori proliferazioni possibili del discorso critico. Dal pianale della pagina si dischiudono così delle “pieghe” a tutti gli effetti, inabissamenti “verticali” nella lingua e nel mondo che “si” dice, che non cessano però di aderire a un’immanenza radicale, ovvero a un solido sostrato storico-materialistico di fondo.

Milano-poesia intercetta nel suo raggio d’azione altri eventi collettivi, pressoché concomitanti, che avrebbero avuto un indiscusso rilievo nella storia (letteraria e sociale) della poesia contemporanea: nel’79 era nata la rivista «Alfabeta», nel novembre dell’’84 si era tenuto a Palermo un importante convegno intitolato Il senso della letteratura, nell’’89 muore Antonio Porta, che era stato uno dei principali promotori del festival, e intanto, proprio all’altezza di quel periodo, si costituisce il Gruppo 93. Nelle ultime tre edizioni (’90, ’91 e ’92) saranno organizzati nel contesto di Milano-poesia anche dei Forum specifici, convegni militanti dedicati ad alcuni dei temi cardine del pensiero contemporaneo: la contaminazione tra le lingue, le arti e i saperi; la traduzione, l’identità e le migrazioni; l’idea estetica del “bello”; non da ultimo, il dialogo tra le arti e le scienze, tenendo conto del ruolo preponderante assunto in quegli anni dagli sviluppi dell’informatica e della cibernetica, ma anche dalla biologia e dalle neuroscienze.

Ma Milano-poesia ha attraversato, soprattutto, degli eventi storici determinanti per la storia dell’Occidente, primi fra tutti la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS. Si aggiunga a ciò il già citato dibattito sul postmoderno, in relazione al quale Biagio Cepollaro ha ricordato la proposta da parte del Gruppo 93 di un «postmoderno critico» che implicava una necessaria presa di posizione (e di distanza), da intraprendersi, ad esempio, attraverso l’adozione di un pastiche linguistico non neutralizzato e la rivitalizzazione dell’allegoria benjaminiana. Appariva insomma indifferibile una rinnovata presa di coscienza del conflitto, così come della possibilità di condurre, attraverso le forme letterarie, un’opposizione ferrea e vitale alla logica capitalistica.

A me sembra che Gli anni di Milano-poesia sia, in ogni caso, un libro proteso verso il fuori-dal-libro, ovvero verso una profonda presa d’atto della realtà extra-letteraria di cui il festival Milano-poesia era insieme un sintomo e un anticorpo. Una realtà nella quale un cambio di paradigma radicale si stava inverando. I poeti, gli artisti, i critici, gli intellettuali accorsi a Milano per “fare il punto” sulle sorti della poesia tra gli anni Ottanta e Novanta si stavano verosimilmente interrogando, a un livello più inconscio e più insidioso, sulle sorti dell’intera cultura occidentale.

A colpire un lettore o lettrice di oggi è il fatto che, nonostante le inaggirabili preoccupazioni di fronte a una situazione sempre più inafferrabile, la maggior parte delle risposte fornite dai soggetti e dalle forze in campo siano state, tutto sommato, affermative, probabilmente perché era un’etica affermativa e propulsiva ad animare il microcosmo di Milano-poesia nella sua totalità.

La critica serrata al potere economico e politico nella sua veste autoritaria ed egemonizzante, così come nei confronti delle istituzioni culturali più gerarchizzate e borghesi, non escludeva la possibilità di tracciare delle direzioni condivise per proseguire collettivamente un certo tipo di lavoro culturale. Questo consentiva di coltivare una non trascurabile “speranza” di dialogo tra le ricerche artistiche più avanzate e il contesto storico-sociale di cui erano parte. Era ancora possibile, cioè, auspicare che una pratica minoritaria come la poesia potesse avere “presa” sulla realtà.

Alcune di queste direzioni potrebbero essere condensate in tre (provvisorie) parole chiave che riguardano, non a caso, una tendenza affermativa all’interdiscorsività e alla contaminazione fra saperi e pratiche, secondo un atteggiamento che accoglie, sì, alcune istanze del postmoderno, ma tenendosi ben lontano dal cancellare l’eredità epistemologica, etica ed estetica del modernismo. Queste tre parole sono: internazionalità, interdisciplinarità, intermedialità.

Sui significati e sulle molte implicazioni di ciascuno di questi termini non è possibile soffermarci in questa sede, e vorrei anzi lasciare ai lettori e alle lettrici future la libertà di esplorare la presenza di queste isotopie tematiche nel rizomatico volume di Gazzola. Mi limito, per il momento, a segnalare quanto segue: a Milano-poesia la volontà di instaurare un dialogo fra poeti, artisti e intellettuali provenienti da tutte le parti del mondo, così come all’interno di una gamma vastissima di forme artistiche (poesia, musica, cinema, teatro, danza, arti visive) e di ambiti del sapere (dalle scienze umane alla biologia), ha permesso la verifica concreta, in re, di una visione organica, integrata, delle arti e dell’esperienza estetica.

Potrebbe forse stupire che proprio la poesia sia stata il “centro” di un tale movimento di ibridazione sostanziale e non accidentale tra le arti, eppure sappiamo pressoché da sempre – dai trovatori a Intermedia di Higgins passando per i Calligrammes – che la poesia può essere interpretata come un macro-medium o un meta-medium (ovvero un medium che contiene, in atto o in potenza, tutti gli altri media). D’altro canto, leggendo Gli anni di Milano-poesia si è come investiti da una presenza illuminata e fiduciosa, da quel fermento immaginativo condiviso che oggi manca, oppure, se resiste, assume delle forme di gran lunga più circoscritte. Forse è sempre ancora a venire, o forse è consegnato alla distanza irreparabile di un passato meno prossimo di quanto crediamo.

La presentazione di Milano si è conclusa con un’immagine che voglio ricordare, e per la quale sono grata ai miei interlocutori: la poesia come atto residuale, sotterraneo, sussurrato a poche persone e occultato tra le maglie del mondo, ma non per questo meno necessario – la parola catacombale.

Animali nel cassetto (I)

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 una rubrica a cura di Bianca Battilocchi

Apri chiudi apri chiudi

chiudi ora addormenta le palpebre

 

cosa risiede ancora in quelle tasche di legno

rinchiuso nel rettangolo che scompare

quanti strati di foglie e memoria

tu e gli altri

 

archivio di fori e chiavi bottoni e graffette

impronte di fantasmi e sonagli

corrispondenze d’ogni tipo

direzioni e foto sbiadite

 

apri e ricorda

 

 

—————-

Nella società dell’eccesso liberalizzato, dei corpi capitalizzati, delle colme discariche – fisiche quanto mentali – e del costante sforzo di rimuoverle dalla nostra vista, qual è il rapporto dei poeti d’oggi con ‘le cose’, soprattutto quelle accumulate e nascoste da tempo nei ripostigli domestici? Che cosa fa riemergere il contenuto di quei cassetti? Quale rapporto si cela tra le loro storie e la Storia? Non senza una certa dose di voyeurismo, questo spazio vuole ospitare differenti sguardi poetici sull’intimità dei propri nascondigli, animarli, osservare che voci parlano.

 

 

  1. Emilio Rentocchini (da Lingua Madre. Ottave 1994-2019, Quodlibet, 2022).

 

 

As pól creder sè e no in un cos ch’al tes

e a scusa l’infinî. Csè et vê, s’at per,

srê sò in al sô paltò arversê e t’et pies

perchè l’éra quell d’lê préma d’ander.

