Home Blog Pagina 5

La caduta di Genova

0

di Francesco Segoni

Alle dieci e quarantacinque tutto era finito. La città era occupata, i difensori abbattuti e la guerra conclusa. L’invasore s’era preparato per questa campagna con la stessa cura che per altre di maggior ampiezza.[1] In cima alla facciata bruciacchiata di Palazzo Tursi sventolava già il Nuovo Tricolore. Mentre ancora i militari bonificavano il municipio da trappole e ordigni piazzati dalla resistenza poco prima della caduta, negli uffici si sostituiva la carta intestata del Comune con quella della Nuova Repubblica dell’Italia Sovrana.

Questo, almeno, è quanto si raccontava nei vicoli del centro storico.

Alla stessa ora di quella mattina, un tizio al bancone della Compagnia del Calice sbottò: «Questa città non si riconosce più». Gli rispose il bar in coro: «Belìn, Ringo, smettila». Genova infatti era riconoscibile anche coi blindati per strada; proprio in quel momento ne videro uno manovrare impacciato in piazza delle Erbe, un militare fece capolino dal portello per chiedere indicazioni a un anziano che portava a spasso il cane.

Ringo era facile alle iperboli e questo era il suo difetto. Ma non fu il solo che aveva continuato a bere mentre le sirene strillavano e la sindaca Salis ordinava agli abitanti di correre a prendere un’arma presso la sede della polizia municipale per difendere la città.

«Non hanno retto a Firenze e Bologna», diceva la gente, «vuoi reggere qui?»

La Nuova Informazione scrisse che da Voltri a Nervi, gli unici colpi sparati all’arrivo dell’esercito italiano erano stati di festa, intervistò qualche genovese. «Ormai avevo paura a uscire da sola», diceva un’insegnante di Albaro. «Mi hanno rapinato due volte quest’anno», faceva un negoziante di via XX settembre. «Se ci vogliono i militari per ridare sicurezza alle città italiane, ben vengano», concludevano entrambi. Era propaganda stravagante: ma di certo, durante la caduta di Genova, nella Compagnia del Calice la musica non aveva smesso di suonare.

Le voci correvano per i caruggi: Tizia resiste, Caio collabora, Sempronio è indeciso. Non ti potevi più fidare della persona che ti aveva sempre offerto da bere. Ringo era prudente, si limitava a dire «un biancamaro, grazie» (con Ada, invece, era lui a offrire). La scelta, per lui, la fece uno sgabello: quello all’estremità del bancone, riservatogli fin dal giorno in cui aveva aiutato il povero Manciafugassa a rimettere in piedi il suo bar dopo un incendio, vent’anni prima – guadagnandosi una lombalgia immortale e biancamaro gratis fino alla tomba. Da quello sgabello, Ringo raccoglieva le poche parole che rotolavano fino a lui da un tavolino in fondo al locale, dove una mezza dozzina di facce forestiere aveva preso l’abitudine di riunirsi sul tardi, intorno a baccalà fritto e farinata.

«… se gira la voce che paghiamo…»

«… se gli facciamo credere che anche la sindaca collabora…»

Una sera, Ringo notò un paio di occhi verdi che lo invitavano al tavolo: uniforme militare, capelli rossi legati in uno chignon basso, qualche lentiggine. Quando la donna gli parlò, Ringo sentì abbassarsi il volume delle voci nel locale.

«Cosa ti posso offrire?»

«Un biancamaro, grazie» rispose lui.

«Hai l’aria del cliente abituale. Non ti spiace se passiamo subito al tu? Da fuori non gli dai due lire, a questo bar, ma la farinata è eccezionale.» Si presentò: capitano Renata Vesperi, primo reggimento dei Granatieri di Sardegna. «Sto scoprendo Genova. Da piccola andavo in vacanza a Varazze ma non ci fermavamo mai in città.»

Ringo aveva già scolato il biancamaro. Lei gliene ordinò un altro.

«Mi hanno detto che sai come gira il fumo da queste parti.»

Ringo alzò le spalle, lei proseguì.

«Volevo combattere i russi in Ucraina, non i miei connazionali. Ma il nostro lavoro è fatto, Genova è tornata vivibile, è ora di riappacificarci. Voglio essere franca: la resistenza non ha scampo, sta prolungando il dolore per tutti. Puoi fare un favore alla città. Non tocchiamo le persone, il tempo della violenza è finito. Sappiamo muoverci in maniera meno frontale».

Ci vollero un paio di altri incontri e qualche biancamaro in più, Ringo aveva bisogno di pensarci e di essere rassicurato, ma rimandare la scelta era solo un modo per abituarsi all’idea, la sua carriera da collaborazionista era decisa. Iniziò un venerdì sera con la rivelazione dell’indirizzo di un nascondiglio di armi. Il capitano Vesperi ascoltò, annuì, si alzò.

«Hai fatto bene. Questo è per il conto.»

Si allontanò con un sorriso appena sfiorato. Lui non ebbe bisogno di contare i soldi per capire che sarebbero bastati per il conto suo e quello di tutti i clienti della giornata. Rimase a canticchiare a bocca chiusa With A Little Help From My Friends, come faceva quando aveva dei pensieri: è per questo che lo chiamavano Ringo.

Con la prima ricompensa comprò al mercato nero un cellulare criptato per sé e uno per Ada, regalo utile: un gioiello gli pareva troppo frontale, come avrebbe detto il capitano. Ada accettò con onesta gratitudine. Il primo messaggio che ricevette, il giorno dopo, era di Ringo.

«Ti va un tè da Bellucci?»

Accettò subito. Si videro un’ora più tardi, entrando nella pasticceria lei gli indicò un tavolino di fronte a una grande vetrata che dava su Piazza Fossatello.

«C’era bisogno di criptare l’invito per un tè?»

«Volevo provare il telefono», le rispose spianando la tovaglia bianca con la mano.

Il capitano Vesperi gli dava appuntamento alla Compagnia del Calice senza orari fissi. C’era in lei la semplicità della persona modesta che si è ritrovata per caso a fare cose importanti. Friulana, vegetariana, Ariete e divorziata senza figli. Appassionata di sci e letteratura francese.

«Sto rileggendo tutto Zolaper la terza volta, ma non ho tempo», gli disse senza un’ombra di ostentazione; facevano colazione con cappuccino e farinata.

Il Manciafugassa spolverava il bancone, si era avvicinato al loro tavolo.

«Oh belìn, Ringo, guarda che ‘sto anno il Doria o torna in Serie A, vedrai.»

Rimase lì a fissarli, Ringo capì che non sarebbe andato via senza una risposta.

«Per carità, fammi toccà i ballin.»

Ringo si chiese se i clienti del bar origliassero le sue chiacchiere col capitano. La donna aveva tatto, lui si sentiva libero di accettare o rifiutare, quindi finiva per accettare sempre: un nome, un orario, un numero di targa. Ogni volta lei lasciava sul tavolo una busta marrone.

Le ricompense si fecero più consistenti. Ringo portò Ada a vedere la Sampdoria in tribuna d’onore. Dopo la partita cenarono al San Giorgio con pesce crudo e capesante, provarono il piccione arrosto e bevvero champagne.

«Ti piace?»

«Il pesce sì», rispose Ada, «ma non credo che rimangerò il piccione in vita mia.»

Risero debolmente.

«Però è bello provare un posto così, quando puoi permettertelo», disse lui, pentendosi subito dell’allusione ai soldi.

«Riempimi il bicchiere, devo dimenticare la partita. La prossima volta andiamo al cinema.»

L’aveva detto con un sorriso, ma Ringo arrossì. Le luci erano basse, la sala era piena ma non rumorosa. I clienti avevano l’aria degli habitué, c’era qualche faccia da ufficiale della Nuova Repubblica Sovrana.

«Sei sicuro di voler stare con questa gente, Ringo?»

Nessuno l’aveva più chiamato per nome dopo sua madre. Neanche Ada.

«Fa’ piano. Non stiamo con loro», le disse, fissando il piatto sporco di sugo. «Sono tutti egoisti in questo momento.»

Il cameriere tornò con la lista dei dessert, Ada disse che era stanca. Abitava a Pegli, Ringo l’accompagnò in taxi. Gli mancò il coraggio per chiederle di salire da lei, ma ebbe l’impressione di avere superato una soglia psicologica anche più importante. Aspettò che Ada sparisse dietro il portone e rientrò a piedi, ci mise quasi tre ore. Passando vicino alla stazione di Principe trovò un camion-friggitoria aperto e comprò un cartone di verdure in pastella perché il ristorante l’aveva lasciato affamato.

