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Le convergenze parallele

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di Giuseppe Zucco

Il Console le prese la mano. Si stavano abbracciando, o così quasi sembrava, appassionatamente: chi sa dove, dall’alto del cielo, un cigno, trafitto, piombò sulla terra. Malcolm Lowry, Sotto il vulcano.

 

Guardava la Jacuzzi schiumare bolle intorno alla gamba. E come dal nulla un uccello era improvvisamente caduto nella Jacuzzi. Con un piatto, prosaico, plop. Dal nulla. Dal grande cielo vuoto. Non c’era niente sopra la Jacuzzi se non il cielo. L’uccello sembrava avere appena avuto un infarto in volo o qualcosa del genere ed era morto e caduto dal cielo vuoto e ammarato morto stecchito nella Jacuzzi, proprio vicino alla gamba. Orin abbassò gli occhiali sul naso e lo guardò.David Foster Wallace, Infinite Jest.

 

[ Il graffito è di Losdelaefe, Mexico: http://www.ekosystem.org/tag/losdelaefe ]

 

Hrabal in maschera

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Il manuale di un apprendista sbruffone (1970)
di
Bohumil Hrabal
Traduzione di Annalisa Cosentino
Testo pubblicato in rete qui

Sono un estimatore del sole nei ristoranti all’aperto, un bevitore della luna che si specchia nel selciato bagnato, cammino eretto e diritto, mentre mia moglie, a casa, benché sobria, fa atti mancati e barcolla, una descrizione piena di humour dell’eraclitiano panta rei mi scorre alla gola e tutti i ristori del mondo sono come un gruppo di cervi agganciati per le corna dei discordi, la grande scritta Memento mori che alita dalle cose e dai destini umani è un motivo per bere sub specie aeternitatis, il cimitero di Olšny, la prigione di Pankrác e via Bartoloméjská altrettanto, sono perciò un dogmatico dell’allergia allo stato fluido, la teoria del giunco e della quercia per me è una forza motrice, sono un urlo umano atterrito, che si dissolve in un fiocco di neve, vado continuamente in fretta, per poter sognare due o tre ore al giorno inattivamente attivo, perché so bene che la vita umana è breve e passa mentre si mescolano le carte, che forse sarebbe meglio se fossi lavato via, buttato via dentro un fazzolettino, talvolta mi atteggio come se stessi fiutando un milione, anche se so bene che alla fine vincerò una merda che ride, che la festa è cominciata con una stilla di seme e finirà nel crepitio del fuoco, da inizi così belli così belle conclusioni, dietro un visetto grazioso si può amare l’allegra madrina Morte, annaffio le piante quando piove, nel luglio afoso mi tiro dietro lo slittino di dicembre, nei caldi giorni estivi, per rinfrescarmi, mi bevo i soldi destinati al carbone per scaldarti d’inverno, tremo continuamente di paura perché la gente non trema di paura per quanto la vita è breve, è così poco il tempo, finché ce n’è abbastanza, per le follie e l’ubriachezza, vivo i mattutini postumi di sbronze come campioni nient’affatto privi di valore, anzi, come valore assoluto di un trauma poetico con un accenno di insania, che va assaporata come una santa colica epatica, sono un albero frondoso pieno di occhi attenti e sorridenti, occhi sempre in stato di grazia e come assi appaiati di accidenti e incidenti, che gioia, su un vecchio fusto giovani ramoscelli, che godimento il riso delle foglie appena nate sui giovani rami, il mio clima è il tempo variabile di aprile, una tovaglia sbrodolata è la mia bandiera, nella cui ombra ondulata provo non solo allegra euforia, ma anche slittamento e resurrezione, quel dolore sordo alla nuca, quell’orribile tremito della mano, con i denti mi tiro via dalle zampe piccole schegge di vetro e i residui dell’esuberante notte precedente, ogni mattina mi stupisco di non essere ancora morto, sono sempre in una condizione di morosità, potrei crepare prima di aver fatto follie a mio piacimento, non mi considero un rosario, ma un anello della catena spezzata del riso, il più fragile grano determina la forza della mia immaginazione dissipatrice, è qualcosa in me di castrato, qualcosa che è e allo stesso tempo indietreggia verso il passato, per essere catapultato nel futuro compiendo un arco, nel futuro che poi mi distoglie completamente da labbra ed occhi bramosi, tanto che divento strabico, vedo doppio come attraverso la calcite islandese, oggi è ieri e l’altroieri è dopodomani, perciò sono un produttore di affrettati giudizi sintetici, assaggiatore e sommelier di uno spazio adulterato, considero la sclerosi e la demenza e il balbettio infantile come l’inizio di possibili scoperte, con la giocosità e il gioco trasformo la valle di lacrime in riso, scongiuro la realtà e lei non sempre mi dà un segno, sono un timido capriolo nella radura di un’aspettativa sfacciata, sono la solida campana dell’imbecillità incrinata dal fulmine della conoscenza, l’oggettività in me assurge alla soggettività estrema, che considero un’aggiunta alla natura e anche alle scienze sociali, sono un genio negativo, un bracconiere nelle riserve della lingua, sono il guardaboschi dell’ispirazione piena di humour, una guardia giurata sui campi delle barzellette anonime, l’assassino delle buone idee, il guardiano dei dubbi vivai della spontaneità, eterno amatore e dilettante dell’idiozia e della pornografia, eroe dell’insensatezza pensante, precipitoso crocifero di parallele anticipate, che vuol mangiare una fetta di pane spalmata sul burro dell’infinito, che vuol bere da un boccale la panna dell’eternità subito, ora, e ora e mai più, quindi mai, reputo la spiegazione sbagliata delle parole di Cristo il fascino dei testi apostolici, una trina di Bruxelles inzuppata nelle bave di un epilettico, frantumi di ghiaccio sulle sponde di un torrente invernale sono il mio ornamento, contro il quale ci si può ferire, io sono depressione e spleen e prostrazione, i preparativi al salto di testa contro il muro sono la prova, continuamente rimandata, che si può vivere diversamente da come ho vissuto finora, sono un nevrotico che gode di ottima salute, un insonne che si addormenta profondamente solo sui tram e si lascia così portare fino al capolinea, sono una grande presenza di piccole aspettative e di attesi grandi crack e fiaschi, su un orizzonte grottesco vedo altri orizzonti di minuscole provocazioni e di scandali in miniatura, perciò sono un clown, un animatore, un narratore e un istitutore, proprio come un grande detrattore e delatore di me stesso, redattore di lettere minatorie senza firma, considero le notizie prive di valore un possibile preambolo alla mia costituzione, che cambio di continuo, che non posso mai aver finito, nel progetto di un ombra tracciata lievemente scorgo una costruzione gigantesca, anche se è una piccola tomba di bambino sprofondata da tempo, sono un signore incinto di giovinezza che invecchia già, la mimica e la lingua sono la grammatica in movimento di un gergo interiore, una fetta di polpettone caldo e un bicchiere di birra fredda in mezz’ora riescono a transustanziarmi la materia in buon umore, che metamorfosi a buon mercato, e il primo miracolo è venuto al mondo, una mano posata su una spalla amica è per me la maniglia che apre la porta della beatitudine, dove ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre, il cuore della natura è lo stato accessibile del bodhi, in cui nel pensiero si può amare una vagina riluttante e ostinata, avvolta per di più nelle più belle curve di carne, verbum caro factum est, il cannibalismo raggiunto a secco, senza prete e senza diploma di maturità, tristi occhi di mucca che si sollevano curiosi sopra le sponde dei camion, sono i miei occhi, una giovenca minorenne attesa da macellai con coltelli luccicanti, sono io, una cinciallegra con le ali rovesciate svuotata in una sera gelata in un secchio d’acqua fredda, sono io, la fiamma a cui ritornano vespe fedeli, per morire bruciate insieme alle altre nel nido che arde, questo è l’abbozzo di un’idea abbastanza precisa di favi che bruciano pieni di un miele preparato solo e soltanto per me, sono dunque un membro corrispondente dell’Accademia della sbruffoneria, un allievo della cattedra di euforia, il mio dio è Dioniso, un leggiadro giovane ubriaco, l’allegria che si è fatta uomo, il mio padre della chiesa è l’ironico Socrate, che con pazienza attacca discorso con chiunque, per portarlo con la lingua e per la lingua fino alla soglia stessa del non sapere, il figlio primogenito è Jaroslav Hašek, inventore da storielle da osteria e geniale viveur e scrivano, che con l’afrore dell’uomo ha reso umani i cieli prosaici e ha lasciato la scrittura agli altri, con gli occhi sbarrati fisso le pupille blu di questa Santa Trinità, senza aver raggiunto il culmine del vuoto, l’ebbrezza senza alcol, l’istruzione senza il sapere, inter urinas etfaeces nascimur ed è come se le nostre madri ci avessero partorito a cavalcioni direttamente nei forni crematori, o in tombe ricoperte di erbetta, sono un toro dissanguato dal riso, al quale qualcuno con un cucchiaino mangia il cervello come un gelato.
Cameriere, ci sarebbe un’altra porzioncina di gulasch?

