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Senza appartenenza: un’intervista a Tommaso Giagni su L’estraneo, il suo primo romanzo

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di Giuseppe Zucco



Prima ancora di aprire il romanzo, molto prima di scendere e risalire gli scalini della narrazione, il titolo concede una promessa al lettore: stai per incontrare non un estraneo, ma l’Estraneo, un personaggio minuto e sfuggente quanto assoluto – tanto che il titolo ne richiama già
un altro,famosissimo, di Albert Camus, Lo straniero. Ecco, chi è l’Estraneo, e cosa fa di lui non solo un perfetto protagonista ma anche il riepilogo di una particolare condizione umana?

L’Estraneo è un ventenne, che è nato e cresciuto nella “Roma bene” perché figlio di un portinaio (questi originario dell’Agro e transitato per un quartiere marginale, prima di arrivare al posto di lavoro in una zona prestigiosa), ma che da quella Roma non si è mai sentito accettato. Lasciato dalla ragazza di periferia Alba, che in lui non ha trovato il modello borghese cui rifarsi, l’Estraneo decide di andare a vivere in una borgata (“il Quartiere”), nella speranza che sia quello il suo luogo. Comincia così un percorso, tra palestre e sale scommesse, per apprendere i codici di un mondo lontano da quello “pasoliniano” che immaginava di trovare – e che era poi quello da cui provenivano i suoi genitori. È un inetto, un timido, un incerto. Ed è uno che si ritrova fuori dall’adolescenza, quindi col massimo bisogno di definire sé stesso, in un momento storico che non dà alcun riferimento cui aggrapparsi.

 

L’Estraneo, solcando il mondo – e il mondo qui non è altro che la città di Roma, come se niente altro potesse espandersi oltre i confini del Grande Raccordo Anulare – lo divide in due parti uguali e contrarie: la Roma delle Rovine, il centro storico, e la Roma di Quaresima, la periferia. Come e perché le due città si attraggono e si respingono, entrano in contatto e si sfidano a distanza?

Queste due città sono tra loro ancora lontane, incapaci di dialogare, ed entrano in contatto molto meno di quanto ormai ci si aspetterebbe. La “Roma bene” attrae la Roma marginale, e non è certo una caratteristica locale né una novità nel rapporto, inteso in senso lato, fra Centro e Periferia. L’attrazione inversa si esaurisce essenzialmente nella presenza dei centri commerciali (scrivo a un certo punto: «due giorni a settimana è la città a venire qui – ad aver bisogno di questo»). Un elemento da non trascurare è la natura piccolo-borghese della maggior parte delle periferie di oggi, che spinge a rincorrere il centro – questo sì – borghese.

 

Questa divisione ideologica del mondo fa molto guerra fredda, crea una divisione netta, geometrica, da un certo punto di vista è perfino consolatoria: eppure i personaggi, muovendosi lungo la scacchiera del romanzo, sparigliano i confini, li rendono mobili, (per esempio, quando il gruppo della palestra arriva nella conca del Circo Massimo), come se i confini fossero più qualcosa di molto interiore che una frontiera geografica del tutto solida e materialmente definita. È così?

I concetti di Centro e Periferia, li intendo proprio in questo senso: categorie interiori, prima di tutto. Lo stesso vale per i confini. Questi nel romanzo sono definiti e piuttosto rigidi: per sparigliarli, non bastano delle incursioni come il pellegrinaggio dei body-builders al Circo Massimo o come le snobistiche “gite fuori Porta” che faceva Marianna prima d’incontrare l’Estraneo. Non so quanto dividere il mondo in due sia automaticamente ideologico; di certo è consolatorio e rassicurante sentire di appartenere a un “luogo”, e questa è la chiave per capire la scelta del mio protagonista.

 

In Qualcosa di scritto, Emanuele Trevi tratteggia Prati, uno dei quartieri bene di Roma, in principio terra di ladri e puttane, gente dal coltello facile e bambini abbandonati, come un luogo che ancora risente di questa sua origine. (Ma le cose e le persone non sono sempre state, soprattutto a Roma, così come ci siamo abituati a vederle. Si direbbe anzi che, per raggiungere e godere stabilmente il loro stato abituale, debbono avere attraversato, durante una lontana crisi, il loro esatto contrario). Non è che la divisione del mondo che tu delinei finisce per museificare una parte di Roma altrettanto viva e contraddittoria? A volte ho la sensazione che il centro storico sia diventato un altro non-luogo, come il centro commerciale che descrivi negli ultimi capitoli, un posto che perde o acquista significato secondo le nuove strategie di appropriazione di chi decide di abitarlo. Che ne pensi?

Il fenomeno del filthering-up è del tutto naturale in qualsiasi metropoli: per restare a Roma, il caso di Trastevere è ben più lampante di quello di Prati. Le cose cambiano, ma nel tempo: oggi il centro di Roma è ripiegato su sé stesso, autoreferenziale, incapace di aprirsi; ritrarre quello che è oggi, non significa museificarlo o negargli una potenzialità di trasformazione. Quella che chiamo “Roma delle Rovine” non corrisponde al centro storico, ma a un’area ben più vasta che topograficamente esce spesso dalle Mura. Di non-luoghi io tendo a vederne pochi, in generale, e non ci metto il Centro – in senso lato – di Roma, e sono convinto che questo romanzo faccia tutto meno che appiattire luoghi vivi a meri non-luoghi.

 

Quando scrivi, Intorno non c’è niente della poesia di Pasolini che immaginavo dai tempi della scuola, niente di quella grazia che mi aspettavo di trovare nella città di Quaresima, registri un cambiamento neanche così sottile. Come e in che modo si è evoluto il territorio e soprattutto gli esseri umani che abitano quel territorio?

Qui segnalo una museificazione. L’Estraneo arriva in borgata convinto di trovare un certo romanticismo, “le pipinare che giocano in strada” e cose del genere. Invece quelle dinamiche da cui provenivano i suoi genitori e di cui aveva letto a scuola, non ci sono. Disorientato, capisce che deve adattarsi alla svelta – che neanche nelle aspettative era preparato. Le periferie raccontate da Pasolini hanno cominciato a perdere le proprie caratteristiche negli anni Settanta, e all’inizio dei Novanta erano altro. Il cambiamento è stato economico e culturale, e ha tirato fuori la piccola-borghesia di cui dicevo sopra. Questa nuova marginalità romana è stata ottimamente raccontata sin da allora (penso ad autori come Sandro Onofri, Claudio Camarca, Andrea Carraro) per poi arrivare a Walter Siti.