I rettori delle università italiane si giravano fra le mani la lista dei termini proscritti nella ricerca, i giornalisti imparavano un’altra maniera di raccontare le cose, i magistrati si aggiornavano sulla riforma del diritto penale: la Nuova Repubblica Sovrana era una realtà. Un pomeriggio di ottobre Ringo guardava un documentario sui geyser, il capitano Vesperi chiamò.

«Puoi venire adesso?»

Al solito tavolo, accanto al capitano sedeva un giovane abbronzato, elegante, rasatura fresca: lei glielo presentò solo come Ermes, li lasciò dopo un caffè. L’uomo sbirciò il pataccone che portava al polso, piantò gli occhi in quelli di Ringo: sguardo deciso ma affabile, forse provato davanti allo specchio.

«Facciamo due passi?»

Finirono al Porto Antico a godersi il tepore del primo autunno. Fumavano una sigaretta dietro l’altra lanciando i mozziconi in mare. Fu Ermes a parlare.

«Renata dice che ci sai fare. Io posso aiutarti a fare anche meglio.»

Gli parlò di un mondo fatto di lusso vero e passaporti falsi, champagne a casse, cocaina a domicilio come ordinare la pizza. Ermes aveva creato una rete di collaborazione fra Torino e Cuneo, ora toccava alla Liguria.

«Hai capito di cosa sto parlando?»

«Credo di sì.»

«Moltiplicatori. Far fare ad altri quello che stai facendo tu. Smettere di fare il postino che consegna le lettere sotto la pioggia e iniziare a dirigere l’ufficio postale.»

«Ci devo pensare» rispose Ringo.

«Pensaci in fretta, questi si muovono rapidi.»

Ringo andò a zonzo tutta la notte per i caruggi canticchiando With A Little Help From My Friends. Per esserne capace, ne era capace: contatti ne aveva, da Levanto a Savona. L’idea di fare di meno e gestire di più non era malvagia. Quella sera, lavandosi i denti, s’immaginò in un bagno tutto marmo e cristallo, forse quello di una suite a Manhattan: un weekend con Ada a New York, una partita della Nba seduti accanto a Spike Lee (questa, allora, era la portata della sua immaginazione). L’indomani chiamò Ermes.

Le sue riunioni non si tennero più alla Compagnia del Calice: una volta alla settimana, Ringo passava sotto la bandiera della Nuova Repubblica Sovrana che sventolava all’ingresso di Palazzo Tursi per raggiungere l’ufficio del colonnello Vesperi nella sede del Comune commissariato: erano stati promossi entrambi.

I giorni a dicembre si fecero freddi e lividi come un cadavere. Una sera, uscendo dal Carlo Felice, Ringo aiutò Ada a infilare il cappotto di cashmere che le aveva regalato per i quarant’anni. Alzò il braccio verso un taxi, lei lo fermò: «Per una volta che non piove, camminiamo un po’.»

«Martedì sono a Chiavari», le disse mentre scendevano verso il Porto Antico.

Le montagne di cocaina e le casse di champagne non erano comparse, Ringo praticava l’arte della prudenza, si concedeva i lussi della gente normale: scarpe di marca, un gioello per Ada, una sera a teatro. Aveva scelto L’elisir d’amore perché Il Secolo XIX l’aveva definito «imperdibile», ma si era annoiato. Ada aveva lodato i costumi e le voci, ma Ringo l’aveva vista sbadigliare.

«Quanto bisogna andare avanti?» gli chiese lei.

«Non volevi camminare? Possiamo prendere un taxi in Caricamento.»

«Quanto bisogna andare avanti con questa gente.»

«Ci trattano bene.»

«Un giorno arriverà il conto.»

«Li abbiamo giudicati in fretta, Ada.»

«Ah! E invece?»

«La Vesperi è onesta.»

«Non è una questione di morale, Ringo, questa gente non la conosci.»

«Genova è migliorata. Io vedo questo.»

Lei accelerò il passo, non disse altro.

Verso Natale Ringo fu invitato a cena da Renata Vesperi. Il colonnello viveva nell’attico di un palazzo elegante, ma era evidente che non aveva il tempo di pensare a mobili e piante. Gli offrì del vino, Ringo chiese una birra.

«La prossima volta» gli rispose. «È già tanto se ho una bottiglia di vermentino in frigo.»

«Finché è vino ligure ed è fresco…» sorrise lui.

«Sono riuscita a finire Teresa Raquin. Forse è il mio preferito, di Zola.»

«Non l’ho letto.»

«Te lo presterò», disse. E poi, come a proseguire lo stesso pensiero: «Non sei stanco di vivere delle paghette dall’esercito come un adolescente, Ringo? Scusa, io non giro intorno alle parole.»

Lui guardò la distesa di stuzzichini sul tavolino. Notò che non c’era un televisore nella sala.

«Ora che ci conosciamo meglio, vorrei offrirti qualcosa di serio.»

«Belìn… scusami, colonnello, io mi accontento, non cerco roba seria.»

«Non ti chiederei una cosa per cui non sei tagliato. Non sarebbe nel mio interesse.»

Gli parlò di un laboratorio chimico-farmaceutico sopra Sestri Levante. Ringo lo conosceva: il prestanome per la struttura l’aveva trovato lui.

«E chi lo sapeva che il nome era prestato alla Nuova Repubblica», rise, forzando il tono leggero. «Cosa ci fate con una roba del genere?»

«Non è un banale laboratorio, Ringo, è un’avanguardia: ricerca, sperimentazione. Ha un valore strategico.»

«La chimica non è il mio genere.»

«Lo so qual è il tuo genere. Mi serve qualcuno per gestire la sicurezza.»

«Tipo ditta di vigilanza?»

«Non voglio Rambo, voglio una persona discreta. Uno sveglio e con le orecchie tese, non coi muscoli e le armi. È un’opportunità.»

Aveva avuto paura che il colonnello gli chiedesse di dirigere il laboratorio, o peggio, di fare da cavia per le ricerche. La vigilanza era alla sua portata. Soprattutto con l’esercito alle spalle. Accettò con sollievo.

Dopo la cena, Ringo andò alla Compagnia del Calice a pensare. Sempre più legato a quella gente, avrebbe detto Ada. Lei faticava ad accettare la sporcizia sotto il tappeto nella loro vita comoda, ma per lui non era una questione di vile denaro. Non solo. Renata Vesperi era di parola e a Genova si stava davvero meglio. L’esercito era venuto per soffocare caos e criminalità e l’aveva fatto. Per come la vedeva lui, non era collaborazionismo, era partecipare alla costruzione di una nuova Italia. Andò a sedersi al suo sgabello.

«Oh», gli fece il Manciafugassa, «ci vai a Marassi domenica?»

«Dammi un biancamaro, dai. Anzi, dammi un whisky scozzese di quello buono.»

L’altro lo guardò strano.

«Buono? Ti darò l’unico che ho, se ne rimane.»

«Di’, Mancia, tu rimpiangi la Salis?»

«Chi?»

«Il sindaco.»

Il barista fece una smorfia.

«E chi se ne ricorda.»

Lo servì, uscì a fumare. Ringo annusò il suo drink, sapeva di dolce e di legno bruciato. Si mise a giocare con il blocco-sblocco dello schermo del telefono, vide due chiamate perse di Ada, un messaggio: «Non dovevi passare dopo cena?»

«Cazzo.»

«Opportunità», aveva detto il colonnello. Per i media era «un’emergenza socio-sanitaria». Fin dal primo giorno, Ringo si rese conto di esserci finito in mezzo. Il Fentanyl era solo uno degli oppioidi sfornati dal laboratorio, dove «ricerca e sperimentazione» erano accompagnate da una generosa produzione. Il governo della Nuova Repubblica Sovrana parlava della crisi degli oppioidi come si parlava dell’aids quando Ringo era ragazzino: una storia di degenerati che si risolve da sé, basta darle tempo. Sapevano, a Palazzo Chigi, del laboratorio? Eravamo di nuovo all’eroina di Stato? Era un’iniziativa clandestina del colonnello o di qualche dirigente locale? Ringo si perdeva nei pensieri. Fino a poco tempo prima, il suo tradimento si era consumato all’interno dello scontro fra due belligeranti: per lui era uguale, esercito e resistenza a modo loro avevano entrambi a cuore Genova. Ora s’immaginava come un globulo rosso in un sistema circolatorio con diramazioni in tutta Italia. Pensò di tirarsi indietro, si diede del tempo per decidere.

Arrivarono ancora più soldi. Comprò casa con un prestito agevolato grazie all’interessamento del colonnello. Non una casa lussuosa, ma in centro e abbastanza grande da accogliere una cucina con isola centrale, un salotto con un caminetto inutile e un secondo bagno: il minimo, per proporre ad Ada di andare a vivere insieme.

«Un passo alla volta», disse lei. «Cominciamo con qualche weekend, vediamo».

