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Napoli’s Trivial

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di
Francesco Forlani

jazz

Se cerchi il silenzio te ne vai in campagna. Le città parlano. Sussurrano, gridano, fin dalle prime luci dell’alba. Anzi, pare che suonino. Ogni città ha lo stile inconfondibile di un vecchio musicista jazz, di una leggenda venuta da altrove – certamente una città, New Orleans, Parigi, Londra, Bruxelles- e sbarcata dovunque ci fosse la vita. Dove ci sono grandi fabbriche o un porto.
Quando Torino si sveglia, la luce sembra fare a botte con l’oscurità: piazza Castello, piazza Vittorio, avvolte nella bruma rimangono deserte fino a tarda mattinata, e che ti sembra che i suoi abitanti abbiano trascorso la notte in ufficio. Ha un suono freddo e incalzante, dove ogni strumento si aggiunge strada facendo, alternandosi alla maniera di viali e controviali, con il senso che è direzione dei flussi. Note lunghe, alla Jan Garbarek, e incedere pieno di ritmo e potenza. O il basso in movimento di Jaco Pastorius in Slang, l’armonia progressiva di chitarre alla Pat Metheny Group, It’s For You. E infatti Torino è per te, anche se non ti saluta per strada.
A Milano invece la vita al mattino brulica, in un caleidoscopio su cui rimbalzano luci dei neon delle metropolitane e dei negozi di corso Buenos Aires. La vita sgorga da terra e la gente è un fiume in piena, allertato dai primi raggi di sole. La sua voce è cool. È il Miles Davis Quintet di Round Midnight, con Miles Davis accompagnato da Wayne Shorter e Herbie Hancock. O il suo duet con John Coltrane in So what.
Roma ha due suoni alle prime luci del giorno. Quello monumentale di Gershwin, la Rapsody in Blue, e l’altro, un tipico bebop. Con i suoi volumi ampi e le architetture improvvise, che alla maniera di vecchi cartelli stradali ti dicono dove e perché sia passata di lì la Storia. Il suo risveglio ha lo stesso respiro di Charlie Parker &Dizzy Gillespie in Hot house.

A Napoli, nuova cosa, i raggi di sole sono colpi di clacson nervosi, con gli attraversamenti di strada improvvisi di gente a piedi poco disciplinata e le vespe e i motorini a sfrecciare tra le auto in coda come in un assalto alla diligenza. La sua alba ha il suono free di Ornette Coleman, l’irruenza di John Coltrane, il disordine metafisico di Sun Ra di Space is the place o la scomposta poesia di Archie Shepp in Things Ain’t What They Used to Be. I suoni di una città possono capirli solo i poeti. Di tutti i quartieri, variazione temporale dell’unico tema dell’inizio, ne riconoscono le tonalità, la frase, non necessariamente urlata per strada e che si indovina dalla lunghezza delle luci che tagliano in due vicoli e strade per poi scavare buchi di vita tra i riflessi dei vetri delle finestre, ficcate a ritmi regolari sulle facciate dei palazzi.

Pizzofalcone

Non so esattamente ciò che sto cercando, qualcosa

che non è stato ancora suonato. Non so che cosa è.

So che lo sentirò nel momento in cui me ne impossesserò,

ma anche allora continuerò a cercare.
John Coltrane

Durante la libera uscita si scendeva lungo la via di Monte di Dio sfiorando con le mantelle nere le sbarre fissate lungo i marciapiedi stretti, irregolari. Bisognava fare il giro largo, con il divieto assoluto di scendere molto più in fretta attraverso il Pallonetto. Per via della reputazione che s’era fatto il quartiere e del pericolo che ogni allievo in divisa storica avrebbe corso. E su quella strada tortuosa, su cui la levità della discesa si accompagnava alla felicità di essere liberi, fuori, usciti da dentro, si faceva vedere la cartografia degli amici, dei piccoli gruppi di allievi che rompevano le righe dell’ordine imposto dalle sezioni, le squadre, i plotoni, per formare una compagnia all’insegna del comune sentire. Io e Ciccio della terza C, nona squadra, terzo plotone, terza compagnia.
E con noi Nicola del classico A, un paio dello scientifico A, e due o tre cappelloni, allievi del primo anno che ci portavamo in giro per la città.