Da meis al te guardeva meş e meş

dal fend dl’armari, s’un umett ed fer,

tip un pòundegh ch’al scheva persunér.

Srê sò in al sô paltò t’ê un sô pensér.

 

Si può credere giusto a un oggetto che tace

e scusa l’infinito. Perciò te ne vai in giro, se ti pare,

avvolto in quel paltò rivoltato, e ti piaci

perché era il suo di lei prima di andarsene.

Per mesi ti ha guardato obliquamente

dal fondo dell’armadio, su una gruccia di metallo,

come un topo che scava prigioniero.

Avvolto nel suo paltò sei un suo pensiero.

 

 

  1. Alessandro Grippa (inedito)

 

Le cose che ci amano

ci lasciano ogni giorno

senza addio; minuscoli

abbandoni — dappertutto

aderenti alla materia.

Restiamo noi sospesi,

dentro il tempo: l’auto

che si ferma nella pioggia

forte, un volo, la sua pausa

sulle gronde, le parole

dette scritte riprovate ieri.

Ma le cose che ci amano

ci lasciano

così, senza risparmio, per inerzia,

come nulla fosse; mentre noi

le pronunciamo con il fiato

corto della meta.

 

 

  1. Franca Alaimo, Le piume in un barattolo (inedito)

 

La memoria è il fiume Capo d’Oro

dove tra ciuffi d’erba e bagliori

trascorre il mio volto bambino,

e una trombetta di latta

che ogni mattina chiama a raccolta

le creature alate del bosco.

Com’è lontana l’acqua dell’infanzia,

com’è passata via la chiarezza

dell’anima fiorente nella spada

grande e blu del cielo estivo.

Eppure basta una semplice magia:

svitare il tappo di un barattolo

-nascosto nell’ultimo cassetto del comò-

dove s’ammucchiano più di cento piume

(le cinerine dei miti passerotti,

le arancioni dei dolci pettirossi,

le nere dei merli canterini,

le bianche delle averle vivaci,

le rosee, le brune, le cilestrine)

e soffiarvi su un sospiro appena;

ed ecco che risuonano

sul pentagramma del tempo

la vastità dei canti tra i rami

e la luce e gli squilli di una trombetta

seminati nell’aperto vento turchino.

 

 

(I versi in corsivo sono di Saint-John Perse)

Le censure e le tracce. Su “Critica dell’inespresso” di Marco Gatto

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di Nicola De Rosa

In un passo della Rhétorique générale, a partire da una problematizzazione della condanna mossa da Croce nei confronti della retorica, il Gruppo di Liegi discute la possibilità di concepire un suo impiego non faziosamente persuasivo, di convincimento dell’uditorio a un contenuto manifesto. È esistita ed esiste una retorica dalla funzione dissuasiva, censoria rispetto alla possibilità di attingere dal messaggio un contenuto latente[1].

Le implicazioni estetiche di questa ipotesi sono coraggiose quanto delicate: paventano la possibilità che, nell’opera d’arte a cui si riservi un certo giudizio di valore, il piano della forma non si allinei simbioticamente al contenuto da esprimere, bensì sia il luogo in cui quel contenuto, pur agitandosi per emergere, è soggetto a un qualche tipo di interdizione. La constatazione del sapore vagamente freudiano di quest’idea non basta a interpretare alcune esperienze critiche e teoriche che si incontrano nella concezione dell’opera come un contenitore profondo, da cui è possibile far riemergere le cicatrici di un inespresso. È a quest’interpretazione che punta l’ultimo libro di Marco Gatto, pubblicato per la collana «Elements» di Quodlibet.

Se, da una parte, gli autori passati in rassegna da Gatto condividono l’interesse per gli aspetti formali dell’opera d’arte, dall’altra, essi sono mossi da una forte istanza di storicizzazione delle forme, dal proposito di «storicizzare sempre»[2], come Fredric Jameson esordiva in The Political Unconscious, dalla coscienza della «radicale storicità della letteratura»[3], come invece ribadiva Juan Carlos Rodríguez. È quel movente storicistico che – soprattutto in Jameson adombrato dalla glossa althusseriana al Capitale marxiano, per cui la Storia è «causa assente»[4] attingibile essa stessa solo in forma testualizzata – non si traduce in una teoria del rispecchiamento, bensì nel tentativo di descrivere il rapporto, sì, mimetico, ma di compensazione, della letteratura rispetto alla realtà. Per quanto i dispositivi egemonici, di cui anche il testo letterario è in una certa misura agente, tendano a funzionare da dispositivi di normalizzazione e pacificazione di istanze conflittuali, il testo conserverebbe in un immanente campo di forze le tracce della contraddizione ideologica nella sua conflittualità.

Ma prima del Jameson a cui Gatto ha già dedicato lavori importanti, a fornire gli spunti per la prima sezione, oltre che per il titolo del libro, è il Gramsci lettore dell’episodio dantesco di Farinata e Cavalcante. Nei Quaderni, la categoria di «critica dell’inespresso» è formulata a partire da una riflessione, da leggere, anche qui, in dialettica con l’estetica crociana, sul dramma dell’epicureo: al momento dell’incontro con Dante e, quindi, durante la sua enunciazione discorsiva, poetica, Cavalcante, avveduto di passato e futuro, non può osservare il presente e non può sapere se il figlio Guido è in vita. Ma la sua tragedia è attingibile solo da quella che Croce, contrapponendola alla «poesia», definirebbe «struttura»[5], cioè dal momento didascalico di Farinata. Gatto evidenzia la radice anticrociana della riflessione di Gramsci, che tende a ricomporre il nesso tra struttura e poesia. Così, emerge l’idea che muove, in buona sostanza, l’argomentazione del libro nella sua interezza: «È, insomma, quella gramsciana, una visione del testo che, inevitabilmente, coincide con una critica dell’autonomia estetica o poetica […]: il momento strutturale e organizzativo, che rimanda alla sfera dell’operosità architettonica, svela ragioni che la rappresentazione poetica non riesce a esprimere. È in gioco, insomma, una possibile teoria del testo come luogo o deposito di ragioni profonde che riemergono dalla superficie testuale alla stregua di tracce»[6].

Tra i tanti spunti offerti dal libro – che attraversa, ad esempio, anche il problema di un’ermeneutica del profondo in Mimesis di Auerbach puntando a una ricognizione del concetto di realismo figurale –, sono molto appassionanti, e dense sul piano teoretico, le sezioni di sutura in cui si affrontano Walter Benjamin e Theodor Adorno, passando per Siegfried Kracauer; centrali sia sul piano materiale, in quanto poste al centro del libro, che simbolico. Stimolante è il modo in cui l’autore affronta il problema del «contenuto di verità» nel saggio di Benjamin sulle Affinità elettive, e quello dell’estetizzazione come schiacciamento allucinatorio delle mediazioni, dei conflittuali rapporti di “struttura”, intesa, stavolta, in senso marxiano. Gatto fa transitare la sua riflessione da Passagen-Werk ad alcuni spunti forniti dalla Teoria estetica, in particolare quelli sul «carattere d’enigma» dell’opera d’arte, che Adorno descrive in forma quasi aporetica: «l’arte diventa enigma perché si presenta come se avesse risolto ciò che nell’esistenza è enigma, mentre nel mero essente l’enigma è stato dimenticato»[7]. Oppure, per dirla con un altro passo icastico della Teoria estetica: «la forma estetica è […] la sintesi non violenta del disparato che comunque conserva quest’ultimo come ciò che è, nella sua divergenza e nelle sue contraddizioni, ed è pertanto effettivamente un dispiegarsi della verità»[8]. A nostro avviso, è in una interpretazione delle sezioni adorniane sul carattere d’enigma e sul contenuto di verità, e in un’agnizione delle fonti della sua riflessione, che si custodisce la chiave di volta del problema teoretico affrontato da Gatto, cioè quello relativo a come una certa generazione abbia pensato i rapporti fra opera d’arte, carattere utopico e falsa coscienza, intesa sia in senso marxiano che freudiano, nel senso, dunque, più generale della «scuola del sospetto», da cui avrebbero attinto anche altri autori affrontati nel libro, come Francesco Orlando, Fredric Jameson e Juan Carlos Rodríguez.