P.S. Quando analizzo questo testo, che dovrebbe fare da postfazione a questo libro, un testo che ho scritto in cinque ore in pause irregolari mentre spaccavo la legna e tagliavo l’erba, un testo che ha il battito rallentato della scure verticale e la melodia della linea orizzontale di una falce austriaca, devo distinguere tra le frasi defluite come somma di esperienza interiore e quella che ho ricavato dalla lettura. Devo elencare le frasi di autori che, dal momento in cui le lessi, mi affascinano al punto che mi dispiace non averle inventate io stesso. “Non mi considero un rosario, ma l’anello di una catena spezzata” è una variazione rovesciata del nietzschiano “non sono l’anello di una catena, ma la catena stessa”. “Ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre” è esattamente Novalis. “Verbum carofactum est” è S. Giovanni, “la Parola fu fatta carne”. “Dioniso, l’allegria che si è fatta uomo” è Herder. “Inter urinas et faeces nascimur” dovrebbe essere S. Agostino, “nasciamo tra feci e urine”. E malgrado ciò siamo bellissimi. “Le nostre madri ci partoriscono a cavalcioni in tombe aperte” è uno scolastico spagnolo, di cui ho dimenticato il nome. Eppure siamo magnifici e, dunque, qui. Questo è tutto.


Traduzione di Annalisa Cosentino, MicroMega n. 3/95, pp. 95-98

Il rosso e il nero d’America #2

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di Giuseppe Zucco

Il nero: Il petroliere – There will be blood (Paul Thomas Anderson, Usa, 2007)

Viene fuori dalla terra, il film di Paul Thomas Anderson. Viene fuori fluido e denso come il petrolio, e allaga il nostro immaginario con la figura di Daniel Plainview. Il petroliere è la storia di un uomo che buca la terra, trova il petrolio, fa fortuna, e inesorabilmente si distanzia dagli uomini. Non ci sono affetti decisivi nella sua vita, né donne, niente che porti il nodo di un legame. Rifiuta qualsiasi cosa che si avvicini all’umano: la famiglia, il figlio, il fratello. Nelle sue mani tutto diventa strumento per bucare ed estrarre. Conta solo il piacere della competizione e l’annientamento totale dell’avversario. È la storia di un uomo felice di vivere nel deserto, dopo che il deserto l’ha sistemato lui intorno, radendo al suolo tutti e ogni cosa.

Il petroliere è un film profondamente diverso da quelli a cui ci aveva abituati Anderson. Alle storie corali e multidimensionali, con infiniti intrecci e mille personaggi – un cinema alla Altman, uno dei suoi grandi ispiratori e maestri – P.T. Anderson sostituisce il racconto di un personaggio, seguendo la sua evoluzione, senza staccare mai la macchina da presa dal suo volto, dal suo corpo. Non finisce mai di essere circondato dallo schermo Daniel Plainview, come se una lente d’ingrandimento si fosse posata sulla sua vita e lo tenesse costantemente a fuoco. Così che tutto diventa la triplice storia di un’ossessione: quella di Plainview per il successo, quella del regista per la potenza mimetica di Daniel Day-Lewis, quella dello spettatore per il volto, gli sguardi, i gesti di un predatore che sbuca fuori dalla viscere della terra poco prima che il Novecento crepitasse.

Ed è un film che sgorga piano sullo schermo: sale da profondità mai raggiunte, s’impenna e monta, cresce e allaga, scaturisce come un geyser e si distende in molteplici direzioni. Un film raro: perché hai la certezza, mentre sei immerso nello schermo, che non siano solo immagini quelle che vedi, ma pensieri, idee diventate forma e colore, teoria che evade dal perimetro di una storia e imprime nella memoria le orme di un ragionamento.

L’incipit è una festa di idee: Daniel Plainview è sepolto nelle viscere della terra, con il piccone in mano scava, fa breccia, rompe l’architettura minerale della terra, gli sottrae l’argento, e il piccone si fa scintilla a contatto con la terra, diventa scintilla mentre le terra cede, e Plainview sa il fatto suo, e infila la dinamite in una cavità, poi risale alla luce, il deserto corre arido per chilometri intorno, e in cima al pozzo scavato tira su gli attrezzi, ma sono davvero pesanti, e sta ancora tirando su quando la dinamite esplode, e la polvere si alza, una nube spessa di polvere che cova una sorpresa, il petrolio esploso e impresso sulla bocca del pozzo, nero sul deserto dorato, l’epifania del petrolio che esplode ed inverte il destino di Plainview, che malgrado tutto, nonostante una gamba che si spezzerà, e una fatica da pionieri, scova un giacimento di petrolio, escogita la tecnologia della trivellazione, scava il suo primo pozzo, e scardina la sua posizione sociale diventando signore indiscusso di una piccola comunità, muscolose squadre di uomini che lavorano per lui, che si muovono con lui, città intere che si spostano nello sconfinato paesaggio americano quando Daniel Plainview scopre altro petrolio ancora, e compra terreno per chilometri interi, a prezzi stracciati.

Dura quattordici minuti almeno, l’incipit. Un quarto d’ora di cinema puro, dove la storia cola dalle immagini, e la figura di Daniel Plainview è sbozzata nella luce, sgrossata nei controluce, intagliata nell’ombra. Potrebbe scorrere in perfetta autonomia, l’incipit: per tutta la sua durata, le parole sono bandite, non esiste personaggio che si pronunci, solo la colonna sonora di Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead, vibra ed evoca. E una domanda risale i pensieri, allora: cosa ci fa un pezzo di cinema muto all’inizio di un film girato nel 2007? Cosa ci sta mostrando P.T. Anderson adesso? Abbastanza semplice: che il cinema nasce nello stesso momento dell’espansione virale delle forme industriali, che cinema e industria sono indissolubilmente legati, e insieme concorrono a mettere in forma non solo dei modelli sociali – come quello della fabbrica, con le sue gerarchie – ma anche un immaginario specifico, un preciso modo di vedere le cose. Al pari dell’industria, il cinema esplora il mondo, lo setaccia in lungo e in largo, lo trasforma in un serbatoio di immagini e in una miniera di storie. Due valori mettono sullo stesso piano il cinema e il sistema industriale: la possibilità di rendere vicino ciò che era lontano, e la circostanza di disporre delle cose come delle loro immagini. Ovviamente, ciò comporta una rottura epocale rispetto al passato. E Anderson è attentissimo nella regia a rivelare il modo in cui il cinema conquista e sfrutta il mondo: attraverso piani sequenza, lunghe carrellate, dolly che dall’alto s’inabissano nelle profondità della terra, o che s’impennano a rincorrere il getto di petrolio, la macchina da presa sottolinea l’occupazione, la colonizzazione di porzioni di mondo dimenticate per secoli, ed ora rese improvvisamente produttive.

Ma il gioco è ancora più raffinato. Il motore del film non è solo l’istinto predatore di Plainview, ma anche il lunghissimo conflitto che lega il destino del petroliere a quello di Eli Sunday, un giovane predicatore – con il faccino liscio e le espressioni ai limiti dell’epilessia di Paul Dano. Sono due personaggi antitetici. Ma agiscono nello stesso modo, spudoratamente. Mentre Plainview si assicura il potere economico, Eli Sunday piazza in cassaforte il potere religioso, collezionando sostenitori e fedeli. Entrambi sono due truffatori. Plainview compra le terre a prezzi stracciati, senza dichiarare il petrolio sottostante. Sunday parla, benedice e agisce in nome di dio, senza piegarsi a nessun ordine precedente, ma fondando una propria setta. E il mondo sembra farsi e disfarsi secondo la trama del loro rapporto. Alla vicinanza iniziale si sostituirà il conflitto aperto. La lotta diventerà addirittura fisica, e non mancheranno gli schiaffoni micidiali in due scene speculari e bellissime.

E il film sembra raccontare l’inizio del Novecento, ed invece ci rivela il nostro tempo armato, dove sulla scacchiera della storia sono ancora i poteri religiosi e quelli economici a fronteggiarsi. È dalla loro trama, dal loro intreccio, dal modo in cui si evitano o si sovrappongono, che la storia continua a prodursi. Per questo il cinema di Anderson, perfino qui, ha una profonda ambizione corale: perché nonostante siano solo Plainview e Sunday a sfidarsi, stilizzando il mondo intero nella loro relazione, i loro volti in realtà sono popolati e abitati da moltitudini di uomini che negli ultimi corsi e ricorsi storici hanno ripercorso la stessa spirale.