 

Un’ossessione serpeggia per tutto il romanzo: quella dell’identità. Ma in un’accezione singolare. Non è la propria biografia, quell’insieme di scelte speranze debutti azzardi, a costruire la propria identità, ma in particolare vivere, e vivere quanto più intensamente, il territorio che la tua nascita ti assegna. Addirittura, la propria identità viene fatta risalire alla frequentazione di un Quartiere, nel caso più generoso, se non allo scorrimento forzato di un solo e unico Viale, nel caso più sfortunato. Se è così, è un salto epocale, non credi? Per tutti gli anni ’90 e la prima decade degli anni 2000 molto di ciò che aveva valore lo aveva soprattutto perché veniva da lontano, da un mondo altro che non faceva che amplificare il territorio circoscritto che si squadernava sotto i nostri occhi – a volte, bisogna dirlo, del tutto miopi – e se c’era un gesto ricorrente e generazionale nulla batteva il desiderio di abbandonare la propria casa, la propria regione, la propria tradizione. (L’invenzione della world music è di quegli anni: qui, nel romanzo, i ragazzi ascoltano Battisti, Baglioni…)

Il recupero del legame col territorio lo leggo come una forma di difesa di fronte alla fine delle specificità portata dalla globalizzazione. Gli esotismi, il fascino dell’altrove, in generale il senso di apertura che si poteva avere anni fa, probabilmente stanno lasciando il posto alla chiusura spaventata dalle contraddizioni che tutto ciò apriva. Detto questo, nelle borgate romane anni Novanta non si ascoltava la world music, ma Ramazzotti.

 

Il romanzo, alla fine, sembra un inventario di nuovi riti (Il Sabato del Fuoco: dove i ragazzi, allo scoccare dei diciotto anni, danno fuoco davanti alla popolazione del quartiere a ciò che hanno appena comprato, a ciò che hanno sempre desiderato) e di nuovi miti (il corpo, soprattutto: da oliare, depilare, allenare, tornire, abbronzare). Ed è strano: perché l’atmosfera in cui si situa questa storia appare perfettamente laica e mondana e secolarizzata, mentre invece noi siamo del tutto consapevoli che dall’incontro di miti e riti sorgono nuove religioni oppure grandi o piccole narrazioni totalizzanti. Ecco, qui, cosa è ritenuto sacro, quali sono le nuove forme di sacralità?

Hai ragione: il “Sabato del fuoco”, ma anche la festa degli “Oscar del Visconti” (lo spettacolo in cui il ‘Liceo bene’ che ha frequentato l’Estraneo si autocelebra) e il pellegrinaggio per Luciano Liboni (simbolo di un’opposizione allo Stato decisamente politica ma slegata da qualsiasi discorso partitico) sono momenti rituali che hanno a che fare con il sacro. Il fatto è che la mancanza del riferimento religioso (gli oratori che si svuotano, la perdita di autorevolezza della Chiesa cattolica nella percezione comune, etc.) è dolorosa, e il bisogno di sacro mi pare fortissimo, soprattutto laddove gli strumenti culturali sono meno diffusi.

 

Per tutto il tempo, l’Estraneo, arrivato in una periferia estrema, con l’unico fine di addentrasi nella vita di un quartiere e trovare un proprio specifico irripetibile posto nel mondo, ci comunica che oltre a questo, il suo progetto di vita è quello di andare all’università e frequentare il dipartimento di Storia dell’Arte. A me sembra una contraddizione, e forse è così proprio perché il personaggio in sé è irrisolto e contraddittorio: nel momento in cui inizia a piantare le radici in periferia qualcosa dentro di lui lo spinge a tornare all’università, e quindi irrimediabilmente al centro, non solo della città, ma anche della conoscenza. Anche questo fa parte delle continue oscillazioni che compongono la vita del protagonista?

Le premesse che hai posto, in verità, ti ingannano. La decisione di iscriversi all’università, intanto, precede quella di trasferirsi. Soprattutto, andare nel Quartiere non è solo un trovare il proprio posto nel mondo, ma anche un costruire sé stesso. E una passione come quella per la Storia dell’Arte è un mattone, per uno che si sente inetto e cerca qualcosa di solido da mettersi attorno. Poi, certo: il personaggio dell’Estraneo è tutto una contraddizione, nel senso di quella frase di Walt Whitman: «Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini». L’incertezza intorno al sé, l’esigenza di trovarsi un posto, lo fanno oscillare di continuo.

 

Quasi tutti i personaggi che compongono il romanzo si dicono di destra, o pensano al modo della destra, o fanno e dicono cose di destra: anche il protagonista non sfugge a questo imperativo categorico. A un certo punto dice: Tre mesi dopo il trasloco nel Quartiere, posso dire con forza che buttarmi, invece di restare paralizzato a valutare le possibilità, mi ha migliorato il rapporto con il mondo e l’umore e l’autostima. Cos’è tutto questo, se non Futurismo? È così, anche se prendendola da lontano?

La passione del protagonista per il Futurismo ha a che fare con la sua tensione verso l’azione – lui che è stanco di guardare gli altri agire. Il Quartiere è culturalmente di destra, anche se le celtiche che lo tappezzano rappresentano un segno grafico cui aggrapparsi molto più che una consapevolezza politica. Ultimamente mi è capitato di spiegare come le periferie romane piccolo-borghesi non riescano a canalizzare in una direzione strettamente politica le proprie sensibilità all’intolleranza e al populismo. A conti fatti, insomma, un vero riferimento politico, anche quello, manca. A monte di questa considerazione, ci sono le colpe della Sinistra italiana, che ha dilapidato decenni di lavoro fatto dal Pci in questo senso.

 

Questo romanzo, in un’epoca che ha messo alle corde il postmoderno, ha un che di moderno, di novecentesco, soprattutto nell’immaginario che emana, nelle parole d’ordine che adotta: ci sono i borghesi, i piccolo-borghesi, i fascisti. Il mondo intorno è sostanzialmente cambiato, tu in molte pagine del libro ne dai conferma, eppure questi vecchi relitti di un mondo passato tornano a galla come fantasmi mai svaniti. È questa una caratteristica di Roma? Non riuscire a cancellare il coro di fantasmi che agita le sue fondamenta?

Per me sono categorie ancora buone, quelle, non relitti; d’altronde il mio immaginario è più moderno, novecentesco, che postmoderno. Poi, certo che il mondo intorno è cambiato, ma se questo libro discende da qualcosa e si pone criticamente rispetto a qualcosa, è col Novecento molto più che col Postmoderno. Se questo rapporto col passato abbia a Roma un peso particolare, non mi sento di dirlo.

 

A un certo punto del romanzo, scrivi: “Nuova vita” deve significare anche affrontare le cose, scenderci in profondità – sporcarsi le mani e la faccia, se bisogna. Suona come un’argentina dichiarazione di poetica, no? Quanto lavoro di documentazione e quanta ricerca sul campo c’è dietro la stesura di questa opera prima?

Secondo me devi metterti in gioco, per poterti prendere la responsabilità di scrivere. Devi andare nei posti, metterci il tuo tempo, conoscere a fondo certi ambienti e certe dinamiche, sporcarti le mani con la materia che vuoi raccontare. Se vuoi è una dichiarazione di poetica, sì. Io non ho fatto niente di straordinario perché bazzico certi quartieri da anni, in periferia ho rapporti e ricordi che mi sono cari, insomma non c’è stato un lavoro di documentazione in funzione del romanzo, ma piuttosto ho messo insieme spunti eccetera raccolti nel tempo.

 

Tu prima d’ora sei stato uno scrittore di racconti, la cosa si vede soprattutto in alcuni capitoli autosufficienti che aprono in medias res e chiudono in sospeso, a mio avviso i più efficaci del romanzo: quanto hai dovuto lavorare su te stesso, sulla tua tecnica di scrittura, per arrivare a ideare e dare compiutezza a un romanzo?