La convinse a lasciare da lui qualche ricambio e il necessario per l’igiene.

Per la prima cena con Ada nella casa nuova si era fatto recapitare sushi dal miglior giapponese in città, ce n’era per cinque persone. In mezzo a loro, qualche candela e una bottiglia di Moët & Chandon nel secchiello del ghiaccio. Un’altra bottiglia era in frigo. Il cibo era ottimo, Ringo aveva comprato uno speaker Bose per ascoltare un po’ di musica, ma Ada non diceva niente, mangiava senza gusto.

«Cosa c’è?», le chiese. «Non c’è nessun obbligo, ho capito che dobbiamo fare le cose con calma.»

«Non è quello.»

Lui faceva sparire bocconi di sushi dopo averli inzuppati nel misto grigiastro di soya e wasabi.

«Non sono scema, Ringo. Quanto ti possono pagare al laboratorio? Non abbastanza per quello che spendi. Mi vuoi dire?»

Lui deglutì, bevve, sospirò.

«Cosa cambia?»

«Niente, appunto: prima o poi me lo dirai, quindi fallo subito.»

Ringo sbuffò di nuovo.

«Il sistema è semplice, non ci vuole un genio, anche perché altrimenti io non ce la farei», disse, senza riuscire a farla ridere. «In teoria, gli scarti di produzione sono distrutti. In realtà li rivendiamo in nero attraverso dei prestanome.»

«Siete pazzi.»

«Sono le nostre stock option

«E la Vesperi?»

«Non sa dei traffici, ovvio. Sono io la sua security

«Prima ti affidi a lei, poi la fotti.»

«Prima ero in serie B», disse lui stappando la seconda bottiglia. «Ora gioco in Champions».

Gli incontri a Palazzo Tursi proseguivano cordiali, ma in presenza del colonnello Ringo provava ora lo stesso disagio che aveva avvertito alla Compagnia del Calice, all’inizio della sua collaborazione. Nell’aria si sentiva ormai il profumo della primavera, ma infuriavano le mareggiate, il rumore arrivava fino a Bolzaneto. Ada si svegliò a casa di Ringo un lunedì mattina dopo una notte insonne, lui le portò una spremuta a letto, le fece compagnia mentre bevve.

«Oggi ho una riunione con la Vesperi al laboratorio, c’è anche un generale da Roma.»

«Lo so, me l’hai detto l’altro giorno. Vai piano, fammi sapere quando sei arrivato. Prevedono una bufera su tutto il Levante.»

«Sta’ tranquilla.»

«Sul serio, chiama quando sei arrivato. Dammi un bacio.»

Scendendo in garage, Ringo ripensò al giorno in cui le aveva regalato il telefonino criptato. Lei gli aveva detto ridendo che non sapeva cosa farsene, lui aveva risposto che avrebbero potuto inventarsi una doppia vita per renderlo utile.

Su Genova cadeva una pioggia ventosa, il sole era sorto ma sembrava notte fonda. Le strade erano intasate, i pedoni stringevano l’ombrello con due mani. Ringo accese la radio, regolò la temperatura, si dispose a ignorare la rabbia del traffico. Fece i primi chilometri senza quasi vedere la strada, ma passato il promontorio di Portofino il cielo si schiarì, i tergicristalli si ritrovarono a stridere sul parabrezza asciutto.

Uscì dall’autostrada a Sestri Levante, puntò verso l’interno. Poco più tardi vide il grigio del muro dell’impianto affacciarsi fra gli alberi. Entrò nel parcheggio degli ufficiali, privilegio dovuto alla riunione col colonnello e il generale, era proprio sotto gli uffici e la sala riunioni. Spento il motore, stava per scendere dall’auto quando si ricordò: prese il telefonino, chiamò.

«Come va? Sì, sono arrivato. Dopo Portofino il tempo è migliorato. Sì. Sì, sono qui, ti dico. Devo andare, dai. Mangiamo al San Giorgio stasera? Bacio.»

Si guardò nello specchietto, imprecando fra sé per essersi dimenticato di radersi. Nessuno può sapere se Ringo avesse fatto in tempo a sentire il clic che precedette l’esplosione, che lo colse mezzo dentro e mezzo fuori dell’auto, né se avesse avvertito il peso diverso del veicolo, dovuto alla carica che portava inconsapevolmente nel vano motore: fece saltare per aria l’intera ala della palazzina dove gli ufficiali stavano bevendo un caffè in attesa della riunione. Oltre a Ringo, rimasero uccisi il colonnello Renata Vesperi e il generale Scagni, venuto da Roma.

Quella sera Ada andò alla Compagnia del Calice, prese lo sgabello che era di Ringo.

«Avevi ragione che veniva giù tutto», le disse il Manciafugassa.

«Con tutte le volte che Ringo mi ha descritto quel posto», disse lei.

«Hai fatto sparire il tuo telefono?»

«Mille pezzi. E il tuo?» «Idem. Il biancamaro lo offre la casa.»


[1]    È l’incipit di La luna è tramontata, di John Steinbeck.

Le sale operatorie di esistenza

0

di Mariasole Ariot

*scritto in occasione della festa di Nazione Indiana 2025 per “La scena del tempo – tra passato e presente”

“Lei non voleva stare, la misero a gambe all’aria
con la baionetta e la squarciarono”
Costanza C. 1944

(Guerra Totale, Gribaudi)

Precipitano dai cieli come collassi, arterie che si tacciano a un futuro ancora incerto ma deciso:
le nubi che non sanno i temporali ci crollano dall’alto, di gambe spalancate per un bimbo già
morto solo morto già nel prima di arrivare a compimento.

Ai nomi è tolto un nome, strappato come vesti in ospedali senza porte senza tetti, persone con
le teste mutilate, l’elenco delle case a sparizione delle cose: tagliare una ferita a cielo aperto,
affinano le buche collinari di una donna, s’infettano del sangue già ammalato: non sono
baionette sono uncini. Che strappano i presenti dalle costole del tempo.

E dicono scavare proprie fosse, un ultimo dei letti che non porta che terriccio e sassi e nuche, le pietre si trasformano a giacigli, il fango nella bocca che prega le sementi: ma quanto è vuoto un mondo, ma quanti sono i mondi che sappiamo ricordare.

Rottami disperati si rifugiano alla notte, arrivano macerie di insepolti, rosicchiano per fare delle donne un fiorellino, profanano minuscole esistenze e le corolle, saccheggi massacri e bruciature, le masse non comportano una resa.

Elaborano le morti come albe già calate, i soli puntellati sono occhi – lo spreco di due cieli, le
piccole cellette in cui si attendono le corde. E quante corde non conoscono le teste, quante
teste nascondono una tomba.

Picchiate con la canna dei fucili già pronti forti eretti per violare. La terra si insinua a stringere le stelle che non fanno le stellate: esplose le scintille si salvano cordoni ombelicali, la pioggia incastonata nella sete non dice il perdonare: dice il giorno della morte di una presa: dice basta per bastare alla condanna: dannati sono gli altri che non siamo, le figlie non protette dalle scure, le madri che si prestano per fare dei collari un nuovo collo.

Hai visto lo straziare di uteri ammalati, hai visto dire prendimi non prenderla, giacere per dare un nuovo posto, al posto di una vergine che presta le sue buche.
Hai visto le sale operatorie di esistenze, ostetriche che avvisano gli aperti rovinati.
Hai detto che è impossibile parlare, silenzi ricuciti e poi slabbrati.
Hai detto che t’infrangono un sigillo: ti sfrangi come il resto di uno straccio.

Il cranio di un uccello e la sanguigna si schiudono alle ossa: è questa la domanda del passato: lo iato che si scuce, i corpi dilaniati da due tempi.