Così, se Into the wild mostrava attraverso una biografia il lato solare dell’America moderna, qui, in un perfetto controcampo, ritroviamo l’oscurità che pervade la storia. Del resto, il titolo originale del film è There will be blood, scorrerà il sangue. Ed infatti si scioglie a più riprese dalle vene, e non è mai rosso, non ha niente di vitale, ma abbandona i corpi lentamente, nero e vischioso, come se non contenessero altro che petrolio, i personaggi del film, nient’altro che fame e livore. Come se fossero animali incattiviti, più che uomini. E viene da pensare che Daniel Plainview, in mezzo alle piste da bowling, mentre finisce a colpi di birillo Eli Sunday, dopo il dialogo in cui si autoproclama dio, sia l’ultimo erede degli scimmioni spietati di 2001: Odissea nello spazio. Solo che l’arma che impugna non diventa più un’astronave che volteggia nello spazio astrale, non è più il simbolo di un progresso lontano, ma continua a uccidere, e far sprizzare sangue nero, dagli uomini come dalla terra.

[Pubblicato, a suo tempo, su SentireAscoltare]

Vista da Trieste

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di Antonio Sparzani

È quel momento inquietante che prepara il buio della notte, è finito il violetto chiaro dell’ultimo sole, pochi minuti e rimarrà solo buio e le luci artificiali. Però.

Però è piena di luna piena la mia sera, qui, chissà se è proprio al culmine – certo sembra occupare tanto cielo, un cerchio perfetto, da oscurare tutte le stelle circostanti, gaddianamente sopr’a le stelle reìna. Ma non oscura il golfo, il grande golfo che si vede dalla mia finestra aprire blu scuro, il golfo che promette lontananze impensate – all’orizzonte punti luminosi, vaghe alberature.
Non si è ancora spento il punto bianco di Miramare, il primo confine a ovest, con la livida presenza dell’arciduca; oltre quello, lo sguardo non va, solo lo sguardo della mente, sempre così più ardito, può spingersi fino a Duino e vedere anche lì le presenze che da un secolo ormai evoca quel luogo, Boltzmann e Rilke, che a pochi anni di distanza lasciarono parti di vita legate a questo mare favoloso.
Rilke c’era andato senza “famiglia”, ospite della contessina Maria von Turn und Taxis, e dopo avere lasciato a lei e a tutti noi l’impervia testimonianza delle Duineser Elegien, se ne andò per altri lidi; mentre Ludwig Boltzmann, in vacanza con la famiglia, nell’estate del 1906, era preda del tormento continuo di non riuscire a conciliare, all’interno delle sue riflessioni, i diversi aspetti della sua assidua ricerca sulle leggi della meccanica e delle nuova scienza del calore, che giustamente riteneva tra le più profonde e significative della fisica.
Reversibilità o irreversibilità? Determinismo o statistica?
Boltzmann, scienziato cerniera tra antico e moderno, tra Ottocento e Novecento, tra il mondo tranquillo – quasi Biedermeier – della fisica classica che ormai tutto spiegava e prometteva continui perfezionamenti di un quadro così elegante, e le nuvole nere, come le chiamò con maggior consapevolezza Kelvin, che si andavano addensando su questo quadro idilliaco.
Boltzmann, che non si rassegnava alle contraddizioni che sembravano ineluttabilmente radicate nell’insieme della sua ricerca, non sopportò il peso della sua incapacità a rispondere a tutte le critiche, spesso anche superficiali, che vennero mosse alle sue ipotesi e alle sue costruzioni, e scelse Duino per mettere bruscamente fine alla propria ineludibile scontentezza.
E allora, un po’ anche per onorare la sua memoria, che è la memoria di un grande, di uno dei creatori della nuova fisica del Novecento, provo a raccontare un minimo elemento di base della fisica del calore, quella che più Boltzmann contribuì a sviluppare. Provo cioè a dire in poche righe, ora che il cielo è diventato buio e stellato e solo la Luna rimane a rischiarare le colline del Carso dietro di noi, quale sia l’interpretazione della grandezza fisica temperatura secondo il modello di materia che si andava un po’ alla volta consolidando.
Una delle prime cose da ricordare con chiarezza è che l’idea atomistica, che la materia sia fatta di tante tante particelle piccole piccole, pur avendo radici lontane, dagli atomisti di Abdera a Epicuro e a Lucrezio, non era affatto popolare tra i fisici dell’Ottocento materialista e determinista, che anzi mediamente erano agnostici in proposito, oppure ritenevano che la materia fosse un continuo, una pappa senza interruzioni e buchi che riempiva completamente quella parte di vuoto che occupava. Ernst Mach era in prima fila tra questi e l’antagonismo con Boltzmann passava anche per questa strada. Quest’ultimo invece cercava di spiegare le proprietà della materia supponendo che questa fosse appunto composta di atomi, proprio quegli átomoi – oggetti che non possono essere ulteriormente tagliati – annunciati dalla filosofia antica di cui sopra.
La seconda cosa da tener presente è l’idea, che si era ormai saldamente formata nella fisica dell’Ottocento, di energia, che si era rivelata uno strumento assai utile nella descrizione e nella formulazione delle leggi fondamentali della meccanica. In particolare l’energia di un qualsiasi corpo, tipicamente puntiforme, poteva essere anzitutto rappresentata da una quantità che dipendeva dalla sua massa e dalla sua velocità. L’espressione in questione è abbastanza ben nota ed è la seguente E=½mv^2, formula, ovvero abbreviazione linguistica, che significa che per ottenere questa grandezza, che è detta energia cinetica perché dipende dal moto, occorre moltiplicare la massa per il quadrato della velocità e dividere per 2. Le ragioni di questa prescrizione di calcolo ci sono, ma non fatemele spiegare qui.
Bene: cosa ha questo a che fare con la temperatura? Prendete un gas – un gas perché è uno dei modi più semplici di organizzarsi della materia – contenuto in un recipiente di un certo volume che indicheremo con V e soprattutto supponete che esso consista di tanti pezzetti molto piccoli, questi pezzetti li chiameremo molecole perché ognuna di esse, in linea di principio anche da sola, ha le proprietà del gas; ogni molecola ha la sua massa e supporremo che essa si muova continuamente all’interno del volume V nel quale può liberamente agitarsi. Naturalmente le molecole, mentre avranno tutte la stessa massa, avranno tra loro velocità diverse e quindi ognuna avrà la sua energia cinetica diversa dalle altre; ma, ecco che entra la valutazione complessiva, quella che usa l’occhio statistico, potremo considerare l’energia cinetica media di tutte le molecole, che si indica con il simbolo Ē, e che può in linea di principio essere ottenuta sommando le energie cinetiche di tutte le molecole e dividendo alla fine per il numero di esse.
La temperatura del gas è, secondo il modello che si è andato affermando alla fine dell’Ottocento, proporzionale esattamente a questa energia cinetica media, e dunque è un’indicazione di “quanto velocemente” si muovono le molecole all’interno di un gas. Era la base della cosiddetta teoria cinetica del gas perfetto, di cui ho qui già detto parlando di Boyle, e poi, vari anni fa, parlando dell’entropia. Questa apparentemente strana proprietà della materia, di dare sensazioni di caldo o di freddo, è dunque semplicemente ascrivibile ai movimenti delle sue molecole, il che, vi assicuro, è stato un bello shock per la fisica e nello stesso tempo un considerevole successo dei tentativi di spiegare la scienza del calore mediante la meccanica, in quanto proseguendo i pochi ragionamenti che ho esposto qui, si è arrivati a spiegare su basi meccaniche la legge dei gas perfetti.
Boltzmann diede anche il nome alla costante di proporzionalità di cui dicevo prima, in questo senso preciso: una molecola puntiforme possiede – se misurata nell’unità di energia propria del sistema internazionale, il Joule, un’energia pari a (3/2)kT, dove la lettera T, maiuscola, rappresenta appunto la temperatura assoluta, cioè contata a partire dallo zero assoluto, mentre k è la costante di Boltzmann, che vale, con le unità di misura dette, 1,38 10^(-23). Simbolo che uso qui per indicare 10 elevato alla potenza -23, cioè un numero assai piccolo; ma tenete conto che le molecole di un gas sono tante, tipicamente dell’ordine di 10^(23), così che l’energia complessiva di una quantità macroscopica di gas assume un valore ragionevole.

camera di Albrecht

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di Marco Giovenale

in/ex. Lutero. Amsterdam. mortaio, disegno: punta d’argento.
una donna è di profilo a Rheinfells già lungo il Reno, dentro il suo
bagaglio nasconde un astuccio, filigrana o forse. Stephan ha intanto
rosario di cedro, 1, sul battello, spende 7 heller, mostra a Treviri
il salvacondotto, alla dogana, fanno passare in territorio
di Engers, il giorno di San Giacomo, alla volta di Linz, alla barriera
mi ha lasciato del vino, la lucertola impazziva a seguire
le lucciole nella scatola di bosso. si unisce un messo singolare
quando venni condotto al tavolo la folla stava in piedi sui due lati
proprio come si facesse scorta al gran signore. ad Anversa
abbiamo fatto colazione, per il trasporto delle persone passano
tutti sotto un filo d’oro che va giù dall’orologio del confine.