La struttura era in effetti l’aspetto che mi preoccupava di più, perché mi trovavo a fare appunto un lavoro diverso da quello cui ero abituato. Ma poi sempre di tecnica stiamo parlando, e come ogni tecnica si può imparare. Di certo, la linearità della narrazione mi ha aiutato non poco.

 

Il libro riporta la partitura di una strana lingua: alta e bassa, preziosa e quotidiana, letteraria e dialettale. L’intreccio è così composito che non sempre riesce: ricorrono imperfezioni, in qualche caso stride – alcune volte immagino sia voluto, proprio per rendere coerente anche la lingua alle continue oscillazioni del protagonista – ma quando va a segno ha una sua segreta musicalità. Ricopio un brano particolarmente lirico, per fare sentire la grana delle voce: Da qui posso immaginarli soltanto, oltre, i fossi limacciosi della marrana, e m’introgolo di fantasie sulle sfumature di verde che la tingeranno e sulla densità del liquame che ci scorrerà a bigonce sotto l’orgia degli insetti di palude. Quanto lavoro c’è dietro questa lingua? Quanto ti ha tenuto occupato? Dove ritieni sia venuta meglio?

Per me la lingua è la prima cosa, l’aspetto su cui mi concentro di più, sia da autore che da lettore. Una prima persona come questa del romanzo, con una storia personale così mista, mi dava la possibilità di giocare di continuo – su quella partitura che dici – combinando alto e basso, per ottenere l’attrito che individui e far leva anche su quello per testimoniare il disorientamento del personaggio. Non mi sento di trovarli io, i momenti linguistici più riusciti. Il brano che citi è in assoluto il più lirico del romanzo, il picco oltre il quale non sono andato; specularmente, ci sono passaggi che scadono in un registro molto più basso di quello cui la voce narrante ci abitua. Intorno, c’è la forte presenza del “romanaccio” (quello che si parla oggi in periferia: un italiano sporco ormai lontano dal dialetto romanesco) che circonda la vita del protagonista nel Quartiere.

una poesia di Rosaria Lo Russo

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per i terremotati dell’Emilia

Le cose di casa sono trappole di dolore.

Giustizia per Aldro

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Un appello:

Il 21 giugno 2012 la Cassazione si è espressa in modo definitivo sul caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso durante un controllo di Polizia all’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara. La Corte ha confermato la condanna dei quattro poliziotti per eccesso colposo in omicidio colposo riprendendo così le sentenze di primo e secondo grado.

Alla luce della sentenza, chiediamo:

– che i quattro poliziotti, condannati ora in via definitiva, vengano estromessi dalla Polizia di Stato, poiché evidentemente non in possesso dell’equilibrio e della particolare perizia necessari per fare parte di questo corpo;
– che venga stabilito in maniera inequivocabile che le persone condannate in via definitiva, anche per pene inferiori ai 4 anni, siano allontanate dalle Forze dell’Ordine, modificando ove necessario le leggi e i regolamenti attualmente in vigore;
– che siano stabilite, per legge, modalità di riconoscimento certe degli appartenenti alle Forze dell’Ordine, con un numero identificativo sulla divisa e sui caschi o con qualsivoglia altra modalità adeguata allo scopo;
– che venga riconosciuto anche in Italia il reato di tortura – così come definita universalmente e identificata dalle Nazioni Unite in termini di diritto internazionale – applicando la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1988.

Primi firmatari:

Patrizia Moretti
Lino Aldrovandi
Stefano Aldrovandi
Comitato Verità per Aldro

Qui il sito dove aderire.

La sfida infinita: l’opera di Nobuyuki Fukumoto

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Nobuyuki Fukumoto
Nobuyuki Fukumoto

di Gualtiero Bertoldi

Introduzione

Nobuyuki Fukumoto
Nobuyuki Fukumoto

L’autore di manga Nobuyuki Fukumoto nasce nella prefettura di Kanagawa (Giappone centrale) nel 1958 e vede pubblicare alcune sue opere già all’inizio degli anni ‘80. I primi manga di Fukumoto sono a tema sportivo e sentimentale, ma non ottengono un particolare riscontro né di pubblico né di critica, tanto che nel 1988 l’autore si trova costretto, in parte per caso e in parte per necessità, a creare una storia basata sul mahjong per la rivista Kindai Mahjong, un bisettimanale dedicato al gioco d’azzardo e in particolar modo al gioco del mahjong. Questo periodico è una delle tante riviste tematiche a fumetti pubblicate in Giappone: attivo fin dai primi anni ’70, Kindai Mahjong tratta esclusivamente manga dedicati al gioco d’azzardo, un genere che coniuga la tradizione dei manga sportivi e la nuova ventata estetico-artistica portata dal movimento Gekiga negli anni ‘60. Pur non trattandosi di una rivista dai grandissimi numeri, Kindai Mahjong conta comunque su dei discreti volumi di vendita (la tiratura di un singolo numero è mediamente sulle 180.000 – 200.000 copie) e una storia editoriale di una certa importanza, tanto da configurarsi come un passaggio fondamentale per la carriera di Fukumoto, il quale accetta l’apparente limitazione di una storia di genere così definito e ristretto pur di essere pubblicato dalla rivista in questione.

Materiali per la resa

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Su Resistere non serve a niente di Walter Siti

Ne ho letto un terzo, sinora. Però mi basta per condividere che è un libro importante: per misurare dove va la letteratura e calarci dentro le pieghe e le piaghe più critiche del nostro tempo. Così ho deciso di offrire alcuni materiali pubblicati su altre riviste. La disanima di Andrea Cortellessa, un testo che si prende tutto lo spazio per articolarsi come discorso, sofferto e esplicito, di critica politica. Le riflessioni dello stesso Walter Siti.
A questo si aggiunge la recensione di Marilena Renda pubblicata proprio qui. Ma i cantieri sono aperti alle vostre segnalazioni e, ovviamente, ai vostri commenti. hj

Futile

di Andrea Cortellessa

Please allow me to introduce myself
I’m a man of wealth and taste

Pleased to meet you
Hope you guessed my name,
But what’s puzzling you
Is the nature of my game

Rolling Stones, Sympathy for the Devil

Certo non inventava niente Walter Siti nel teorizzare, e ampiamente praticare, un “io sperimentale” quale narratore, punto di vista focalizzante e protagonista indiscusso dei suoi primi romanzi. Si ricorderà come già Italo Svevo, a proposito del suo Zeno, scrivesse a un ammirato Montale: “pensi ch’è un’autobiografia e non la mia”. Ma, se si avvicina al vero quanto sostiene (esagerando) il Daniele Giglioli di Senza trauma (Quodlibet 2011) – che proprio quella che è invalso definire autofiction, insieme al noir “politico”, sia il genere egemone della narrativa italiana degli ultimi anni – ciò si deve principalmente a lui. All’esemplarità cioè che – presso i narratori più giovani, unico termometro fededegno d’autorevolezza quando i media guardano solo alle classifiche di vendita – s’è conquistato Siti, non tanto con l’esordiale e straripante Scuola di nudo (Einaudi 1994), quanto con la serie in apparenza compatta costituita da Troppi paradisi (ivi 2005), Il contagio (Mondadori 2008) e Autopsia dell’ossessione (ivi 2010; opere, in realtà, fra loro assai diverse e per certi versi l’una in polemica con l’altra; è vero infatti quanto gli viene rimproverato – che Siti scrive tanto, forse troppo – ma altrettanto vero è che gli addendi di questa serie tutt’altro che seriali risultano a una lettura ravvicinata). (continua a leggere qui)