In Storia e coscienza di classe, in particolare nel saggio sulla Verdinglichung, la reificazione, Lukács scriveva: «una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’“oggettività spettrale” che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparente, conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini»[9]. Se ad estetizzarsi, e quindi ad occultare le mediazioni, è prima di tutto la merce, c’è un nesso estremamente ambiguo tra carattere di feticcio e spazio estetico, perché il funzionamento dell’opera d’arte gli assomiglia per qualche verso: oltre a persuadere, sospendere l’incredulità, sposta, strania, defamiliarizza le mediazioni, i rapporti non solo strutturali ma anche ideologici che hanno contribuito a produrla. La grande scommessa del critico è che, però, quello straniamento sia arricchente, che aggiunga qualcosa, e che le tracce di quelle mediazioni siano conservate da qualche parte, come un fantasma, come un eidolon.

Soprattutto per quanto riguarda tre autori come Orlando, Jameson e Rodríguez, le ipotesi di interazione fra queste esperienze teorico-critiche – ricostruite da Gatto seppur in forma sintetica –, meriterebbero una valutazione approfondita. Gatto, da questo punto di vista, fonda solide basi per interpretare la loro posizione storica sondandone le possibili interazioni con un milieu culturale più ampio. Se Orlando è più orientato a pensare il testo come dispositivo di affrancamento dall’egemonia, Jameson come dispositivo di risoluzione immaginaria del conflitto reale, Rodríguez oscillante fra le due prospettive, tutti e tre hanno condiviso la comune matrice teoretica nell’eredità della scuola del sospetto.

Il libro di Gatto ci rammenta anche la necessità di storicizzare le produzioni discorsive di tipo teorico, con una postura atta a descriverne le costruzioni concettuali sul piano delle loro implicazioni ideologiche, a partire dall’idea che un testo argomentativo parli sempre a degli interlocutori dialettici impliciti. È forse questo un punto su cui dovrebbe indugiare in modo circospetto qualsiasi studio che affronti le modalità attraverso cui la storia delle idee ha pensato la domanda sartriana: qu’est-ce que la littérature? Tale studio dovrebbe forse evitare di incorrere nel rischio dell’argomentazione ‘a tesi’, di presentare la teoria come ciò in cui si crede e ciò che in modo consequenziale va applicato in sede di analisi testuale; e aggredire, invece, le produzioni teoriche con un approccio ermeneutico che le riconduca alla loro dimensione storica, facendo emergere le istanze culturali che hanno contribuito a dar loro forma. Questo è, d’altronde, l’insegnamento dello stesso Jameson più gadameriano, del Jameson che utilizza, ad esempio, la tradizione strutturalista passandola a contropelo dialetticamente.

Uno dei motivi d’importanza della pubblicazione di Critica dell’inespresso è certamente quello di colmare uno spazio ancora aperto nel dibattito sulla fase di implosione dell’utopia – enunciata da Roland Barthes in Critique et vérité – della «scienza della letteratura» nelle sue evoluzioni post-strutturali e decostruttive, isolando le proposte teoriche di una serie di autori che hanno affrontato il problema con soluzioni originali. Il libro di Gatto mette in luce le implicazioni di un gesto ermeneutico teso a isolare l’emersione di una contraddizione storico-ideologica, del depositum historiæ fortiniano, a cui Gatto dedica l’ultima sezione del libro, che non è custodita nel piano meramente tematico, non risiede in cosa la letteratura tematizza oppure no, bensì in come il contenuto è espresso o meno, nella morphé, nelle forme attraverso cui il contenuto si organizza. La produzione di molti autori osservati da Gatto è animata da un’urgenza cruciale per chi agiva in una fase, anch’essa, di grande conflittualità ideologica: approfondire, a partire dalla polarizzazione marxiana fra struttura e sovrastruttura, i meccanismi di reciproca interazione fra il livello dei rapporti di forza reali e quello della loro sublimazione nelle pratiche discorsive della cultura. Urgenza che trovava ulteriori tentativi di rielaborazione nell’interpretazione che un autore come Althusser – ma in una certa misura anche il Bourdieu che approfondiva le «forme di capitale» – forniva del campo concettuale di ideologia. La posizione storica di alcuni degli autori liminari chiamati in causa da Gatto, quelli riuniti attorno alla temperie culturale tra gli anni ’70 e ’80, è riconducibile sicuramente a un’urgenza di originale risposta alle apprensioni per l’arretramento o, come sarebbe stata definita, la «crisi», l’«eutanasia» dei grandi modelli novecenteschi di interpretazione della letteratura e del mondo[10]. In alcuni di loro è palpabile la dialettica con la voragine gnoseologica aperta dalle progressive evoluzioni decostruttive del pensiero letterario negli ultimi decenni del Novecento, che accogliesse però, in una certa misura, la lezione sul conflitto delle interpretazioni, declinandola come un portare fuori il conflitto. L’urgenza e la pertinenza storica di queste esperienze teoriche è ricostruita da Gatto con l’accortezza che fa di Critica dell’inespresso uno strumento atteso e innovativo.

___

[1] Cfr. Gruppo μ, Retorica generale. Le figure della comunicazione [1970], Milano, Bompiani, 1976, p. 193: «Croce, Breton e i loro seguaci sarebbero senz’altro insorti meno violentemente contro l’imperativo retorico se la retorica avesse rinunciato ad essere imperativa. Quando essa si confondeva con l’arte di parlare e di scrivere, la sua funzione era di prescrivere e proscrivere. Ma è possibile anche una retorica che non dia alcun consiglio al locutore e allo scrittore e il cui fine sia di trovare in un discorso che gli psicoanalisti chiamerebbero “manifesto” dei significati “latenti” suggeriti e ripudiati dalla metabola».

[2] F. Jameson, The Political Unconscious. Narrative as a Social Symbolic Act (1981), London, Routledge, 2002, p. 9, trad. mia.

[3] J.C. Rodríguez, De qué hablamos cuando hablamos de marxismo. Teoría, literatura y realidad histórica, Madrid, Akal, 2013, p. 72, trad. mia.

[4] Cfr. L. Althusser [et al.], Leggere il Capitale [1965], Milano-Udine, Mimesis, 2006, p. 270; F. Jameson, The Political Unconscious, cit., p. 67, trad. mia.

[5] B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, p. 68.

[6] M. Gatto, Critica dell’inespresso. Letteratura e insconscio sociale, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 26.

[7] Th.W. Adorno, Teoria estetica [1970], Torino, Einaudi, 2009, p. 170.

