(Trieste vista dalla Luna)
Essendo la più piccola mi toccava sempre fare lo «schvabo», come chiamavamo i tedeschi, i nostri peggiori nemici, nell’immediato dopoguerra. Il ruolo dei partigiani lo giocavano i bambini più grandicelli, quelli di sette, otto anni. Era scontato che i partigiani dovevano vincere sempre. Quando i «partigiani» si stancavano di vincere, si giocava a intonare canti rivoluzionari; o a gridare vari slogan che per un bambino di cinque, sei anni non avevano alcun significato. Me ne ricordo due in particolare: «Zona A, Zona B, bice nase obadvje» (Zona A, Zona B, sarete nostre, oh sì) e «Trst je nas», Trieste è nostra. Quest’ultimo mi è rimasto impresso più a lungo nella memoria. Di certo per ragioni né ideologiche né politiche. All’età di cinque anni non avevo idea di cosa volesse dire «Trst», e nemmeno capivo perché era «nostra». Ma mi divertiva un sacco pronunciare tutte quelle consonanti con la bocca piena di latte in polvere. Mentre scandivo le lettere T R S T, dalla mia bocca uscivano delle nuvole bianche che coprivano non solo la mia faccia ma anche quella di coloro che mi stavano vicino.
Il latte in polvere, americano, lo mangiavamo a merenda, prendendolo con una mano direttamente dalla busta. Ci arrivava assieme agli aiuti umanitari – operazione Unra. C’era anche il chaddar cheese, un formaggio giallognolo ed elastico come la gomma. Erano anni di povertà collettiva. Ma a nessuno importava niente, perché ci veniva promesso un futuro bello, radioso, ricco e pieno di giustizia e di uguaglianza.






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