Le maschere del presente

di Walter Siti (a cura di Goffredo Fofi)

C’era una volta Balzac
Il libro di Trollope The way we live now (La vita oggi, pubblicato qualche anno fa da Sellerio) è quello che mi ha colpito di più tra quelli che ho letto sull’argomento che ho voluto affrontare in Resistere non serve a niente (Rizzoli). È una specie di prosecuzione di Melmoth il consigliere di Balzac, che parla della borsa. Il protagonista si chiama Melmoth, è un operatore di borsa che vende azioni di una ferrovia messicana di cui non è stato posato nemmeno un binario. È la storia della carriera di Melmoth nella City di Londra, fino al suo ingresso nel comitato direttivo della City stessa, quando la vicenda esplode e finisce nel disastro.

Mi ha molto impressionato, insieme a un altro libro di Balzac che ho letto mentre stavo preparando il mio libro, La maison Nucingen, la storia bellissima di questo tizio che vende l’anima alla borsa, ma questa anima si svaluta col tempo e l’ultimo che la compra muore carbonizzato davanti a una chiesa nell’indifferenza di tutti. Geniale! è così che sono arrivato a Trollope. (continua qui)

Per l’abolizione della rassegna radiofonica dei giornali

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di Giacomo Sartori

Quando sono in Italia la mattina ascolto la rassegna radiofonica dei quotidiani. Addentando una mela autoctona mi lascio ipnotizzare come moltissime altri italiani dalle frasi monocordi del giornalista di turno che compita il tal articolo del tal giornale. In genere lentamente, come chi non è abituato a leggere in pubblico, e si sforza con più o meno successo di avere una dizione chiara. Come è noto i giornali italiani parlano moltissimo dei politici italiani, anche quelli che non vota quasi nessuno, o che ne hanno combinate di cotte e di crude, quindi nella rassegna stampa è molto questione di dichiarazioni e di ruttini giornalieri di politici italiani. Il giornalista legge le frasi dei colleghi giornalisti che a loro volta citano le frasi e i ruttini quotidiani di politici più o meno presentabili. A tratti la sua respirazione tradisce la riprovazione, l’incredulità, a tratti l’encomio, ma prevale pur sempre il passo rassicurante dell’oggettività, del rispetto per il pluralismo giornalistico. Per scrupolo di pluralismo vengono spulciati anche i deliranti quotidiani finanziati dai partiti politici che non legge proprio nessuno, a parte appunto i giornalisti delle rassegne stampa. I brevi commenti che intramezzano la lettura monocorde sono in genere ponderati, empatici con la grave situazione del paese, pieni di giornalistico buon senso: buon senso di destra se il giornalista lavora in un giornale di destra, buon senso di sinistra se il suo giornale è di sinistra. Nel complesso sorge la netta impressione che i politici cialtroni abbiano gioco facilissimo proprio perché ci sono dei giornalisti che propalano in modo acritico le loro cialtronerie. E nello stesso tempo si ha la riprova di non contare nulla, di essere ineluttabilmente tagliati fuori dal gioco. Io certe volte vorrei spegnere la radio, ma sono avvinto da quella interminabile spirale di autoreferenzialità giornalistica al servizio della cosiddetta politica, come suppongo avvenga a tanti altri italiani. Dopo qualche minuto di pausa, sempre con l’identica pubblicità per un autoctono programma informatico, cominciano le telefonate degli ascoltatori. Finalmente qualcuno che non è giornalista!, mi dico, avvitando la macchinetta del caffè. Con i loro autoctoni accenti regionali la maggior parte degli ascoltatori commentano però anche loro le frasi dei giornalisti commentanti le frasi dei politici, o più spesso tirano fuori ciascuno la propria idea fissa, la propria personale soluzione ai deprimenti malanni del paese. Si vede che hanno le idee un po’ confuse, ma sono pur sempre convinti di avere la soluzione in tasca. Spesso hanno la tendenza a dilungarsi un po’ troppo, e allora il giornalista della rassegna li invita gentilmente ma fermamente a venire al sodo, a formulare la domanda. Il più delle volte il giornalista non sa poi tanto bene come rispondere alla famigerata domanda, ma mette pur sempre lì frasi pregne di giornalistico buon senso di destra o di sinistra. Non si può sapere se l’ascoltatore è pago della risposta, perché la sua voce nel frattempo è stata tagliata, tagliata per sempre. Qualche volta spengo la radio, perché devo uscire, e ne provo sollievo. Poi però in macchina la riaccendo, perché in fondo sono affezionato a quelle voci escluse dal gioco con i loro autoctoni accenti regionali, e io stesso nella mia testa mi invento delle zoppicanti soluzioni ai deprimenti malanni del paese. Un giorno potrei chiamare anch’io, mi dico.

(questo articolo è stato pubblicato sul bimestrale italo-francese “FOCUS IN“, n° 15, mai – juin 2012)

Cronache di Mesagne

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Il convento dei Cappuccini a Mesagne, sede del'ISBEM

di Antonio Sparzani

Ulivi e ulivi e ulivi senza fine corrono sul finestrino del treno che mi porta via da Mesagne e da Brindisi. Sole e ancora sole, benefico e implacabile, che ci schiaccia un po’ tutti verso il basso. Finita è la terza festa indiana, tenuta all’ISBEM di Mesagne e ricca, se non di sterminate masse partecipanti, di contributi di grande livello,

Date

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Di Andrea Inglese

.

Le stagioni quando arrivano, sicure
del loro rinnovato perdurare,
hanno come un potere, sommuovono,
da un fondo oscuro, come se dentro,
nel nostro fragile componimento
di sonni e veglie, ci fosse una risorsa
che l’economia non controlla, senza dati
e prelievi, senza ragioni condivise.