Napoli ci appariva sempre diversa da come la vedevamo dai finestroni della sala convegno, vetrate della malinconia, più viva e per certi versi più inafferrabile. In divisa si arrivava fino alla piccola piazza in fondo a via Gennaro Serra, e imboccando la prima stradina, quella di Brandi, si entrava, ben attenti che non vi fossero ufficiali nei paraggi, nel portone subito dopo la pizzeria. Una volta dentro, l’odore di naftalina delle decine di divise storiche e kepì, appesi lungo tutto il perimetro di una camera annerita dalla polvere, sorvegliata da un’unica poltrona rosicchiata dai topi, ti assaliva naso e bocca, come un bacio improvviso, inatteso. Lì se ne stavano le sacche con gli abiti borghesi -ufficialmente non si poteva affatto uscire senza divisa e meno che mai lasciare gli spadini incustoditi- e con la stessa foga di giocatori di calcio imberbi, alle prime armi, si sostituivano le giacche con doppia fila di bottoni argentati, con non meno vistosi Monclair, mentre i Levi’s neri e aderenti scalzavano i pantaloni celesti con la banda viola sui lati. Si abbandonava la divisa per indossare l’uniforme, anche se la diserzione riusciva soltanto a quelli che con strane alchimie di pettine e gelatine erano riusciti a farsi crescere i capelli; gli altri, tutti gli altri, visti da dietro, ce l’avevano scritto sulla nuca, nuda: Collegio militare Nunziatella.

Ecco perché, oltre Brandi, via Chiaia -quella parte di via Chiaia- era la spiaggia. Così camminavamo io e Ciccio, rinchiusi nei giubbotti a proteggerci dal vento, quasi a sfiorare l’acqua.
“Ciccio, ma per te cos’è l’amicizia?”
“Aspè, mò non so concentrato”.
“Dai, è importante. L’altra sera in camerata ne parlavi con
Marco Pelliccia. È la lealtà, rispettare la parola data?”
“È un po’ di tutto”.
“Di tutto cosa?”
“Francè, lascia stare, t’ho detto che non ci sto con la testa.
Te lo dico più tardi”.
“Quando?”
“Ma perché c’hai un’ora precisa?”
“Sì, entro le sette di stasera”.
“E che ore sono?”
“Le cinque e un quarto. Diciamo alle sei, ok?”
“Magari prima…”
“Lo sai che è proprio bona?”, mi aveva detto Ciccio mentre
salivamo su per via dei Mille.
“Chi?”
“La sorella del cappellone”.
“Quale?”
“Dai, dici tu: a chi stai pensando? Mò proprio, però, senza
che ci rifletti…”
“E perché ti viene in mente lei?”
“Perché sono amico tuo, no?”
“E tu cosa pensi di lei?”
“Fermo restando che non è il caso…”
“Certo che è il caso”.
“Grande scopata”.

Non l’avevo mai sentito dire da lui, forse da altri. Solo una volta arrivati a piazza Amedeo, prima di scendere fino alla sala del cinema di via Crispi, mi ero reso conto che a partire dalla ‘scopata’ non c’eravamo più detti niente. Abbiamo fatto il biglietto militari e ragazzi. Ci siamo guardati intorno, e visto che c’erano tante ragazze, sicuramente attratte dal nome di Richard Gere sul cartellone, è stato Ciccio a rompere il ghiaccio.

“Ma è possibile che siamo così coglioni? Per una volta che potevamo esibire la divisa con orgoglio e rimorchiare come marines ce ne veniamo vestiti da chiattilli!”

Come al solito aveva ragione lui. Davano Ufficiale e gentiluomo, e quando mai si sarebbe ripetuta un’occasione del genere? In borghese ci vai a vedere i porno, mica un film così, tagliato su misura per noi come le nostre divise bianche estive. Quelle che avremmo messo di lì a un mese. Magari in moto, con la moto di Ciccio, che il papà gli aveva regalato per la promozione in quinta liceo. Terza C. I paesaggi evocati dal film erano tutti orizzontali. Deserti, e in mezzo ai deserti le caserme. Oltre le caserme la città. Che quasi sembrava Caserta-città-deserta, canticchiavamo ogni volta che si andava in stazione a prendere il treno per Napoli, la domenica sera, alle 9 e 10. Tutto piano, case basse, camerate altezza uomo, dove l’unica scena verticale è quella dell’amico di Maionese, Mayo, Gere, che si impicca per amore. E tutti gli spettatori ad alzare lo sguardo, manco stesse decollando un caccia. Quando usciamo ci prende come il nervoso e l’ansia di rimettere le uniformi. Chiedo da accendere a una ragazza che ci stava poco distante, facendogli segno con la sigaretta e la mano. A Ciccio gli stava venendo in mente di attaccare bottone, di dire che noi eravamo esattamente come loro, cioè nel film, non noi come ci vedevano adesso, ma militari, annerchiati e cazzuti. Io gli ho fatto segno che però dovevamo andare, che era ora. Così lui ha lasciato perdere, per fortuna sua, mia e della ragazza. E siamo scesi lungo via dei Mille, fino a Chiaia. Ci siamo fermati all’altezza del ponte, massiccio, sospeso come un’insegna di un mondo totalmente verticale, con l’ascensore e le scalette per salire fino a Monte di Dio, su un lato. Sull’altro, subito dopo il ponte, le strade in salita d’imbocco all’inferno, ai quartieri, anche loro a noi interdetti al pari del Pallonetto.
“Questo mi piacerebbe fare, sai?”
“Cosa?”
“No, è che tu prima mi hai chiesto cos’è l’amicizia. Al cinema
non potevo dirtelo, ma ora che ci ho pensato, ci pro –
vo, se ti va”.
“Ho ancora un quarto d’ora”.
“Ma per che cosa?”
“No niente, poi ti dico, un appuntamento”.

