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Sud: avant la fin

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Carissimi, da oggi pubblicherò qui su NI tutti i materiali che formeranno il numero 15 di Sud. Si tratta dell’ultimo numero di un progetto a cui ho avuto l’onore e la gioia di dedicare diversi anni della mia vita. Il tema sarà quello dell’Unità d’Italia (15 + 0) revisited. Le riviste sono fatte così. Nascono, muoiono. Salvo poi rinascere ancora, ritrovando la stessa energia e la voglia che sembravano andate perdute. In questa prima puntata leggerete l’editoriale di Nora Puntillo cui seguirà tra qualche giorno il mio, mentre l’ immagine che lo accompagna è della giovane Marialuna Maresca che fa con noi il suo esordio effeffe

EDITORIALE PER SUD 15 + 0
di
Eleonora Puntillo

Niente bandiera bianca. E nemmeno rampogne o lamentazioni sulla condizione della cultura, sulla mancanza di fondi, sulla difficoltà di mantenere una rivista, sui costi di stampa e distribuzione, sulle spese di spedizione, sull’editoria in crisi. S’è detto già tutto, le parole non hanno più senso.
Perciò questo quindicesimo numero lo dichiariamo ultimo con dispiacere ma convinti di aver avuto un ruolo forse nemmeno tanto modesto quando abbiamo riempito le nostre alte colonne tipografiche di parole e segni.
Non è una resa, dunque, ma un guardare oltre, tra l’altro contenti che il nostro SUD abbia saputo sopravvivere parecchio alle ringhiose invettive di chi non altrimenti riusciva a rammaricare di non averci pensato prima.

L’indivia degli scrittori – note sul nuovo supplemento letterario del Corriere

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di
Francesco Forlani
Per conoscere un paese a fondo bisogna passare non giorni, mesi, ma anni nelle sue cucine, immergere la lingua nei suoi piatti, consumare le suole nei mercati rionali e condividere, con i quartieri, i generi elementari della vita, esposti come gioielli sulle bancarelle. Succede addirittura che si scoprano parole e sapori che non si conoscevano, ma solo per ammanco di cultura culinaria familiare, e così fu per me la scoperta del Poireau e dell’Endive. Ah l’indivia, Chicon, la chiamano in Belgio, e da una sua derivata vien fuori la scarola -ah la pizza di scarole!! – e la cicoria da caffé. Il caffé di cicoria è un surrogato del vero caffé, che magari può piacere, per carità, ma resta pur sempre un surrogato. Pare che lo abbia “prescritto” Napoleone per far resistere i francesi all’embargo subito tra il 1806 e il 1813. Per i nostri genitori era sinonimo di guerra, ovvero di mancanza di derrate alimentari. Diciamo che per i più il caffé di cicoria è una ciofeca. Ora, e qui arrivo al punto, se leggo un articolo- ciofeca di un noto scrittore perché generalmente leggo e passo? Perché, seppure tentato di dire, ehi “chicons” ma questa non è critica tutt’al più surrogato di critica, argomentando, mostrando, obbligandomi perfino ad assaporare quella brodazza, salvo poi regalarmi un abbonamento al caffè Mexico di Piazza Garibaldi, mi viene la wallera al pensiero, certezza che immediatamente dopo mi si risponderà che è tutta indivia, pardon invidia, la mia. Mo però, basta.

Verso il capitalismo linguistico. Quando le parole valgono oro

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[Pubblichiamo su concessione di “Le Monde diplomatique / il manifesto” questo articolo che appare nel numero di novembre, in edicola dal  15.]