  • fotogragia di Michal Jarmoluk

➨ AzioneAtzeni – Discanto Settimo: Bastiana Madau

1



«Mia madre pregava, ma mio padre ripeteva

spesso la frase di un anarchico russo

“ Il lavoro è la nostra preghiera”…»

 

da Il figlio di Bakunìn di Sergio Atzeni

 

Ritorno a Nascar
di
Bastiana Madau

A Nascar, nelle notti d’autunno, si sentono le case che parlano. Dicono i nomi di chi le ha lasciate. Quando Mimìa e Rosario Moro camminano per il paese, sembrano ombre uscite da un tempo senza orologi, ma i loro occhi brillano ancora come brace sotto la cenere. Anche se nessuno torna, anche se la voce dei figli è solo un’eco al telefono, loro restano. Perché qualcuno deve tenere il fuoco acceso. Qualcuno deve ricordare il nome delle pietre. Qualcuno deve parlare con le ossa degli alberi che scricchiolano e che a Nascar si odono bene, in mezzo a tutto quel silenzio che avvolge le case, le cose, le strade, il tempo.            
Il tempo è silenzioso, a Nascar, come la nebbia di novembre, che entra nei cortili senza bussare. Una nebbia che non passa e si attacca ovunque. Ai vicoli e al loro labirinto. Alle pietre e agli anfratti che forma il vento. Ai vetri e alle macchie della ruggine lasciate dal lavorìo della sottile pioggia d’autunno. Alla voce dei vecchi, che non chiamano più nessuno, ma parlano ancora con i vivi lontani e con i morti. Confondendo, a volte, gli uni con gli altri.
Mimìa e Rosario Moro vivono nella grande casa, costruita per essere piena, e invece è ogni giorno più vuota. Le scale, che un tempo cantavano con i piedi dei figli, salendole e scendendole come capre allegre, ora gemono sotto i passi lenti dei due vecchi coniugi.
I figli sono partiti uno alla volta, come i passeri quando il vento cambia.
Prima Ruggero, che sognava di aggiustare le cose rotte nel mondo. Poi Caterina detta Cate, che voleva ballare, e ora insegna danza in una grande città, ma non ha più gambe di cerva giovane alla fonte; ha ginocchia dolenti e nostalgia negli occhi. Infine Mariano, il più piccolo, che non voleva andarsene ma se n’è andato lo stesso, con una donna dagli occhi blu e la lingua del Continente.
Mimìa ha ancora il loro respiro nelle orecchie. A volte li chiama piano, come si chiama un sogno prima del sonno. A volte li maledice piano, come si maledice il vento che porta via la terra buona.
Rosario no. Lui non maledice mai. Parla poco. Parla col fico, col pozzo, con i crisantemi dell’orto, con la sedia che cigola. La sera beve un bicchiere di vino e guarda la finestra chiusa. A volte apre un libro. Poi lo chiude e si guarda intorno.
– Non torna nessuno.
E lo dice come se lo sapesse da sempre, come se fosse scritto nel fumo del camino, davanti a cui talvolta si ferma a leggere i poeti nella sua lingua o in quella del Continente. «Gli immortali conoscono la strada della cappa del camino», legge. E sorride. Gli immortali sono vivi, pensa. Forse torneranno.
 
A volte, di notte, Mimìa si alza e apre la porta. Guarda fuori, verso la valle grande, verso il mondo che ha inghiottito i suoi figli.
Rosario Moro la guarda in silenzio.
– Li hai visti?
– No – dice lei. – Ma li ho sentiti. Passavano nel vento che viene da oriente.
E lui annuisce, come si annuisce alla pioggia che piega le querce.
Una volta all’anno, forse due, arrivano le telefonate. Le voci sono lontane, gonfie d’ansia e di fretta.
– Come stai, ma’?
– Tutto bene, babbo?
E loro rispondono sempre sì, tutto bene, anche se il tetto perde, se le dita delle mani sono sempre più rigide e dolenti, se la notte il cuore fa rumore.
 
Passano gli inverni. Rosario si alza ancora alle prime luci dell’alba con il freddo, prima del sole, prima del pensiero. Va in cucina, accende il fuoco. Non perché abbia freddo. Ma perché accendere il fuoco è una preghiera. Ed è un modo per dire: siamo ancora qui.
Lei resta a letto un poco di più, e come sempre ascolta i rumori: il cane che sbatte la coda sulla porta, il gallo del vicino che canta sempre in ritardo, il clic del fiammifero, il rumore dell’acqua, il gatto che salta dal tavolo quando Rosario vi poggia il pentolino con il latte caldo.
Poi scende le scale, come sempre lenta, con la dignità di una regina. E inizia il suo lavoro. Perché il lavoro è una preghiera. Lavare i piatti, pelare le patate, piegare la coperta: tutto è un modo per dire sì alla vita, anche se la vita è stanca.
Qualche volta Mimìa e Rosario Moro litigano per i fiori dell’orto. Lui sostiene che il crisantemo sia il fiore più bello del mondo ma lei insiste a coltivare soltanto le rose antiche e a portarle a casa insieme a qualche orchidea selvatica, che raccoglie sul ciglio del sentiero, al ritorno.
– I crisantemi portali in cimitero –, dice al marito.
– Vedi che per i giapponesi sono questi i fiori della vita.
– Ma noi non siamo giapponesi –, tronca in corto lei.
 
Litigano solo per i fiori.

Un giorno d’agosto, l’auto tossisce polvere davanti al cancello di Rosario e Mimìa.
Scende una donna ancora giovane, con una valigia mezza vuota. Rosario la fa entrare. Mimìa la riconosce dal modo in cui stringe le spalle: come faceva da bambina quando aveva paura.
Cate non dice perché è tornata. E loro, al solito, non fanno domande.
La casa ricomincia a respirare piano, con tre cuori lenti e un silenzio diverso, non più vuoto ma in attesa.
Fu dopo Capidanne, quando l’aria sa di mosto e promessa, che Caterina disse:
– Voglio imparare a fare il pane di Gonare.
Mimìa la guardò.
– Adesso, Cate?
– Adesso, è l’unico tempo che abbiamo.

Il pane rituale, quello per la festa di Nostra Signora di Gonare, non è un pane qualunque. Ha la forma delle sirene che un tempo cantavano tra le rocce, prima che giungesse su quel luogo il capitano Gonario di Torres, che nel pieno dei travolgenti flutti del mare di Orosei, quando un fulmine squarciò il cielo illuminando la cima di una piramide blu, promise alla Madonna che se si fosse salvato dalla burrasca sarebbe andato sin lassù per costruirvi una piccola chiesa bruna. Prima ancora, sì. Prima dei pellegrini che per devozione si inerpicano sul sentiero roccioso con le ginocchia nude. Prima di ogni cosa, c’erano le sirene e il loro canto.
Fu Tzia Annesa, l’ultima donna che sapeva fare il mistico cibo, a insegnare a Mimìa che il pane di Gonare non è solo farina e cibo. È forma. È gesto. È memoria. È fede.
– Fede in chi? – ha chiesto Mimìa.
– In chi resta a vivere in questi luoghi.
 
Caterina era tornata a Nascar spinta dai suoi fantasmi, che le erano rimasti sempre accanto, nonostante la lontananza dalla terra che li aveva generati. Guardarli in faccia avrebbe fatto meno paura, pensava. Li avrebbe addomesticati. Ora saliva con circospezione le scale della sua grande casa, meravigliandosi del proprio stupore. Sentiva la suggestione del tempo raccolto, ma dilatato dal silenzio della casa, mentre i pensieri fluivano piano e calmi. Respirava l’aria gelida delle stanze. Tra quelle pareti i pochi oggetti evocavano ricordi, scavavano cunicoli, trovavano acque carsiche. Squarci. Quando sentì arrivare l’antica vertigine, aprì con forza la grande finestra del terzo piano. Da lì poteva abbracciare con lo sguardo l’intero borgo di Nascar, esclusa la parte a ovest, con la collina sventrata dalle cave di steatite. E da lassù vedeva correre il labirinto dei vicoli, e i tetti e i campanili di tredici chiese. Al limite del borgo si alzavano le pareti delle colline che avevano linee come grandi rilievi caucasici. Ombre e sassi, erba e cielo. La poesia assorbita nelle infanzie.
C’è qualcosa di misterioso nell’amore per la propria terra che non va rivelato. Una piccola fiamma che bisogna riparare con cura, dal vento che arriva da ogni dove.
 
Ora Cate ha sistemato le sue poche cose nella stanza che un tempo aveva il sole del pomeriggio. Parla poco. Percorre gli ambienti domestici, sale e scende le scale con lentezza, come se ascoltasse. Una notte chiama sua madre nella sua stanza e le dice:
– Mamma, io ricordo. Qui arrivavano le voci delle sirene dal Monte Gonare. Le sentivo da piccola.
Mimìa tacque, ma sapeva bene. Le sirene di Gonare cantavano nei sogni dei suoi bambini. E quando smisero qualcosa si spezzò.
Fu proprio alla luce di quel ricordo – il canto delle sirene, il pane votivo, la festa di settembre – che Mimìa cominciò ad esercitarsi a muovere piano i polsi – prima in un senso, poi nell’altro –, e le dita delle mani, in una sorta di auto fisioterapia domestica.
Aveva settantanove anni, le dita gonfie, la vista che sfumava come un disegno lasciato sotto la pioggia. Ma voleva farlo. Per Cate ritornata. Per le sirene. Perché c’è un punto nella vecchiaia in cui si impara di nuovo come una bambina.

