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Nuovi autismi 20 – Letteratura e fallimenti

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di Giacomo Sartori

Nella mia famiglia siamo tutti dei falliti. Certo con sfumature diverse, perché la vita è sempre molto varia, e anche in un asfittico ecosistema autoreferenziale la biodiversità può essere notevole: falliti presuntuosi da parte di mia madre, falliti più dimessi da parte di mio padre, falliti coscienti di esserlo e falliti emuli Napoleone, falliti coraggiosi, a tratti eroici, e falliti meschini, falliti estroversi e falliti depressi, falliti nullafacenti e falliti iperattivi, falliti invitti e falliti suicidi: ce n’è per tutti i gusti. Ma pur sempre falliti. Io sono cresciuto nel silenzio che segue le grandi catastrofi. Quando ero piccolo il fallimento più vistoso e invadente, il cataclisma che pesava su ogni discorso, era il fiasco del RIFUGIO. Dopo la guerra mia madre aveva avuto la bella idea di investire gli ultimi risparmi rimasti a mia nonna dopo il naufragio precedente, quello della SVALUTAZIONE, nella costruzione di un rifugio alpino sulla montagna che sovrasta la cittadina dove abitavamo. Naturalmente sul rifugio si focalizzano tutte le aspirazioni e le predilezioni dei miei: la passione per la montagna e per gli sport salutisti, l’ideale di una vita semplice e spartana, un lavoro indipendente, la lontananza dalla città e dalla corruzione democristiana. L’idea forse non era male, ma troppo avanti con i tempi: all’epoca i clienti si facevano vedere solo la domenica, e solo quando faceva bel tempo. E avevano pochissimi soldi: la maggior parte ordinavano una bevanda, o al limite un qualcosina per integrare un pranzo al sacco, mangiavano, e poi sparivano. Ma soprattutto i miei non avevano nessuno spirito commerciale: a mia madre è sempre piaciuto pontificare agitando le braccia nell’aria, e mio padre si atteneva al ruolo dell’orso burbero e sessualmente temibile. Non sapendo trattare con i fornitori pagavano tutto caro, e men che meno riuscivano a incassare i debiti. E comunque un sacco di gente consumava e se la filava alla chetichella: il rifugio aveva raggiunto una certa notorietà proprio per questo. Loro si inventavano sempre nuovi metodi, ma moltissimi riuscivano lo stesso a farla franca. Rendendo pazzo di rabbia mio padre, la cui moralità littoria non poteva concepire bassezze di questo genere. Del resto visto l’andazzo anche i sottoposti facevano man bassa. Insomma, dopo una lunga agonia hanno gettato la spugna. Prima mio padre, e dopo qualche stagione, e per la precisione un anno dopo la mia nascita, anche mia madre. Del rifugio, svenduto per poche lire poco prima che la zona cominciasse a diventare di moda, restavano decine di coperte di lana grezza, e dei pesantissimi piatti di porcellana grezza, quelli stessi che ogni tanto mia moglie porta in cantina e io vado a riprendere, perché appunto ai fallimenti e ai loro simboli ci si affeziona. Lo scacco del rifugio era però prima di tutto una metafora: il vero fallimento era il loro matrimonio. Per rimediare a quello non si poteva fare proprio niente, anche con la migliore volontà. Ma naturalmente dietro alla disfatta della loro unione c’era quello delle loro giovinezze e delle loro belle speranze: in altre parole il crollo del fascismo, al quale entrambi avevano aderito con entusiasmo. Per far fronte a quello non c’era rifugio che tenesse. Ma appunto più indietro ancora c’era tutta una genealogia di insuccessi, sia da parte di lui che da parte di lei. Adesso non voglio dilungarmi, altrimenti diventa un romanzo, ma mio nonno paterno aveva investito tutti gli averi della moglie in un avveniristico progetto di lavanderie per alberghi, nel quale la proprietà delle lenzuola e delle tovaglie restava alla sua società. Anche qui i tempi non erano maturi, anche qui mancava completamente il bernoccolo degli affari: le lenzuola e le tovaglie venivano sistematicamente rovinate e distrutte. Mio nonno materno, la cui carriera americana aveva preso il là da una giovanile perdita al gioco, è fallito in un modo meno eclatante, ma più ignominioso: ammalandosi di una malattia impronunciabile. Dopo la sua morte prematura mia nonna è riuscita a recuperare solo una piccolissima parte dei suoi averi mimetizzati in una ingarbugliata foresta di società e di prestanome sparsi per il mondo. Di lui restavano la divisa di ufficiale sabaudo, qualche gingillo prezioso, perché adorava il lusso, e qualche lettera manoscritta dell’amico di gioventù Giovanni Agnelli. Ma naturalmente i fallimenti precedenti si ammantavano di ancora più evanescenti nebbioline, nelle quali fragili figurette danzavano sul bordo della voragine dell’oblio: miraggi ancora più labili. Io sono cresciuto nella nostalgia di un qualcosa che non c’era più, e ancora adesso provo nostalgia per ciò che forse non è mai esistito. È con questa zavorra sentimentale che ho affrontato i miei primi romanzi, è con questa bramosia che ho divorato le scaffalate di diari e di racconti di guerra che leggeva mio padre. Vicende che si svolgevano per lo più dalla parte sbagliata della storia, con retoriche che ora aborro, però pur sempre umane storie di fallimenti, con corpi che soffrivano e sangue che sgorgava. Ma anche dopo nei libri ho sempre cercato esempi di insuccessi con i quali confrontarmi, braccando gli strumenti per interpretare la mia disfatta personale, e forse anche nutrirla, come si foraggia senza volerlo un insaziabile verme solitario. La letteratura per me non è mai stata evasione, ma vertigine e confronto, dialogo con me stesso: essenziale lavorio quotidiano. Nel mio piacere allignava sempre la soddisfazione della vittoria sui miei pregiudizi, l’ebbrezza di nuovi orizzonti di ripiegamento. Nel corso degli anni ho rincorso esempi sempre più arzigogolati e raffinati, sempre più infossati negli abissi dell’interiorità, perché mano a mano diventavo più esigente, più difficilmente contentabile. Non mi dicevano più niente le rozze battaglie che mi soggiogavano quando ero ragazzo. E naturalmente sempre più i messaggi segreti li trovavo imbrigliati nei meandri del linguaggio, sempre più diventava una questione di scarti e  di virtuosismi linguistici. Ossessionato dalla ricerca della verità, senza rendermene conto ero io stesso forse diventato un prodotto delle finzioni che avevo assimilato, avevo forse perso ogni realtà, ogni verosimiglianza. In questa terra di nessuno popolata da miraggi ho cominciato io stesso a scrivere. Eppure andavo avanti a cercare, e tuttora sfrucugno alla ricerca di insegnamenti, o anche solo di risultanze sperimentali, cristalline evidenze fatte di parole, che possano essermi utili. Devo dire che ho sempre trovato senza difficoltà quello che cercavo: l’assillo principale del romanzo moderno, a cominciare dal Don Chisciotte, sembra essere proprio il fallimento. In tutte le sue declinazioni e varianti, in tutti i suoi inessenziali ammaestramenti.