[8] Ivi, pp. 192-93.

[9] G. Lukács, Storia e coscienza di classe [1923], Milano, SugarCo, 1991, p. 108.

[10] Cfr. C. Segre, Notizie dalla crisi. Dova va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993 e M. Lavagetto, Eutanasia della critica, Torino, Einaudi, 2005.

Il secondo romanzo sul calcio che leggo

1

di Marco Drago

Sono un lettore ingenuo, cerco strenuamente di conservarmi tale, leggo per divertirmi, per passare il tempo, per ammirare la capacità degli autori di raccontare storie nei modi più diversi. Oltretutto ho così tante lacune (i russi, i sudamericani, gli antichi) che spesso mi entusiasmo per libri che poi scopro essere opere epigonali di qualche russo, sudamericano o antico. Faccio questa premessa per parlare del romanzo “Sporca faccenda, mezzala Morettini”  di Marco Ferrari e Marino Magliani (Blu Atlantide, 2024) proprio perché mi ha entusiasmato. Il mio è un entusiasmo genuino, privo di consapevolezza, l’entusiasmo di un lettore qualsiasi, non quella di un lettore forte. Credo sia il secondo romanzo sul calcio che leggo (il primo furono i racconti di 10 di Dario Voltolini) ed è quasi sicuramente il primo romanzo che leggo con un’ambientazione argentina (ma forse qualche remoto libro di Magliani con l’Argentina l’ho letto una quindicina d’anni fa, chi si ricorda più?). E dunque ho trovato sia l’aspetto calcistico sia quello argentino, per me assolute novità, entusiasmanti. Ho riso molto, mi sono commosso, ho strabuzzato gli occhi e trattenuto il respiro, cosa chiedere di più?
In certi momenti mi pareva di leggere un vecchio giallo di Sanantonio, quel tipo di comicità grottesca anni ‘60 che non accenna a invecchiare, resta sempre fresca come quando è stata creata, una specie di miracoloso procedimento di messa sottovuoto che mantiene intatti sapori ed effluvi originari.
In certi altri momenti ecco Magliani con il suo incedere conradiano, quel suo girare a vuoto della coscienza, quel suo continuo tentativo di afferrare l’inafferrabile. La combinazione di due autori così diversi tra loro risulta vincente: difficile capire dove finisce l’uno e comincia l’altro, ma l’istinto mi dice che la sceneggiatura sia di Ferrari e le matite siano invece di Magliani e, proprio come in un fumetto, anche in questo romanzo è impossibile separare l’una dalle altre. Che cosa leggiamo quando leggiamo un fumetto? Le parole nei balloon o le tavole disegnate? Tutto e niente, niente e tutto, e così succede anche con Sporca faccenda, mezzala Morettini, la vicenda ci tiene ancorati tanto quanto la lingua che la racconta, e la vicenda ha a che fare con i primi vagiti della dittatura fascista in Argentina, con il mestiere di procuratore di calciatori, con la mezza sparizione di una mezzala, con uno scandalo finanziario che colpisce una squadra di calcio di Genova, con le A di Amore e Anarchia.
C’è tanta sapienza, dietro questo romanzo. E tanta passione coltivata bene.

Autenticità e poesia contemporanea # 3

2

Di Marilena Renda

In un mondo sempre più complesso e stratificato ha senso tornare a discutere, in modo aperto, critico e libero, del rapporto fra autenticità e scrittura poetica. Per questo, partendo da una ricerca di Maria Borio e da un dialogo fra quest’ultima e Laura Di Corcia, è nata l’idea di allargare la discussione ad altre poete e poeti, in vista di una tavola rotonda che si terrà a Pordenonelegge il prossimo settembre. Il dibattito, sotto forma di intervista, sarà ospitato dai litblog Le parole e le cose, Nazione indiana e dal sito di Pordenonelegge stesso. A poete e poeti è stato proposto un questionario, che trovate in calce, da cui ciascuno ha potuto scegliere liberamente tre/quattro domande. Dopo il primo intervento di Roberto Cescon, uscito su Le parole e le cose e quello di Tommaso Di Dio, uscito su Pordenonelegge poesia, pubblichiamo oggi le risposte di Marilena Renda.

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  1. Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?

Qualche anno fa uscì un libro che postulava l’assenza di trauma nella letteratura di quegli anni e al tempo stesso il tentativo da parte degli scrittori di rivendicarlo come fondante della loro scrittura. Credo che quelli siano stati gli ultimi anni di quel lungo periodo di pace e benessere iniziato con il secondo dopoguerra. Siamo nel bel mezzo di due conflitti sanguinosi e dolorosissimi a cui non possiamo rimanere indifferenti; siamo governati da una forza politica post-fascista che minaccia alcuni diritti fondamentali conquistati dalle donne; siamo nel mezzo di una catastrofe climatica che la nostra classe politica ma anche l’opinione pubblica cercano ostinatamente di ignorare. Siamo, cioè, nel bel mezzo della storia, altro che scomparsa del trauma. La poesia, dal mio punto di vista, deve trovare nuovi strumenti espressivi per inglobare tutto questo, se non vuole continuare ad essere marginale.

  1. Partendo dal ragionamento precedente, se il desiderio viene dall’altro ed è quindi la traccia di una relazione o di un linguaggio che mi pre-esiste e dentro il quale oriento e contratto la mia identità, in cosa consisterebbe l’autenticità? E come essa potrebbe essere calata in una produzione letteraria? Per Andrea Zanzotto, ad esempio, a fronte di una natura che diventava inautentica con l’industrializzazione, la lingua e lo stile potevano mantenersi depositari dell’autentico. Lo stile e la lingua autentici dovrebbero cercare in ogni caso un nostro – per riprendere Natalia Ginzburg – “lessico familiare”?

In poesia, è impossibile trascurare un elemento a favore di un altro, nel senso che tutti gli elementi che la compongono sono ugualmente essenziali. Rendersi conto dell’importanza della forma, per esempio, o dell’importanza del suono o del ritmo, o del ruolo che può assumere l’aspetto grafico o il lavoro sulla voce, sono processi che indicano un potenziamento dell’attenzione, e quindi, dell’autenticità del lavoro poetico. Per quanto mi riguarda, ci sono degli indicatori di autenticità, a prescindere dall’argomento o dalla poetica di chi scrive. Credo che l’indicatore più importante per me sia quando mi rendo conto che chi ha scritto quel testo non si è tirato indietro rispetto alla sfida del linguaggio. Non si è tirato indietro può voler dire tante cose: non si è spaventato rispetto a quello che aveva da dire, o rispetto a come sarebbe stato recepito, o rispetto a dove la sua voce poetica avrebbe potuto portarlo/a, e così via. Per esempio, mi fido per istinto di un/a poeta che si trasforma, anche molto, da un libro a un altro, che sperimenta, che non ha paura di trasformarsi insomma: la ricerca dell’autenticità, per me, passa soprattutto da lì.

  1. Il discorso sulla verità e sull’autenticità sembra essere tornato in auge, specialmente nel romanzo e in quel segmento della narrativa che corrisponde all’autofiction. Se torniamo per un attimo alla stagione del neorealismo, troviamo scrittrici come Elsa Morante per la quale il romanzo realista parlava di una “verità poetica”, non meramente oggettiva, ma intrinseca alla trasfigurazione letteraria. Nell’autofiction odierna, come in alcuni dei romanzi autobiografici di Annie Ernaux, sembra non esserci né l’intento di problematizzare davvero il parlare di sé in modo autentico, né di cercare una “verità poetica”. E come si posiziona la poesia in questo contesto? Mancano delle riflessioni? Ve ne sono troppe? Occorrerebbe postularne altre?