Il pane di Annesa, l’ultima che sapeva. Il pane rituale per la festa del Monte Gonare. Non un pane qualunque. Pane con la forma del fiore del vento che muove le querce. Pane con le code delle sirene. Pane col sole inciso al centro, come un occhio che guarda il passato.
Chiamò sua figlia per impastare all’alba, quando il mondo tace e le ombre sono piccole. Cate la guardava senza dire nulla. Poi, le si mise accanto e disse:
– Le sirene canteranno anche per te.
Mimìa sorrise, con le mani colme di farina e gli occhi pieni di acqua vecchia.
– No – disse. – Canteranno per chi ha il cuore rotto e la voglia di tornare.

Il giorno dopo portarono il pane al santuario del Monte Gonare. Mimìa, Cate e Rosario Moro, in silenzio. Il cammino era lungo e pietroso, ma non pesava. Ogni passo sapeva di terra, di fede, di poesia.
Arrivati in cima, le campane suonavano piano. E qualcuno giurò di sentire un canto, tra i rami, tra le rocce.
Un canto di donna.
Un canto d’acqua.
Cate chiuse gli occhi.
Rosario le prese il braccio.
Mimìa lasciò il pane sull’altare come si lascia un figlio che parte.
 
Dicono che da quel giorno le sirene del Monte tornarono a cantare.
Non forti. Non per tutti. Solo per chi sa ascoltare.
E Mimìa, quando si siede al sole con le mani vuote, dice ancora:
– Non tornano tutti.
Ma poi guarda Cate, che impasta piano, e aggiunge:
– Ma a volte una sola basta per far tornare anche gli altri. Perché anche se il mondo è lontano, anche se le case si svuotano come conchiglie, qualcosa resiste.
Il canto.
Il pane.
Le mani che ricordano.
E le ossa degli alberi, che scricchiolano piano per non disturbare gli altri ritorni.

 


   

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.

* Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia

Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

Si può seguire il PODCAST su:

Youtube

SPOTIFY

PocketCasts

 

Materiali per due mostre: Gianluca Codeghini a Siena e a Firenze

0

di Andrea Inglese

Raccolgo qui testi e immagini relativi al lavoro artistico e musicale di Gianluca Codeghini, amico, collaboratore, e soprattutto protagonista di due recenti mostre personali dedicate al rapporto tra la dimensione visiva e quella sonora.

La prima mostra, intitolata Blast: From Dust to Noise, è a cura di Elio Grazioli presso la galleria Frittelli Arte Contemporanea a Firenze (26 giugno – 28 settembre 2025). La seconda mostra costituisce un progetto più ramificato dal titolo NoiSe >< Derive ed è a cura di Stefano Jacoviello all’interno di Derive della Chigiana International Festival & Summer Academy 2025 (Siena, 8 luglio – 14 settembre 2025). Quest’anno l’istituzione ha realizzato un focus ispirato all’opera del compositore francese Pierre Boulez, di cui ricorre il centenario della nascita. Il progetto ha diversi livelli di complessità e complicità in quanto è il risultato di collaborazioni tra diversi istituzioni, coordinate dal direttore artistico della Chigiana Nicola Sani. Codeghini ha così potuto confrontarsi attivamente con tre sedi diverse, dentro e fuori le mura di Siena: con l’Accademia Chigiana promotrice del progetto, con il Complesso Museale S. Maria della Scala e con lo spazio InnerRoom space concept ospitato nel negozio di coppe e medaglie Fusi&Fusi nella zona fuori mura Open Toselli, insolita sede periferica in un’area di transito.

∴ ∴

Cosa ascoltiamo quando vediamo un rumore o cosa vediamo quando lo ascoltiamo? Quale è la sua consistenza, la sua natura e il suo punto d’incontro o è più un luogo di scontro, di rottura e provocazione? Non è così semplice decodificare quanto accade in una mostra di Gianluca Codeghini, gli elementi in gioco sono molteplici e accadono sempre un momento prima o poco dopo, risultando volutamente tanto assertivi quanto sfuggenti. Anche la materia con cui esercita il suo punto di vista non è mai la stessa, così che queste sue mostre tra Firenze e Siena sembrano avere più autori, a volte uno e in certi nessuno e questo perché Codeghini gioca a forzare i limiti dei concetti, a muoversi sui bordi delle cose, a confondere se stesso e gli altri al punto tale, cito da un suo testo, da lasciare nella memoria il dubbio di aver ascoltato altro o di non aver ascoltato affatto, una condizione che declina su tutto il suo operato che sia linguistico, performativo, visivo o musicale.

Piecemeal, 21 luglio chiesa di Sant’Agostino in Siena (ph. Roberto Testi)

Piecemeal (2008/2025) una partitura per coro dalla doppia natura: installazione sonora diffusa lungo il percorso del Complesso Museale di Santa Maria della Scala per tutta la durata della mostra, e performance dal vivo eseguita il 21 luglio nella chiesa di Sant’Agostino a Siena dal Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini”, diretto da Lorenzo Donati. L’opera è una semplice e al tempo stesso improbabile azione vocale, in cui i coristi cercano di dare forma a un’idea andando oltre il proprio ruolo. Si trovano confrontati con una condizione in cui ogni tecnica non serve più, è annullamento, perché si entra in uno stato di sospensione, aleatorio, fatto di rumori, un piacevole “rumore bianco”, che invita alla condivisione e crea complicità tra esecutori e ascoltatori.

∴ ∴

Nella sede della Chigiana troviamo l’installazione al neon NoiSe (2003), la stanza è totalmente avvolta da una luce azzurra.

Noi se (scritta neon azzurro) 2003.

La materia di Codeghini, in effetti, è il rumore: non quello assordante che copre, ma quello impercettibile che rivela. È il sussurro che disturba l’inerzia, lo scarto che interroga il visibile, il dubbio che ci obbliga a guardare e a pensare lateralmente. Le sue opere ci disarmano: non offrono soluzioni, ma ci restituiscono il senso della complessità e del limite.

Don’t Stop Smiling. 2005-2025.

Si tratta di opere dall’apparenza innocua che producono processi attivi al punto tale da lasciare nella memoria il dubbio di aver prodotto altro o di non averlo fatto affatto. C’è sempre una via di fuga nell’interpretazione di un’opera, un gesto o suono di Codeghini; è come se la loro funzione non dipenda da ciò che sono ma dalla possibilità di essere altro. In un testo del catalogo, Cristiano Leone focalizza quanto siano disarmanti queste opere che in apparenza non offrono soluzioni, ma ci restituiscono il senso della complessità e del limite, perché: “come ci insegna Codeghini, è proprio là dove il linguaggio si inceppa, che comincia il vero ascolto. E anche una deriva, se accolta con fiducia, può diventare un’origine.”

Entrée (colore nero non fissato su vetro), 1991/2001

∴ ∴

Non abbiamo compiuto un passo importante, semplicemente stiamo provando.

Alessandro Broggi, Noi, Tic, Roma 2024

Alessandro Broggi, scomparso di recente, è una presenza costante e imprescindibile di questa mostra. Tra i due è nata una collaborazione costante e intensa dopo il loro incontro nel Parco di Veio alla Fondazione Baruchello per Roma Poesia nel 2007. Questa frase la troviamo sia esposta in mostra che sul catalogo, insieme ad altre che accompagnano e introducono molte riflessioni del curatore Stefano Jacoviello.

Scrive quest’ultimo, nel suo intervento intitolato Se noi :

Noi non è dunque affatto un’espressione pacifica. Diverso dall’io, dal tu, dall’essi, deitticamente stabili, noi contiene una comunità con le sue inevitabili turbolenze[1]. Perché dentro quel noi nascono le individualità dei sé: si sottraggono all’ omogeneità per un miraggio di indipendenza, confidano nel sentirsi autonomamente proprie, si incontrano e confrontano, si rispecchiano e si rinfacciano. La scissione continua delle identità – che non sono mai date di per sé ma nascono congiuntamente nella relazione che le interdefinisce –, questa rigenerazione dell’insieme scaturita dal dividersi testardo in elementi più piccoli, rapidi, apparentemente slegati, provoca la vitalità della comunità e il rumore che ne deriva.

Un rumore che è il resto di una continua trasformazione: invade infinitamente lo spazio neutro che ci circonda, impedisce di tracciarvi una rotta e sulla spinta di una indefinibile mancanza ci conduce alla deriva. Il rumore è il fuori-campo che cerca disperatamente l’orizzonte del fuori-senso. È l’insignificante che si sottrae alla forma per restare disponibile a prenderne un’altra, e poi eventualmente lasciarla sotto l’impulso di un contatto improvviso, di un gesto inatteso. Il rumore è il sintomo della presenza imminente del senso, che resta sulla soglia della comprensione, in attesa che qualcuno ne senta la pressione oppure la convogli nell’indifferenza silenziosa.

[1] Paolo Fabbri, “Identità: l’enunciazione collettiva”, in aut aut, 385, 2020.