(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1989 circa)

In nome del debito sovrano

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L’età del declino *

“…Nel 2012 la democrazia nell’Europa mediterranea venne sospesa, per instaurare una tecnocrazia il cui unico fine era quello di drenare le risorse del capitale privato e convogliarlo nelle casse della BCE. I colpi di Stato bianchi dei tecnocrati vennero favoriti dalla corruzione endemica delle classi politiche locali, che accettarono il fatto compiuto sulla base di un ricatto strisciante, pur di conservare i loro privilegi e restare immuni da ogni provvedimento in sede processuale. Questo fenomeno determinò la sospensione effettiva dei diritti dei cittadini e dei più elementari principii di legalità, costituendo inoltre un laboratorio politico per le democrature, le tecnocrazie e i totalitarismi che avrebbero caratterizzato la successiva fase del collasso delle strutture sociopolitiche dell’Occidente.

Gli ultimi desideri di Boyle: alchimia e luce.

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di Antonio Sparzani

Continuando quanto vi raccontavo a proposito della lista dei desideri del nostro Robert Boyle, molte altre cose potrebbero formare oggetto della nostra curiosità e del nostro stupore,

Quando arrivarono gli alieni. 43-45

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I want to believeAd Andrea Raos

43. Il pianeta si attardava in un dormiveglia fatto di guerre regionali, di smantellamenti di distretti industriali. La proliferazione di confusi e sovrapposti schemi di ferocia e avidità segnava i gruppi sociali localizzati nelle fasce periferiche del capitale finanziario. Gli spessori dei loro corpi sociali, composti, come persone addormentate, tra i quartieri residenziali a basso impatto ambientale, erano intessuti da social network dedicati, da sistemi autonomi di circolazione monetaria e da dottrine filosofiche apprese dalle TV via cavo locali, orientate al razzismo, alla riproduzione endogamica, all’ottusità come espressione compiuta di potenza.

Nostalgia canaglia

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due parole sul futuro della memoria e sui Navigli meneghini