Il cardinale Ruffo è silenzioso e accigliato

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Il cardinale Ruffo

di Wilhelm von Humboldt
(…) Poco tempo fa ho avuto un colloquio con il famoso cardinale Ruffo [Fabrizio Dionigi Ruffo], colui che ha condotto la guerra contro gli insorti e i francesi a Napoli. È un vero peccato che questa campagna militare finisca sepolta nell’oblio. Nell’intera storia dei nostri tempi nessun’altra potrebbe dare un’immagine più vivida ed espressiva, simile a quelle che troviamo in Tucidide, di una guerra civile.

Nobili e cafoni, da Caminante – Mino De Santis

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[Bravo De Santis!]

Noi signori nobili, stirpe di notabili, noi che abbiamo il sangue blu / non ne possiamo più di questa servitù che chiede… chiede… chiede… / […] Noi la gente d’alto rango voi immersi dentro al fango… / Vorreste capovolgere ogni evento?

Su “Il contro in testa. Gente di marmo e d’anarchia”

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di Daniele Giglioli

Si resta sempre sorpresi dalla quantità di voci che si affollano nei libri di Marco Rovelli (Lager Italiani, Lavorare uccide, Servi, e ora questo ultimo Il contro in testa. Gente di marmo e d’anarchia, reportage e rivisitazione poetica della sua terra, la selvaggia dorsale apuana che sovrasta Massa e Carrara). Voci di chi di solito non parla ma è parlato dal discorso di coloro che detengono il potere, il sapere ed eventualmente la pietà: i dannati della terra (clandestini, migranti, morti sul lavoro), e chi si è schierato irreversibilmente dalla loro parte, come gli anarchici del Novecento. A differenza di Saviano, che in Gomorra avoca per intero a sé prerogative e privilegi della voce narrante, Rovelli pratica una narrativa dell’ascolto, pensa con le orecchie, diffida del primato razionale della vista, non si arroga il diritto della parola decisiva, si riserva le domande e lascia agli altri le risposte. Nelle scene decisive lui non c’era, e lo sa. L’aggettivo “corale”, per una volta, non è speso invano.

Io, Rugo e la vecchia

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di Gianni Agostinelli

Io e Rugo siamo in magazzino che apriamo gli scatoloni col taglierino. Li impiliamo per benino uno sull’altro finchè possiamo manovrare il transpallet senza che sia troppo faticoso o che caschi anche la troia di sua sorella che poi tocca raccogliere i chili di cartone con le guance rosse per la vergogna che sicuro dietro spunta preciso Bragianti o la Marini e dicono no con la capoccia e finisce che ci fanno la festa se non stiamo attenti. Poi facciamo trentadue passi, di norma, e dalla luce accecante venti metri sopra le nostre teste, che ci lasciamo alle spalle e che viene dal corridoio bevande, trentadue passi dopo, dicevo, c’è la porta automatica sul retro del supermercato. E sul retro del supermercato ci sono i diversi contenitori dell’immondizia. il parcheggio coi lampioni, la recinzione, e i secchi. E vicino a quelli generici, o dell’umido c’è sempre una coppia di ex sovietici, marito e moglie penso, anche se Rugo dice che sappiamo soltanto che sono uomo e donna, oppure un vecchietto che parla a scatti rapidi e solo quando litiga coi due tizi ex sovietici per contendersi qualcosa da mangiare che noi di genere buttiamo via. Anche se una volta buttavamo via più roba. Tu devi sapere che quindici anni fa buttavamo via un mare di verdura che adesso no, dice Rugo. E il vecchio contro i due ex sovietici litigano quando si pestano i piedi. Comunque è cronaca, per dire, non è questo che è strano, che infatti domani alle tre quando ripartiamo col transpallet loro saranno lì fuori e io e Rugo invece avanti e indietro. È invece che oggi che avevamo aperto un mare di scatoloni, oggi è lunedì, anzi era ormai, sono arrivati un casino di colli e con Rugo ci siamo fatti un culo come un capannone. Insomma lavoravamo muti, che infatti che cazzo vuoi dire, muti eravamo, e dalla luce della corsia bevande entra nella nostra luce più timida del magazzino una signora vecchia. Una settantina d’anni dico io, approssimando come sempre. Bastone, mollette tra i pochi capelli, gambe storte, puzza. La solita vecchia. E non riusciamo a dire un cazzo, io e Rugo perché lei va diretta in avanti, lentissima ma imperturbabile e muta come noi. Mi affaccio alla luce della corsia bevande ma non c’è nessuno. Sembra sia sola. Lei cammina e sta andando verso un pianale di lamiera appuntita che aspetta lì come una pianta carnivora e si lecca i baffi che adesso mangia la vecchia. E la vecchia cammina piano ma intanto si avvicina. Rugo mi guarda e dice Chiama qualcuno. E io mi affaccio nuovamente e vedo una ragazza e una signora, che sarà la mamma della ragazzina e la figlia di questa vecchia che sta per finire sopra un quintale di ferro. Loro cercano la vecchia con lo sguardo, io non dicono niente e gli indico la direzione quando incrocio i loro sguardi. La signora aggrotta le sopracciglia e nel massimo silenzio segue con lo sguardo il mio dito indice e vede la vecchia che adesso ha oltrepassato il pianale del ferro e corre spedita, si fa per dire, verso la luce della sera e l’aria fresca del tramonto invernale. Nonna dice la ragazzina e quella dice Che vuoi continuando a camminare. Io mi scanso e le faccio passare sorridendo ma senza guardarle e così recuperano la vecchia e se la riportano a casa che tanto né io né Rugo sapevamo che farci. Che situazione dico quando siamo nuovamente soli, io e Rugo. Mi ricorda quando ho scritto un racconto. Una volta volevo scrivere un racconto su mia nonna che ai tempi aveva l’Alzheimer. E il corpo era a posto invece la testa no. E lei ripeteva la solita cantilena tutto il giorno, non mi ricordo le parole esatte ma era una frase breve in cui lei andava alla porta di casa e vedeva arrivare qualcuno. E cercava di avvertirmi sul fatto che era arrivata gente all’uscio, pensando così che io potessi farci qualcosa. Invece io l’ascoltavo, trenta, quaranta, o sessanta anni dopo quello che lei stava cantilenando e non sapevo veramente che cazzo fare se non ascoltarla, aprire le braccia e controllare che il laccio che legava la sua vita alla poltrona non fosse troppo stretto. E questo lo dico appunto per far capire che la legavamo, che era indispensabile ma non disumano, era per farlo passare come indizio a fine di frase in modo calcolato e scivolare al periodo successivo. Che eccolo che arriva.
Di che racconto parlavi fa Rugo. Parlavo rispondo io alzando il tono di voce a quello di una normale conversazione tra due amici, parlavo, dico, di quella volta che partecipai ad un concorso per racconti horror. Era il periodo che leggevo tutti i libri di Stephen King, che mi piacevano tutte quelle cose irreali che lui vedeva e immaginava e che poi scriveva e c’era un gran minestrone di misteri sangue e america. E insomma c’era il concorso su internet per racconti noir e gialli e horror e io partecipai scrivendo di mia nonna che in pratica aveva l’Alzheimer come era la verità e però il protagonista del racconto era un ragazzo che aveva questa nonna malata ma aveva anche un nemico. Uno che ci provava con la sua ragazza in modo sfacciato. Per punirlo decise di ucciderlo e poi lo spezzò in diverse parti, lo nascose nel surgelatore e piano piano fece sparire il corpo dandolo da mangiare alla nonna malata di Alzheimer che ripeteva una cantilena tipo quella che ti dicevo prima e però aveva uno stomaco d’acciaio che nel giro di un paio di mesi si era mangiato tutto lo spasimante della ragazza. Questo era il racconto, però non ho vinto il concorso. Non mi hanno neanche menzionato. I risultati sono usciti l’estate seguente e a vincere è stata una tizia di Bergamo alta che aveva fatto un racconto sulle sue prime mestruazioni e sul forum del sito è scoppiata una caciara perché tutti quanti, anche io, abbiamo detto Che cazzo c’entrano le mestruazioni con l’horror, sangue a parte. E abbiamo fatto del fine umorismo, ma gli organizzatori, come si suole dire non hanno sentito cazzi e lei ha vinto il primo premio. E la vecchia mi ha ricordato il racconto e mia nonna.
La vecchiaia è brutta, terribile, dice Rugo. Lo so dico io. Tu non sei vecchio dice lui. Però non sto benissimo. Ma non sei vecchio. Non sono vecchio ma non sto bene. È diverso dice Rugo. Ma tu mica sei vecchio, hai l’età mia circa, no? Quanti anni hai?
Moscardè, interviene il macellaio che si era affacciato alla porta del magazzino e guardava verso di noi, hai ripreso a parlare da solo? Chiamo Brini? Lo chiamo? Vuoi che chiami Brini? Ah, ecco. Bravo. Svuota quel cazzo di transpallet e vieni di là con lo scaleo che sennò chiamo Brini e con lui vedrai che trovi da discutere. Intesi?