Crudeltà unite, 2025

In mostra troviamo anche una selezione di video. Ne ricordo almeno tre che hanno una valenza sia installativa che documentale. Il primo ha come titolo Dalle stalle alle stelle (1993) ed è un’azione rumoristica durata tre giorni e tre notti tra i sassi di Matera, una performance dissipativa realizzata grazie al supporto di G. Magnabosco al sax giocattolo. Il secondo video dal titolo Crudeltà inaudite (2007), realizzato al Mart di Rovereto in collaborazione con D. Bellini, ha come protagonisti due gatti che abbattono delle armate di soldatini bianchi (oltre seimila) in uno scenario metafisico con una colonna sonora realizzata appositamente dall’autore, utilizzando gli intonarumori di Luigi Russolo. Il terzo video Theres still for a bit (2017) ha sempre la stessa natura e documenta alcuni concerti ad personam in cui Codeghini, con l’ausilio di caramelle effervescenti, si avvicina all’orecchio dello spettatore, offrendogli un concerto in esclusiva della durata di circa un minuto.

∴ ∴

Sulla mostra Blast: from dust to noise alla Galleria Frittelli di Firenze, vale la pena di citare questo passaggio del curatore Elio Grazioli, presente nel catalogo:

La polvere è della materia, e con essa dell’immagine, della realtà e del linguaggio, quello che il rumore è del suono, dell’armonia, del canone in quanto polveroso. Non si tratta di un elogio della distruzione, di un discorso nichilista, tutto va in frantumi, polvere alla polvere, bensì di un blast, una esplosione, cioè di una strategia nientemeno che rivelatrice anzi, di una polvere che diventa figura, benché e anzi propriamente altra, differente – nel duplice senso della parola – e di un rumore che evidenzia i caratteri del suono invece che darli per scontati e in tal modo subirli. Naturalmente c’è anche della trasgressione, senza la quale è ormai impossibile aprire gli occhi e gli orecchi…

Elusive void of pleasure, 2019

Concludo con un riferimento a Flaw order, uno dei miei pezzi preferiti. Ognuno ha sognato di vedere concretizzata la frase fatta: un elefante in una cristalleria. Codeghini ci offre la sua versione rock di questa frase. Si tratta di un’azione performativa consistente nel “suonare” una batteria allestita con oggetti di vetro e ceramica (vasi, tazzine, caraffe, statuette, ecc.), che sostituiscono rullanti, piatti e charleston. L’uso di questa baterria-scultura coincide con una composizione specifica per rumori di porcellana e vetro in pezzi, ma una volta terminata la distruzione, rimane comunque una forma sparpagliata e residuale, che non cessa di esistere anche se sono ormai subentrati il silenzio e l’immobilità.

Flaw order

Testamento

0

Di Adele Bardazzi 

Nota

Gli eredi ci tengono a rendere noto al lettore che un secondo documento che reca lo stesso titolo, Testamento, firmato successivamente al presente, è stato rinvenuto in data 6 settembre 2023. Fatti i necessari accertamenti sull’auten­ticità del documento che riscontra una lingua per lo più straniera. Gli eredi promettono che lo renderanno pubblico al fine di rispettare il desiderio dell’autrice: pubblicare postumo il suo ultimo testamento.

Per il momento, gli eredi anticipano che nel faldone del testamento ritrovato, si trovano anche una lettera (allegata in Appendice B), delle bucce, alcune bozze di poesie che sem­brerebbero legate a Jimmy Saville e la sua vita in Inghilterra (riportate qui in Appendice A) e le seguenti parole:

Se è un errore, La prego, lo corregga
prima che sia troppo tardi.
M.C.

Le iniziali M.C. suggeriscono la dubbia au­torialità del testo a cui studiosi ed esperti dell’opera di Adele Bardazzi stanno lavorando incessantemente al fine di portare chiarezza. Si spera che un altro libro di Bardazzi potrà essere tenuto nelle mani dei suoi lettori e che essi vogliano portare pazienza e attendere la pubblicazione di questo ultimo documento di una delle voci di più valore del nostro secolo: una cultural icon. And the world is a shitshow. And the show must go on.

 

 

 

 

L’ultimo testamento
doveva essere
precedente
imperfetto
– per questo pure ti penso
Per te, farei tutto
pure rovinare questo prato
e renderlo tutto presente

 

 

 

 

Non basta ora una parola,
abbisogniamo di virgole
per prendere respiri corti –
ti accompagno per mano
senza io.

 

 

 

 

Questa lettera la penso
vicina al tu sotto la scrivania
un giorno in cui senza questo io
spia amica, ape regina,
sarà diversamente nuda.
Ancora in nero, come a un concerto
chiedendo sottovoce di essere
aperta

 

 

 

 

Leggila, non il quattro,
ma un dodici maggio,
prima del prossimo anno,
prima di fine luglio,
prima che faccia troppo caldo
prima che sia ancora tempo
d’estate che cade
sul niente che ci
cade addosso

 

 

 

 

L’Irish Poetry Centre o è
Irish Centre for Poetry Studies
condivide la notizia di valore:
Unpublished Ted Hughes poems
about lover Assia Wevill to be sold.
Da te, il nome nel testamento,
se importa a qualcuno un foglio
firmato chissà dove, quando
secondo la legge
sarà due volte tanto un Basquiat
trattandosi di morte al quadrato,
amore e morte, come piace a teatro?

 

___________

Testi tratti da Testamento, il nuovo libro di Adele Bardazzi, appena uscito per Industria&Letteratura nella collana Obtorto collo, diretta da Riccardo Frolloni.

 

Adele Bardazzi (Firenze, 1991) vive a Utrecht, dove insegna Letteratura italiana e comparata all’Università. Ha pubblicato la raccolta I nomi di Emanuele (Arcipelago Itaca, 2023). Suoi testi sono apparsi in riviste e antologie («Nuovi Argomenti», «Formavera», «Inverso», St Anne’s ReviewPoeti nati negli anni ’80 e ’90 a cura di Giulia Martini, Sesto repertorio di poesia italiana contemporanea). Ha tradotto OBIT di Victoria Chang (Interno Poesia, 2024) e alcune poesie di Cristina Campo (The High Window, 2021).

 

 

I poeti appartati: Tommaso Foscarin

0

 

Due poesie

di

Tommaso Foscarin

 

Il Bottegaio

Li salutava mio padre,
con occhi fissi e denti stretti.
Ma, con sorrisi quieti e voci di miele,
mi sfioravan i ricci con dita di seta.
Ospiti di casa, parenti in divisa.
Ma nello sguardo cortese,
traspariva un inverno sottile.
S’insinuavano quelle serpi gentili,
oltre l’uscio non chiesto.
Frugavano i miri nidi di cuscini,
spalancavan cassetti.
E a mio padre stringevano i polsi,
tra spire di gelido acciaio.
Così rimase nuda la casa.
Tempio dissacrato,
bottega senz’artigiano.
Ed io, non scolaro né apprendista,
ma schiavo d’una scuola senza perdono.
Allora mutaron i loro visi.
Si disfecero le maschere,
sotto lingue come fruste,
occhi che scortavan ogni passo.
E tornò il gelo di quelle spire,
su quella carne mia già corrosa.
La bottega di nuovo vuota.
Ma oltre il sole lacerato dalle grate,
mio padre.
Canuto e stanco,
custode del mio stesso silenzio.

 

*

L’uomo che inseguiva la luce 

Cresciuto tra mille fratelli,
venditori di sogni,
spacciatori di morte.
Le guardie scelsero me,
rendendomi cieco
alla vista del sole.
E dietro le sbarre
sognavano i miei occhi innocenti.
Ricordavano corse,
immaginavano cieli,
solo libertà dovuta.
Quando si aprì la porta
i fratelli gioirono,
gli amici m’accolsero.
Ed ecco la luce
che mi esplodeva in mano,
si faceva respiro,
illuminando notti
non più oscure.
Felice mostravo i denti
a chi con me scambiava parole
senz’esser capito.
Partivo spensierato per mete ignote,
viaggiando su improbabili arcobaleni,
a lungo sognati, mai posseduti.
Ma quelle notti da re
si sbriciolarono in fretta,
come scritte sulla sabbia
spazzate dall’onda del giorno.
E ancora inseguo quella luce,
d’una felicità sempre più breve,
sempre più fragile,
sempre più spenta.
Ora sul qui marciapiede
elemosino una luce.
Luce che non illumina,
luce che sfama e disseta.
Ora qui sul marciapiede,
rincorro arcobaleni.

Vi avverto che vivo per l’ultima volta

0


Gianni Biondillo intervista Paolo Nori

Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, Mondadori, 2023

Paolo, volevi scrivere un libro su una grande poeta russa, l’irruzione della guerra in Ucraina ha stravolto il tuo progetto.

