Immagino che ci siano diverse forme di vocazione alla tortura, e quindi diverse tipologie di torturatori. Ci devono essere, in taluni, vocazioni possenti, irresistibili, che richiedono di organizzare l’intera propria vita per rendere il più possibile usuale, corrente, l’esercizio della tortura. È probabile che certi individui criminali scelgano il loro destino grazie anche alle opportunità, che gli offre una carriera fuorilegge, di torturare quando l’occasione si presenti. Il sentimento di superiorità che molti incalliti criminali sentono nei confronti della massa di persone normali nasce dalla consapevolezza di essere un’eccezione, di far parte di una ristretta cerchia che ha neutralizzato tutte le sociali inibizioni finalizzate a ostacolare l’esercizio della crudeltà nei confronti di altri esseri umani.
di Nadia Agustoni ________________________________________ ________________________________________ ________________________________________ ________________________________________ pareva una gabbia la casa
l’incrinare del fuoco quel che possiede e la luce curva sulla terra a correggersi a voler qualcosa: “è lo sguardo di chi è sempre ragazzo
e si tortura, si batte il petto e sa negli ossi ogni inezia” e fin dalla soglia _______________________________________________[esita, dice:
“pareva una gabbia la casa dove impazzivano gli uccelli, solo dolore _________________________________________________[il buio”.
e il rovescio delle cose cantò la civetta e l’allocco e il gufo
mi fecero immaginare il futuro, riempirono la casa di piume fino al _________________________________________________[giorno
e i pensieri senza nodi, la paura e il fiato sul vetro, col dito tracciare
parola, fare segni di gnomi e gli occhi nel sonno pietruzze.
Sono le undici di sera dell’otto settembre. Stamattina sono andato a scuola col corpo chiuso in tasca come un vecchio numero di telefono sbiadito dentro il portafogli. A scuola fanno l’orario da una settimana. A me sta bene qualunque orario e non partecipo alla disputa. In piazza parlavano male del sindaco i rimasugli di un popolo sconnesso da se stesso e dalla storia. Urlavano per farsi compagnia nella piazza vuota.
[18 immagini + lettere invernali per l’autunno; 1, 2, 3,4,5,6,7,8,9…]
di Andrea Inglese
Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato,
la nostra storia è sempre la stessa,
anche quando, di mese in mese,
– se ben ricordo qualcosa del tempo –
si aggiungono più ampi progetti,
si modifica il tuo profilo e con esso
il mio, acquistiamo tratti
di somiglianza, come fratelli,
imperfettamente vicini, tu più in alto,
io dietro, o in basso, ma al mio posto,
anche quando guardo una traccia di urina gelata
che si biforca sull’asfalto, e disprezzo
questo freddo, che non rimarrà,
che finge una fissazione definitiva
dei suoni e degli odori, come un piacevole,
perdurante, svenimento.
Gli oggetti nominati da Alessandro De Francesco sono sovraesposti. Esperiti da un punto di vista costantemente modificato, da una prospettiva provvisoria, da una luce estranea e straniante che se illumina, certo, al tempo stesso abbacina. E allora anche confonde, disloca, moltiplica, in scene solo apparentemente statiche, e brulicanti invece di fremiti continui, vibrazioni sottili del pensiero e delle cose.
Oggetti (in tedesco, non a caso, Gegenstände: ciò che sta di fronte, che fisicamente s’oppone al soggetto che li percepisce) mai descritti, mai aggettivati. Un’urgenza all’astrazione ricercata e perfino programmatica, e che però non preclude ai versi (alle immagini) una varietà di possibili significati, facendosi al contrario dispositivo garante di quell’apertura polisemica che è carattere e principio stesso della poesia.
Dopo qualche mese di pausa riapre sperimentalmente lo spazio a disposizione dei lettori di Nazione Indiana per segnalazioni e discussioni varie di pubblico interesse. Non è più una normale colonna di commenti, ma un forum separato che speriamo dia più spazio a chi scrive, e sia più utile per chi legge.
Già a partire dal titolo – Era mio padre (Fazi Editore, “Le vele”, pp. 281, € 16,50) -, l’ultimo libro di Franz Krauspenhaar si pone di prepotenza, quasi violentemente, di fronte al suo tema, evidente al punto da rendere inevitabile e pressoché automatico il richiamo a quella gran parte di letteratura contemporanea ispirata dalla morte di un genitore (in ordine sparso e fuori di qualsiasi gerarchia, i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Handke, Camus, Gadda, Le Carré, Simon e Ernaux). Ma se la tradizione principale di questo “filone”, almeno così come è proseguita, ad esempio, nel romanzo americano contemporaneo (Moody, Antrim e Lethem, tra i più recenti), si confronta e riferisce soprattutto della perdita della madre, Krauspenhaar, piuttosto, quasi assecondando, sul piano letterario, l’inclinazione delle proprie origini, si muove sul terreno di quella che in Germania è stata raccolta sotto il nuovo conio di Väterliteratur, ovvero “letteratura dei padri” – nonostante il diverso investimento e il diverso valore che assume, in lui, il punto in cui si intersecano esperienza individuale e Storia collettiva.