Ciccio mi aveva sorriso e, tutto soddisfatto, quasi mi faceva cadere con una spinta.
“Insomma, mi lasci solo”.
“Questa volta. Ma la prossima le dico di portare un’amica, vedrai”.
“Vabbuò, facciamo finta che è così. Comunque ti dicevo dell’amico che è proprio come quello che sta lì dentro. Non le scale che puzzano, che la gente ci va a pisciare”.

Dalla nostra posizione, accanto all’edicola, bisognava sporgersi un poco per guardare dentro l’atrio delle scalette e scorgere l’ascensorista seduto al banchetto protetto da un vetro, proprio accanto ai due ascensori. Ce ne sono una ventina in tutta Napoli, di ascensori pubblici. Il più famoso è quello che dalla Marina sale fino a piazza del Plebiscito. Certo che se non è verticale questa città, che tiene gli ascensori perfino nelle piazze…

“…allora l’amico deve stare là, a darti la possibilità di scendere o di risalire. Non è vero che un amico te lo trovi soltanto al
momento del bisogno. Un amico lo cerchi e lo trovi nei sogni”.

Non gli avevo mai sentito dire delle cose così. Ero rimasto senza parole e talmente sorpreso che non l’avevo vista arrivare.
“Ciao, io sono Olga”.
“Lui… è Ciccio”.
“Beh, Francè, la chiave ce l’hai, no?”
“La chiave?”
“Sì, la chiave dello stanzino, lì da Brandi. Io devo andare, ci vediamo poi. Voi proseguite, no?”
“Noi?”
“Sì, voi”.
“Ma veramente ancora non si era deciso. Olga voleva fare due passi, magari in via Caracciolo”. Torniamo verso piazza dei Martiri.
“Bene, io prendo l’ascensore. Io salgo. Marò, non fare quel la faccia, te l’ho detto che avevo da fare. Olga, piacere di averti incontrata. Sicuramente non mancherà occasione di conoscersi meglio, mò però devo andare. Tanto a quello lì lo lascio in buone mani, mi sa”.

Avremmo camminato a lungo. Dal lungomare si poteva vedere il collegio. Rosso, a picco sul mare, che da Pizzofalcone sembrava quasi dominare l’altro castello alla deriva. Le mani di una donna sono onde e nessuna pietra riesce a difendersi dall’acqua, che stacca pezzi dapprima minuscoli poi pesanti come scogli. L’avevo lasciata entrare con me nella stanza buia e fredda. Non c’erano le divise appese ma solo i borsoni ricolmi di abiti borghesi. Lei aveva socchiuso la porta di metallo e mi aveva baciato ficcandomi la lingua fin dentro ai pensieri. Ogni città ha i suoi baci. Con schiocco mortale, o morbidi di lingua e palato. Strappati al tempo che sembra arrestarsi, poi torna. Ogni giorno un bacio diverso, con lei che aspettava lungo i gradini delle scalette che puzzano che la gente ci va a pisciare e tu sentivi solo il suo profumo. Baci, rubati, rapiti, scippati all’unico amico che avevi. Che ti guarda andare dritto agli ascensori di Montedidio, mentre lui scende insieme agli altri lungo l’unica strada maestra, che sembra cadere in un unico corso fino al mare. “Gente, passiamo noi!”, pare che cantino. E vi osservate un attimo, quasi all’ultimo, proprio all’incrocio che vi separa, dove il cuore ha deciso che sarà di lei, e lo sai che ai tuoi amici ritornerà soltanto quando non ne rimarrà più niente. Come ora. Che aspetto l’amico di sempre, Ciccio, anche lui meno giovane, ora padre. Seduto ad un tavolo della nuova saletta di Brandi, il ristorante. Con un passaggio elegante di vetro attraverso il cortile, si sono ingranditi prendendo quell’ala del palazzo. In quel punto preciso, della stanzetta in cui avevo provato la paura del volo. Se cerchi la vita, è qui.