Polemiche letterarie

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Mercoledì 4 Luglio 2012, ore 21.00

Libreria Popolare, via Tadino 18, Milano

Daniele Giglioli, Paolo Giovannetti, Antonio Loreto e Paolo Zublena

presentano:

Polemiche Letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog

(Carocci, 2012)

di Gilda Policastro

il novantesimo minuto (senza recupero) di Antonio Rezza

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Oggi su Il Venerdì di Repubblica Gianni Mura ha scritto una bella recensione, il campionato di calcio degli scrittori italiani dedicata al libro curato da Carlo D’Amicis per Manni Editori, C’è un grande prato verde , 40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011-2012. Ho chiesto alla splendida, nel senso di solare, Agnese Manni di pubblicare su Nazione Indiana l’anteprima del racconto di Antonio Rezza. Per tre ragioni. La prima è perché Rezza in napoletano significa Rete. La seconda perché è davvero un racconto bello tosto. La terza è perché con Orsola amiamo molto l’artista, ma questo è un altro discorso. Effeffe


La trentaduesima giornata
di
Antonio Rezza
Aprile, ennesima giornata infrasettimanale di calcio. Il controllo sociale è ormai completo, si spostano negli stadi problemi che fuori sarebbero pericolosi per la viabilità, per la vita civile. Lo stadio finisce per essere un contenitore di gente illusa, frustrata, violenta, falsamente politica, strumentalizzata e superficiale. La protesta nei confronti dello stato si camuffa in passione incondizionata. Chi urla il nome della propria squadra urla la sua disperazione, l’insoddisfazione di uomo represso a sua insaputa. Le città si muovono in attesa dell’evento, le sciarpe al collo dei tifosi sono il cappio del condannato. Impiccati a una passione fasulla si suicidano nel giorno del Signore. Che non li ha mai creati a sua immagine e somiglianza: Dio non ha bandiera, Dio, non esistendo, ha permesso all’uomo di scivolare nell’oblio. Dio non è mai stato dalla parte dell’uomo. Dio non tiferebbe mai per esseri inferiori.

Chievo-Milan
Inter-Siena
Fiorentina-Palermo
Parma-Novara
Napoli-Atalanta
Catania-Lecce
Roma-Udinese
Juventus-Lazio
Genoa-Cesena
Bologna-Cagliari

Iniziano le partite, guardo gli spalti gremiti di gente che si esalta per le imprese altrui. Sui volti di chi tifa con la gola squarciata da un amore assurdo scorre la sofferenza di non essere altrove, l’impossibilità di fuggire dalla gloria riflessa, di non poter correre per dimenticare.
Ognuno vorrebbe essere l’oggetto del suo desiderio, ma l’amore del tifo è dimesso come quello dell’uomo. E in più va pagato. Istigazione alla prostituzione in luogo pubblico, ecco l’idea che ho di chi paga. Si ama senza toccare, si ama con gli occhi velati da una malinconia antica. Si ama con gli occhi così poco accecati. Chi non vede tifa in un altro modo, chi ha perso la vista tifa per sentito dire, chi sente dire, se non sentisse, potrebbe evitare di fare da bastone a chi non vede. Chi ha perso la vista tifa come chi ha perso la parola. Emozioni mozze nella gola di chi non parla e negli occhi di chi non vede. Il tifo ideale: nella sciagura di due uomini senza sensi, l’individualismo trionfa involontario: uno non vede le partite e l’altro non le può raccontare. Ecco cosa sarebbe il tifo superiore, quello nobilitato dalla sventura che rende finalmente l’uomo padrone del suo io incompleto, difettoso, anomalo ma diverso da tutti quelli che usano la vista e la bocca come succursali di un culo ormai affittato all’abominio. Chi gioca deve sperare nella buona salute di chi guarda. Chi gioca tifa la sana e robusta costituzione di chi vede. Un pubblico di ammalati non sarebbe così caloroso, lo spettatore deve scoppiare di salute, gli ammalati non sono graditi poiché la sofferenza li rende sovversivi, hanno il dolore a farli inaffidabili. Ma è chi sta bene che sprofonda nel malessere. Ci si riempie gli occhi di poco e si parla di nulla per un’intera settimana. Forse gli spalti rappresentano l’unico momento di libertà di questo gregge prezzolato che affonda nelle paludi della propria inefficacia. Immagino partite cui assistono solo ciechi e sordi, con sensazioni fuori sincronia perché il cieco non vede l’azione e il sordo può gioire solo con vocali strozzate che fanno però da aiuto al cieco che quando sente il grido soffocato del sordo uscire dalla gola gioisce senza verifica. Una gioia condizionata. Vedendo giovani e vecchi con lo sguardo perso di chi dimentica la propria sconfitta provo grande disgusto verso una massa troppo forme, che ha scelto di non ribellarsi al bavaglio spalmato di miele. La ribellione è solo nell’handicap, solo nella sottrazione di pezzi a questo corpo che conduce sugli spalti a morire lentamente. Deportazioni in pieno stile. Deportazioni moderne, con il sorriso a sostituire l’orrore. Ma per questo l’inquietudine è sovrana: vedere la felicità di chi a poco a poco sta perdendo il libero arbitrio mi sembra un crimine contro l’umanità. Ma c’è la falsa credenza che chi ride è contento, che chi ride ha libertà di scelta. Chi non cammina, chi non vede, chi non sente, ha un modo più civile di gioire, non per virtù ma perché costretto a essere infelice. Nell’infelicità una possibilità di salvezza. Nell’handicap la certezza di sfuggire ai meccanismi del consumo. Intanto mentre una squadra segna vedo occhi drogati di niente morire su facce assopite, segnate da una vita esteriore. Si assomigliano tutti questi neo mentecatti, tollerati dalla società civile perché in grado di produrre profitto, di foraggiare le casse di chi paga il gioco infame. E nelle case lo sterminio continua sul divano, famiglie intere sedute tra odori di cucina e puzza di fumo a gioire per una nuova e duratura debacle. Divani affossati dall’assenza di interessi superiori. Case dove per tutta la settimana si è parlato dei culi dei figli da pulire, case involgarite da problemi familiari vengono ora mortificate dal tifo collettivo, a gestione patriarcale, da un padre che si fa dolce di fronte alla sua squadra che mantiene il risultato. Sguardi segnati da una vita di apparenza e di spensieratezza coatta somministrata a dosi sempre più massicce. Ma non è tanto la gioia che rende stupido il tifoso, la gioia è superficie pura, non scava mai nel profondo, si limita allo stretto necessario, è un sentimento falso perché si regge sulle piccole cose. Non è la gioia per un gol segnato che rende il tifoso miserabile. È la sofferenza per un gol subito che lo fa apparire senza dignità, privo di difese, verme tra i vermi a decomporre le intenzioni. Nella gioia spesso sembriamo tutti uguali, ma è nel pianto e nel dolore che emerge l’arroganza: chi soffre crede sempre di essere dalla parte della ragione. Insomma che la Juve e il Milan lottino per un tricolore origine tra l’altro di un’infermità sociale, non mi interessa proprio. E allora concepisco il pubblico ideale, quello che renderebbe disabile chi corre: un pubblico di affamati, di profughi, di non vedenti, di sordi, di muti, di non deambulanti, di battuti, di ingannati, di poveri, di moribondi. Ecco il pubblico ideale e che sia la sciagura collettiva a nobilitare questa massa che affolla stadi enormi, che riempie divani tristi come la vita, che procede domestica come un cane addestrato. Divani con così poca infelicità, senza una tragedia a nobilitare il velluto consunto da anni di militanza forzata.
Questi i risultati:

Chievo-Milan 0-1
Inter-Siena 2-1
Fiorentina-Palermo 0-0
Parma-Novara 2-0
Napoli-Atalanta 1-3
Catania-Lecce 1-2
Roma-Udinese 3-1
Juventus-Lazio 2-1
Genoa-Cesena 1-1
Bologna-Cagliari 1-0

E questo è il risultato, un popolo senza identità, costretto a cercare la felicità nelle gesta di chi neanche lo vede. Un popolo coglione col sorriso sulle labbra. O con la lacrima che scorre. Mentre scorre la vita di ognuno senza che ognuno abbia veramente mai tifato per se stesso.