Di Frédéric Kaplan*

Il successo di Google si regge su due algoritmi: il primo, che permette di trovare delle pagine che rispondono a determinate parole, lo ha reso famoso; l’altro, che assegna a queste parole un valore commerciale, l’ha reso ricco. Il primo di questi metodi di calcolo, elaborato da Larry Page e Sergey Brin quando erano ancora laureandi all’università di Stanford (California), consisteva in una nuova definizione della pertinenza di una pagina Web in rapporto a una data richiesta. Nel 1998, i motori di ricerca erano già capaci, certo, di rintracciare le pagine contenenti la o le parole richieste. Ma la classificazione veniva eseguita spesso in modo ingenuo, calcolando il numero di occorrenze dell’espressione ricercata. Man mano che la Rete si espandeva, i risultati proposti agli internauti erano sempre più confusi. I fondatori di Google proposero di calcolare la pertinenza di ciascuna pagina a partire dal numero di link ipertestuali che conducevano ad essa – un principio ispirato a quello che assicura da molto tempo il riconoscimento degli articoli accademici. Più il Web cresceva, più l’algoritmo di Page e Brin affinava la precisione delle proprie classificazioni. Questa intuizione fondamentale permise a Google di diventare, a partire dall’inizio degli anni Duemila, la prima porta d’accesso al Net.

Libertà vigilata

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di Helena Janeczek

“L’Illuminismo”, comincia il saggio di Immanuel Kant, “è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso”. Ora che, sull’orlo del baratro, abbiamo ottenuto la libertà vigilata da Berlusconi, tocca vigilare sui pericoli che già si delineano nel futuro politico.
Ma per portarsi avanti, conviene guardarsi indietro. Fare luce su tutto quanto abbia gettato un intero paese in uno stato di minorità rispetto a un unico protagonista. A partire da noi stessi: noi che, interpretando in vari modi il ruolo di oppositori, per un ventennio siamo stati sconfitti. Riconoscere che lo stato di minorità riguarda anche noi, e ha sempre giocato in suo favore. Coglierlo attraverso lo specchio fedele della lingua. “Psiconano” o “Al Tapone”, per esempio, sono insulti puerili. Conferire a un cumenda milanese i titoli di “Sultano” o “Imperatore”, significa ingigantirne la figura. La B., infine, sotto il dileggio cela il tabù di un potere innominabile.

Fare lobby

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Un labirintico sproloquio sulle classifiche del premio Dedalus di Gianni Biondillo

Partiamo dai dati bruti… a questa tornata del Dedalus ho votato:
1) Sartori nei romanzi,
2) Raos nelle poesie,
3) De Michele nei saggi,
4) Mozzi-Binaghi nelle altre scritture.
Sei punti ciascuno. Si riconoscono subito: tranne Sartori, votato anche da altri, i restanti autori campeggiano solitari col loro, in fondo, magro bottino di sei voti.
Questi scrittori li conosco tutti, personalmente. Sono amici miei. Alcuni carissimi amici. Due di questi sono redattori di Nazione Indiana. Ci sono tutti i presupposti dietrologici per parlare di inciucio, mafietta, camarilla, etc. etc.
Ci sto pensando da alcuni giorni.
Sorvolo su De Michele (lo voto perché voglio tenermi buono il gruppo di Carmilla?), o sull’accoppiata Mozzi-Binaghi (sono nel profondo un ateo devoto?) e cerco di entrare nel cuore del discorso.
Il romanzo di Giacomo, per dire, so per certo che non è stato apprezzato da uno degli organizzatori del premio (non stiamo qui ora a fare gossip, è il ragionamento che mi interessa), lo ha trovato, anzi, “orribile”. Io mi fido abbastanza della sua capacità critica. Ma resta il fatto che io Sartori l’ho votato. Perché era amico mio? Perché è un redattore di Nazione Indiana?