di Gianni Biondillo

In un romanzo rimasto incompiuto di Elio Vittorini, proprio nelle prime pagine, l’autore ci racconta delle due cerchie di terrapieni e mura meneghine che andavano abbattendosi già dagli anni Trenta del secolo scorso. Conosco pochi autori così profondamente milanesi come lo scrittore siracusano. È tipico di chi si sente accolto come un figlio, l’amore quasi incondizionato, estremo, per Milano. Vittorini vedeva abbattersi la memoria storica, preindustriale e, non ostante la sua sensibilità estetica consapevole della perdita, riusciva allo stesso tempo ad entusiasmarsi nei confronti di ciò che il nuovo portava con sé. “Il grandeggiare delle prospettive dei gai palazzi di vetro” – scrive – che andavano a prendere il posto “dei docili colli coi fianchi coperti di muschio che furono i bastioni.”
Se esiste una tradizione, una autentica tradizione meneghina è sicuramente quella di cambiare di continuo pelle, di ridefinire i suoi spazi, di aggiornare il contesto urbano alla modernità. Milano quasi vive come un intralcio la sua millenaria storia, cerca di continuo di rinascere con slancio, di esserci, costi quel che costi, di mostrarsi al passo col mondo. Non che questo non provochi sofferenza, nostalgie, spesso anche frizioni nel tessuto sociale. Leggo, per dire, da un bollettino parrocchiale di quasi un secolo fa, dopo l’abbattimento del complesso di Santa Maria di Loreto, i versi di un anonimo poeta vernacolare: certo, quanto dolore per la perdita della memoria, sopratutto per “i vic nas, scampa chi tucc arent / atorna a la gesina ed al convent” d’altronde, inutile girarci attorno “L’è inutil imprecà e suspirà / L’è inutil tornà indree cont el penser”. Alla fin fine i milanesi, dal grande scrittore al poeta della domenica, comprendono che il mutamento assomiglia a loro più della conservazione. Strana razza, che demolisce monumenti insigni e poi li rimpiange. Ma prima, appunto, li demolisce, nel nome di una emotiva, viscerale fiducia nei confronti delle magnifiche sorti e progressive.
Così accadde con la cerchia dei Navigli. E così, in fondo, doveva accadere. Nel volgere di qualche decennio, quasi a sfregio del lavoro secolare delle generazioni precedenti che avevano trasformato Milano in una sorta di Venezia di pianura, giusto perché la contemporaneità lo chiedeva, con slancio, con entusiasmo, la fitta rete di canali è stata tombinata, chiusa, sepolta, esclusa allo sguardo di tutti. Ciò che resta scoperto, lo sappiamo, sono lacerti di un sistema idraulico straordinario, che ha perduto la sua funzione originaria di trasporto merci. Non ci ha messo molto Milano a trovare una nuova vocazione ai quartieri che si affacciano sui Navigli ancora esistenti, usati oggi come canali irrigui, spesso in secca, desolati, abbandonati.
È bastata una generazione. Mio padre rammentava i suoi bagni da giovinetto nelle acque di un canale che non esiste più. Per me i Navigli, quelli della cerchia storica, semplicemente non sono mai esistiti. Ciò che non esperiamo col corpo smette di scambiare significato. Non c’è. Punto. Per me i Navigli sono solo quelli che ho conosciuto per davvero – la Martesana, la Darsena, il Grande, il Pavese -, lì ho passato la mia adolescenza (certi sabati qualunque, certi sabati italiani) bevendo birre su queste sponde, discutendo di arte e di politica, ridendo a crepapelle, piangendo, anche. Qui ho scoperto la passione per la musica, ascoltata in alcuni locali storici (fra cui il mai abbastanza rimpianto Capolinea, autentico tempio della musica jazz) e accompagnata a bruschette saporitissime e calici di vino rosso rubino. Qui, io stesso, ho suonato e cantato, quando avevo vent’anni e volevo fare la rock star nella vita, qui, preso da autentico innamoramento urbano, ho festeggiato, nel cortile pergolato di una birreria, il mio matrimonio, banchettando e ballando fino a tarda notte.
Ma per me il “tombone” di San Marco, le chiuse, le alzaie, sono poco più di una toponomastica misteriosa. Un racconto che viene da un altro mondo, da un indifferenziato passato, da una nostalgia di un’epoca che, a dirla tutta, non ho mai conosciuto. Mi rendo conto di fare a pugni con la mia formazione storica, universitaria, ma d’altronde mi sento perfettamente coerente col mio essere milanese.
Leggo e ascolto di continuo i lai disperati di chi rimpiange quella Milano, quella dei bastioni e della cerchia dei Navigli (non vorrei apparire caustico, ma ogni tanto mi chiedo se si rimpianga anche la Milano di quando “si teneva la porta di casa aperta”, “ci si conosceva tutti” e “si parlava tutti in dialetto”. La nostalgia è un motore mitologico fenomenale) e ammetto di subire il fascino di chi propone la riapertura della rete d’acqua, per quanto sappia, razionalmente, che sarebbe una impresa spaventosa e assolutamente antieconomica.
Avrei voglia anch’io, insomma, di vederla quella Milano fluviale, imparentata con le città del Nord, con Amburgo, con Amsterdam. Ma so che sarebbe, nei fatti, un desiderio antistorico. Il ripristino dei canali navigabili mi sembra una operazione di restauro urbano che nega l’evidenza: la freccia del tempo è irreversibile, mi ricorda Ilya Prigogine. Scoperchiare i Navigli, al di là dell’impresa titanica, mi pare persino blasfemo e irrispettoso nei confronti della altrettanto titanica operazione di ridefinizione territoriale che segnò il secolo che ci ha preceduti. Un modo di annichilire la Storia proprio nel nome della Storia.
Ma non è nostalgia, mi si ribatte. È progetto. È, a partire da un talento del territorio, il modo di dare una nuova tonalità, una nuova bellezza alla città. Sarebbe vero, e sarebbe bello, se non fosse che alla fine, questo sistema di canali artificiali che si vuole creare non fa che ricadere nei tracciati storici. Cioè, sotto mentite spoglie, nel desiderio di rimettere mano ad una zona della città che ha già subito fin troppi segni e riscritture. Il sospetto – brutta cosa essere sospettosi – è che in fondo si cerchi di abbellire ciò che non ne ha bisogno, il centro storico, lasciando il resto della città per quello che è, quasi non esistesse. Una visione centripeta e perfettamente inadeguata a quello che Milano è diventata: una città centrifuga e policentrica. Insomma, fuori dai denti: ma davvero crediamo che occorra densificare di segni progettuali solo il centro, cioè una piccola parte di territorio di una metropoli enorme, quando la restante parte della città, quella quantitativamente più presente (in abitanti e in incasato) avrebbe bisogno, eccome, di attenzione, di progetto, di identità?
Nessuno mi propone di usare l’elemento cangiante, poetico, magico dell’acqua per riprogettare alcune periferie, alcuni quartieri senza qualità. Luoghi dove, tra l’altro, per sezione stradale e per spazi disponibili una invenzione ex-novo di canali non comporterebbe cantieri dai tempi biblici quali quelli che, se si attuassero, imprigionerebbero il centro storico per decenni.
Questa passione per le grandi opere la conosco. È tipica di chi vuole lasciare il proprio imperituro segno nel mondo. È tipico di una deformazione del progettista e di una logica demagogica che ci caratterizza come italiani. Ma per come la vedo, oggi Milano ha bisogno di qualcosa di meno eclatante, di meno spendibile dal politicante di turno. Ha bisogno, cioè, di una rispettosa manutenzione ordinaria e di una consapevole riprogettazione funzionale di ciò che già c’è: dei Navigli ancora esistenti, per dire, che versano in condizioni penose; dell’unico fiume che attraversa la città, il Lambro, bisognoso di attenzione vera e occasione progettuale irrinunciabile; del Seveso, intubato nella pancia della città e che ad ogni pioggia minimamente copiosa, tracima e mette in ginocchio Niguarda e, di conseguenza, mezza Milano (certo, uno scolmatore fa poco chic per un architetto, ma quanto ne abbiamo bisogno!). Ma su tutto il nostro sguardo dovrebbe concentrarsi su quelle periferie dove vive il 90% degli abitanti di una città enorme, che, come il Seveso, “tracima” ben oltre, non solo dalla cerchia dei Navigli, ma dai confini stessi della città. Le tangenziali di Milano, per capirci, sono il nostro nuovo sistema di circonvallazione urbana di una metropoli che esiste non ostante le lentezze amministrative, e che ha perciò bisogno d’essere (ri)pensata a questa macroscala.
Diamo le spalle al Duomo – alla nostra montagna di pietra cresciuta grazie ai Navigli della nostra memoria – almeno per una volta. Concentriamoci, per dovere, per etica urbana, sul resto del territorio. Questo non significa dimenticare la nostra storia, ma ribadirla. Il doveroso esercizio della memoria più che in un restauro falsificante sta soprattutto nella capacità di conservare l’esistente come un prezioso lascito ereditato dal passato, sta nella ricerca dei segni fantasmatici, e perciò affascinanti, di ciò che sembra perduto, sta nel saper leggere tutte le differenze o le aderenze del palinsesto urbano, stupendoci ancora di quanto sia viva questa città, di come muti per restare sempre se stessa. Milano cambia e noi con lei. Come diceva Pasolini: “nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze.”