Quarta di copertina
C’è un grande prato verde
40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011-2012

Il campionato di calcio è un appassionante romanzo.
E allora perché non scriverlo? Perché non trattare Ibrahimovic, Pirlo e gli altri eroi del pallone come personaggi di una fiction a puntate?
Questa la sfida raccolta da 40 scrittori (tanti quanti sono i turni della serie A, con l’aggiunta della prima giornata di sciopero, e con una coppia), che in questa antologia raccontano, domenica dopo domenica, davanti alla tv o su un seggiolino dello stadio, l’edizione 2011-2012 del rito più amato dagli italiani.
Un rito fatto di gol strepitosi e di eccezionali parate, ma anche di radioline accese, pomeriggi in poltrona, chiacchiere da bar: un libro, quindi, che nel ricostruire l’andamento del campionato attualmente in corso, descrive il rapporto – abitudinario e avventuroso al tempo stesso – che ogni italiano, tifoso o no, intrattiene con il grande circo del pallone.

video arte #4 – santiago sierra

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Santiago Sierra, Person obstructs a line of containers, 2009.

“Labour is a hard job” (e altri problemi di traduzione)

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di Renata Morresi 

Per l’esame della prima sessione quelli del terzo traducono la pubblicità di uno studio legale di Milano, dall’italiano all’inglese. Oggi faccio sorveglianza, all’incirca dieci ore, ho tempo per pensare. Non che mi paghino, ma, si sa, fa parte del lavoro.

L’imperfezione del mistero

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(m’è stato chiesto di parlare di questo – inconsistente – tema alla Milanesiana, il 7 luglio p.v. Tento di accennarne qualcosa qui)

di Gianni Biondillo

Provo una autentica ammirazione, direi persino invidia, per chi riesce a scrivere un bel giallo. Uno di quelli veri, intendo: macchine precise, oliate, congegni complessi eppure logici; belli come possono essere gli astrolabi, scientifici, meccanici e al contempo esteticamente affascinanti, misteriosi. Fernando Pessoa amava i classici del giallo anglosassone, li reputava una delle più alte espressioni della letteratura contemporanea. Lo capisco. Il mystery novel è letteratura pura, esente dalla compromissione con la realtà. Non imita il mondo, lo sublima. È arte per l’arte.

Io non ci riesco. Nei miei romanzi la vita irrompe sempre in modo precipitoso, incontenibile, confusionario. Cerco di organizzare una partita a scacchi col lettore ma la realtà mi muove le pedine, scompiglia la disposizione delle cose, crea il caos là dove io cerco l’ordine. Inutili digressioni, psicologismi, ossessioni linguistiche, citazioni colte, trivialità d’accatto… provo a dipanare la matassa ma il gomitolo s’ingarbuglia, s’annoda, inelegante. I miei sono gialli imperfetti; è che non li so scrivere. Faccio, più banalmente, letteratura, come tanti, come tutti.

Il giallo classico – quello non influenzato dalle pulsioni autolesioniste del noir, quello che non conosce il tanfo metropolitano dell’hard boiled – è il mistero nell’era della democrazia: l’evento arcano, la morte violenta, viene presentata agli occhi di tutti, officianti e semplici spettatori. E tutti – questa la peculiarità – possono investigare, tutti possono, alla fine, risolvere l’enigma, tutti, lettori compresi, possono uscire dal labirinto vincitori, basta averne il talento.

Sono invidioso dei giallisti puri, ripeto, e perciò malizioso. Risolvere l’enigma alla fine, mi dico maligno, significa depotenziare il mistero. Questa è la vera contraddizione del giallo. È un problema eminentemente etimologico: Mysterion, in greco antico, significa “cosa da tacere”, che non può essere detta pubblicamente, perché è riservata agli iniziati, ai sacerdoti. Il mystery novel all’apparenza ci mette in contatto con il taciuto ma nei fatti secolarizza il sacro, lo banalizza. È un mistero imperfetto, proprio perché disvelato.

Sono scuole di pensiero: c’è chi di fronte al prestigiatore passa il suo tempo a cercare di capire il trucco, l’inganno. Io m’incanto della meraviglia, senza darmi spiegazioni. Ci sono cose che noi non sapremo mai. Per quanto ci arrabattiamo, non risolveremo tutti gli enigmi, la realtà non sarà mai così logica, così lineare. Ad una causa non avremo sempre un effetto, la rosa delle possibilità è incommensurabile. Gli uomini sono anche passioni, meschinità, noia, ilarità, emozioni. Psiche.

Questo voler disporre le cose nel mondo è profondamente umano, lo so. Ci aiuta a non cadere nel terrore panico dell’esistenza. La letteratura fa questo, mette ordine, cerca il bandolo, il senso delle cose. Ma lo scrittore, ogni scrittore, nel suo intimo sa che la vita è più grande, più misteriosa. È imperfetta, impossibile da descrivere a tutto tondo, è illogica. Ogni scrittore sa che un romanzo, per quanto cerchi di essere un calco del mondo – se non addirittura un mondo a sé – non riuscirà mai davvero a comprenderlo. Fallire è il destino. Perché è la vita, da sempre, il vero mistero. Noi sacerdoti delle parole rinnoviamo il rito, da millenni. Da millenni inseguiamo la perfezione, la comprensione del tutto. Fallendo. Per ricominciare, di nuovo, dato che non abbiamo altra possibilità che cercare di capire il mistero della realtà col mistero delle parole, consci che nella partita perderemo sempre. Soprattutto quando siamo convinti, puerili, di aver finalmente risolto l’enigma.

(pubblicato su Il Corriere della sera, ieri)

La terza festa di Nazione Indiana è a Mesagne (Brindisi): 30 giugno – 1 luglio 2012

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sabato 30 giugno – domenica 1 luglio

all‘ISBEM

c/o Ex Convento dei Cappuccini – Via Reali di Bulgaria – 72023 Mesagne (BR)

(come arrivare)

Programma della festa

Il diritto all’ozio

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di Paul Lafargue

Un dogma disastroso

«Diamoci all’ozio in ogni cosa, fuorché nell’amore e nel bere, fuorché nell’oziare.»
Lessing

Una strana follia possiede le classi operaie delle nazio­ni in cui domina la civiltà capitalistica.