QUESTO RACCONTO FA PARTE DEL VOLUME MISCELLANEO “NAPOLI PER LE STRADE” CURATO DA MASSIMILIANO PALMESE PER LE EDIZIONI AZIMUT. Gli autori inclusi sono:
Alessio Arena, Luigi Romolo Carrino, Stella Cervasio, Fabrizio Coscia, Carla D’Alessio, Maurizio de Giovanni, Luca De Pasquale, Peppe Fiore, Francesco Forlani, Antonio Iorio, Simone Laudiero, Marilena Lucente, Giusi Marchetta, Marco Marsullo, Paolo Mastroianni, Rossella Milone, Davide Morganti, Marco Palasciano, Massimiliano Palmese, Angelo Petrella, Massimiliano Virgilio.

Il convito [Eracle #4]

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di Ginevra Bompiani

In realtà non era venuto lì per banchettare. Doveva occuparsi del cinghiale; ma traversando la terra dei centauri si era fermato con loro, vinto dall’ospitalità. Gli avevano cotto le carni, che di solito mangiavano crude. Avevano conversato con lui, e messo a tacere la metà animale: per una volta che potevano trattarsi da uomini.

le rire 1°: La vita del filosofo Kant

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©,\\’ Orsola Puecher

Joseph Haydn [ 1732 – 1809 ]
dalla Sinfonia n. 101 in re maggiore
Hob. I: 101 “L’orologio”

 
   di Cesare Zavattini
 
   Quando a mezzogiorno preciso Kant usciva a prendere una boccata d’aria, i cittadini di Koenisberg regolavano gli orologi: Invece del colpo di cannone a Koenisberg c’era il critico della ragion pura. I forestieri, visitando Koenisberg non mancavano mai di assistere alla tradizionale uscita di Kant. Appena Kant socchiudeva l’uscio, i presenti applaudivano calorosamente: Kant, astratto e solitario, con un libro sotto il braccio, lento lento si avviava verso la circonvallazione.

Piazza Fuga

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napoli-per-le-strade

di Peppe Fiore

Quando facevamo il liceo nessuno di noi s’azzardava a parlare di rivoluzione, avevamo tutti cose più importanti da fare. Eravamo un gruppetto di sei o sette persone che si erano trovate insieme più che per affinità per una certa strana congruenza a incastro delle reciproche storture caratteriali. Non so perché, ma se oggi ripenso agli anni della mia adolescenza l’impressione è quella di una lunga vacanza non cercata e non richiesta. Una di quelle vacanze senza fine dove si sta costretti a forza in un posto di mare, è sempre senza scampo dopopranzo, e pertanto ogni cosa che si fa sembra sempre la cosa sbagliata.

Sarà che ormai sono vent’anni che mi confronto con la natura intimamente letteraria del posto dove sono nato, sempre uscendone massacrato. In tutti questi anni, la mia città è stato un argomento di conversazione universale. Tutti gli sconosciuti che ho incontrato ovunque – università, lavoro, vacanze, treno, baretto di spacciatori a Monteverde – si sentivano in dovere di entrare in confidenza con me appena sapevano che ero di Napoli. Come se essere di Napoli mi garantisse automaticamente una forma di percezione delle cose più laterale e, in qualche modo, più fina. Perché poi? Boh.
Naturalmente dopo cinque minuti di conversazione sciolta, il commento a mezza bocca dell’interlocutore di turno era sempre lo stesso, e sempre un po’ deluso: – Cazzo però, non ci sembri proprio. Sicuro che sei di Napoli?

Fatima e il Brembo

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di Helena Janeczek

Aveva ventisette anni e il suo corpo è affiorato ieri sera dal fiume Brembo. È stata riconosciuta dal fratello che aveva denunciato la sua scomparsa. Mohamed poteva permettersi un comportamento secondo logica e legge, perché a differenza di Fatima, clandestina, lui, ventidue anni, era un extracomunitario regolare. Così riferiscono i giornali, che fin qui non dicono granché d’altro, tranne che – stando al fratello- il “folle gesto” di Fatima sia da attribuire al fatto che non fosse in nessun modo riuscita a regolarizzarsi. Era, secondo Mohamed, terrorizzata dalla data di domani in cui diventerà legge il “pacchetto sicurezza” per cui la clandestinità diventa reato perseguibile con l’espulsione più una sanzione da 5.000 a 10.000 euro.

Non mi va di fare “facile retorica” su questo fatto, né commentare più di tanto che altre notizie su altri “folli gesti” di disperazione, però commessi da italiani contro italiani, ottengono contemporaneamente un ben diverso “onore delle cronache” (e tuttavia la parola “onore”, persino in questa espressione fatta e frusta, acquista un retrogusto amarissimo). Probabilmente domani almeno i giornali più o meno di sinistra un po’ sulla vicenda si soffermeranno. E poi arriveranno altri fatti a riempire le pagine estive del loro macabro intrattenimento.