Le leggende del nonno di tutte le cose

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[Esce oggi Le leggende del nonno di tutte le cose di Mauricio Rosencof (ed. Nova Delphi). Sono quattordici favole concepite dall’autore nei suoi tredici anni di prigionia, isolamento e torture. Rosencof infatti è stato un dirigente del Movimento di Liberazione Nazionale uruguayano, i Tupamaros: arrestato nel 1972 e dichiarato “ostaggio” della dittatura insieme ad altri otto detenuti, fu scarcerato nel 1985. mr]

La Leggenda del Churrinche

“Questa fiamma rossa che brilla da un albero all’al­tro e viene qui per posarsi in questa mano (dove berrà sorsi d’acqua che conservo per lei nella conca del mio palmo), è un uccellino che nacque dal Fuo­co. Si chiama Churrinche.”
Il Nonno della Sera fece una pausa nel suo racconto al vento, mentre la fiamma, senza bruciarlo, piega­va le sue ali e si posava sul pollice. Negli occhi del passerotto brillavano le scintille della sete. Le piume gli davano calore e il suo palato chiedeva acqua che, di tanto in tanto, il Nonno gli offriva. Bevve piccoli sorsi con gusto e senza fretta e, dopo aver sospirato un canto dolce, mantenne un silenzio rispettoso, perché il Nonno parlava: “C’era un tempo in cui l’aria non era turbata da nessun volo. Gli uccellini non erano ancora apparsi sulla Terra. Gli uomini contemplavano con tristezza quello spazio vuoto e con tristezza ascoltavano il silenzio dell’alba.

l’ebook e la serie A

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di Loredana Lipperini

[questo articolo è stato pubblicato oggi su Lipperatura]

Qualche giorno fa, dando conto del cambio di gestione e di linea editoriale di Gargoyle, avevo sottolineato un passaggio che mi aveva dato da pensare: l’affermazione che prevedeva per gli autori italiani (alcuni? molti?) l’uscita esclusivamente in eBook.

Passo indietro: Francoforte. In occasione della Buchmesse Riccardo Cavallero, direttore generale Libri Trade di Mondadori, attacca gli agenti in quanto “conservatori” nei confronti dell’eBook medesimo: “non si può avere paura dei prezzi o della cannibalizzazione, altrimenti non ci lanceremo mai nell’editoria digitale”, dichiara al Corriere della Sera. Gli risponde un editore, Stefano Mauri (Gems)”Gli agenti giustamente cercano di tutelare i propri autori se sono dei professionisti (mi preme sottolineare che stiamo parlando della serie A, quella che vive di questo mestiere e non degli ultimi arrivati, con tutto il rispetto)”.

Quattro poesie

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di Maxime Cella

……………………………………….ma ancor più chiama
a invidia per calchi inverosimili
………………………………………………..chi riesca
a ogni ora non chiamarsi a nuova fede
…………………………………………………………..o quelli
che per scarso o avverso senso
o altra – direbbero – carenza, incuranti
mancano il bersaglio…

..

sex of you more

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di Chiara Valerio

Il sex of humour è il sesso femminile, un sesso che ha il senso dell’umorismo, prima di tutto grazie alla sua distanza dal potere. Nei pensieri illustrati di Pat Carra (Sex of Humor, Fandango, 2011) raccolti eppure miscellanei, il cui filo rosso potrebbe essere la natura sensuale dei rapporti umani, c’è uno sguardo sempre chiaro, sempre sobrio, sempre intelligente, sempre, in qualche maniera, possibile. Nelle sue vignette si riconosce così chiaramente uno sguardo che in effetti pare che le vignette ti guardino – anzi, che ti abbiano già visto – e riquadrino. Questi disegni includono, invece di lasciare fuori, i personaggi ci somigliano, perché, nella loro icasticità, tentennano. Nelle vignette di Carra non c’è in breve una superumanità perfetta – fisicamente, politicamente, dialetticamente – che giudica e ride prima degli altri e poi di sé, che è esente da errore, c’è qualcuno che abbiamo già incontrato e insieme al quale ridere con e mai di.