Lo statuto della verità è un’altra questione molto interessante. Personalmente non amo l’espressione “verità poetica”, ma solo perché mi avvicino al linguaggio poetico sempre con una grande cautela, e la verità poetica mi sembra un oggetto talmente caustico che potrebbe farmi del male. Detto questo, la verità dell’esperienza la si può trovare praticamente dappertutto, dalle notizie di cronaca ai racconti dei vicini d’autobus, se si è disponibili e nello stato d’animo giusto per recepire i frammenti di verità in cui ci si può imbattere, e che di solito corrispondono alla verità più grande che si sta cercando in quel momento. Personalmente trovo molta più verità poetica nei saggi e nei romanzi che nella poesia, e più ancora nella forma del saggio narrativo; ci trovo spesso una verità al grado zero, non inquinata dagli sfarfallii e dalle sovrastrutture estetiche che spesso usiamo per raccontare la verità con il risultato a volte di evitarla, di nasconderla. Questo vale anche per la poesia: mi attraggono molto, per esempio, le ultime scritture, gli ultimi libri, o quelli che potrebbero per la loro natura scabra essere degli ultimi libri anche se di fatto non lo sono. Sono libri asciutti, che badano all’essenziale, e che rappresentano per me una direzione da seguire. Esempi: Chiodi (che non è un ultimo libro ma potrebbe esserlo) di Agota Kristof, la Ingeborg Bachmann di Non conosco mondo migliore, o ancora Pallottoliere celeste di Spaziani, o Epitaffio di Giorgio Bassani: tutti libri in cui tutto quello che doveva essere stato sottratto è stato sottratto. Libri in cui, come scrive Pusterla nella prefazione a Chiodi, ci si avvicina “alla cosa per la quale non c’è parola”, qualunque essa sia. O, aggiungerei, ci si avvicina alla cosa alla quale non siamo riusciti ad avvicinarci fino a quel momento, qualunque essa sia, e la cui ricerca richiede uno sforzo di precisione, di concentrazione, di attenzione e autenticità che va a crescere con il tempo, non certo a diminuire.

  1. Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?

Il problema dell’autenticità – perché è chiaro che se ne stiamo parlando è perché fa problema – è che negli ultimi decenni è stata identificata con il genere lirico, e quindi in apparenza si attaglia perfettamente all’immagine del poeta che “agisce secondo sé”, immobile sul divano, cercando l’adesione perfetta della parola alle istanze della sua interiorità. In questa descrizione, l’unica parte in cui mi identifico è quella del divano. Per il resto, propongo di separare l’autenticità dalla lirica, perché è un accostamento che potrebbe esserle fatale. Sa di abusato, quasi come i tramonti e i gabbiani. Una volta che l’abbiamo estrapolato da quell’ambito, personalmente io vedo il concetto di autenticità circonfuso da un’aura di libertà, come quando scopriamo che non è poi così necessario compiacere gli altri, oppure che la nostra scrittura può andare letteralmente in innumerevoli direzioni. Posta la questione in questi termini, io non vedo l’”agire secondo il proprio sé” come separato dall’orizzonte degli altri, anzi. È solo agendo secondo il proprio vero sé che è possibile vivere l’unica vita possibile, oltre che scrivere l’unica poesia possibile. La possibilità di incontrare gli altri può darsi o non darsi, ma in ogni caso se vivessimo o scrivessimo secondo dei dettati esterni, incontreremmo gli altri secondo modalità fondamentalmente inautentiche. Quindi, per me, nell’idea di autentico c’è comunque un guadagno, anche se l’autenticità dovesse avere come prezzo la non-popolarità o l’isolamento. In realtà, come dimostra la narrativa degli ultimi anni, ciò che è vero o suona-come-vero incontra sempre dei lettori: sono sempre più numerosi i lettori, come me, sostanzialmente indifferenti alla fiction e avidi invece di quella forma a metà tra saggio e narrativa che promette qualcosa-di-vero. Personalmente, questo è ciò che da qualche anno ho iniziato a chiedere alla poesia, anche alla mia: uno sforzo per portare il linguaggio in un territorio dove l’esperienza, e con essa, il suo rimosso possano essere detti con più esattezza – un’esattezza più vicina alla forma narrativo/saggistica piuttosto che a ciò che tradizionalmente consideriamo come “poetico”. La speranza è che ciò che “io” considero autentico sia riconosciuto come tale anche da una comunità di lettori, ma questo accade sempre con un’esperienza sempre minoritaria come è la poesia.

Vorrei chiudere citando quello che dice Ben Lerner a proposito della possibilità di una poesia realmente autentica, che lui identifica con una poesia che è sostanzialmente all’altezza di se stessa e delle sue ambizioni. Una poesia del genere è, dice Lerner in Odiare la poesia, impossibile, ma comunque non importa, perché anche se non riusciamo a creare una poesia autentica, possiamo comunque creare “uno spazio per l’autenticità”.

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Questionario completo

 

  1. Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?

 

  1. L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?

 

  1. L’autenticità sembra distinguersi dalla verità: la prima partirebbe da una spinta interiore, dalla necessità individuale di poter esistere e agire secondo il proprio sé, mentre la seconda sarebbe legata a un orizzonte esterno, dal momento che il discorso della verità deve comunque poter essere condiviso. Seguendo, però, le riflessioni che abbiamo ereditato da Jacques Lacan, il desiderio presenterebbe un duplice volto, ovvero giungerebbe sempre dall’altro (il Grande altro), ma manterrebbe anche delle sue caratteristiche intrinseche (il desiderio è anche mio, e di nessun altro). Che rapporto c’è fra desiderio e autenticità?

 

  1. Partendo dal ragionamento precedente, se il desiderio viene dall’altro ed è quindi la traccia di una relazione o di un linguaggio che mi pre-esiste e dentro il quale oriento e contratto la mia identità, in cosa consisterebbe l’autenticità? E come essa potrebbe essere calata in una produzione letteraria? Per Andrea Zanzotto, ad esempio, a fronte di una natura che diventava inautentica con l’industrializzazione, la lingua e lo stile potevano mantenersi depositari dell’autentico. Lo stile e la lingua autentici dovrebbero cercare in ogni caso un nostro – per riprendere Natalia Ginzburg – “lessico familiare”?

 

  1. Il discorso sulla verità e sull’autenticità sembra essere tornato in auge, specialmente nel romanzo e in quel segmento della narrativa che corrisponde all’autofiction. Se torniamo per un attimo alla stagione del neorealismo, troviamo scrittrici come Elsa Morante per la quale il romanzo realista parlava di una “verità poetica”, non meramente oggettiva, ma intrinseca alla trasfigurazione letteraria. Nell’autofiction odierna, come in alcuni dei romanzi autobiografici di Annie Ernaux, sembra non esserci né l’intento di problematizzare davvero il parlare di sé in modo autentico, né di cercare una “verità poetica”. E come si posiziona la poesia in questo contesto? Mancano delle riflessioni? Ve ne sono troppe? Occorrerebbe postularne altre?

