di Franco Buffoni
Definito da G. H. Lewes sul Westminster Review “il più bel romanzo dell’anno” nel gennaio 1848, Jane Eyre spicca nella produzione di Charlotte Bronte, sia per quanto attiene gli schemi di confezione testuale sia per la vivacità e lo spessore psicologico dei personaggi. Se, per quanto riguarda la seconda caratteristica, si è generalmente concordi nel ritenere tale riuscita dovuta alla prevalenza nel romanzo dell’elemento autobiografico, sulla prima le opinioni sono alquanto divergenti. Si passa infatti da chi sostiene che, dopo il rifiuto di The Professor da parte di tutti gli editori, Charlotte avesse deciso di costruirsi in anticipo fin nei minimi dettagli l’intricata trama di Jane Eyre, a chi ritiene invece che il plot risulti così ben congeniato per una serie di circostanze fortuite, non dovute a una precostituita serie di scelte narrative da parte della scrittrice . E cita a favore di questa seconda ipotesi i successivi romanzi Shirley (1849) e Villette (1853), certamente non altrettanto ben calibrati in fatto di suspense e pathos, e soprattutto carenti nella armonica successione delle svolte psicologiche nei protagonisti.
In Jane Eyre non v’è dubbio che tutti gli eventi e i comportamenti degli altri personaggi sono in funzione delle svolte psicologiche (ma anche dei sogni, delle premonizioni) della protagonista. Tanto più accurati e approfonditi sono i ritratti degli altri characters, tanto più si arricchisce – mediatamente – il ritratto di Jane. E quindi di Charlotte. Chi altri se non Charlotte poteva in fine desiderare di avere alla mercè della propria bontà colui che – per amore – l’aveva tanto tratta in inganno?