Non so nemmeno io come, e quindi lo chiedo anche a voi tutti: in un caso come questo, oltre a denunciare a parole, schifarsi, indignarsi ecc., si potrà cominciare a fare qualcosa? Tipo costituirsi parte civile contro coloro che hanno promulgato una legge che ha spinto una ragazza nata in Marocco a uscire dalla casa condivisa col fratello e andare ad affogarsi in un fiume vicino a Bergamo? Incriminarli di “istigazione al suicidio?” Ve lo domando molto seriamente…

Intanto, se mi è concessa una minima dose di parole all’aria, mi andrebbe solo di esprimere un sentimento passeggero, contrario alla pietà e al buon gusto. Preferirei che questa povera crista musulmana non riposasse in pace, ma come vuole la tradizione molto nordica del racconto gotico riaffiorasse in certe notti dalle acque rapinose del fiume Brembo con il suo velo e la sua lunga veste. E non importa se li avesse veramente (fotografie finora zero), l’immaginario di chi ce l’ha cacciata dentro, è comunque questo.

Victor Baruch, La poetessa diffamata

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Intervista di Angelo Petrelli a Fabrizio Lelli.
La poetessa diffamata di Victor Baruch, Besa 2009.

Tradotto in italiano da Alexandrina Djeneva, La poetessa diffamata di Victor Baruch è stato recentemente pubblicato dalla casa editrice Besa. Il romanzo, ambientato nella quiete solenne del Monastero di Latrun, presso Gerusalemme, è la storia di uno scrittore ebreo bulgaro che s’interroga sulle questioni fondamentali dell’esistenza. S’immerge così in una conversazione con quattro personalità intellettuali dell’Italia seicentesca tra cui spicca la poetessa ebrea veneziana Sara Copio Sullam. L’esperienza di queste anime immortali si sviluppa in una complessa narrazione d’amori carnali e spirituali, intrecciandosi con quella autobiografica dello stesso Baruch, vissuto durante la generazione della Shoà e testimone di quel tragico momento della storia occidentale.

Abbiamo colto l’occasione per intervistare il curatore del volume Fabrizio Lelli, docente di Lingua e Letteratura ebraica dell’Università del Salento.

due passi (fare)

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Viola

Vendeva specchietti, lucciole e perline
(ma li vendeva lieve)
Lustrava reboanti panzane da lattante
(il desiderio onirico che vero fosse il magnifico)
Ruffiano, aduso a darlo via il sedere
(semplicemente quello era il suo mestiere)
Pensava di essere furbo
(come qualunque giocatore al gioco)
Grugno di similporco, neanche porco vero
(umano il tentativo di travestire il trivio)
Copiava diligente battute e frasi altrui
(mai avuto pretese di essere intelligente)
Cavava il suo buon senso dal noto
manuale del perfetto banale
(la cifra del felice)
Non mi ha mai amato
(l’unica, concreta, flagranza di reato).

tango-scarpe-uomo-copy

Pasquale

Voluta
la vita
come una volta;
e invece piantata
come un arco scosceso,
una vanga,
un’insegna stradale
verso la soglia;
dentro una buca
da risalire
pianto dopo pianto
fino alla balta del cielo.

Le ambigue risonanze dei pasti in piedi.

Poesie di Viola Amarelli e Pasquale Vitagliano

Train de vie

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14-binario-morto
Binario 24
di
Mario Schiavone

“Se ne va mamma gatta che ci tiene tutti al caldo nel suo ventre e arriva la bestia a sputare freddo e pioggia”, mi rivela Frank Barbery la sera del trentuno agosto, mentre cominciamo una partita a scacchi. Muoviamo pezzi fatti in Cina, usando come tavolino la sua panchina-letto. Siamo al binario ventiquattro della stazione ed è quasi sera: lui è l’uomo del ventiquattro, io sono il ragazzo della libreria della stazione. Frank ha il suo binario, io i miei libri. I binari diventano caldi, ma non danno calore. I libri si fanno leggere ma non leggono te stesso.
Aveva una famiglia, ma l’ha persa quando il suo lavoro è andato male. Pure io avevo una famiglia: l’ho persa quando qualcuno ha deciso di affidarmi al signore.
Lì sul momento non capisco la profezia che parla di una gatta. Poi lui alza la testa per guardare il cielo, io lancio una occhiata veloce al suo borsone e vedo le felpe con il cappuccio, i pantaloni lunghi e un ombrello dal telo bucato infilato fra abiti, pentolini, libri, giornali. Una borsa che usa come contenitore di ogni suo effetto personale, un guscio con cui si protegge dalle intemperie, dai ladri notturni e dai topi che circolano lungo i binari. Topi affamati in cerca di cibo e scarti di rifiuti alimentari che i passeggeri abbandonano nei cestini della spazzatura.