 

  1. scrittori e le scrittrici che si consideravano realisti sembravano dare credito al valore dell’autenticità (anche dal punto di vista ideologico) e basavano su di essa l’arte del narrare, la fiction. Successivamente, soprattutto nella cultura postmoderna, chi faceva fiction ha respinto l’idea che si potesse raccontare di qualcosa di autentico. Ma, come scriveva Giovanni Giudici, “anche dalla finzione […] il vero può nascere”. Oggi la narrativa – con le scritture-documentario, la non-fiction, e la stessa autofiction – sembra aver riscoperto l’autenticità voltando le spalle alla fiction, alla narrazione come arte? E in poesia esiste una dimensione – diversa sia dalla non-fiction sia dalla autofiction – in cui, anche attraverso l’immaginazione, si potrebbe esprimere una forma di autenticità?

 

  1. Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?

 

  1. Utilizzando il filtro problematico dell’autenticità, credi che le dicotomie che riguardano la postura del soggetto in poesia possano essere ripensate o ristrutturate?

 

  1. Il parlar franco è stato per secoli guardato con sospetto nella dimensione letteraria. Ma dai tempi di Niccolò Machiavelli e Baldassar Castiglione a quelli di Pier Paolo Pasolini, la rivoluzione percettiva e antropologica è stata tale che si è arrivati a dare all’autenticità un posto ben diverso. Per Pasolini il parlar franco era la spia dell’integrità politica – anche in letteratura. E il parlar franco si può esprimente tanto in modo tragico quanto ironico. Una riflessione etica connessa all’autenticità dà un valore aggiunto a un testo letterario?

 

  1. In letteratura l’onestà – come il tema della “poesia onesta” caro a Umberto Saba – può andare di pari passo con il valore estetico?

 

  1. Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?

 

 

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Immagine: Max Pechstein, Ragazza sdraiata, 1910

 

Ali per essere libere: “Una terra per restare” di Jadd Hilal

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di Daniele Ruini

 

Valorizzare la cultura e la letteratura mediterranee è la missione meritoria della casa editrice pisana Astarte, e la pubblicazione del romanzo di Jadd Hilal Una terra per restare (traduzione di Giulia Beatrice Filpi) rappresenta, a tale riguardo, un contributo particolarmente prezioso. Uscito originariamente in Francia nel 2018 col titolo Des ailes au loin, si tratta di un testo che attraversa 80 anni di storia mediorientale raccontando, con una scrittura intima e asciutta, vicende umane alle prese con questioni a dir poco complesse, come guerre, migrazioni forzate e le prevaricazioni tipiche di una società maschilista.

Nato in Francia nel 1987 ma di origini libano-palestinesi, Jadd Hilal costruisce il suo romanzo sulla successione e l’incrocio delle voci di quattro donne appartenenti a quattro generazioni della stessa famiglia: Naima, Ema, Dara e Lila. Si tratta di donne tenaci che condividono lo stesso destino di esilio obbligato dalla propria terra, una separazione dolorosa compiuta soprattutto per difendere i figli dalla violenza della guerra.

Il fatto di vivere in epoche diverse incide naturalmente sulla sorte delle protagoniste: se Naima, nata in Palestina nel 1930, è obbligata dai genitori a un matrimonio forzato all’età di 12 anni, la sua primogenita Ema avrà la forza di ribellarsi al padre e di determinare il suo futuro: studierà, diventerà un’attivista del partito comunista del Libano (dove la madre si era trasferita per fuggire agli attentati sionisti) e sposerà in matrimonio civile un uomo che condivide le sue battaglie. Tuttavia anche lei si scontrerà con la necessità della fuga dal proprio paese (in seguito all’invasione israeliana del 1982) e con le difficoltà di una condizione femminile che non fa sconti, tra una maternità non desiderata e una posizione di sottomissione nei confronti del marito.

E il medesimo schema si ripete anche nella figlia di Ema, Dara, che vive con imbarazzo la sua posizione di cittadina libanese privilegiata, visto che i suoi genitori, entrambi laureati, lavorano per le Nazioni Unite e possono quindi lasciare il paese con minori difficoltà rispetto alla maggior parte della popolazione. Sarà forse per questo che a 18 anni deciderà di tornare in Libano, dove sposerà un uomo di condizione sociale inferiore alla sua col quale andrà a vivere in un villaggio di montagna. Tuttavia lo scoppio del secondo conflitto israelo-palestinese nel 2006 costringerà anche lei, suo malgrado, a una nuova fuga verso la Francia, dove vive la madre: una scelta che, anche in questo caso, porterà a uno scontro irreparabile con il marito.

Quello della prevaricazione maschile è uno dei fili rossi che legano le vite di queste donne: di fronte alla loro decisione di scappare dalla guerra per proteggere i figli, gli uomini reagiscono con rabbia, dando priorità alla difesa della propria terra. Si tratta di un richiamo atavico con il quale Jadd Hilal sembra volerci dire che, in una società violenta, nemmeno i maschi sono davvero liberi di scegliere, obbligati anch’essi a incarnare ruoli predefiniti. In questo senso la storia raccontata dall’autore francese rievoca schemi narrativi ancestrali: per esempio quando Naima rivela di aver dovuto vestire uno dei suoi nipoti da femmina per proteggerlo dai controlli dei miliziani durante l’invasione israeliana, viene in mente quanto accaduto al giovane Achille: secondo una leggenda post-omerica (citata nell’Achilleide di Stazio e nelle Metamorfosi di Ovidio) la madre Teti, ascoltata la profezia che annunciava la futura morte del figlio nella guerra di Troia, cercò di risparmiarlo travestendolo da donna e nascondendolo alla corte di Licomede, sull’isola di Sciro (dove sarà furbescamente scovato da Ulisse). E lo stesso non si ripete anche oggi da parte di quelle madri ucraine che, nei territori occupati, cercano disperatamente di nascondere i propri figli per tenerli al riparo dalle scuole di propaganda e “rieducazione” russa?

Aperto e chiuso significativamente dal sogno di librarsi in volo (condiviso dalla Naima bambina e dalla giovane Lila), Una terra per restare insegue continuamente gli spostamenti delle protagoniste, spaziando dalla Haifa degli anni ’30 (durante il Mandato britannico sulla Palestina) a varie località del Libano, fino a Baghdad, Abu Dhabi e all’Europa delle organizzazioni internazionali dell’area ginevrina. Tra partenze e ritorni, Naima, Ema, Dara e Lila non smettono di ripensare ai luoghi che hanno dovuto abbandonare: la loro ricerca di libertà si porta dietro sempre un pesante sentimento di nostalgia, al punto che il raggiungimento di una vita più comoda e sicura fa crescere in loro il rimpianto dei luoghi d’origine, tanto modesti e disordinati quanto generosi e «dove non si aveva paura di perdere né di donare».

Se, come dice Ema, «odiare significa impedirsi di essere l’altro», il romanzo di Jadd Hilal, mettendo al centro i sentimenti di personaggi che sono stati costretti a partire, ci sollecita invece a metterci nei panni degli altri e ad aprirci alle ragioni dei popoli oppressi. Un invito non da poco, davvero.

 

Elisa fa saltare i tappi

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di Laura Scaramozzino

Elisa fa saltare i tappi o ci fa le spille. Prima si china e fruga tra gli sterpi. L’odore di merda pizzica il naso. Le cicale friniscono e graffiano i timpani. Il cielo è uno schiaffo azzurro sulla fiumana. C’è puzza di sudore, di gomma bruciata e di albicocche pestate.