[questo pezzo si legge anche qui, con titolo differente]

Lo scienziato buono e lo scienziato cattivo

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di Andrea Inglese

[Questo pezzo fa parte di un nodo su scienza e democrazia apparso sul n° 18 di “Alfabeta2”, che include anche un inedito di Feyerabend curato e tradotto da Antonello Sparzani.]

Realtà dell’uranio impoverito

Da una decina di anni, in diversi paesi del mondo, associazioni e famiglie di veterani, organi dell’esercito, istituzioni internazionali della sanità e dell’ambiente, ONG pacifiste e ambientaliste, giornalisti, ricercatori di diverse discipline, commissioni parlamentari, avvocati e magistrati stanno cercando di stabilire un fatto, l’esistenza o meno di un pezzo di realtà, ossia l’eventualità che esista un legame di causa-effetto tra l’uso di proiettili contenenti uranio impoverito e la malattia di chi, soldato o civile, è entrato in contatto con frammenti o polveri da essi prodotti.

A Cure for the Blues

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di Orsola Puecher

 
Nel piccolo saggio ⇨ Come curare la malinconia Mark Twain recensisce l’esordio tardivo, o forse ritardato, sicuramente a scoppio ritardato di un oscuro scrittore di provincia, G. Ragsdale McClintock

da “La rabbia di me” (1)

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di Alessandra Carnaroli

– signora fra un po’ gliela riportiamo così l’attacca –

e dove sul muro che sono tutta un dolore? mi sembra che mi è venuta fuori l’ernia dalle gambe, mi sembra che sono il fuoco che brucia sotto. l’attacco sul muro come se è la foto di un parente morto come se è un quadro coi cavalli, l’attacco al tram facciamo un giro la porto a comprare il ghiacciolo. mi hanno detto “complimenti è una femmina” io non lo sapevo non lo volevamo sapere fino all’ultimo, volevamo la sorpresa va bene tutto basta che è sana

L’ingresso è gelido, le piccole ore notturne della casa si dispongono simmetriche nello spazio vuoto.

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di Mariasole Ariot

 

L’ingresso è gelido, le piccole ore notturne della casa si dispongono simmetriche nello spazio vuoto. Una donna mi consegna un foglio, “lo firmerai domani”, dice sottovoce, e continua a sorridere, sorride come si sorride alla madre di un figlio morto: è la contenzione mascherata da accudimento.
Al risveglio non una terra che frana sotto i piedi ma il mio volto che frana sotto i piedi dello strato più profondo della terra. Questo tempo che non passa è un ramo nero e secco, bruciato da un sole osceno, divorato dalle larve.

[un uomo entra nella stanza, abbassa i pantaloni, piscia per terra, io piango]

Aperto il ramo, spezzate le giunture, i piccoli vermi bianchi annodano e si snodano afferrando il loro niente.
E quel niente senza nome ha il cuore  di una donna che tace da tre giorni, di tre giorni in tre giorni si addormenta e si risveglia, rannicchia le giunture come fossero oggetti, rende le ginocchia soprammobili perché se ne prendano cura i parenti. Il resto va in frantumi, lei dorme e lo farà per un tempo che qui dentro non conosce la distinzione tra i mai e i sempre.

Poesie # 4

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di Franco Buffoni

Vita agra       

 E li pensavo invece che ai ponteggi

Aggrappati al condominio di fronte,

Sui prati verdi a prendere il sole

Giocare a tamburello bere birra

Scherzare fino a tardi ritornare

Per svegliarsi alle sette

Essere alle otto in punto qui di fronte

Risalire il ponteggio, accompagnarmi

Per tutta settimana, cento pagine nuove

Da tradurre.

Il grande Pardini

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(uno dei grandi misteri della narrativa italiana è per me come Vincenzo Pardini non abbia vinto due volte il premio Viareggio, come non sia letto e amato e osannato, come tutta la sua opera non sia stata riunita e ristampata da un grande editore, come non sia considerato un classico, come non venga letto nelle scuole; dalla sua ultima raccolta di racconti “Il viaggio dell’orsa” (Fandango, 2011) ritaglio due stralci quasi a caso: la sua scrittura così desueta e così attuale, sempre così particolare, mi sembra sempre bellissima; GS)

di Vincenzo Pardini

da “La sfida e la pantera”:

La domenica mattina, o il sabato pomeriggio, Mastre e Veronio aprivano la gabbia a Panterina, che usciva nel verziere. Avvicinatasi al tronco d’un fico, lo incideva con gli artigli. Poi fiutava i muri, guardando in alto. Pareva ammirasse il cielo. In contrasto col manto nero, gli occhi gialli erano pepite d’oro. E anche il collare d’acciaio brillava in maniera insolita. Alla carne macinata, preferiva polli e conigli, che loro compravano al supermercato. Talvolta glieli strappava di mano con una zampata, addentatoli. Le ossa scricchiolavano tra le mandibole. Delle galline, lasciava zampe e testa, dei conigli soltanto la testa. Dopo, entrava in casa. Sdraiata sul divano, s’assopiva. Alle loro carezze restava assai distaccata. Avessero insistito, li avrebbe guardati coi suoi occhi traversati da un riverbero cupo. Se invece era lei a voler giocare, gli accostava collo e schiena alle gambe. Durante uno di questi giochi, profittando del fatto che Veronio voleva allargarle il collare, se lo sfilò tirandosi indietro di scatto. Adesso non sapevano come fare per riportarla nella gabbia. Provarono mettendovi della carne. Sazia, la ignorò. Andò dentro, passata mezzanotte.