Debito ergo sum

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Estratto da 
La fabbrica dell’uomo indebitato
edizioni Derive approdi
di
Maurizio Lazzarato
Saggio sulla condizione neoliberista


« La Grèce, c’est le mauvais élève de l’Europe. C’est toute sa qualité. Heureusement qu’il y a des mauvais élèves comme la Grèce qui portent la complexité. Qui portent un refus d’une certaine normalisation germano-française, etc. Alors continuez à être des mauvais élèves et nous resterons de bons amis. »

Felix Guattari, intervista alla televisione greca del 1992

In Europa, alla stregua di altre parti del mondo, la lotta di classe oggi si dispiega e concentra intorno al debito. Con una crisi del debito che arriva a toccare gli Stati Uniti e il mondo anglo-sassone, ovvero i paesi che hanno prodotto, oltre all’ultimo disastro finanziario, soprattutto il neoliberismo.
La relazione creditore-debitore, che sarà al centro della nostra argomentazione, intensifica i meccanismi di sfruttamento e di dominio in forma trasversale, senza fare alcuna distinzione tra occupati e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi, pensionati o beneficiari di sussidi. Di fronte al capitale, che si presenta come il Grande Creditore, il Creditore universale, sono tutti «debitori», colpevoli e responsabili. Una delle principali poste in gioco del neoliberismo resta quella della proprietà – com’è chiaramente dimostrato dalla «crisi» attuale –, poiché la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari (di capitale) e non proprietari (di capitale).
Attraverso il debito pubblico a indebitarsi è l’intera società, cosa che non impedisce, ma esaspera, «le disuguaglianze», che sarebbe venuto il momento di chiamare «differenze di classe».

Le illusioni economiche e politiche di questi ultimi quarant’anni cadono l’una dopo l’altra, rendendo le politiche neoliberiste ancora più brutali. La new economy, la società dell’informazione, la società della conoscenza sono tutte solubili nell’economia del debito. Nelle democrazie che hanno trionfato sul comunismo pochissime persone (qualche funzionario dell’Fmi, dell’Europa e della Banca centrale europea, insieme a qualche politico) decidono per tutti secondo gli interessi di una minoranza. La grandissima maggioranza degli europei viene tre volte deprivata dall’economia del debito: deprivata del già debole potere politico concesso dalla democrazia rappresentativa; deprivata di una quota sempre maggiore della ricchezza che le lotte trascorse avevano strappato all’accumulazione capitalistica; ma soprattutto, deprivata del futuro, ovvero del tempo, come decisione, scelta, come possibile.

La successione delle crisi finanziarie ha fatto violentemente emergere una figura soggettiva che era già presente, ma che oggi ormai investe l’insieme dello spazio pubblico: la figura dell’«uomo indebitato». Le realizzazioni individuali promesse dal neoliberismo («tutti azionisti, tutti proprietari, tutti imprenditori») ci spingono verso la condizione esistenziale di quest’uomo indebitato, responsabile e colpevole del suo stesso destino. Questo saggio vuole proporre una genealogia e un’esplorazione della fabbrica economica e soggettiva dell’uomo indebitato.
Dopo la precedente crisi finanziaria, scoppiata insieme alla bolla di internet, il capitalismo ha messo da parte le narrazioni epiche elaborate intorno ai «personaggi concettuali» dell’imprenditore, dei creativi, del lavoratore indipendente «orgoglioso di essere il padrone di se stesso», i quali, nel perseguire unicamente i loro privati interessi, lavorano per il bene di tutti. L’investimento, la mobilitazione soggettiva e il lavoro su di sé, predicati dal management fin dagli anni Ottanta, si sono trasformati in un imperativo ad assumere su di sé i costi e i rischi della catastrofe economica e finanziaria. La popolazione deve farsi carico di tutto ciò che le imprese e lo Stato sociale «esternalizzano» verso la società, dunque anzitutto del debito.

Per i padroni, i media, gli uomini politici e gli esperti, le cause della situazione non sono da ricercare nelle politiche monetarie e fiscali che scavano il deficit – operando un massiccio trasferimento di ricchezza verso i più ricchi e le imprese –, né nel susseguirsi delle crisi finanziarie che, dopo essere di fatto scomparse durante i «gloriosi trent’anni», continuano a ripetersi e a estorcere strabilianti somme di denaro alla popolazione, nel tentativo di evitare ciò che viene chiamato «crisi sistemica». Per tutti costoro, colpiti da amnesia, le vere cause di queste crisi incessanti risiederebbero nelle eccessive pretese dei governati (in particolare di quelli dell’Europa del Sud), che vogliono vivere come «cicale», e nella corruzione delle classi dirigenti, che in realtà hanno sempre svolto un ruolo nella divisione internazionale del lavoro e del potere.

Il blocco di potere neoliberista non può e non vuole «regolare» gli «eccessi» della finanza, perché il suo programma politico è ancora quello rappresentato dalle scelte e dalle decisioni che ci hanno portato all’ultima crisi finanziaria. Con il ricatto del default del debito sovrano, intende invece portare fino in fondo questo programma, di cui fin dagli anni Settanta fantastica la completa applicazione: ridurre i salari a un livello minimo, tagliare i servizi sociali per mettere il Welfare al servizio dei nuovi «assistiti» (le imprese e i ricchi) e privatizzare qualunque cosa.Per analizzare non solo la finanza, ma anche l’economia del debito, che la ingloba e la supera, nonché la sua politica di assoggettamento, siamo privi di strumenti teorici, di concetti, di enunciati.

In questo libro intendiamo tornare all’analisi del rapporto creditore-debitore compiuta dal Deleuze e Guattari con L’anti-Edipo. Pubblicato nel 1972 – e anticipando teoricamente lo spostamento che il Capitale avrebbe successivamente operato – questo testo ci consente, alla luce di una lettura della Genealogia della morale di Nietzsche e della teoria marxiana della moneta, di riattivare due ipotesi. Anzitutto, l’ipotesi secondo la quale il paradigma sociale non è dato dallo scambio (economico e/o simbolico), ma dal credito. Alla base della relazione sociale non c’è l’uguaglianza (dello scambio), ma l’asimmetria del rapporto debito/credito che precede, storicamente e teoricamente, la relazione tra produzione e lavoro salariato. Poi, l’ipotesi che vede nel debito un rapporto economico indissociabile dalla produzione del soggetto debitore e della sua «moralità». L’economia del debito riveste il lavoro, nel senso classico del termine, di un «lavoro sul sé», così da far funzionare in modo congiunto economia ed «etica». Il concetto contemporaneo di «economia» ricopre sia la produzione economica che la produzione di soggettività. Le categorie classiche della sequenza rivoluzionaria dei secoli XIX e XX – lavoro, sociale e politica – vengono attraversate dal debito e in larga parte da questo ridefinite. Occorre dunque avventurarsi in territorio nemico e analizzare l’economia del debito e della produzione dell’uomo indebitato, nel tentativo di costruire armi utili a combattere le battaglie che si annunciano. Poiché la crisi, lungi dal chiudersi, rischia di estendersi

vedi anche qui

Dettes et contradettes (effeffe)

Les usuriers pèchent contre nature en voulant faire engendrer de l’argent par l’argent comme un cheval par un cheval ou un mulet par un mulet. De plus les usuriers sont des voleurs car ils vendent le temps qui ne leur appartient pas, et vendre un bien étranger, malgré son possesseur, c’est du vol. En outre, comme ils ne vendent rien d’autre que l’attente de l’argent, c’est-à-dire le temps, ils vendent les jours et les nuits. Mais le jour c’est le temps de la clarté et la nuit le temps du repos. Par conséquent ils vendent la lumière et le repos. Il n’est donc pas juste qu’ils aient la lumière et le repos éternel.