Dopo il 24 febbraio 2022 mi è sembrato chiarissimo che la vita di Anna Achmatova, la società crudele, orribile e insensata nella quale viveva erano molto simili alla nostra. Leggevo di cose successe cento anni fa e mi sembrava di leggere di quel che stava succedendo nel 2022. È stata un’esperienza abbastanza stupefacente alla fine della quale, però, Vi avverto che vivo per l’ultima volta a me sembra ancora un libro su Anna Achmatova.

Contro la tua stessa volontà ti sei trovato al centro di una polemica rimbalzata in tutto il mondo. Cosa siamo diventati?

Quando mi hanno mandato una mail per dirmi che le quattro lezioni che mi avevano chiesto di tenere su Dostoevskij erano sospese «per evitare tensioni» io non riuscivo a crederci. L’ho riletta tre volte, quella mail. E poi ho risposto «Non ho parole. Ma credo che ne troverò». Quando poi, il giorno dopo, ho acceso il Pervyj kanal, l’equivalente di RaiUno in Russia, dopo cinque minuti ho sentito parlare di me, del fatto che avevano vietato le mie conferenze su Dostoevskij. Non è stata una mossa tanto intelligente, secondo me.

Che popolo commovente è, come racconti, un popolo pronto a rinunciare al cibo ma non alla poesia?

Se qualcuno dice di me che sono filorusso ha ragione: la lingua russa, la cultura russa, la letteratura russa, il popolo russo, sono straordinari, e questo, credo, è il momento in cui vale la pena di dirlo a voce alta.

Sciascia diceva che non poteva stare né con, né senza, la Sicilia. Il tuo libro ci insegna la stessa cosa, per tutti noi, nei confronti della Russia.

Ho cominciato a studiare russo nel 1988, quando la Russia era parte dell’Unione Sovietica; non avevo nessuna inclinazione per il regime sovietico, e la cosa non mi ha impedito di innamorarmi, sempre di più, della Russia e dei russi. Credo che nessuno pensi che i molti studenti stranieri che vengono ogni anno in Italia siano attirati dai nostri governi. Mi piacerebbe, però, conoscerlo, qualche ragazzo o ragazza che è venuta in Italia perché affascinata da Giorgia Meloni, o da Matteo Renzi, o da Giuseppe Conte. Anzi forse no, non mi piacerebbe.

Possiamo augurare all’Europa “salute e pace”?

Io credo che riusciremo, alla fine, a costruire un mondo dove non sarà più necessario augurarsi la pace. Ci credo.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2023)

Per una lettura biopolitica dell’Anoressia

10

di Lucrezia Lombardo

Nel 1997, la filosofa femminista Susan Bordo pubblicava Unbearable Weight: Feminism, Western Culture, and the Body, un saggio che rappresenta ancora oggi una delle più lucide analisi sociologiche dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), in particolare dell’Anoressia nervosa. L’autrice interpreta tali fenomeni non come mere psicopatologie individuali, ma come effetti sistemici di un assetto biocapitalistico in cui il corpo delle donne diviene oggetto di controllo, disciplina e marginalizzazione politica.

Bordo evidenzia come, nelle società occidentali a capitalismo avanzato, il corpo femminile sia al centro di dispositivi simbolici e materiali di potere, che ne condizionano l’esistenza. Le immagini veicolate dai media – pubblicità, televisione, cinema, moda, web – costituiscono un vero e proprio regime visivo disciplinante, capace, cioè, di produrre modelli di bellezza, magrezza e perfezione, che vengono interiorizzati dagli individui e dalle donne in particolare, agendo come imperativi morali più che estetici. In questo contesto, la magrezza non è più una semplice preferenza fisica: essa diventa piuttosto una categoria etica, un criterio di autovalutazione, una modalità di appartenenza sociale.

Non sorprende, quindi, che l’Anoressia nervosa sia oggi diffusa in misura significativa tra le donne dei Paesi occidentali. Secondo gli studi più recenti, infatti, la percentuale di donne affette da Anoressia nervosa varia dallo 0,9% al 4,3%, con punte che arrivano fino al 6,3% tra le giovani adulte, a seconda dei criteri diagnostici adottati (DSM-5) e del contesto analizzato[1]. Tali percentuali, apparentemente contenute dal punto di vista numerico, corrispondono a milioni d’individui; ciò ne fa un problema sociale strutturale.

Il riferimento al pensiero di Michel Foucault permette di comprendere ulteriormente la natura di questi meccanismi. Il potere, difatti, nel biocapitalismo non si esercita più in forma verticale e repressiva, ma si diffonde capillarmente attraverso dispositivi tecnologici, pratiche discorsive e forme di autogestione dell’esistenza. In questa prospettiva, l’Anoressia può essere letta come una forma di assoggettamento volontario: la donna si sottomette alle regole del potere senza coercizione diretta, ma attraverso la progressiva interiorizzazione dei valori imposti dalla società in cui vive.

Il corpo anoressico si presenta, così, come luogo di una soggettivazione alienante. L’ossessione per il controllo, la restrizione calorica, l’esercizio fisico estenuante e la negazione della fame si configurano come modalità disciplinari attraverso cui il soggetto tenta di raggiungere l’ideale normativo della magrezza assoluta e della bellezza femminile promossa dai media. Questo modello, apparentemente individuale, è in realtà il prodotto di una logica collettiva di controllo, che esclude le donne dalla dimensione politica, pubblica e decisionale, per relegarle nella cura del corpo e nella riproduzione dei canoni estetici dominanti. In tal senso, i DCA non possono essere compresi unicamente attraverso categorie psicologiche o sociologiche. Essi chiamano piuttosto in causa una dimensione ontologica e simbolica: il corpo che si affama e si consuma è spesso l’unico linguaggio possibile attraverso cui il soggetto femminile esprime un dolore muto, invisibile, e che chiede riconoscimento. La ferita autoinflitta diventa perciò un atto comunicativo estremo, un tentativo di uscire dall’anonimato imposto da una società che trasforma l’identità in merce e la soggettività in performance.

In questa cornice, la fame torna a occupare un ruolo centrale nelle società opulente. Donne benestanti scelgono – o sono spinte a scegliere – di patire la fame, non per mancanza di risorse, ma per conformarsi a un modello di bellezza che, in realtà, cela una volontà di potere e annientamento dell’individuo. Il controllo del cibo e del corpo diventa pertanto un dispositivo biopolitico di controllo sociale, che impone autodisciplina, rinuncia, docilità e conformismo come criteri di legittimazione esistenziale.

L’Anoressia -alla luce di quanto sostenuto sin qui- non è dunque solo una psicopatologia, ma un sintomo politico: essa manifesta, nel corpo, le contraddizioni di un sistema che produce soggettività obbedienti e corpi plastici, privati di unicità, autonomia di pensiero e progettualità. La logica tanatopolitica del biocapitalismo contemporaneo si altresì rivela nell’economia simbolica della magrezza: un modello in apparenza estetico che, in realtà, produce esclusione, sofferenza e autoannientamento. L’interiorizzazione d’ideali irraggiungibili e il rifiuto del sé corporeo sono infatti effetti diretti di un dispositivo di potere che si legittima tramite la seduzione, non più tramite la coercizione, poiché promette alle donne che, se raggiungeranno il modello promosso dal sistema sociale e mass-mediatico, saranno finalmente riconosciute e realizzate.

Potremmo dunque sostenere che i DCA rappresentano una forma di resistenza rovesciata: nel tentativo estremo di controllo, il soggetto femminile denuncia involontariamente la disfunzionalità del sistema in cui è immerso. Ed è proprio in questo paradosso – tra ribellione e assoggettamento – che si manifesta la natura profondamente politica della sofferenza femminile contemporanea.

L’anoressia nervosa, pertanto, al pari degli altri disturbi del comportamento alimentare, non può più essere interpretata esclusivamente alla luce di fattori clinici o psicologici individuali. Essa rappresenta, piuttosto, la manifestazione estrema di un dispositivo di potere che, agendo nel cuore delle società occidentali tardo-capitaliste, plasma le soggettività femminili attraverso l’illusione dell’autodeterminazione. Tant’è che nel corpo che si assottiglia fino a sparire, s’inscrive la traccia visibile di un consenso costruito, non imposto. Un consenso ottenuto attraverso la seduzione estetica, la normatività dell’immagine, l’autodisciplina elevata a virtù. È qui che il biocapitalismo contemporaneo raggiunge la sua massima efficienza: allorché la vittima si fa carnefice di se stessa, in nome di un ideale che non le appartiene. Pertanto, se la magrezza è oggi il sigillo simbolico dell’accettabilità sociale femminile, l’Anoressia diventa il volto tragico di una cultura che riduce la donna a corpo sessualizzato, il corpo a merce, e la libertà a performance. Denunciare questa dinamica significa non solo restituire dignità alla sofferenza silenziata di milioni di donne, ma anche smascherare il volto più raffinato – e perverso – del potere contemporaneo: quello che si nasconde dietro alle immagini, ai desideri indotti, e alla libertà apparente di scegliere di scomparire.