Venne freddo. Il sole batteva nel suo angolo solo al mattino. Teneva gli occhi socchiusi, il corpo percorso da un tremito. Mastre e Veronio pensarono fosse ammalata. Chiesero a Michelangela se conosceva un veterinario di cui fidarsi. Il veterinario consigliò di metterle paglia nella stia. Animali assai umorali, male accettavano l’inverno, specie in cattività. Loro tanto fecero. Ma lei ammucchiò la paglia in un angolo, muovendo le zampe anteriori alla stregua di braccia. Voleva stare sulla terra nuda. Come di consuetudine, un sabato pomeriggio la liberarono. Uscì, stiracchiandosi e sbadigliando. Poi, salita sul fico, dai rami alti scavalcò il muro, scomparendo. Esterrefatti, Veronio e Mastre si guardarono in silenzio. Dalle case vicine provenne qualche grido, che pareva più di meraviglia che di paura. Colti dal panico, decisero disfarsi della gabbia che, in breve, ridussero a ferraglia.  Poi, col furgone, andarono a gettarla in una discarica abusiva, vicina al Tevere. Tornando indietro, trovarono nel quartiere le macchine della polizia.

 

da “La vendetta del gufo”:

Ormai padrone del territorio, il gufo, nelle sue uscite  al calar della sera e all’alba, s’era avvicinato alle case abitate di S. Francesco, planando sui tetti che non sapevano di legno, pietra e  camini spenti; emanavano suoni  a lui sconosciuti, che lo inquietavano, facendolo sentire in pericolo. Ma, nello stesso tempo, scoprì che attorno a quelle case c’erano pollai, gatti, civette, passeri e storni. Quella mattina, nascosto dietro il comignolo, ghermì una civetta che rientrava al nido, sotto le tegole. Per la femmina afferrò un giovane gatto, in giro attorno a una pagliaio. Gli calò addosso, oscurandogli la vista con le ali; il gatto si inarcò, e lui lo colpì col becco, adunghiandolo sulla schiena, che finì di stritolargli in volo, mentre ancora soffiava e si contorceva. Ma gli animali di terra, sollevati in aria,  perdevano forza e coraggio, abbandonandosi. Radente gli alberi, volò al nido. Arrivato, la femmina gonfiò le penne, allungando il collo. Lui, poggiatosi al bordo del covo, gli dette il gatto, che lei tranciò col becco, ingoiandone bocconi che le   gonfiavano il collo. In breve, del micio rimasero pelliccia, zampe e testa, che gettò nel dirupo. Il maschio le fece delle effusioni, strofinandola con la testa. La pioggia scorreva sul loro piumaggio come fosse unto. Spuntava un’alba di nubi. Dal bosco provenivano i canti degli uccelli del giorno che, da quei dintorni, s’erano allontanati. Il maschio li aveva cacciati e rapiti. Sotto i suoi colpi erano cadute cornacchie, ghiandaie, un falchetto e storni. Era entrato nel loro stormo, alla sera, quando calavano. Sazi, lui e la femmina s’apprestavano a trascorrere la giornata.

La pattuglia del Corpo Forestale, comandata dal brigadiere Saleo De Fernandi, era arrivata a S. Francesco ch’era appena giorno. Non si spinse nello spiazzo del crinale, in mezzo alle case e le capanne dislocate sui dossi. Si fermò tra castagni, lecci e muri a secco. L’intento del brigadiere era di nascondersi in un cortile abbandonato, da dove osservare le mosse di Faido Alterchi. Aveva percezione che, profittando del cattivo tempo e sentendosi al sicuro, facesse qualche mossa falsa. Pioveva, e l’acqua  scivolava dal pastrano grigioverde dei due agenti. Nubi  calavano a sghembo dalla montagna, unendosi alla nebbia della Valle, mossa da folate gelide. Una primavera che sembrava inverno. Appostato davanti casa Alterchi, il brigadiere mise mano al binocolo, inquadrandone l’aia. Non c’era movimento, se non il fumo del caminetto. Ma i cani (ne avevano quattro, due da gregge e due da pagliaio) abbaiarono, puntando verso di loro. S’aprì una finestra e s’affacciò la madre di Faido. Si ritrasse, lasciandola aperta. Dai costoni s’alzò il gauuu di un lupo. Solitario e cavernoso, pareva disperdersi nella nebbia. Un altro gli fece eco dall’altra parte della montagna. I cani si azzittirono. Dopo un concitato vociare, e uno sbattere di porte, Faido uscì, incamminandosi all’ovile, situato nei pianori sottostanti la casa.  Da lì non l’avrebbero controllato e allora si spostarono verso un’altura che gli permetteva di spaziare il territorio sottostante.  Le nubi s’erano fatte più nere, ma la pioggia aveva rallentato. Col binocolo, il brigadiere inquadrò l’obiettivo. Arrivato all’ovile, Faido fece uscire il gregge, che seguì riparandosi col pastrano. Il brigadiere avrebbe voluto andarsene. Ma l’agente, giovane e curioso, gli chiese di  perseverare. Il brigadiere acconsentì. Pochi istanti e Faido, allontanatosi dal gregge, raggiunse una capanna fatiscente, salendo sul tetto. Piegato sulle tegole, parve prelevare o deporre qualcosa. Scese, guardando attorno.

 

 

 

Koufax lancia!

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Biagio Cepollaro alla Camera Verde

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a Roma, sabato 14 aprile 2012, alle ore 19:30
in Camera verde (via G.Miani 20)
.
 presentazione della raccolta di poesie
.
Le qualità
di
Biagio Cepollaro
(Collana Metra)

Animali da soma

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(da Con Fatica Dire Fame)

di Giovanni Turra

Giunto più che a mezzo del cammino
bramisci con gli alci
a lode del Signore: solo,
sei sempre stato solo
e matto una metà.
. . . . . . . . . . . . . . . . Alpenstock:
s’abbatte in terra la mia verga e trema
se turbo spira.