Ore 8:15

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UNIONI CIVILI

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di Sergio Rovasio

Due coppie gay di Trento, una composta da due donne e l’altra da due uomini, che avevano aderito alla campagna di Affermazione Civile promossa dall’Associazione Radicale Certi Diritti e da Avvocatura lgbt Rete Lenford, si erano viste negare dal Comune di Trento le pubblicazioni matrimoniali e per questo avevano fatto ricorso al Tribunale. Il Giudice di primo grado aveva dato alle due coppie un parere negativo e per questo l’avvocato Alexander Schuster aveva presentato ricorso, il 9 luglio scorso, davanti alla Corte d’Appello di Trento. La memoria difensiva era incentrata sul fatto che il matrimonio civile deve essere un diritto garantito a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro orientamento sessuale. 

Dopo il Tribunale di Venezia anche quello di Trento considera fondate le ragioni delle coppie gay che chiedono di accedere all’istituto del matrimonio e per questo ha deciso il rinvio alla Corte Costiuzionale. Consideriamo questo passo una grande vittoria per tutto il movimento lgbt italiano. La campagna di Affermazione Civile continua. In Italia sono quasi 30 le coppie gay che hanno aderito a questa battaglia di civiltà che persegue le via legali vista la totale indifferenza e paralisi di quasi tutta la classe politica sul tema delle unioni civili, del matrimonio gay, dei diritti civili e umani delle persone”. 

Di seguito alcuni estratti dell’ordinanza dei giudici di Trento:

Il Collegio dei giudici della Corte d’Appello di Trento, il 2 agosto scorso, hanno rimesso alla Corte Costituzionale la decisione in quanto “si tratta di questione rilevante e non manifestamente infondata. Non vi è dubbio infatti – continua il documento – che rispetto all’epoca in cui sono state incardinate le norme disciplinanti il matrimonio si è verificata un’inarrestabile trasformazione della società e dei costumi che ha portato al superamento del monopolio del modello di famiglia tradizionale ed al contestuale sorgere di forme diverse di convivenza che chiedono (talora a gran voce) di essere tutelate e disciplinate”.

Catalunya #1

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di Antonio Sparzani
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Costa Brava da Tossa de Mar a San Felìu de Guixols tornanti continui primo pomeriggio panorama mediterraneo mare blu ulivi pini scagliosi ed irti mirti divini pensieri che volano dappertutto senza punteggiatura senza barriere senza tabù le speranze più dementi i teatri più irrealizzabili quand’è mai che la mente rinuncia a invadere nella sicurezza del proprio privato i territori proibiti dell’orribilmente improbabile e soprattutto del non proprio politically correct?

Sì raccontarsi agli amici solidi di tanti decenni che sanno di te tanto del passato nel quale affondi inevitabilmente le tue radici anche se talvolta vorresti strapparne qualcuna – vorresti tanto non certo perdere i vecchi ma anche nuovi amici ai quali raccontarti nuova grande emozione sei pur diverso da allora nuove consapevolezze nuovi panorami guarda adesso come sono bello che nulla sapevi di me fino all’altroieri e invece ora ti faccio balenare meraviglie sì naturalmente dietro là ci sono gli angoli bui ma bui quanto –

Loca I: Poschinger Strasse, 1

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   di Giorgio Zampa

   “Per favore, può dirmi dov’era la villa di Thomas Mann?”, chiedo a una donna anziana che sta liberando dal ghiaccio un tratto di marciapiede, sul fronte della casa d’angolo fra la Poschinger Strasse e la Thomas Mann-Allee. La donna mi guarda con stupore. Rimane in silenzio, senza avere l’aria di capire, le mani coperte da guantoni di lana, sul manico del badile. Ripeto la domanda. Lo stupore diventa diffidenza. Si stringe nelle spalle, scuote la testa, riprende a frantumare il ghiaccio con la punta del badile a piccoli colpi.

Pizzuto découpage

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dubuffet

di Domenico Pinto

«Erice, odoranti di salvia i suoi paradisi, ingiù dallo scosceso il mare cresputo immobile, terse come stoviglie le strade spirali, ingressi ed imposte chiusi, laddentro cortili dove minuscole lune l’acqua nei profondissimi pozzi in echi, ben scarsa entro cisterna simmetrica, framezzo qualche albero, mura mura convolvoli, secondari usci su candida viuzza tra verdi persiane opposti a quelli maestri».