«Eccolo». Elisa si solleva e ci mostra un rametto secco. Lo tiene fra l’indice e il pollice da cui sfarina una polvere scura.

Ci curviamo fra gli steli e le lattine schiacciate. Una vedova nera si apre un varco sulla terra rossa, libera dall’immondizia. Luccica. L’identica polpa di un’oliva succosa.

Trovo rametti scheggiati che si sbriciolano e macchiano i polpastrelli. Li getto fra i fazzoletti di carta appallottolati e le bottigliette vuote della Peroni. Mi piego sulle ginocchia. Le cosce tirano, il sudore cola sulla schiena e sotto il cappello di cotone azzurro. Elisa sbuffa. Antonio e Francesca ridono e bisbigliano uno nell’orecchio dell’altra.

«Siete i soliti deficienti. Come le facciamo le spille se non troviamo i rametti giusti?» Elisa ha le labbra gonfie. Il corpo è quello dei grandi. Senza le tette, ma con le gambe lunghe e i piedi larghi. L’odore cattivo trasuda dalle scarpe da tennis. È acido. Simile a quello delle mele gettate e rattrappite fra cui fingo di cercare.

Francesca e Antonio si guardano e piegano il capo come fanno i piccioni sugli slarghi delle piazze. «Siamo stufi dei tappi». Dice Francesca. «E questo posto è un inferno. Torniamo giù».

«Siete i soliti coglioni». Elisa infila il suo rametto sul retro del tappo. Lo incastra fra i piccoli denti intatti. Se qualcuno di noi trova tappi non integri ci fissa torva. Bollicine di saliva le arrossano il labbro.

Ha le mani grassocce, Elisa. Umide. Le osservo. I pori dilatati. Le unghie brune e mangiucchiate. Immagino il sapore di cheratina e terra. Salino, di patatina in busta.

«Guardate che bella, la mia spilla». Elisa solleva il tappo rosso in modo che il sole lo colpisca e lo faccia baluginare. Non se lo appunta sulla maglietta, lo mette in tasca. Stringe gli occhi e si tocca il mento. Si avvicina ad Antonio e alla sorella. Fa la stessa cosa che un minuto prima l’aveva fatta incazzare. Bisbiglia, sussurra. Le labbra scarlatte come il tappo sfavillante.

Antonio e Francesca annuiscono e mi vengono incontro. L’idea delle patatine mi ha riempito di saliva il palato. Penso al pranzo, all’olio che sembra arancione. Alle olive e alle mele che cadono dagli alberi piccoli. Alle albicocche che seccano al sole. Al cibo prima che marcisca e si consumi tra i rifiuti. Penso al pieno dei sapori e dell’età che intravedo nei busti slanciati dei più grandi. Otto anni contro dodici. Un tempo infinito, più lungo dell’estate.

«Sei tu che ci fai annoiare. Starti dietro è una palla». Elisa non mi guarda e allunga le dita madide. Mi sfiora la guancia con le labbra che sanno di saliva. «Dobbiamo provare giochi nuovi».

Francesca mi arriva alle spalle e mi abbraccia. Le mani mi premono la pancia.

«Sdraiati. Facciamo una cosa nuova. Ci devi stare. Conosci le regole».

Una volta ho fatto un sogno. Ero nel cortile della scuola. Piccola come una barbie. Ero sdraiata su un letto che sembrava un vassoio. La maestra e i compagni mi fissavano dall’alto. Sorridevano e mi domandavano: «Vuoi che ti mangiamo?»

Mi ritraevo e restavo ferma sopra il vassoio. Nuda come la plastica rosa. Non temevo i morsi né il sangue. Mi sono svegliata di colpo.

«Sdraiati». Ordina Antonio. Ha la voce stridula.

Obbedisco. La terra sa di fuoco estinto. Rimango immobile. Il cielo sopra la faccia mi dà il capogiro. Non è mai stato così grande. Solo in spiaggia, quando mi appiattisco sul telo mare, mi accorgo di quanto sia intollerabile e vuoto.

Chiudo gli occhi e resto così non so per quanto. La luce filtra dalle palpebre serrate. Pulsa e arrossa il buio con un fremito che frizza e si ramifica su per la nuca.

Riapro gli occhi a un tratto. Il cielo è una trottola di luce chiara. Non c’è più nessuno nelle vicinanze. Mi alzo a fatica, mi tengo la testa e mi guardo intorno. Tremo. Il cappello si sfila e scivola via. Lo lascio dove si trova. Ho ancora addosso il prendisole di lino celeste. La spilla a forma di ape mi penzola sul petto come una cicca bruciata. Mi guardo le mani sporche, le annuso. Mi ricordano le patate coperte di terra che mi mostrava il nonno. Scoppio a piangere e a urlare.

Una risata improvvisa spezza il silenzio. Francesca, Antonio ed Elisa sbucano da non so quale anfratto.

«Stavamo solo scherzando» sghignazzano.

Mi prendono per mano e scendiamo verso il paese.

Foto di Yinan Chen da Pixabay

Mots-clés__Scacchisti

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"Giocatori di scacchi", Pittore caravaggesco, Secondo decennio del XVII secolo, Olio su tela, cm 95 x 132, Legato Girolamo Molin, 1816. Immagine ripresa dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia

 

Scacchisti
di Nadia Liberati

Wicked Cinema, A Game of Chess -> play

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“Giocatori di scacchi”, Pittore caravaggesco, Secondo decennio del XVII secolo, Olio su tela, cm 95 x 132, Legato Girolamo Molin, 1816. Immagine ripresa dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia

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Da Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg, Adelphi, 2003

«Vedi,» disse «secondo lo psicanalista Reuben Fine, che fu per lungo tempo uno dei più grandi giocatori del mondo, esistono due specie antitetiche di scacchisti. Da una parte c’è l’eroe, che non ha altra religione, altra ragione d’essere, che non siano gli scacchi: ogni soddisfazione, ogni piacere gli vengono dalla scacchiera e dalle vittorie che ne riporta, e viceversa ogni forma di dolore e di paura della morte è racchiusa nelle sconfitte subite. L’eroe non può concepire l’esistenza senza quel campo di battaglia che sono gli scacchi, non può esistere senza lottare, solo questo lo mantiene in vita, e quando la sua supremazia comincia a declinare, egli perde ogni interesse per quel che lo circonda. Dal momento che per lui non esiste null’altro, egli scompare, dunque, se non come persona fisica (ché la morte può avvenire anche molti decenni dopo), almeno come individualità. Questa, naturalmente, è la via più rischiosa…»

Le parole di Tabori mi inquietavano, perché descrivevano proprio i miei sintomi; e lui me ne stava parlando con gravità, come se si fosse trattato di una malattia terribile. Che ne fossi già contagiato a quel punto? Ma mi restava ancora una speranza.

«E l’antieroe?»
«L’antieroe può diventare ugualmente un grandissimo giocatore, persino un campione del mondo, come è stato Lasker, solo che non è un predestinato: non vende l’anima al diavolo incondizionatamente, ma stila qualche clausola a proprio favore. Non vive solo per gli scacchi, capisci? È un uomo, e come tale si lascia una libertà di scelta.»

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Dieci anni di Elba Book Festival

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Intervista a Marco Belli

di Claudia Mirrione 

 

Dedicato all’editoria indipendente, Elba Book Festival si svolgerà tra il 16 e il 19 luglio, a Rio nell’Elba. Tra presentazioni, dibattiti e laboratori, #ebf si conferma un punto di incontro per autori, editori e lettori che condividono la passione per i libri e la letteratura. Abbiamo intervistato Marco Belli, direttore artistico del festival.