Hamlet in the Dark Pt.II

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Hamlet in the Dark Pt.II / Michele Zaffarano. 2012

Nuovi autismi 19 – I miei piedi

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di Giacomo Sartori

I miei piedi amano camminare, il che forse per dei piedi non è originalissimo. Se fosse per loro saremmo sempre in movimento. Pure a me piace scarpinare, ma più di tutto stare a letto. Io nel letto non mi limito a dormire, ma anche leggo, lavoro e faccio il malato. E siccome leggo e lavoro molto, e sono quasi sempre malato, giaccio spessissimo sdraiato. Il mio compagno di università mi chiamava Oblomov, e mia moglie un giorno mi ha confessato con le rughine tra le sopracciglia che prima di conoscermi non aveva mai immaginato che una persona potesse passare tanto tempo a letto come faccio io. I miei piedi insomma non sono tanto contenti, e qualche volta si gonfiano, soprattutto sul lato esterno e su verso le caviglie. Io allora mi lascio intenerire, e li porto a spasso. Certe volte bisticciamo, ma per molti versi ci assomigliamo: anche loro sono robusti e fragili, un po’ ottusi e ostinati, curiosi e monomani, ipersensibili e inclini allo scoraggiamento, timidi e forse un tantino paranoici. Morfologicamente sono corti e hanno il collo alto – nei negozi di calzature ho imparato che si dice così – quindi abbiamo sempre qualche difficoltà a trovare di che coprirci. Neanche parlarne di mocassini, o di quelle scarpette da ginnastica affusolate che si usano adesso, tanto per intenderci. Se la misura è della lunghezza giusta le scarpe che proviamo sono troppo strette, se la larghezza è sufficiente sono lunghissime, e questo la dice lunga sulla loro intrinseca inadattabilità. Del resto di solito ci riforniamo alle svendite, verso la fine, quando non resta quasi niente: ci adattiamo a quello che troviamo, rammaricandoci di far sempre le cose all’ultimo momento e male. Manco a dirlo mia madre s’era messa in testa che camminassi con i piedi inclinati in dentro, e allora ogni tanto mi portava da degli specialisti che mi facevano incedere avanti e indietro come si fa con le indossatrici. Non c’è affatto da stupirsi, perché lei ha sempre pensato che tutto quello che facevo non andasse tanto bene. Quel che è certo è che i miei piedi puzzavano, e i miei fratelli e i miei cugini mi prendevano in giro, e in vacanza si accapigliavano per non dormire con me. Io mi vergognavo dei miei piedi così cafoni, perché ero un po’ orgoglioso, e mi sarebbe piaciuto essere piuttosto stimato e ammirato. Qualche anno più tardi ho scoperto una polverina bianca che insufflata nelle scarpe risolveva il problema: la formicolante operosità della specie umana riesce a trovare delle soluzioni agli impicci più disparati. Per noi, io e i miei piedi, è stata uno storico passo in avanti, una vera e propria emancipazione. Poi invece a un certo punto hanno smesso di odorare, perché nella vita tutti abbiamo delle svolte inaspettate, tutti prima o poi facciamo il contrario di quello che facevamo prima. Rimangono i soliti rusticoni, ma non puzzano più. Però intendiamoci, hanno anche afflati metafisici, e amano per esempio lasciare enigmatiche impronte sul bagnasciuga, effimere ma filosoficissime impronte. Si accollano questa responsabilità con orgoglio trattenuto, con solennità, stagliandosi ieraticamente nella luce del tramonto. Purtroppo al giorno d’oggi prevale la tendenza a confinare i piedi nelle funzioni più terra e terra, e invece per capire davvero una persona bisogna partire proprio da loro. I piedi a differenza delle facce non sanno mentire, e non riescono a nascondere la ristrettezza mentale e il servilismo. I piedi delle persone libere sono fieramente aggrappati al suolo, hanno dita dritte e distanziate l’una dall’altra, sono armonici e ben equilibrati, espressivi e saggi, emanano un’innata eleganza, un irresistibile carisma. Non c’è niente di più seducente di un piede indomito, anche se tozzo, e niente di più repellente di un piede molliccio e asfittico, ombroso e meschino, marcato dalle stigmate della sottomissione e della schiavitù. Per parte mia trovo seducentissimi certi piedi, e non ho mai venerato nessuna zona del corpo femminile più di quella. Certo però che viviamo in un’epoca nella quale la superficialità infuria incontrastata: conta solo la scorza, l’immagine. Sembra quasi che i piedi servano solo a denotare lo stato sociale e le inclinazioni più futili, invece che a fare tutte le cose per le quali sono fatti. Per ottemperare stolti capricci cosiddetti estetici sono costretti a mascherarsi da nababbi, principini, tennisti, fate, streghe, pirati, cow-boy, becchini, giullari, capitani d’industria, pompieri, centauri, bambole, ballerine, olandesine. E loro si prestano al gioco, seppure a malavoglia, perché in molti casi la dignità non è il loro forte. Solo i popoli più poveri hanno ancora il buon gusto di andare in giro scalzi, come del resto – come è noto i contrari tendono spesso a flirtare – anche molti ricconi nelle loro case di lusso. Ma sono eccezioni. Io stesso, educato in un paese relativamente opulento e che da sempre officia gli dèi dei calzari, soggiaccio all’ignobile dittatura dell’etichetta e dei riti borghesi. Alla mia laurea tanto per fare un esempio ero vestito anche troppo bene, o così mi sembrava, ma indossavo un paio di scarpe consumate, e mentre ero seduto davanti ai professoroni mi dicevo che da dietro il pubblico non poteva non notare le mie scarpe scalcagnate. E quindi invece di essere fiero dei complimenti della giuria mi sentivo derelitto: la mia carriera scientifica comincia proprio bene, mi dicevo. Certo però taluni eccessi andrebbero imbrigliati. Se io fossi un implacabile despota proibirei agli uomini le scarpe a punta, soprattutto se lucide e nere, e alle donne ogni genere di calzature che produce quell’imperioso rumore di zoccoli sui pavimenti e sull’asfalto che non può non risvegliare in un qualsiasi cervello democratico risonanze funeste. Se c’è una cosa che detesto sono le donne che incedono calcando marzialmente ogni passo come un ben assestato colpo a un tamburo di una banda militare. Ma intendiamoci, anche i ticchettii ravvicinati e falsamente indifesi dei tacchetti appuntiti mi fanno venire il latte alle ginocchia, checché ne pensi Dino Campana. Quanto ai tacchi alti, con le volgarissime accentuazioni che provocano nelle sinuosità femminili, mi sembrano l’espressione del più consenziente asservimento al machismo più becero, non riesco a capacitarmi che vengano tollerati. A pensarci bene se fossi un dittatore comunisteggiante (mi vedo male come dittatore fascista) proibirei ogni sorta di tacchi. Poi però mi lascerei commuovere, perché in fondo non sarei poi così perfido, e commuterei la pena capitale in un periodo di rieducazione con calzature elastiche e silenziose, beninteso senza l’ombra di tacco. Una cosa degna di nota è che le suole delle mie scarpe si erodono solo all’estremità posteriore del tallone e in una confinata area centrale, il resto rimane come nuovo, anche a distanza di anni. Secondo mia moglie è perché i piedi degli scrittori non appoggiano tanto bene per terra. Io le ribatto che è proprio per quello che anche le loro frasi risultano un po’ sbilenche, e sono così belle. Per non parlare delle scarpe dei poeti, che non si logorano mai, perché loro la superficie terrestre la sfiorano appena, senza davvero toccarla, come certe immateriali carezze, le dico. Ma certo i miei piedi sono anche porcelloni, come tutti i piedi, e hanno trafficato anche loro sotto i tavoli, hanno fornicato, si sono appostati saldamente tra le cosce di donnacce, facendole godere, si sono incuneati negli spiragli delle porte in una temperie di grida e insulti, hanno centrato loschi sederi, hanno pestato cacche di cane, sono sprofondati nel letame, hanno imboccato sentieri che non portavano da nessuna parte, hanno schiacciato inermi lumachette: la vita è la vita. Però sono anche irrimediabilmente romantici, e amano il contatto con l’erbetta fresca costellata di margheritine, adorano i cieli stellati, amano sfiorare nei casti dormiveglia mattutini i corpi dei quali sono invaghiti. Naturalmente anche loro con il passare del tempo invecchiano e rincoglioniscono, proprio come me, forse però guadagnando pure loro in saggezza. Prova ne sia che da qualche anno in qua le scarpe le pretendono due numeri troppo grandi, in modo da starci comodi, e se ne fregano dell’ampia distesa vuota sulla punta: con l’età si capisce quali sono i valori importanti, cosa si vuole davvero.