Italie Unite d’America – Francesco Durante

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Intervista a Francesco Durante
su “Italoamericana”
dal 15 al 20 novembre al Teatro Gobetti di Torino
a cura di
effeffe

Tra il Teatro Baretti e il Gobetti c’è un corso di mezzo. Dal cuore di San Salvario alla gigantesca Meridiana della Mole Antonelliana ci vuol poco, a piedi ed è difficile perdersi. Quando Venerdì sono capitato nel piccolo Teatro di quartiere alle spalle di Porta Nuova, sui titoli di coda de «La notte della tampa lirica», tutto mi immaginavo tranne di incontrare, tra bottiglie di vino e pianoforti a coda sul palco, in una esplosione di ugole e cori verdiani, Francesco Durante. Che appena mi vede, la prima cosa che mi chiede è se l’ho sentito cantare. No, ma mi sarebbe piaciuto. Una volta fuori, in compagnia dell’immancabile sigaretta, il romanziere mi spara nell’ordine tre grandi verità: la prima è che ama Torino, la seconda che se potesse ci verrebbe a vivere e la terza che martedì 15 novembre al Gobetti ci sarà la prima nazionale di Italoamericana, regia di Davide Livermore. Per entrare nel merito della terza “verità” e comunicarla su Nazione Indiana, ci diamo appuntamento l’indomani, al Gobetti questa volta, al momento dell’aperitivo. Si cammina di piazza in piazza obbedendo alle silenziose geometrie del centro e si parla, dello spettacolo. Ci accompagna nella passeggiata l’eccellente Tony Laudadio interprete in scena con Salvatore Sax Nicosia.

in vetrina [shots]

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di Franco Arminio

1.
e adesso a sinistra
compagni
basta con questa storia
dei mercati
delle perdite e dei guadagni.

2.
ormai ci è rimasta
solo la morte
è il nostro unico capitale
la destinazione più chiara,
il corpo per aria
l’anima nella bara.

3.
vendesi
terracarne.
rivolgersi ad arminio
alto e fragile, d’alluminio.

[la foto in apertura è dell’autore]

NUOVI INQUADERNATI 3.

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ELEONORA PINZUTI

P’t [post]

Mi rialzo in quest’autunno
scalzo il senso delle tracce
(ardo? agghiaccio? serve?).
Io non fui l’erba,
o la foglia che s’assottiglia,
ma la soglia sempre sospesa,
forse la chiglia.
Ho picchiato in tutti gli angoli del labirinto,
rivisto nelle pozze
le trame, riletto il palinsesto.
Ho adesso muscoli dolenti,
ossa crocchianti,
la rabbia come patina sui denti.
So per certo che la trama è, non vista, nelle glosse.
Che il sentiero è rilkiano, fatto di sassi bianchi,
di sinossi sulla piega della carta.
Mi rialzo. E tolgo ad una ad una le schegge.
Non sono altro che tatuaggio, simbolo,
la polena sulla barca.

In cosa mi reincarnerò?

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di Lorenzo Esposito

Non capita spesso di voler raccontare un film. Non capita spesso che un film voglia raccontarsi. Non solo di trasfigurarsi attorno a figure che lo sottopongano a revisione o che pure, giocando il suo stesso gioco, lo tradiscano rilanciandolo. Ma proprio di dirlo così com’è, riannodando ciò che in esso è già perfettamente legato e congiunto: parola e immagine.

A tutto campo

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L’orecchio perduto

di

Carmine Vitale

 

 

 

La prima parola che ho detto è stata “Arbitro”. Non   mamma o papà ho detto proprio arbitro.

Successe durante un incontro tra la  squadretta di calcio della quale  mio padre era stato da poco  nominato presidente  e una di quelle formazioni di periferia dai nomi altisonanti,segni inconfondibili di un futuro raggiungibile solo a parole. Ma questo è solo un piccolo particolare della leggenda. Nient’altro.