J. Le Goff, La Bourse ou la vie.

La dolcezza di Giuseppe Bertolucci

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fotografia di Francesco Dal Bosco

(Casarola, 25 giugno 2011)

Resistere, fuori dall’umano

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di Marilena Renda

Si può credere alle schede librai? E alle quarte di copertina? Ma soprattutto, si può credere a un narratore che palesemente si compiace di essere inattendibile e in apertura di romanzo dichiara, chiamando in causa il suo ex-editore, di essersi stancato del sesso omosessuale, dei culturisti e dei loro muscoli, e che finalmente vuole convertirsi al romanzo “tradizionale” e affrontare da una prospettiva diversa (terza persona, narratore onnisciente) i nodi più intricati che agitano questi anni?

Menomale che ho un tumore.

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di Domenico Maione (un cronista napoletano).

La seguente è una storia liberamente ispirata a quella di Carmen Abbazia. Cassintegrata Fiat da tre anni a questa parte, separata, tre figli a carico (di cui due costretti a lasciare gli studi), è una tesserata Fiom e pertanto non è stata ancora reintegrata nell’opificio automobilistico di Pomigliano. I luoghi, i fatti e alcuni dei personaggi sono grossomodo corrispondenti alla realtà. Il finale è (paradossalmente) lieto, ergo inventato.

Celerità ed ordine. Misura e cadenza. Un pezzo qui, uno là, ognuno combacia con l’altro. Uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno nell’altro, uno dietro l’altro, uno più un altro. Un’auto. Eppoi un’altra. E un’altra ancora. E ancora, e ancora. Decine, centinaia, migliaia. E ancora, e ancora. Sempre gli stessi movimenti. Reiterati, meccanici, inconsulti, involontari. “Pure gli amanti più affamati, a forza di baciarsi sulle labbra in eterno, si frantumerebbero gli zebedei”. Una risata, fugace. E poi ancora… reiterati, meccanici, inconsulti, involontari. Uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno nell’altro, uno dietro l’altro, uno più un altro. Un altro e un altro ancora. I non rumori, i non colori, i non pensieri. Il non. Lo snervamento, la fatica. L’eden.

Antonio Pascale, l’agricoltura biologica, gli OGM

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di Giacomo Sartori

In “Pane e Pace” (Chiarelettere, 7,5 €) Antonio Pascale dipinge gli agricoltori biologici come esaltati che negano il progresso, dei nostalgici del passato. Ebbene, chiunque li frequenti anche solo occasionalmente sa che essi sono invece in genere più preparati, più aperti, più curiosi, dei loro omologhi “convenzionali”. Per il semplice motivo che per fare agricoltura biologica ci vogliono più attenzioni, più cognizioni, più intelligenza, più lavoro. Si usano armi meno “efficaci” (ma meno nocive), per sopravvivere bisogna compensare con il raziocinio e le conoscenze. Per questo l’agricoltura biologica – lo testimoniano i suoi manuali – è per definizione intimamente legata a quei progressi sperimentali, in particolare dell’agrobiologia, che Pascale stesso auspica. Ne fa anzi il suo cavallo di battaglia. Del resto l’agricoltura biologica industriale, da molti criticata (soprattutto per i suoi risvolti sociali), è ormai una realtà in molti paesi del Mediterraneo. E in Italia ci sono esempi di impianti di frutticoltura biologica estremamente automatizzati. Davvero Pascale, che lavora al Ministero della Politiche Agricole, lo ignora?

L’agricoltura biologica ha certo delle pecche (il rame impiegato come fungicida si accumula nel terreno, ci ricorda l’autore), per carità, ma ha gli immensi vantaggi complessivi, questo viene taciuto, di non danneggiare l’ambiente, di utilizzare poca energia fossile, di essere sostenibile nel tempo, di non insidiare la salute umana. Quando purtroppo la maggior parte delle nostre colture, anche purtroppo in Italia, portano a una grave diminuzione della fertilità del suolo, all’inquinamento delle falde (nella metà del territorio francese l’acqua delle falde non è potabile), e sono voraci di energia. Si può non essere d’accordo, si possono enfatizzarne i limiti e i difetti, si può essere ferocemente contrari, ma non si può negare, come fa Pascale, che essa sia una realtà seria, spesso molto interessante anche per le rese quantitative e per i redditi che assicura (essendo i prezzi maggiori). E perché prendersela con tale astio con i suoi sostenitori? Tra loro ci sarà certo qualche infatuato, ma la maggior parte sono persone sensate, che studiano e si informano, che reputano importante impegnarsi di persona. Sappiamo bene che senza l’impegno di tutti la battaglia per l’ambiente è persa.

Secondo Pascale, questa è la sua seconda filippica, l’agricoltura italiana sarebbe frenata da una posizione oscurantista, a suo dire dovuta alla sinistra (lui stesso però ci dice che anche i ministri di destra hanno avuto le stesse posizioni), nei confronti degli organismi geneticamente modificati. Secondo lui, fa molti esempi, i singoli gravi problemi che incontrano tante colture italiane, potrebbero essere risolti utilizzando piante modificate, se non ci fosse appunto questa medioevale opposizione. Sembra ignorare che le magagne che esemplifica sono purtroppo una costante delle attuali forme superintensive di coltivazione in frutticoltura e orticoltura (come anche nell’allevamento): risoltane una con moltissima fatica (e spesa), ne salta subito fuori un’altra, in genere più grave. E certo sarebbe bello poter venircene fuori solo con l’ingegneria genetica. Ma è un mito. Nella maggior parte dei casi le piante geneticamente modificate hanno dimostrato di parare parzialmente il problema per il quale sono state concepite, poi in genere gli svantaggi cominciano a superare i vantaggi. In molti casi lo scacco è stato totale. Questi sono i fatti ad oggi, anche se certo in futuro ci saranno dei risultati migliori, che tutti noi auspichiamo. E il loro impiego implica rischi di vario tipo e gravità, che purtroppo non sono ubbie della sinistra italiana (ma quale?), sono purtroppo realissimi, come dimostrano tanti studi. Non per niente l’Unione Europea, che Pascale non cita mai, e che condiziona le nostre scelte, ha optato una linea molto prudente, il cosiddetto “principio di precauzione”.

A dispetto del condivisibilissimo appello alla ragione contenuto nel capitoletto conclusivo, il testo di Pascale è un concentrato di pregiudizi, imprecisioni (spesso imbarazzanti), storture e omissioni. Certo, nell’introduzione mette le mani davanti, ci avvisa che lui non è uno specialista, parla da scrittore. Ma appunto questa sua posizione distanziata dovrebbe permettergli di aprirci a prospettive più ampie e più profonde. E invece le sue argomentazioni si servono della retorica stucchevole di chi solo contro tutti declama il vero, e sfruttano l’analoga emotiva parzialità, la stessa tendenziosità, che depreca nei suoi avversari. Conscio forse della propria debolezza, lancia a più riprese un appello a fidarsi “di chi ne sa più di me”. L’impresentabile bibliografia, composta di sette misere e disparate voci, non rappresenta certo un aiuto per chi volesse approfondire l’argomento.

[questo testo è apparso – in forma decurtata – su “Alias” del 10.06.2012]