Trains de vie

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di

Francesco Forlani

al mio amico Alessandro Zannoni

(Salerno- Caserta)

August 3, 2012 at 8:18pm

Ci sono dei treni che nascono a Sud per raggiungere l’estremo Nord. E allora sono già settentrionali dalle prime battute. Questo treno va a Bolzano. Ecco perchè a differenza della tratta, di schiavi delle percorrenze uniche Campania, qui gli scompartimenti sono quasi vuoti, la temperatura sfiora i dieci gradi e il personale porta sul viso la stessa solarità di un animatore club MED, di un maestro di sci delle Dolomiti. Poteva allora sorprendermi il fatto che da Salerno a Napoli si percorresse un unico tunnel? come se stessimo valicando qualcosa, come se il Frejus, la sua galleria si fosse teletrasportata a sud. Da Salerno a Napoli abbiamo scavato una montagna e l’uscita dal tunnel è stata salutata da un’esplosione di luci, di azzurri, di mare, e a guardia del mare, feroce e silenzioso, il Vesuvio. Ci fermiamo per un buon quarto d’ora a Napoli. Tempo per una sigaretta, chiedo. E mi rispondono, anche per due. Bene. Fumo con lentezza. Risalgo. Mi attira l’attenzione di una signora decisamente bella, vestita di verde, che sulla banchina guarda qualcuno all’interno del treno. Sarà il figlio? Sarà l’amante? Il fidanzato? Un’amica? Dipenderà, mi dico da come saluterà alla partenza del treno. Si chiudono le porte, fischia il capotreno, mi volto a osservarla e la vedo che porta le dita alla bocca per appoggiare il bacio che s’involerà. Mi colpisce la discrezione e penso allora che sia il figlio o un amante. Sento che solo la birra ghiacciata che appoggerò alle labbra appena arriverò a destinazione, potrà ravvivarmi il ricordo del viaggio. E da mangiare Fasoi ‘n bronzon, Anatra alla Tirolese

(Agropoli- Salerno)

August 3, 2012 at 6:27pm ·

Come nel Processo di Kafka o in un terribile racconto di Buzzati, alla stazione non trovi nessuno che vesta, parli, si comporti come un funzionario. Le cose funzionano comunque, ci mancherebbe, perfino con la supplenza di una edicolante che ha modi gentili e due tipi di biglietti,o per Napoli o per Salerno, come in altri tempi una contrabbandiera ti vendeva le Marlboro sul rettifilo: morbide o dure? Così anche se il treno è annunciato su di un binario, è sull’altro che arriva e allora chiedi a chi è dentro se è quello giusto e lui ti risponde di sì anche se non ne è convinto. Un vagone su due ha l’aria condizionata, uno su due anzi uno su quattro e tra i passeggeri c’è chi giura di averne visto uno così, che si stava freschi e non accalcati, accaldati, ammassati come carne da macello sulle spiagge di Ferragosto. E mentre lo dice guardi la faccia che fanno gli altri che è come di chi non ci crede alla favola. O almeno. Non crede che sia possibile che lui, proprio lui, pendolare litoraneo non abbia quel posto. Eppure il paesaggio ristora l’anima come il sorriso delle due bimbe, le figlie di Carmine e Francesca, appena lasciate a casa. Un percorso che è dal mare poco distante, andante adelante, e il vento che viene da fuori conforta, rinfresca insieme ai ventagli delle signore, accelerati come turbine, mulini a vento. Non ho fatto la doccia dopo il bagno per conservare sulla pianta dei piedi qualche granello di sabbia. La sabbia è di una spiaggia su cui camminavano insieme alle promesse i sogni di due amanti. Et la mer efface sur le sable, Les pas des amants désunis, cantava Prévert e così è. Intanto i binari che accecano gli occhi e sembrano argento, accolgono il convoglio, gli fanno strada e allora mi preparo a cadere. Lasciarmi scivolare dai gradini per prendere una coincidenza che mi porti da lei.

(Taranto- Salerno)

August 2, 2012 at 5:22pm ·

Sono i nomi dei paesi lungo la strada ferrata che s’inerpica come un mulo da Metaponto in poi, a farti ricordare le pagine scritte del confino, le righe della cattività sul male, di Carlo Levi. Abbiamo da un po’ passato Grassano e a tratti su un solo binario il convoglio sembra un funambolo sospeso tra cime boscose, dirupi che lasciano intravedere le valli. Le regioni qui hanno nomi dolci, e la ragazza che mi siede accanto indossa la pelle e gli occhi di questa terra. Ci vorrebbe della musica House, un dj set per colpire nel segno la traccia che forma il nostro immaginario, fisso, terribilmente moderno e realista da guerra e dopoguerra, della Basilicata. Un crocevia di dialetti, di lingue, parlate, perfino paesaggi diversi e mentre si abbandona un mare, ad est già quello che è a ovest, il Tirreno prova a farsi sentire. Eboli. Un treno diagonale è questo proprio come la regione che percorre. I treni così è come se avessero una grazia speciale, una forma di estraneità all’abitudine e corrono silenziosi, cosa rara per un treno del sud, da una costa all’altra. Alla stazione di partenza ho lasciato un amico e un amico mi aspetta alla destinazione finale.

(Aversa- Minturno)

July 24, 2012 at 9:37pm ·

Ci sono dei treni che fanno allusione al passato e il viaggio è un illusione perché sai da dove parti ma nemmeno un poco dove mai si fermerà la traccia che lascia il convoglio. Al di là di dove scenderai, che già intravedi l’arco delle braccia delle tue sorelle, insieme al mare d’antan, di ragazzo infelice e felice di esserlo, ci sono delle esperienze che accadono con la stessa chiarezza di un colpo di fulmine, con una verità che non fai fatica a riconoscere. Al binario che non dice da nessuna parte dove va il treno, hai chiesto a lei con la burzatella leggera, gli occhi e i capelli chiari, se quello fosse il punto giusto, se da lì passava quello per Roma. Ti risponde in italiano, poi ti chiede in inglese che fai e ti dice che è olandese. Aveva la faccia pulita come l’anima e le mani sporche di chi reca con sè il segno di una disavventura. Mi dice che va a Milano, procedendo a singhiozzo, perchè non ha più nulla. La guardo e le dico che ho ancora qualcosa. Il qualcosa non lo do allo zingaro che distribuisce bigliettini sui ripiani che un tempo furno portaceneri. Vorrei darli a lei e infatti le chiedo di sedersi accanto a me, il tempo di capire come e fino a dove riuscire ad aiutarla. Lei si siede con una dignità che se Spinoza fosse stato donna così l’avrei immaginata, e per nulla intransigente con la propria sofferenza è rimasta pochi minuti. Perchè il tempo di seminare i bagagli, i trentamila pacchi che mi porto appresso per lo spettacolo di domani lei si alza dicendo che deve andare. Io le dico di aspettare che magari posso aiutarla e lei non vuole sentire ragione. Mi dice che le puzzano i piedi – capisco che da giorni dorme all’addiaccio e la doccia non le ha levato di dosso lo sporco di una disavventura- e non vuole disturbare nessuno. Mi alzo la inseguo lasciando tutto sui sedili ma l’ho perduta. Così sopra a un treno che recita come un rosario ognuno dei nomi delle piccole stazioni di non più Campania e non ancora lazio mi sento perduto. In totale soggezione le parole rimanevano mute ma nel mio treno, ora, qui nessuno parla.