Mia madre ricorda che faceva freddo e tutti urlavano cornuto cornuto arbitro cornuto, perchè all’ultima giornata di andata del campionato di una di quelle sterminate sottocategorie nelle quali eravamo stati relegati ,a pochi minuti dalla fine l’uomo in nero decretò un fantomatico rigore a favore degli avversari   scatenando la furia dei sostenitori ospiti con relativa invasione di campo

Classifiche pordenonelegge-Dedalus ottobre 2011

1

Narrativa

1) Gabriele Frasca, Dai cancelli d’acciaio, Sossella, p. 42
2) Paolo Sortino, Elisabeth, Einaudi, p. 41
3) Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, Feltrinelli, p. 24
4) Antonio Tabucchi, Racconti con figure, Sellerio, p. 21
5) Mauro Covacich, A nome tuo, Einaudi, p. 20
6) Sergio Garufi, Il nome giusto, Ponte alle Grazie, p. 15
7) Andrea Tarabbia, Il demone a Beslan, Mondadori, p. 14
8) Valeria Parrella, Lettera di dimissioni, Einaudi, p. 13
8) Giacomo Sartori, Cielo nero, Gaffi, p. 13
10) Emanuele Tonon, La luce prima, Isbn, p. 12

Il totalitarismo dell’era presente

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di Marco Rovelli

Siamo arrivati al capolinea. Adesso inizia un’altra corsa. A guidare l’aereo più pazzo del mondo c’è Mario Monti. Già international advisor di Goldman Sachs (il cui ruolo nello scatenamento della crisi globale è noto), e membro di Trilateral e Bilderberg, insomma il gotha del capitalismo mondiale. Non sarà che con lui la finanza ha preso il controllo diretto del paese, dopo che il messo Silvio Berlusconi ha fallito per eccesso di amor proprio? Del resto proprio Monti ha affermato: “Berlusconi va ringraziato, nel ’94 ci salvò dalla sinistra di Occhetto e avviò la rivoluzione liberale in Italia”. Ma appunto poi questa rivoluzione liberale non è stata fatta, e allora ci si prendono le chiavi di casa. Consegnate direttamente dai derubati, peraltro, implorando mercé.

Nessuno, sui grandi media, dice una verità essenziale:

Battute di caccia

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Ugo Coppari

*

Un giorno ho conosciuto una persona che non ci vedeva e non ci sentiva e neanche poteva parlare. Questa persona mi ha raccontato che un giorno ha conosciuto un signore molto anziano che parlava con gli animali. Questi animali gli avevano raccontato che molto tempo fa gli animali potevano parlare. E spesso cercavano dei pretesti per riunirsi e testimoniare agli altri la propria esperienza.

Era giorno di festa quando tutti vestiti di bianco questi animali si radunano attorno al lago dove a quei tempi confluivano tutti i fiumi dell’Africa e del Sudamerica. Mentre stanno per sedersi attorno al fuoco che sorge al centro del grande lago, ecco che emerge dalla superficie dell’acqua un coccodrillo che decide di prendere la parola e raccontare cosa gli è capitato.

Il passaggio che non passa (su elezioni e Tobin Tax)

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di Andrea Inglese

La monotonia delle mie riflessioni è provocata dalla monotonia del mondo che mi circonda. Per questo mi ritrovo ancora incredulo a pensare al “passaggio che non passa”, quasi fossi di fronte a una di quelle stralunate figure beckettiane che non riescono né a morire né a nascere, né a finire né a iniziare. Prendiamo solo due punti: uno relativo al funzionamento democratico, e uno relativo alla politica economica. Elezioni e referendum, da un lato, e Tobin tax, dall’altro.