(l’immagine: Michel Nedjar, “Darius”, 1996)

carta st[r]ampa[la]ta n.48

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di Fabrizio Tonello

Gentile Dottor Baricco,

come vedrà dai commenti qui sotto, i capitoli che mi ha inviato per la Sua tesi “Una certa idea di mondo” al fine di conseguire il dottorato in “Tuttologia comparata” richiedono ancora parecchio lavoro. In particolare, ho trovato il capitolo relativo a La guerra del Peloponneso di Donald Kagan, consegnatomi attraverso il quotidiano la Repubblica di domenica 25 marzo, molto carente. Dallo svolgimento mi sembra di intuire che le materie guerresche La appassionino ma che la mancanza di abitudine a scrivere in modo accurato abbia reso l’elaborato impreciso e superficiale.
Prima di entrare nel merito di questo capitolo, tuttavia, vorrei fare alcune osservazioni sui capitoli che mi ha mandato nei mesi scorsi. Comincerò dall’uso della lingua: nel capitolo su Fantozzi totale (8 gennaio), per esempio, Lei scrive, riferendosi alla realtà: “Il gioco era mandarla in mona convocando, al suo posto, il surreale”. Ora, l’espressione “mandarla in mona” (nel senso di “mandare al diavolo” o simili) potrebbe essere accettabile da parte di uno scrittore veneto in grado di mescolare con grazia espressioni popolari e raffinate, rimandi dialettali e chiarezza cristallina della lingua. Temo che la frase, nel contesto del capitolo, suoni goffa e artificiosa.
Ho trovato piuttosto interessante il capitolo su Storia delle idee del calcio (26 febbraio) anche se mi ha dato l’impressione che il Suo sport preferito sia il baseball. Per esempio, Lei cita un video di 6 minuti su Olanda-Uruguay del 1974, di cui dice “Il risultato non me lo ricordo nemmeno (beh, diciamo che non vinsero gli uruguagi) ma l’elementare contrapposizione di due culture, una morente e l’ altra straripante,è così luminosa che la capirebbe anche un bambino”.
Le due culture, in questo caso, non sarebbero quelle descritte da Charles Snow nel 1959 nella sua conferenza The Two Cultures (che, sfortunatamente, non vedo in bibliografia) bensì la cultura calcistica olandese e quella uruguagia. L’approccio è interessante ma la Sua conclusione mi lascia perplesso: la “contrapposizione di due culture, una morente e l’ altra straripante,è così luminosa che la capirebbe anche un bambino”. Ora, la “cultura straripante” del calcio olandese vinse quel campionato del mondo, e magari anche i successivi? Non proprio: l’Olanda arrivò facilmente in finale ma in quella sede fu sconfitta dalla Germania, una squadra di giocatori “forti, tosti [che] menavano come fabbri e giocavano un calcio pratico ed efficace”, ovvero una rappresentante di ciò che Lei definisce la “cultura morente”. Al terzo posto si piazzò la Polonia: altri undici giocatori “forti, tosti [che] menavano come fabbri e giocavano un calcio pratico ed efficace” (se non vado errato, il capocannoniere del torneo fu un polacco, Lato, con 7 reti, seguito da un altro polacco, Szarmach, con 5 reti a pari merito con l’olandese Neeskens). Per l’Olanda, un secondo posto fra due squadre che rappresentavano la “cultura morente” non sembra poi un risultato così “straripante”.
Proseguiamo: nel capitolo inviatomi il 4 marzo, Lei esamina criticamente La principessa sposa di William Goldman e scrive: “Nella sostanza, si tratta di una avventurosa storia d’ amore: lei è la ragazza più bella del mondo (…) e lui è uno che la ama sopra ogni cosa (…) Ed ecco il dialogo: Lui: «Tu preferisci vivere con il Principe piuttosto che morire col tuo amore». Lei: «Preferisco vivere che morire, lo ammetto». Lui: «Parlavamo d’ amore, signora». Ovviamente Flaubert è un’ altra cosa”. Ecco, direi anch’io che Flaubert è un’altra cosa: La pregherei di scegliere un case-study differente per il capitolo sulle storie d’amore.
Veniamo ora a La guerra del Peloponneso di Donald Kagan, un capitolo che Lei inizia così: “E’ noto che la più difficile manovra militare è la ritirata: quasi impossibile eseguirla senza fare boiate”. Più oltre, riferendo di una votazione dell’assemblea ateniese: “Votarono, decisero e andarono a dormire. Una nave salpò per portare a Mitilene l’ agghiacciante verdetto (non esistevano mail)”. Come Le accennavo qui sopra, la mescolanza di registri letterari “alti” e “bassi” richiede una certa competenza linguistica, qui assente. Ma veniamo alla sostanza.
