di Daniele Giglioli
Il lettore che avesse seguito la carriera di Aldo Nove fin dal suo esordio con Woobinda, nel 1996, e col suo incipit ormai divenuto proverbiale: “Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal. // Mia madre diceva che quel bagnoschiuma idrata la pelle ma io uso Vidal e voglio che in casa tutti usino Vidal. // Perché ricordo che fin da piccolo la pubblicità del bagnoschiuma Vidal mi piaceva molto. // Stavo a letto e guardavo correre quel cavallo. // Quel cavallo era la libertà. // Volevo che tutti fossero liberi. // Volevo che tutti comprassero Vidal”; e che lo avesse poi accompagnato nei suoi sviluppi successivi, da Puerto Plata Market (1996) a Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese (2006), passando per Amore mio infinito (2000) e La più grande balena morta della Lombardia (2004); quel lettore dovrebbe guardarsi, dopo aver terminato questo suo ultimo La vita oscena (Einaudi, 111 pagg, 15, 50 euro), dall’esclamare: a-ha, ora ho capito, ecco cosa c’era dietro. Quel mondo esilarante e desolato, quelle gag tragicomiche, quel linguaggio che nelle sue espressioni più riuscite è la perfetta mimesi del balbettare di un idiota, non era solo un artificio letterario. C’era una storia dietro, un grumo di realtà incistato, dolorante e inesauribile che comandava con la sua regìa ferrea la lingua e i personaggi di Aldo Nove. La letteratura era vita; basta quindi con l’ammirazione diffidente e il riso a mezza bocca, e benvenuto a Nove nel mondo sudaticcio dei sentimenti “autentici” e del “provare sulla propria pelle” ciò di cui si scrive e si legge.