Per potere passare ad altro, uscire da quest’incubo della coazione a ripetere gli stessi errori, mobilitando gli stessi argomenti, in una lotta sempre più aspra e ridicola con le mille contraddizioni e assurdità che emergono ad ogni frase, bisogna spostare il baricentro dell’azione dai rappresentanti ai rappresentati. La democrazia, come regime non solo politico, ma come modello epistemologico, lo richiede. Se il punto di vista di chi dirige conduce all’impasse, alla crisi, alla sofferenza generalizzata, bisogna lasciare spazio a un mutamento di punto di vista. Bisogna elaborare un’altra condotta di medio e lungo termine. Non ci sono garanzie che il passaggio elettorale promuova una svolta significativa, ma non ci sono altri modi che l’attuale democrazia conosca per rendere possibile un’alternativa. Qualcuno dirà che oggi ci può salvare solo una rivoluzione violenta. Non si può escludere nulla. In ogni caso, se passassimo a una fase rivoluzionaria, vorrebbe dire uscire dal quadro democratico che ha valso dal dopoguerra in poi e aprirsi a orizzonti imprevedibili, in cui soluzioni fasciste e autoritarie sono da mettere in conto assieme a soluzioni progressiste. La “pacifica Europa degli affari” potrebbe non solamente ritornare all’originaria pluralità irriducibile degli Stati-nazione, ma questi Stati-nazione potrebbero scegliere il proprio nemico nei vicini di casa e non in una struttura oligarchica internazionale.

Note per un libretto delle assenze

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Les veilleuses
di
Francesco Forlani


Erano verdi, rosse, e c’erano già da prima della tua venuta. Esistevano da molto tempo prima, nel mondo. Le cercavi con la coda dell’occhio non badando alla luce ma alzandoti facendo leva sui gomiti, oppure lasciandoti quasi cadere dal letto a castelletto, da sopra, perché quando dormivi sotto ce l’avevi dritta davanti a te. Una luce tenue capace di illuminare ogni più recondito angolo, piccola e diffusa per tutta la cameretta. C’era un gesto di madre dietro – non erano certo i padri a chinarsi sulla presa per il lumicino- e insieme al respiro di chi ti dormiva nel letto accanto o in quello di sopra, sotto, c’era una luce appena appena colorata, a farti compagnia.

Piove. Piove e fa freddo. Dicono che nevicherà durante la notte, ma per la notte non ci dovremmo già essere più. Si consegna la merce in albergo e poi si viene via, si scende a valle. Così stasera pioverà, farà fresco ma di certo non nevicherà. Abbiamo cominciato a salire da nemmeno un’ora e già soffriamo le curve, ci guardiamo ogni volta che si supera un tornante con la stessa segreta soddisfazione di chi l’ha fatta franca. Ogni volta che il mezzo si ripiega al tornante, si apre un paesaggio diverso da quello appena lasciato sulla destra. Ora una piccola casa tra gli alberi, poche mura di cinta che emergono dalla vegetazione, i ruderi di un vecchio castello, un fitto bosco, nero, e sull’altra le macchie di neve sulle rocce grigie e bianche, un rifugio isolato sulla cima. Non ci vengono macchine incontro, saranno tutti impegnati i turisti a quest’ora del pomeriggio e così per quanto faccia freddo – però abbiamo acceso il riscaldamento – l’attenzione non morde le mani al volante, attanagliate dalla paura di vedersi sbucare davanti qualcuno, all’improvviso.

A casa della rana

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di Mario Schiavone

Quando andavo da mia nonna paterna mi sentivo come se mi avesse ingoiato una grande balena malata. Non volevo andarci in quella casa che stava in via Caserta, ero costretto a tornarci perché mio padre così voleva. Io accettavo la sua decisione come si accetta il dovere di svolgere una preghiera dopo una confessione. Le crepe sulle pareti della casa di mia nonna mostravano a me quell’abitazione con un altro aspetto: me le immaginavo come ferite di una bestia marina con alle spalle anni e anni di vita. Il colore della vernice era passato dal bianco ad un giallo stantio che mi ricordava la carne dei pesci malati che muoiono arsi sotto il sole d’estate.La bestia però era ben sorvegliata da occhi ammalati ma sempre vigili: erano gli occhi della vecchia rana.