Mia sorella Rajah
a Essaadia
Mia sorella Rajah si chiama così perché è la regina
dell’attesa. La cosa che ama di più è osservare
ipnotizzata il suo sentimento di impotenza
racchiuso nel flacone mezzo vuoto dello smalto per le unghie
Lo guarda crescere come un feto minuscolo e, quando sta per nascere,
con una forbicina gli taglia il cordone ombelicale e lo lascia
sanguinare per ore. Poi si misura la febbre e se supera i 38 gradi
esce di casa: ha una relazione clandestina con la sua tosse
Quando rientra, la sua voce è diventata roca,
come quella di un palmipede che per tutta la notte ha razzolato
sulla neve. E che le ha perforato l’esofago, l’intestino
e le parole che ha pronunciato nell’ebbrezza del digiuno
Rajah attende che qualcuno scenda nel pozzo dei suoi occhi
e pianga per lei tutti i morti che scricchiolano come radici mendicanti
sotto il freddo inverno dell’Atlante e non la lasciano dormire.
Su quale sponda del letto ti chiederanno “Sognami”?
Io vivo perché Rajah ritorni a questo mondo, perché la proliferazione
di palmipedi sventrati nella neve abbia fine. Spero che il mio essere
così insignificante l’aiuti a vestirsi, a truccarsi, a smettere di succhiare
i vecchi seni di nostra madre. A non evacuare nell’armadio
Dopo aver ripulito, mi chiedo se il bene, il male, la giustizia,
l’ingiustizia, non siano che merda depositata sulla punta delle dita.
E se la povertà, nient’altro che un ramo troppo lungo
che deve essere potato affinché la sua ombra duri in eterno