Under Press

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Ricevo Volentieri Pubblico (effeffe)
giornali

Considerazioni sul giornalismo politico e non solo
di
Alessandro Trocino

Quanto ti pagano per fare un’intervista? Ti senti libero? Scrivi davvero la verità? Domande comuni, quando sei un giornalista, per di più del settore politico, e chi te le fa è una persona che è al di fuori del circuito mediatico, non ne conosce bene i meccanismi, ma immagina di conoscerli o ha ipotesi generiche ma ben sedimentate. La prima reazione, direi quasi chimica, è di spossatezza, incredulità. Come se, dopo essere arrivato non dico in cima alla montagna, ma comunque a un buon livello, spingendo il tuo macigno come puoi, lo vedi precipitare a valle in un secondo. Ti cadono le braccia. Sconforto, per il baratro che c’è tra il cronista, che pure scrive per lui, e il lettore.
Ma credersi Sisifo è gratificante, troppo gratificante. La fatica inutile, lo spreco, la dissipazione voluttuosa, quale migliore sollievo intellettuale. Ma il macigno che credi imponente è un sassolino. Il senso delle proporzioni che ridesta l’autocoscienza, quella percezione di sé che è salvezza e insieme maledizione, provoca nel cronista un secondo choc, in senso diametralmente opposto. Ed eccoti giù dalla montagna, in dimensioni naturali, un onest’uomo che si ingegna per portare a casa la pagnotta ovvero, per restare in metafora, che si ostina a spingere pazientemente in alto il sassolino per il solo motivo che lo ritiene giusto. E lo fa, tentando fin dove è possibile di non macchiare troppo la coscienza.

New York, tornare a casa

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di Giampaolo Graziano

Arrivo a New York imbottito di letture, di blues ascoltato male, e di nostalgia vera per un luogo che non ho ancora mai visto. Arrivo in un tardo pomeriggio d’agosto, viaggiando dietro a un tramonto che si stiracchia per ore e non ne vuol sapere di chiudere lo spettacolo. Si corrono questi rischi, volando verso Ovest: si crede di aver più tempo del dovuto, si diventa ottimisti.

L’infanzia delle cose: un estratto

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[Alessio Arena ci dona alcune pagine estratte dal suo nuovo romanzo, L’infanzia delle cose, manni editore]

arena
di Alessio Arena

Sopra al marciapiede della Piazza di Cascorro i gitani hanno sistemato una coperta a terra e si sono messi a vendere i meloni rossi.
È domenica pomeriggio, e il mercato finisce sempre qua dove è iniziato alle prime ore della mattina.

I gitani sono così: tengono i capelli lunghi.
I gitani tengono le catene d’oro con la Virgen del Rocío o altri santi che non si capiscono.
I gitani si vestono sempre poco: le femmine stanno con la canottiera pure se è il mese di gennaio.

Canzoniere brasiliano 2 – Il poeta e il giullare

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di Sergio Pasquandrea

Ma come si fa a non amare il Brasile, quando si incontrano due personaggi come Cartola e Noel Rosa? Due figure non si sa se più tragiche o pittoresche, e insieme così piene di umanità e gioia di vivere. Entrambi sono considerati tra i padri fondatori del samba moderno, eppure ebbero vite e personalità contrastanti: uno visse a lungo, l’altro morì giovanissimo, uno era un poeta tenero e romantico, l’altro un comico irriverente e dissacratore.
Ma forse è meglio fare prima un passo indietro.

Perché Pecorella infanga don Peppe Diana?

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di Roberto Saviano

MI è capitato nella vita di fare pochissimi giuramenti a me stesso. Uno di questi, che non riuscirei a tradire se non vergognandomi profondamente, è difendere la memoria di chi nella mia terra è morto per combattere i clan. Ho giurato a me stesso sulla tomba di Don Peppe Diana il giorno in cui alcuni cronisti locali, alcuni politici e diversa parte di quella che qualcuno chiama opinione pubblica iniziarono un lento e subdolo tentativo di delegittimarlo.

Il venticello classico di certe parti d’Italia che calunnia ogni cosa che la smaschera; il tentativo di salvare se stessi dalla scottante domanda “perché io non ho mai detto o fatto niente?”. Ho letto in questi giorni sulla rivista Antimafia Duemila che due ragazzi, Dario Parazzoli e Alessandro Didoni, hanno chiesto durante una trasmissione Tv a Gaetano Pecorella come mai, quando era presidente della commissione giustizia, difendeva al contempo il boss casalese egemone in Spagna Nunzio De Falco, poi condannato come mandante dell’omicidio di Don Peppe Diana.