Lei vuole “dedicare” il Suo capitolo “a quei centocinquantamila” che hanno acquistato in edicola La costituzione degli Ateniesi di Aristotele, affrontando il tema di come funzionasse la democrazia nell’Atene classica. Di certo, un lodevole proposito. Lei quindi prende in esame un libro che “aiuterà a collocare qualsiasi nozione sulla democrazia ateniese nel suo giusto contesto”. Non potrei essere più d’accordo. Mi permetto, tuttavia, di osservare che scegliere La guerra del Peloponneso di Donald Kagan a questo fine è un po’ come studiare la democrazia italiana attraverso L’addestramento ginnico-militare nell’esercito italiano: 1946-1990 di Angela Teja e Sergio Giuntini, pubblicato dall’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito nel 2007. Libro eccellente, peraltro.
Discutendo delle decisioni di Atene di sterminare i cittadini di Mitilene, Lei scrive: “A mente fredda, le sparate dei demagoghi di turno sembrarono meno convincenti, e il parere sobrio di alcuni moderati improvvisamente più condivisibile. Così decisero di cambiare il verdetto, condannando a morte solo i diretti responsabili del tradimento (…). Il problema però era che la nave era ormai partita, con il suo verdetto tragico a bordo. Allora (…) fecero salpare una seconda nave (…). Ai rematori diedero viveri in abbondanza e promisero un premio se fossero riusciti a raggiungere la prima nave. Ora dovete immaginare quelle due navi che si inseguono, nel silenzio del mare tra Atene e l’isola di Lesbo, e ditemi se non se c’è un modo più bello di riassumere la traballante coscienza etica di qualsiasi democrazia”.
Temo che se Lei avesse consultato le fonti che doveva consultare avrebbe scoperto che “la traballante coscienza etica di qualsiasi democrazia” c’entra una sega (come scriverebbe Lei se fosse al mio posto). Infatti, si sa che furono gli ambasciatori di Mitilene a fare pressione per riconvocare l’assemblea e votare di nuovo per revocare l’ordine. E furono gli stessi ambasciatori a fornire “viveri in abbondanza” e a “promettere un premio” se l’equipaggio della seconda nave fosse riuscito a raggiungere la prima nave in tempo. Se vuol controllare, vada al libro III della Guerra del Peloponneso di Tucidide (qualsiasi edizione) cap. 36 e soprattutto 49: “Siccome gli ambasciatori mitilenesi prepararono vino e farina per la nave e fecero grandi promesse…” (cito dall’edizione Boringhieri del 1963, p. 231).
Infine, ritengo opportuno che Lei esamini più a fondo il tema della La costituzione degli Ateniesi di Aristotele. Qui manca una certa chiarezza filologica. Per esempio, sarebbe stato opportuno citare, almeno in nota, che molti classicisti, per esempio Carlo Augusto Viano e P. J. Rhodes, sono dell’avviso che questo testo non sia di Aristotele ma di un suo allievo fino ad ora mai identificato con precisione. Un allievo che Rhodes definisce “a lazy student” che “did not consult very many books” (cito da The Athenian Constitution nell’edizione Penguin del 1984, p. 19). Viano è più circospetto: “potrebbe esser nata intorno ad Aristotele, ma non essere di sua mano” (Politica e Costituzione di Atene, UTET, 2006, p. 39). Il paragonare quest’opera di dubbia attribuzione a “uno Stradivari” risulta poco appropriato, Le pare?
Devo purtroppo concludere che l’elaborato fin qui non è sufficiente ma sono certo che, impegnandosi di più, potrà migliorare.

Con viva cordialità,

Fabrizio Tonello

Dopo tre giorni sono iniziate le sinfonie notturne.

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di Mariasole Ariot

 

Dopo tre giorni sono iniziate le sinfonie notturne.

La volpe è bella. È una donna potente, i suoi occhi sono pozzi neri. Ribaltano il visibile, cammuffano la noia. Mi racconta dei figli dispersi, un figlio dopo l’altro, il primo ferito nel ventre, il secondo nella vodka, il terzo dall’incendio di casa. La volpe continua a figliare, e poi non figlia mai. Ha le gambe corte, le rialza con piccoli inganni, ma resta terribilmente bella anche quando mente, quando si scortica la pelle fino all’incandescenza.
Ogni notte casco a perdifiato nei suoi pozzi neri, ci rannicchiamo al lato destro dei termosifoni, ritagliamo lenzuola per costruire una corda. Dice di aver intravisto un buco, oltre la siepe. La terra sprofonda, e le maglie della rete si lacerano. Poi ritagliamo lembi di stoffa per costruire le bende per Nicolien. Nicolien che sta sempre zitta, che si taglia le vene a trentasei denti, Nicolien che ha troppi denti, Nicolien che è senza lingua.

Poesia & non solo all’Apollo 11

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Roma, 13 aprile, alle ore 20:30, all’Apollo 11
(via Conte Verde 51)

nel contesto degli incontri Gli osceni fauni

Andrea Inglese

dialoga con Cecilia Bello Minciacchi
e Marco Giovenale

parlando di Commiato da Andromeda

Slavoj Žižek sulla Grecia

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You play with democracy. But when things get serious, experts take over.