(Bologna-Aversa)

July 20, 2012 at 10:59pm ·

Ogni volta che parti da quella stazione passi a vedere la breccia nella sala d’attesa. Non basta passarci con il treno, con un qualunque treno che da Milano a Reggio Calabria stabilisce una linea Gotica del viaggiatore, una linea verticale però che segui come un filo di piombo cade. Ci devi camminare intorno alla faglia, alla fessura e non certo per sbirciarci dentro quanto piuttosto per misurare la profondità del taglio nella pelle del tuo paese. L’assoluta divisione dello spazio della lingua accade nella hall centrale: da una parte gli italiani e dall’altra il resto del mondo, e la dicotomia si precisa, si fa particolare, quando ancor prima di salire a bordo, magari già nel sottopassaggio, senti l’accento e la faccia del meridione in un punto e poco oltre quella di chi è poco sopra e le fa da contro canto. Non ci sono monopoli nella stazione di Bologna, di una classe sull’altra e gli schermi che annunciano i binari sono ad altezza uomo e così non obbligano a tenere le facce quasi devote rivolte all’al di là, come a Milano o a Roma. La bellezza ti accoglie all’uscita sulla banchina di viaggio, e fanno capannello i fumatori che decidono che è meglio tentare da subito l’assalto alla sigaretta senza aspettare Firenze. Su e giù per lo scompartimento si vendono panini e birre come allo stadio e tra le gallerie che bucano l’Appennino lieve ma ben riconoscibile ti appare il profumo di lei. Passiamo oltre cortina con il mare di Formia e poco oltre l’orlo sbeccato delle montagne del Redentore.

(La Spezia-Genova)

July 10, 2012 at 8:46pm ·

Intercity è un nome che mi piace perchè fa antico, non vecchio e poi il fatto che sia una razza in via d’estinzione me li fa amare come se adesso che scrivo fossi a bordo di un tirannosauro, o più semplicemente di un Espresso, un Rapido.

Intercity non ti dice nulla della velocità con cui ti trasporterà a differenza di quelli, superati dall’alta rapidità del progresso, feriti a morte dalle frecce rosse, bianche, argento. Nel nome si indica semplicemente il destino, l’attraversamento, l’andare di città in città, electricity per come si diffonde, o sembra suggerire geocity, per la terra su cui affondano i binari e che vedi, calpesti con gli occhi se ti sporgi dal finestrino. Eppure questa tratta per prima cosa ti regala in sequenza, una dopo l’altra, Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza, Monterosso, cinque terre di mare, cinque lingue di pietra e sabbia che solo un inverno fa sembravano incespicare sulla parola inondazione e il treno sembra un idrovolante. Lo vedi il mare tra una galleria e l’altra e ti permane dentro, anche nel buio, l’azzurro del crepuscolo che quasi confondi con l’alba quando con un tonfo, un rumore sordo, il locomotore sferza l’aria all’uscita dal tunnel. C’è un silenzio da esame di maturità, da fine giornata al mare e cerchi di interrogare il silenzio senza la severità di un presidente di commissione d’altri tempi, ma con la grazia di un compagno di scuola che ti porga, senza farsi vedere, un appunto, una nota, un pettine in grado di sciogliere i nodi che ti cingono la testa e ti tengono le mani incollate sopra. I nomi delle stazioni delle città del nord sono di una dolcezza tale che le ripeti a voce alta, anzi le sussurri ogni volta che ci passi accanto, Levanto, Zoagli, Rapallo, Santa Margherita, Camogli. E mentre ti avvicini a Genova, dove si cambia treno per Pavia, dove sei diretto, scendendo insieme al bagaglio di due notti appena, ricordi della domanda che t’eri serbato dentro, il quesito da porre ad un viaggio inaspettato, e lasci che la risposta ti raggiunga ovunque ci sia un capostazione, una bandiera da tenere dritta contro il cielo.

(Roma- Minturno/Scauri)

July 3, 2012 at 7:57am ·

La tratta Brindisi- Pescara, che sembra una partita di serie B, è un omaggio all’Oriente. Il mare , risalendo la penisola, è sulla destra. Anche a sinistra c’è, ma non si vede. Da Pescara a Roma ci arrivi con una corriera che viene su davvero veloce e come un aliscafo valica il dorso, il monte, il crine che separa i due mari. A Roma ci resto poco ma è un poco talmente denso che le parole rimangono dentro, risuona ancora la frase del Don Giovanni di PP, evocata al momento di lasciarci sulla soglia del giardino di una casa in cui vorrei abitare. “Non penso quindi tu sei questo mi conquista.”.

A Termini ti immagini sempre che qualcosa finisca. Il nome fa pensare al capolinea, all’ultima fermata, e invece è qui che si comincia e cerchi di capire in quali termini il viaggio accadrà facendo ricorso all’oracolo delle macchinette che tu ci metti la mano sopra e quella ti dice a che ora si staccheranno i piedi da terra, e quanto costa ma non se vale davvero.

Sulle frecce rosse è un florilegio playmobil di uniformi e personale. Ora una coppia di poliziotti, un controllore, addetti alla pulizia vestiti di arancione, e perfino ai passeggeri sembra abbiano dato una divisa, assai uniforme in verità. Sul regionale Roma Napoli la prima cosa che ti colpisce in una giornata torrida d’estate è la danza gitana dei drappi appesi ai finestrini che si distendono, smarrendo la loro funzione originaria, fino a diventare lembo di gonna impazzita, Carmen popolare che si lascia frustare emettendo dei gemiti di vento così selvaggiamente in tono con lo stridere delle rotaie sui binari e delle porte tra un vagaone e un altro, quando ci sono, quando funzionano.

Accanto a me c’è un ragazzo che è elegante perfino con la barba non fatta e di fronte, un’amica, la fidanzata, la sorella più giovane, che ha un volto così rinascimentale che quasi ti metti a cercare il titolo dell’opera, l’attrbuzione all’artista. Piange. In realtà accenna a farlo e le pupille si tengono a galla a malapena in un fiume che senti le sta per sgorgare dal petto. E non sai da quale fonte, falda sotterranea, monte, si stia riversando. Sembrerebbe una studentessa e allora immagini che il suo dolore sia in un mancato segno sul libretto, la nota stonata di un esame finito male. Oppure è un dolore nobile, un dolore non per sé, ma per qualcun altro, la sorte di una persona cara mortificata da un acciacco, da un referto medico, un’analisi impietosa. Ma nobile potrebbe essere la ragione di un distacco. Lui le prende le mani per incoraggiarla come fa chi vorrebbe dopo avere arrecato un dolore insormontabile, portare sollievo, servire prima il veleno e quasi subito dopo somministrare l’antidoto.

All’altezza di Fondi, perchè c’è un fondo in ogni superficie, accade una cosa. Chiudo lo sguardo per proteggere gli occhi e le cose che si dicono sono queste.

– Chiure sta cazz’e porte!

– Aggia scennere mo, strunz nu vire che è scassate

– Strunz, hai ritte strunze e ie te scasse ecccorne

– Mocca a mammete m’ea fa nu bucchine

– Vien, vien che te rong nu caucie in miezz’e ppalle

– Scinne e te scassa a cape strunze

– Vuie napulitane site na razz’emmerde

– Scinne mo ca t’arape a cape.

Riapro gli occhi quando senti che sta per esplodere il nulla. I due, uno con i baffi tarchiato, tracagnotto avrà una sessantina d’anni e l’altro pure, seppure di corporatura agile e imponente.

Scendo. Alla fermata che dice prima Minturno e poi Scauri. Scendo da un paese immobile in cui perfino le gonne alle finestre sembrano avere perduto la voglia di ballare.

Supplique feroviaria

June 17, 2012 at 6:29pm ·

Sto tran tran qui me strabuza li oci à luce à luce a noce à noce que la voz que te pare d’artri te sumiglia, t’encanta et s’alimente lo coeur par rollement de la vetura l’echange des regards figa quela figo quelo no pennient et se simula d’assonnarse pour un desìo de cullarse comme un bebè, un enfant, nu caruso, comme ça devant à tout le monde appustato A-B colli numeri de uno a centumila et alors que l’une apres l’autre se seguentan staziune de villes fameuses ou pennient piccerelle staziuncelle cum flores et faunas de barbun de sigarete accese sur le quais, se sbinaria lu tran tran et frina lorsque nu sibilo parait nu fisculo d’arbitro in miezz’o campe de ioco alors que financo lo controlor cambia d’acento de tono selon la region la ville lu village nu poco de stangheza te guadagna l’anema pe sta botta de vita de nomade genereuse ah la Boheme Boheme et puis el tran tran tout de subbète t’arridona el surriso la bocata d’oxygene comme si killo c’avive lassiat l’esta à nouveau de t’aspetarte à l’autre cap du monde du voyage et te strabuza li oci alors sta vida te fa sentrte vivo sta vida à luce à noce à noce que la voz que te pare d’artri te sumiglia, un peu

Il rosso e il nero d’America #1

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di Giuseppe Zucco

Il rosso: Into the wild – Nelle terre selvagge (Sean Penn, USA, 2008)

È un film on the road, quello di Sean Penn, e viene da lontano. Non affonda le radici nella storia del cinema, ma nella letteratura, nei libri che hanno raccontato e dispiegato la potenza di un mito: quello del viaggio verso l’ignoto, della scoperta di un mondo sconosciuto e selvaggio.