The worse thing in this world is a rockstar. And the only good rockstar is a dead rockstar.
Si tratta di rock’n’roll. Si tratta di presenze. L’Iguana appare, salmodia le sue immense litanie, in un’infinita rappresentazione. E noi che lo adoriamo, siamo rapiti nella contemplazione idiota di un’icona. Idiota, perché lui è un messia che non salva, da lui non si attende salvezza, ma la celebrazione dei propri vuoti a perdere. I’m loose. Sticky deep inside. E’ l’introibo (ad altare dei): la dissoluzione di ogni sostanza interiore, lo slittamento senza fine. Iggy danza. Le danze dissolute di un dio idiota. Un dio di cui si può ridere, come voleva Nietzsche. (Iggy come la Carmen?). E Iggy è la risposta a quel Nietzsche che lamentava la decadenza di una civiltà che non ha partorito nessun nuovo dio.
Un dio che chiede di essere il (mio. tuo. nostro) cane. E che con I wanna be your dog ci lascia al nostro silenzio – ad esso ci restituisce, reintegrati nella nostra disintegrazione.
E’ un dio morto, Iggy, e proprio perché morto continua a ridere. E se continua a esser lì, è perchè si rida di lui.
Va da sé che tutto questo non va preso sul serio.
m.r.
Il seguente brano è tratto dall’introduzione al libro di Paul Trynka:
Poi c’era Iggy. L’indistruttibile Iggy, che faceva piazza pulita di qualsiasi droga gli mettessero davanti al naso, che nel corso dei mesi precedenti il suo tour manager aveva dovuto trascinare diverse volte sul palco in stato di semi-incoscienza, che soltanto due giorni prima era stato steso a pugni da alcuni appartenenti a una banda di motociclisti ma li aveva invitati al concerto del Michigan Palace per avere il resto. Che ora appariva tanto rovinato fisicamente e mentalmente, da se stesso e da coloro che gli stavano intorno, che a volte la sua energia vitale e la sua luminosa bellezza sembravano sul punto di prosciugarsi.
__Siamo in undici. Pare un po’ lugubre come sede di una casa editrice, ma forse è un ufficio secondario. Quando sono arrivato c’erano già un giovanotto barbuto e una signora di mezza età dall’aspetto comune. Di lui si poteva pensare che fosse un aspirante scrittore, mentre lei correggeva forse le bozze di sera, dopo le faccende di casa. Nel giro di mezz’ora sono arrivati gli altri, ognuno aveva in mano una copia del libro. Così si è capito che eravamo lì tutti per la stessa ragione, e ci siamo messi a parlare.
Ha molti significati il titolo del recente libro di Mariano Bàino, il romanzo o racconto lungo L’uomo avanzato, uscito nella collana FuoriFormato dell’editrice Le Lettere (con postfazione di Remo Ceserani).
Il protagonista del libro è figura allegorica di una civiltà (occidentale) definibile certo ironicamente “avanzata”; è poi un uomo in sovrappiù (avanzato = eccedente) rispetto allo scorrere normale della storia: un naufrago; e infine si aggiunga che si è davvero mosso, avanzando, arrancando, fino ad approdare al piccolo e semi-inospitale arcipelago di quattro isolotti saldati che lo accolgono a disastro avvenuto. Il suo punto di vista è fuori della storia ma proprio per questo molto avanti/avanzato nel planetario di sordità e vuoto senza limiti rappresentato dalle forze naturali, indocili. Che lo incastonano, e lo cambiano, inevitabilmente.
(…) se non che arrecava sconforto il doverci allontanare dalle usanze,
le quali tengon luogo di legge, quando vengon fermate dal giro de’ secoli.
N. SANTANGELO, Discorso inaugurale del VII Congresso degli Scienziati Italiani, Napoli, 1845
Gent.mo Signor Ministro della Pubblica Istruzione sono una docente di scuola secondaria superiore e vorrei sottoporle una questione che, se io insegnassi retorica, potrebbe apparire davvero oziosa e un esercizio per studenti brillanti, ma mi creda, non è così, è solo un mercoledì di gennaio in una scuola dove le ore contano, in barba alla comune definizione ma incontro alla necessità degli studenti, cinquanta minuti.