Elba Book è giunto alla sua decima edizione ed è ormai una realtà affermata nel panorama culturale italiano. È forse opportuno, in questa sede, ricordare ai lettori qual è la missione del festival e cosa lo distingue da altri contesti letterari.

«Elba Book Festival è un festival dedicato alla piccole e medie realtà editoriali indipendenti italiane che si svolge nella terza settimana di luglio a Rio nell’Elba; nasce con l’obiettivo di mettere assieme piccoli e medi editori al fine di condividere le varie esperienze sul mercato cartaceo e digitale e mettere a punto nuove strategie di joint venture, cooperazione, metodi di distribuzione, proposte politiche per la tutela degli editori indipendenti. La manifestazione ha sempre voluto mettere al centro della propria azione culturale la promozione della lettura attraverso l’implementazione di una rete tra “tutti i soggetti attivi nel mondo del libro” (biblioteche, librerie, editori, associazioni culturali, associazioni professionali, associazioni di volontariato, altri festival). Elba Book, arrivato quest’anno alla sua decima edizione, si è dato l’obiettivo di diventare un volano di crescita per un territorio, quello riese, che da oltre quarant’anni ha puntato anche su un turismo sostenibile ed ecologico».

Il tema prescelto dalla rete PYM che coinvolge Elba Book, insieme alla Fiera del Libro “Argonautilus” di Iglesias, a Giallo Garda e alle Officine Wort, è “attenzione”. Che cos’è la rete PYM e come mai avete scelto un tema-guida tanto inflazionato, anche se superficialmente?

«La Rete PYM è una rete di Fiere e Festival, nata nel 2019 per stimolare un’azione coordinata e collettiva orientata alla diffusione della lettura come strumento di benessere individuale e sociale. Molto spesso l’attenzione viene confusa con una sorta di sforzo muscolare. Quando si dice agli allievi “ora state attenti”, li si vede corrugare le sopracciglia, trattenere il respiro, contrarre i muscoli. Se qualche istante dopo si domanda loro a che cosa siano stati attenti, non sono in grado di rispondere. Non hanno fatto attenzione ad alcunché. Non hanno fatto attenzione. Hanno solo contratto i muscoli». A spiegarlo con sagacia è stata Simone Weil facendo riflettere sulla differenza tra essere attenti e prestare attenzione a ciò che si può ascoltare. In una società in cui la fretta scandisce i tempi e si viene facilmente sopraffatti da una moltitudine non referenziata di informazioni, immagini, suoni e stimoli vari, secondo noi la possibilità di riuscire ancora a prestare attenzione è una chance che può aiutare l’individuo a non vivere in un tempo sclerotizzato, troppo simile allo scroll di immagini, tutte diverse fra loro, in uno qualsiasi dei principali social network. Il concetto di attenzione è un processo cognitivo da allenare affinché si impari a selezionare i tanti stimoli che arrivano in ogni momento, ma soprattutto a ignorarne altri, in una società bombardata da informazioni anche false. Questo esercizio dovrebbe iniziare da piccoli. Dunque cos’è l’attenzione? Sempre secondo Weil è prendersi cura dell’altro, essere generosi, è dare fiducia all’interlocutore. Attenzione è fare spazio all’altro, è un’arma bianca di difesa, l’attenzione è cura contro la guerra, contro la prevaricazione. Le forme dell’attenzione, tutte necessarie, sono di vari tipi: ad esempio, quella rispetto al territorio e all’ambiente per capire quali siano le sue criticità e le sue esigenze».

Oltre che per la contestualizzazione delle tematiche in loco e per i gemellaggi virtuosi con altre manifestazioni emancipate, così i Fumi della Fornace di Valle Cascia (Macerata), Elba Book si è sempre distinto per gli ospiti di un certo calibro, a cominciare dalla battaglia ideale al fianco di Sigfrido Ranucci di Report dalla prima ora. Ci può dare qualche anticipazione sul programma?

«Avremo come ospiti Tomaso Montanari, Gianluca Costantini, Carlo Lucarelli, Daniela Lucangeli e tanti altri; parleremo di attenzione pubblica, attenzione da un punto di vista cognitivo, attenzione in letteratura e ovviamente di attenzione all’ambiente».

All’interno del festival si terrà la nona edizione del Premio “Loris Claris Appiani” per la traduzione, istituito dalla famiglia Appiani, in collaborazione con l’Università per Stranieri di Siena, in ricordo del giovane avvocato elbano ucciso nel 2015, al Palazzo di Giustizia di Milano. Qual è lo spirito che anima il riconoscimento? E quali le novità che prevede per quest’estate?

«La cerimonia di assegnazione apre tradizionalmente Elba Book Festival, quest’anno il 16 luglio, alle ore 18.30. La lingua prescelta per quest’anno è il tedesco. Abbiamo annunciato il vincitore al recente Salone del Libro di Torino: primo premio a I morti dell’isola di Djal (L’Orma, 2023) di Anna Seghers, tradotto da Daria Biagi;  Robbi, Tobbi e il Vonapé (Lupoguido, 2023) di Boy Lornsen, tradotto da Valentina Freschi ha ottenuto una menzione speciale. La giuria del premio è presieduta dal 2023 dalla docente Giulia Marcucci; dal 2024 è stata nominata come componente fissa la traduttrice Ilide Carmignani. Per la nona edizione la giuria è formata da Claudia Buffagni, Giancarlo Maggiulli, e dalle stesse Marcucci e Carmignani. L’iniziativa affonda le proprie radici nel territorio, ricorda un uomo di legge di origini elbane attraverso una pratica, quella della traduzione, che è essenzialmente pratica di pace, di dialogo e di inclusione, risposta alla violenza che sempre più spesso si concretizza in episodi tragici e assurdi. All’interno di un festival che, seppur sostenuto da un’eco mediatica nazionale si svolge nel piccolo, al margine, nella periferia, il premio alla traduzione letteraria rappresenta un’apertura verso il mondo, sia per la presenza di lingue “altre”, sia perché la letteratura racconta storie che hanno come centro l’essere umano, nella sua essenza e nella sua molteplicità. Un progetto nato da questo premio è la scuola di traduzione intitolata a “Lorenzo Claris Appiani”, una autumn school che si è svolta per la prima volta lo scorso anno, a Rio Marina, nell’ultima settimana di settembre, organizzata dall’Università per Stranieri di Siena con sedici giovani traduttori coordinati dalle traduttrici Ornella Tajani e Federica Di Lella, vincitrice dell’edizione 2022».

Il premio Demetra per la divulgazione della letteratura ambientale indipendente, nato in seno a Elba Book grazie al Consorzio Comieco, prevede in giuria la partecipazione degli studenti di alcune sezioni della scuola ITCG “Cerboni” di Portoferraio. Quanto è importante questo doppio movimento, portare, per così dire, le università “in piazza” (come avviene nel caso del premio Appiani), e avvicinare i più giovani alla lettura e a occasioni relazionali?

«Per noi è un gesto politico fondamentale per creare infrastrutture sociali utili a rendere la cittadinanza, ma soprattutto i giovani, più vigili e attenti rispetto al proprio presente».

Ci saluta con un augurio?

«Spero che sia una grande festa di pubblico e del pensiero per dare voce al nostro urlo collettivo contro la guerra».