Ovviamente, sfogliando il catalogo della letteratura mondiale, non si trova dappertutto un mito del genere. Questo modo di raccontare il destino di un uomo, di metterlo alla prova, di fargli saggiare le asprezze della vita e la diramata estensione dell’esistenza, abita dentro i confini di una visione del mondo senza eguali: quella angloamericana. Nella letteratura esplosa tra le mani e la mente degli scrittori angloamericani – anche di Conrad, uno scrittore polacco che aderì alla sintassi e alla sonorità della lingua inglese – il viaggio, soprattutto la fuga, sono temi portanti. C’è prova di questo perfino in un romanzo come Furore, di Steinbeck, che vede muoversi un popolo intero da una parte all’altra dello smisurato paesaggio americano.

Del resto, la fuga non ha nulla di negativo. È un modo per mettere alle strette il presente, una mossa astuta per spingere il destino verso i propri desideri, un movimento risoluto dentro la possibilità e le occasioni che il mondo concede. In definitiva, la fuga è un atto di creazione. “Fuggire non significa affatto rinunciare alle azioni” – scrisse Gilles Deleuze – “non c’è niente di più attivo di una fuga”. E subito dopo, continuando il suo ragionamento, Deleuze aggiunse: “Fuggire significa tracciare una linea, delle linee, tutta una cartografia. Si scoprono dei mondi solo in una lunga fuga spezzata. La letteratura angloamericana mostra in continuazione queste rotture, questi personaggi che creano la loro linea di fuga, che creano attraverso linee di fuga. Thomas Hardy, Melville, Stevenson, Virginia Woolf, Thomas Wolfe, Lawrence, Fitzgerald, Miller, Kerouac. Qui tutto è partenza, divenire, passaggio, salto, demonio, rapporto con il fuori.“

Sean Penn è l’erede di tutto questo. Kerouac si sarebbe commosso per Into the wild. Per la storia di questo ragazzo, auto-ribattezzatosi Alex Supertramp, il Super Camminatore, che molla tutto, slaccia i legami familiari, e parte. Destinazione: Alaska. Per molti versi, tutto sembra già sentito. Ma Penn ha la capacità di rinnovare e riformulare un archetipo narrativo. In fondo, molte utopie che avevano nutrito quella letteratura si sono dissolte, e negli anni ‘90 – gli anni in cui avvenne davvero la storia di Christopher McCandless – non si viaggia più per il piacere di viaggiare, ma per raggiungere un obiettivo, sia pure il nord selvaggio e ghiacciato dell’Alaska.

A guardare bene, è un viaggio di iniziazione senza ritorno. Alex assaggia il mondo, senza intuirne le leggi che lo governano. Si spinge in avanti, discostandosi da ogni legame. Una coppia di hippies lo guarda come un figlio, una ragazzina scopre in lui l’amore che incendia, un vecchio alla Cormac McCarthy – un altro grande scrittore americano di fughe e confini superati – lo accoglie come un nipote. Ma Alex rifiuta tutto per l’avventura. Solo in mezzo al nord selvaggio e solitario, poco prima di lasciarci la pelle, capisce che niente è la felicità se non è condivisa.

E il viaggio di iniziazione poco per volta diventa per noi spettatori qualcosa di più potente ancora: un’allegoria, una storia-totem, un’immagine-guida. Ricostruisce l’utopia della comunità ed il mito della condivisione, quando ormai la storia recente li dava per morti e sepolti. Riaggancia l’uomo alla natura, con tutti i rischi che ciò comporta, poiché la natura – rispetto ai libri che Alex legge – è molto più complessa e variegata. Sfonda la morale, che inchioda gli uomini sul posto (i genitori di Alex), creando barriere tra di loro, e fonda un’etica, una visione dell’esistenza in cui la relazione tra gli uomini è basata sulla condivisione ed è annodata indissolubilmente al territorio che gli esseri viventi esplorano, percorrono, abitano. Se Alex Supertramp fosse sopravvissuto al viaggio, avrebbe sperimentato tutto questo. Ma non ci è riuscito. E tocca a noi, allora. Tocca a noi fare di questa pellicola il testamento di Christopher McCandless. Morendo nella sua personalissima avventura, ci ha nominato suoi legittimi eredi.

[Pubblicata, a suo tempo, su SentireAscoltare]

(Vero) dialogo (rubato) tra un imprenditore (impr) e l’addetta di un’agenzia interinale (int)

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Un'opera di Joseph Beuys

di Esmeralda Rizzi

INT:  “Ciao, come stai. Già andato in vacanza?”

IMPR:  “Be’, ho fatto una settimana fuori, all’estero, con la famiglia nella prima metà di luglio. Sai com’è, poi c’è troppo casino. Ora loro sono alla casa al mare, io viaggio nel weekend, se posso, poi chiudiamo due settimane ad agosto.”

INT: “Volevo chiederti di Piero, il ragazzo che vi abbiamo mandato per il settore commerciale. Come vi trovate? Ho visto che ha fatto parecchie assenze.”

IMPR: “Piero? Mah, mi sembra bene, nessun problema.”

INT: “Ma sei proprio sicuro? Ho visto che è mancato diversi giorni. Che facciamo, te lo cambio? Lo mandiamo via e ne prendiamo uno nuovo?”

IMPR: “Mah, non saprei. Ti ripeto, a me non ha creato problemi, mi sembra vada bene, che si sia integrato bene col resto del gruppo. Però, dai, mi faccio una chiacchierata col responsabile del suo reparto e chiedo a lui. Eventualmente ti faccio sapere.”

INT: “Ma sì, sono sicura che ci deve essere qualche problema perché è mancato troppo spesso negli ultimi mesi. Ascolta un consiglio, meglio se lo cambi. Oppure, se non vuoi mandarlo via, al prossimo rinnovo gli accorciamo la durata del contratto. Quando gli scade?

IMPR: “Ora, per le ferie. Rientra il 1° di settembre.”

INT: ”Facciamo così: il contratto glielo facciamo ripartire dal 20 e poi glielo accorciamo a 4 mesi, così lo teniamo un po’ sotto pressione. Piuttosto, hai già trovato il rimpiazzo per la Sabrina?”

IMPR: “No, però vorrei evitare di spendere troppo o di trovarmi con le mani legate. Chessò,  un tirocinio, uno stage… E comunque deve usare a meraviglia il computer e parlare bene inglese e spagnolo, e avere un po’ di esperienza.”

INT: “Guarda, partiamo con uno stage gratuito. Poi, se è il caso,  facciamo un contratto di apprendistato, che risparmi bei soldini. E se non ci piace, se vediamo che alza troppo la testa, la mandiamo  via e ne cerchiamo un’altra. Sai che fame di lavoro c’è ora? Farebbero qualunque cosa per un posto.”

da http://inthestreet.blog.rassegna.it/

L’immagine ritrae un’opera di Joseph Beuys conservata presso l’Hamburger Bahnhof “Museum für Gegenwart” di Berlino.

quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia

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di Antonio Sparzani

Il dantesco Convivio vuol essere, nelle sue intenzioni iniziali, una piccola enciclopedia dello scibile dell’epoca, Dante vuole farsi perdonare della, almeno apparente, leggerezza della Vita Nova («fervida e passionata, questa temperata e virile» ci avverte, contrapponendo a quella la presente opera), e delle Rime scritte in vita e in morte di Beatrice (e probabilmente di altre donne più o meno celate al pubblico sguardo) e intende anche mostrare a tutti quanto egli sia bravo e sapiente, e quanto sia dunque stato ingiusto l’esilio comminatogli nel 1302. L’opera però si ferma dopo il quarto trattato, malgrado Dante ne avesse previsti quattordici oltre al primo. Tranne questo, appunto, introduttivo, tutti sono scritti come commento a una canzone. Sarà, come dicono i commentatori, che già gli urgeva dentro la Commedia e non voleva perdere altro tempo.

Ma quello che io trovo davvero di grande lungimiranza, oltre che di notevole bellezza, è proprio il trattato introduttivo (integralmente leggibile ad esempio qui), nel quale Dante si sofferma a spiegare come e perché abbia deciso di scrivere tutta l’opera servendosi del volgare italiano, invece che del latino tipico di tutte le opere dotte dell’epoca, e che peraltro anch’egli usò per il De monarchia, per il De vulgari eloquentia e le altre cosiddette minori.

E il primo motivo che Dante adduce per la scelta linguistica è proprio quello di arrivare a far giungere la vera scienza a quante più persone possibile.

«E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata.»,

dove «li veri poveri» sono, s’intende, quelli che non sanno. Così che Dante si risolve a dar loro aiuto:

«Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata.»

