di Mauro Baldrati
Se l’autore deve scrivere di ciò che sa, Alan Altieri, con l’ultima raccolta di racconti Underworlds (TEA 2011), ha scelto ciò che non sa: l’oscuro, l’abissale, l’inaudito. Ha scelto ciò di cui ha paura, manipolando una materia pericolosa, esplosiva, di cui tutti abbiamo paura: mondi sotterranei, proiezioni psicostoriografiche di futuri possibili, frattali derivati da un aggravamento – solo fino a un certo punto arbitrario – di tendenze già presenti nella nostra società “(in)umana”, come la definisce lo stesso autore, e dall’animo nero dell’essere “(in)umano”. Questo è una delle procedure di una certa fantascienza anni ’70, portare al limite di rottura – o anche oltre il limite – gli elementi di crisi sociale del nostro mondo, e della nostra epoca, fino alla creazione di mondi che nascono dall’evoluzione del nostro, come sogno, come prospettiva, oppure come incubo. Altieri, come molti altri autori, ha da tempo scelto l’incubo. Non a caso è definito, nello stesso risvolto di copertina del libro, “il Maestro italiano dell’apocalisse”.