La cerva cornuta [Eracle #3]

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Eracle fu perciò un semidio: nessun tedio umano lo risparmiò.
Quelle di Perseo, di Teseo, furono imprese.
Le sue, fatiche
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di Ginevra Bompiani

È probabile che prima di mettersi a correre non l’avesse neppure vista. Gliela avevano descritta, naturalmente, come qualcosa di bello. Ha le corna. Al sole si vedono splendere. Ma poiché la sua caratteristica era la corsa veloce, è difficile che qualcuno l’abbia guardata da vicino. Di lei si sapeva che razziava nei campi. Ma chi non razziava nei campi? E che appetito poteva mai avere una cerva da rappresentare un flagello? Ma era quel baluginare delle corna, in una femmina, quel rutilio nella penombra del bosco a farne una preda degna di lui. Volevano che la prendesse per non essere tentati di inseguirla.

Un giullare scomodo

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di Valerio Cuccaroni
Intervista a Paolo Rossi

Una delle tante prove concrete che l’Italia è ancora dominata, per molti aspetti, da un regime feudale e cortigiano, è rappresentata dal ruolo decisivo svolto dai giullari nella nostra società. Prendiamo, ad esempio, il movimento dei meet up. Nato dalle “predicazioni” satiriche di Beppe Grillo piano piano si è trasformato in un progetto politico, che durante le elezioni del 2008 ha intimorito non poco le tradizionali forze politiche, compreso il neonato Partito Democratico. Non è un caso che il fenomeno Grillo si sia affermato all’indomani della crisi del sistema partitico, tanto da essere additato come emblema dell’anti-politica. Il giullare infatti è tor¬nato protagonista della vita intellettuale come nel medioevo, riempiendo un vuoto di rappresentanza e assumendo il ruolo dialettico svolto, fino a qualche decennio fa, dai partiti e dai loro militanti, compresi gli intellettuali organici, capaci di coagulare l’attenzione delle masse attorno alle grandi problematiche del periodo: l’etica in politica ai tempi di Tangentopoli o l’antiberlusconismo ai tempi dell’Ulivo.
Il potere persuasivo acquisito dal giullare nel nostro paese è dimostrato dalla censura subita dai comici Daniele Luttazzi, Sabina Guzzanti, Paolo Rossi e Dario Fo durante il secondo governo Berlusconi.
Ed è proprio all’attore e autore comico Paolo Rossi, che siamo andati a chiedere lumi sulla situazione italiana. Lo abbiamo incontrato al termine della serata finale di Cabaret Amoremio 2008, un concorso per cabaret¬tisti emergenti che da oltre vent’anni va in scena a Grottammare, piccolo paese in provincia di Ascoli Piceno, salito alla ribalta per gli esperimenti di democrazia partecipativa condotti nei primi del 2000 dall’allora sindaco Massimo Zamboni.

Note per una PhenomeNoilogy: II parte

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”Permettetemi di essere il teppista che sono, signori vivi a sbafo, vivi inutilmente… e tu che ti permetti?… Vieni fuori dallo studio, vieni a dirmelo in faccia cosa hai detto”. ”Vieni fuori che facciamo un po’ di letteratura con le mani…”. ”La mia è un’invettiva, ossia l’unica letteratura che in questo momento io sento di fare”. ”Parlo al plurale a un singolare stronzo
perche’ se ne risentano in parecchi”. ”Con te ci vediamo fuori perche’ io sono un teppista e vado fiero della tua imbecillita”’.

Lettera di Pasquale Panella indirizzata a Gianni Boncompagni e pubblicata su Repubblica (11 Settembre 1998)
Replica di Boncompagni: ”Che antipatico!”.

Bueno Noy Bueno, ovvero per una teoria del double bind applicata al pop

Diciamo subito che la forza del Pop si esprime attraverso l’identificazione a un gruppo rispetto all’altro, con l’esplicitarsi di un’appartenenza a una visione del mondo, a un orizzonte che immediatamente si contrappone a un altro, suo alter Nos, in una dialettica che potremmo definire neo bizantina. Il riferimento storico va ovviamente al celebre Ippodromo di Costantinopoli in cui, per il prestigio che aveva- poteva ospitare dai 30.000 ai 50.000 spettatori- si acclamava l’Imperatore ma soprattutto dove il pubblico si divideva in demi (fazioni), inizialmente quattro poi diventate due, gli Azzurri (conservatori) e i Verdi (progressisti). Qualcosa di simile a quanto accaduto alle nostre città più importanti in cui si dividono stadio e pubblico due squadre, con un’attribuzione non sempre chiara seppure accertata da fatti storici incontrovertibili al punto che se la cosa appare semplice in alcuni casi (vd tifosi della Lazio di destra, quella della Roma di sinistra) in altri sembra più difficile l’attribuzione come nel caso della Juve e del Toro o delle stesse Milan e Inter i cui presidenti sembrano esprimere idee differenti dalle proprie tifoserie.