Della metafora del pane e delle vivande è intriso tutto il Convivio ed è questa la caratteristica che lo rende così vivo e palpabilmente vicino a chi si dispone a partecipare al banchetto. E appunto di tale metafora si serve anche per parlare della lingua:

«Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l’essere vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di frumento. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi questo che l’altro: l’una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l’altra da prontezza di liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela.»

Dante è ben cosciente delle forti differenze tra le due scelte: «lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile», ma, argomenta, questo è proprio quello che lo rende più adatto alla scopo che egli si prefigge: illustrare e commentare delle canzoni, scritte in volgare e beninteso trarre da ciò insegnamenti generali.
Inoltre Dante è ben cosciente del mutamento linguistico cui è soggetto il volgare al tempo suo, come del resto in qualsiasi altro tempo da allora ad oggi, tanto che scrive:

«perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile. Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico, che se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante.»

Ed è in questa mischia che Dante si vuole buttare: dopo qualche altra considerazione, insiste:

«mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l’altro lasciare. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello.»

E questa terza modalità Dante la spiega proprio bene, in termini che non si possono che condividere:

«La terza cosa, ne la quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che ’l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che ’l datore non venda. Per che dice Seneca che “nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono”. Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, allora, s[e] conviene esser netto d’ogni atto di mercatantia, conviene esser lo dono non domandato.»

Già da queste poche citazioni avrete notato come l’argomentare di Dante sia serrato e proceda per terzetti di clausole: per giustificare un comportamento egli produce sistematicamente tre ragioni, e ognuna di queste si articola a sua volta in tre sottoclausole, e così via. Io ovviamente qui salto la maggior parte del testo, sperando comunque di riuscire anche così a convincervi della sua bellezza, e voglio solo aggiungere la spiegazione che Dante dà di quel «naturale amore a propria loquela», eccolo:

«l’ordine de la intera scusa [cioè di tutta l’argomentazione portata a giustificare la scelta del volgare] vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore de la propria loquela; che è la terza e l’ultima ragione che a ciò mi mosse. Dico che lo naturale amore principalmente muove l’amatore a tre cose: l’una si è a magnificare l’amato; l’altra è ad esser geloso di quello; l’altra è a difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avvenire.» «E queste tre cose ― prosegue Dante ― mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho amato.»

Dante prosegue a descrivere sia la malvagità di coloro che disprezzano il volgare loro (italiano) e tengono invece in pregio altri volgari, sia il suo particolare rapporto di amore e di amistade col volgare che avrebbe poi usato per la sua opera maggiore. Concludo semplicemente copiandovi qui la conclusione del primo trattato, conclusione che mi pare nulla abbia da invidiare ai passi più alti della Commedia:

«Così rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l’essere di biado; per che tempo è d’intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.»

[In latino l’orzo era hordeum, da una radice indoeuropea connessa al “macinare”, greco krithḗ, e sembra proprio sia stato il primo cereale a essere coltivato in area europea. La metafora dell’orzo si piega nella scrittura di Dante a rappresentare un che di prezioso e fondamentale, un succo della vita che di questa è sostegno e meraviglioso alimento.]

Chris Marker è morto, ricordate?

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di Andrea Inglese

Chi era Chris Marker, morto a 91 anni, lo scorso 29 luglio? Una prima risposta, molto approssimativa, potrebbe essere: era qualcuno che combatteva, attraverso le immagini, il potere che, per lo più, le immagini stesse hanno di produrre oblio in chi le consuma.

Il Peso del Ciao a Mesagne

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Stasera alle ore 21 alla libreria di Domenico Pinto e Andrea Calavita, Lettera 22 Piazza 4 Novembre, Mesagne, ci sarà un reading di Poesie d’amore tratte da “Il peso del Ciao”. Chi verrà potrà farsi fotografare su un Ciao Rosso messo a disposizione dai librai. effeffe

Poâme du Sarrà chi sa
(ispirata a mio Zio Renato autore con Roberto Murolo di questa fantastica canzone )
di
Francesco Forlani

Sitte sitte facimme, sitte sitte
Que personne ne puisse entendre nos lèvres
A lingua emmocca e’ vase a’ schiocche a’ schiocche
On dirait une fièvre une maladie, un attrape-bouches

Facimme allore sitte sitte allore faie
Ton corps vêtu se déshabille d’une lumière rose
Sta luna chiena chiena, sta curona e spine
Tu me chouchoute: meurs ! tu me murmure: vis !

Sitte te staie e chiù sitte ie nun me saccie
La profondeur des yeux dépend de la posture des jambes
Tu me fai suspirà ie te voje bbene
Ton vague à l’âme enjambe, mon respire claque

Cu sti vase facimme sitte sitte, mo mo mo
Je suis Tristan, mais tu t’appelles Juliette
Tu m’adduvine a vocca ie m’annammore
Tu me caresse, je brûle, je deviens chandelle

Sti vase sitte sitte , sàrra sàrra
Ta peau s’enflamme à l’eau de ma salive
St’addore è rose e ciure ‘mbuttunate
Une fière créature, une musique lointaine

Sitte facite sitte, vuie facite sitte?
Tu étais mon songe, mon demain, mon hier
Che all’intrasatte mo cull’ate staie
Tu te souviens de moi ? Dis- moi, j’existe ?

Sitte facite sitte mo chiù sitte maie
Là j’aimerais siffler- divine- ta bouteille
à faccia toie m’embriaca, e sò curtielle e mmane
Je dégueulerais ton âme, comme une chose vive

Sitte sitte facite, facite sitte sitte
Aux larmes citoyens jettate ‘e mmane
Il n’y aura plus personne et chiù nisciune sape,
Saura celui qui sait, sarrà sta luna chiena

Scrittori per scrittori (Eugenides, Krauss, Lahiri)

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di Davide Orecchio
Mesi fa (settembre 2011), al festival del New Yorker, tre scrittori pop molto quotati e famosi (Jeffrey Eugenides, Jhumpa Lahiri e Nicole Krauss) parlarono di scrittori per scrittori, o di scrittori amati da scrittori, o anche di superscrittori. Ciascuno dei tre presentò la sua lista di autori preferiti (quasi tutti del secolo scorso) e lesse un passo del più importante.

Eugenides (The Virgin Suicides, Middlesex, The Marriage Plot), iniziò con Denis Johnson (e poi Vladimir Nabokov, e Saul Bellow).

Lahiri (Interpreter of Maladies, Unaccustomed Earth, The Namesake) scelse Mavis Gallant, Andre Dubus, Gina Berriault.

Nicole Krauss (Great House, The History Of Love, Man Walks Into a Room), virò verso la Mitteleuropa: Thomas Bernhard, Bruno Schulz, W.G. Sebald e Danilo Kiš.

Nessuno dei tre si trovò d’accordo sui nomi. Ma neppure sui modelli. Nel senso che, ad ascoltarli, si scopriva che uno scrittore per scrittori può essere di tanti tipi. Un autore d’insuccesso, troppo sofisticato per il grande pubblico (secondo Lahiri). Uno straniero non tradotto o che magari mostra nuovi percorsi stilistici ad autori che leggendolo decideranno di emularlo (secondo Krauss). Oppure, anche, un maestro riconosciuto che, al pari di un jazzista, comunica su più livelli e con interlocutori diversi (Eugenides).

Forse la definizione più acuta la diede Lahiri: un “writer’s writer” è uno scrittore che non perde la furia, l’idiosincrasia e la purezza dell’esordio. Non le baratta per sentieri facili. Vive uno stato creativo da opera prima perenne.

Lahiri era intelligente, bella, non sorrideva mai. Serissima. Forse scocciata. Neppure le battute di Eugenides (dei tre, l’oratore faceto) le strappavano un sorriso. Krauss era la secchiona del gruppo, molto Oxbridge e coltivata, più imbarazzata degli altri dalle domande del pubblico.

I tre vendono milioni di copie in tutto il mondo. Così che potremmo definirli autori WWW: worldwide writers.

“A writer’s writer maintains an integrity, a certain purity of vision”: “Uno scrittore per scrittori conserva in sé un’integrità, una sorta di purezza”, sentenziò Lahiri.

Ma volendo se ne può ascoltare la voce.

QUESTO E’ IL PODCAST

Il primo a parlare è Eugenides, la seconda Krauss, la terza Lahiri. Poi le voci si mescolano un po’. Quella che pone domande è la moderatrice, la redattrice del New Yorker Deborah Treisman, che in un passaggio si lamenta di Denis Johnson: “Non risponde mai al telefono quando lo cerco. Risponde sempre la moglie che m’informa: ‘E’ fuori a pescare’”. Dal che si deduce che Mr. Johnson sarà anche uno scrittore per scrittori, ma non è uno scrittore per giornalisti.