Come ad altri indiani, mi è accaduto di scrivere sulle pagine di Liberazione. Un quotidiano importante, le cui pagine sono state aperte, negli ultimi anni, a molte e diverse voci. Adesso Liberazione sta vivendo un momento molto difficile – e la cosa che più colpisce è che, prima ancora delle difficoltà dovute alla nuova legge sull’editoria voluta da Tremonti, è che l’editore e lo stesso Partito della Rifondazione Comunista (che è editore di riferimento) sembrano lasciare andare alla deriva il giornale. Sentire che i giornalisti di Liberazione sono costretti a scendere in sciopero come sola arma di fronte a un comportamento antisindacale della controparte – suona molto, molto amaro.
Qui, il blog aperto dai giornalisti in sciopero – ai quali dò tutta la solidarietà – per informare sulla vertenza in corso.
Catweazle? Hippy tardivo? Incontro a Knüllwald con Ulrich Holbein, immerso in una “splendid isolation” a disegnare il suo universo letterario con seducente creatività linguistica.
Mi aveva avvisato, non sarebbe stato facile trovarlo. Per fortuna mi imbatto nella postina. “Ulrich Holbein?”, sì, lo conosce e mi indica la strada, in direzione opposta al centro, in un boschetto. E intuendo che avrei avuto bisogno di ulteriori aiuti, aggiunge: “Ci sto andando anch’io”.
Infatti, giunto nei pressi dell’abitazione dell’artista, non riesco a vederla: l’essenziale è spesso invisibile agli occhi. Ma già si avvicina la donna a bordo della station wagon a mostrarmi il sentiero nella giungla incantata e il viottolo lungo quaranta metri che conduce alla casa delle streghe. La porta è aperta: si intravede l’anticamera buia e pavimentata di assi.
Non è per le merendine. E neppure per la spranga, o il colore della pelle. È l’età. Non si può morire a diciannove anni, non c’è nessuna ragione valida, neppure fossimo in guerra. A diciannove anni sei immortale, uccidere un ragazzo è come sfidare gli dei. Temo il giudizio del cielo su tutti noi, ho paura a concepire cosa siamo diventati.
Non sopporterei, per altro,
una città dove qualcuno ha sofferto a lungo, inutilmente,
per un amore, continuando a sperare, ad elaborare
una storia parallela, favorevole a sé, come un calmante,
impegnandosi nei dettagli, come un letterato professionista,
e forse la letteratura nasce così, tutta la finzione che inonda il mondo,
è nata per riparare l’angoscia d’amore, e parare
lo strazio di quell’appuntamento concesso
dopo lunghe suppliche
e che sarà annientato,
perché anche camminando in lungo e in largo,
anche tenendo gli occhi fissi agli edifici,
anche sorseggiando come un agonizzante
una tazza di tè,
la persona non viene, non è venuta, non verrà,
non è possibile udirne la voce,
non è possibile riconoscerne il soprabito,
non è possibile niente.
Con grande dispiacere, ma anche con un certo sollievo, segnalo che il mio blog canopo ha interrotto (almeno per un po’) la sua attività, dopo tre anni di posting quasi quotidiano.
Per chi fosse interessato, ho preparato un’edizione in ebook di tutte le tracce apparse su canopo, sia in formato .pdf che in formato .lit. Per la versione in .pdf, ringrazio fortissimo Michele Zaffarano, ormai un vero mago del layouting e dell’editoria in digitale.
L’ebook in .pdf (248.8 kb) è scaricabile all’indirizzo:
72. le grandi infrastrutture continentali, gli oleodotti, i gasdotti, i cavi telefonici che attraversano l’atlantico e rimangono nascosti alle tue opinioni. 73. fieri alleati dell’industria del divertimento. 74. assorti, fumando fuori dalle pizzerie. 75. raffigurazioni ideologiche dei casi, a bassa risoluzione.
I RESPONSABILI hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un’anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d’Europa. Se la racconteranno così.
Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all’impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all’improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.
A detta di Gianluca, il mio mio socio di studio, noi architetti ormai ci siamo trasformati in parrucchieri. E, maledizione, ha ragione da vendere! Forse è anche per questo che ultimamente mi sto convertendo sempre più alla scrittura. Sento di avere un maggiore spazio critico scrivendo, spazio che la professione pare avere definitivamente precluso. L’architettura non è più critica dello contesto, ma la sua spettacolarizzazione.
Ne Gli interessi in comune, secondo libro di Vanni Santoni, scrittore trentenne di Montevarchi nel Valdarno, appaiono chiari due protagonisti: la lunga adolescenza di un gruppo di ragazzi nell’arco di dieci anni (1996-2006) ed il luogo dove le loro vicende si intrecciano, Figline Valdarno, il demone della provincia. Gli interessi sono quelli che teoricamente fanno da collante nei rapporti interpersonali: in questo caso però il titolo è preludio ad un certo beffardo cinismo che percorre tutta la narrazione.