Bibliografia essenziale:

Bordo, S., Unbearable Weight: Feminism, Western Culture, and the Body, University of California Press, Usa 1997

Orbach, S., Fat is a Feminist Issue, Arrow Books, London 1978

Bartky, S. L., Femininity and Domination: Studies in the Phenomenology of Oppression, Routledge, New York 1990

Foucault, M., Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975

Foucault, M., Histoire de la sexualité I: La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976

Agamben, G., Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995

Baudrillard, J., La société de consommation, Denoël, Paris 1970

Gill, R., Gender and the Media, Cambridge Polity Press, Usa 2007

*

Note

[1] I dati riportati sono stati elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità, nello specifico, sempre ricorrendo a tale fonte, si evince che, In Italia, vi è una presenza di Anoressia nervosa femminile pari allo 0,2% e lo 0,8% e di Bulimia pari all’1-5%, in linea con i dati forniti dagli altri paesi. Una ricerca condotta su un campione complessivo di 770 persone di età media di 25 anni, tutte diagnosticate con disordini alimentari e che si sono rivolte alla “Associazione per lo studio e la ricerca sull’anoressia, la bulimia, i disordini alimentari e l’obesità” a Roma e Milano, presieduta dalla dottoressa Anna Maria Speranza, ha rilevato una percentuale del 70,3% di Bulimia nervosa, il 23,4% di Anoressia nervosa, il 6.3% di “disturbi alimentari non altrimenti specificati” o di altra condizione, perlopiù corrispondente a obesità. Nel campione analizzato, la data di esordio del disturbo è mediamente tra i 15 e i 18 anni, con due picchi (15 e 18 anni), età che rappresentano due periodi evolutivi significativi, quello della pubertà e quello della cosiddetta autonomia, o passaggio alla fase adulta, che sono stati rilevati anche in molti altri studi sul tema.

Il club del lettore: Enzensberger, Pintor, Susani

0
New York Public Library Archives, The New York Public Library. "Books discharged here, Books charged here" The New York Public Library Digital Collections. 1875. https://digitalcollections.nypl.org/items/b5def120-c5b2-012f-2487-58d385a7bc34
New York Public Library Archives, The New York Public Library. “Books discharged here, Books charged here” The New York Public Library Digital Collections. 1875. https://digitalcollections.nypl.org/items/b5def120-c5b2-012f-2487-58d385a7bc34

di Davide Orecchio

Diceva il saggio: “I refuse to join any club that would have me as a member”. Ma questo club di lettura ha un solo membro, e mi tocca accettarlo. È lui a dettare le regole riguardo la scelta dei libri dei quali brevemente e intempestivamente (una volta al mese… una volta all’anno…) parlare; e non è detto che siano freschi di stampa.

Hans Magnus Enzensberger
La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti (1971), Feltrinelli 1973 (e varie, altre edizioni)

Un classico che volevo leggere da anni ma è stato un programma radio dedicato a Goffredo Fofi, dopo la sua morte, a ricordarmi di farlo. Fofi si lasciò ispirare dal saggio narrativo di Enzensberger e ne adottò il metodo in L’avventurosa storia del cinema italiano. In effetti Enzensberger è un maestro (anche) di un genere, la letteratura documentale, il racconto della Storia attraverso tessere, testimonianze, materiali editi, interviste, che trova un pilastro in questo ritratto dell’eroe anarchico spagnolo Durruti: la sua vita e morte raccontate da una miriade di voci. Se le fonti sono per forza datate, quel metodo è ancora esemplare, e molti anni dopo Enzensberger l’avrebbe replicato in Hammerstein oder Der Eigensinn (2009). Non solo una grande lettura, ma un manuale di scrittura.

Luigi Pintor
La vita indocile (2015), Bollati Boringhieri 2025

Dieci anni fa l’editore raccolse in un solo volume le prose autobiografiche del fondatore del manifesto, da Servabo (1991) a I luoghi del delitto (2003). Una lunga vita attraverso la guerra, la Resistenza, il comunismo, la politica, il giornalismo, le passioni e i lutti del privato, ma raccontata in levare, senza fare un solo nome. Un resoconto per allusioni. Ora, nel centenario​​​ della nascita di Pintor, il volume torna in una nuova edizione. Sulla rarefazione e l’ellissi della prosa autobiografica in Pintor proverò a ragionare ancora, con più spazio e tempo, qui o altrove, perché l’opera mi sembra storicamente, e non solo letterariamente, cruciale. Se ci pensate bene, questo libro è un extraterrestre. Lo è in quanto memoria comunista, sin dal primo momento in cui è uscita negli anni Novanta. I comunisti hanno molto frequentato il genere autobiografico, credo mossi dalla convinzione di essere protagonisti della Storia, anzi portati e portatori di Storia, quindi una storia da esporre, e facendo tutti i nomi, indicando le date, raccontandola tutta. L’operazione di Pintor è opposta e quindi, ancora oggi, perturbante e misteriosa. Ma l’extraterrestre parla anche all’autobiografismo e all’autofiction di questi anni, e oppone l’argomento del proprio pudore. Guardando nello specchio di questa scrittura molti autori potrebbero verificare la propria.

Carola Susani
Il dio delle genti, minimum fax 2025

A proposito di extraterrestri, Susani conclude la trilogia nella quale appare sempre il misterioso Italo Orlando con un affascinante romanzo (non il suo primo di questo genere) scritto dal punto di vista dei bambini, o meglio di una bambina che poi diventa ragazza e che racconta (rievoca) una storia sì di bambini (le vittime) ma anche di adulti (gli assassini). Un terremoto, il crollo di una palestra, il cemento mescolato alla sabbia, la morte di molti ragazzini… Non c’è nulla che si possa davvero spiegare. Come se questo Paese, con le sue storie, avesse un fondo, una feccia, inesplicabile. Se costruisci un edificio sulla sabbia, e condanni a morte i tuoi stessi figli, sarai per sempre un enigma, e solo una fiaba potrà raccontarti, e solo la presenza fantasmatica di una creatura extraterrestre potrà illuminare la tua oscurità. È un libro profondamente italiano. “Attaccati ai miei capelli, i bambini morti pendevano, tutti in fibrillazione”.

Le parole “mondo” dei Greci

1
ph. Josef Koudelka, Grecia, Tempio di Poseidone

 

ph. Josef Koudelka, Grecia, Tempio di Poseidone

 

di Neil Novello

Noi ritorniamo da dove siamo venuti. L’adagio figura due immagini di un medesimo fenomeno culturale. Anzitutto narra che la «parola», la vivente parola greca, allo scopo di fondarla risale la via della cultura occidentale. E racconta che la stessa parola, ogni qual volta è richiamata in altra lingua da sé, emana un riverbero orientato verso la sua origine naturale. Da una tale parola, che viene dal mondo greco e al mondo greco ritorna, siamo tutti abitati. Soprattutto, la greca è incarnata in noi. Ne siamo posseduti perché è il codice culturale della nostra civiltà, il nome stesso della nostra esistenza quotidiana. Chi allora voglia riandare al suo «cuore» ripercorrendo la virtuosa selezione operata da Giulio Guidorizzi nel Lessico dei Greci (Raffaello Cortina, 2025), in un minimo vocabolario di trenta lemmi, ritorna appunto dove tutto è iniziato, nel luogo in cui nasce la cognizione di occidente.

L’origine, o meglio il nome proprio del nulla prima di ogni evidenza, per la mitologia greca, non per la ionica filosofia presocratica di Talete, Anassimene e Anassimandro, è il cháos. Esso è il primordiale vuoto, l’abissale nulla dell’universo. Qui il silenzio coabita con l’idea stessa di assenza. In tale mancanza, si edifica la realtà mitologica greca. E appare, quale originaria presenza nell’assoluta vuotezza del cháos, già qualcosa di più umano. In origine, il mito è un momento vitale che irrompe e genera un atto di fondazione, di pienezza: Éros. Non si può donare forma di creazione senza l’empito di un’erotica. Anzi, in essa si identifica la fondamentale legge di ogni nascita, così nella storia dell’uomo come nella mitologia primordiale. Appartiene dunque alla storia erotica dell’inizio la vicenda mitologica di Gea, la terra, e Urano, il cielo. Qui la Terra è contenuta in un resto di mondo: la totalità del Cielo. Così il loro amplesso, l’amore desiderante tra il Cielo e la Terra, sarebbe stato eterno se proprio un figlio della Terra, Crono, il Tempo, come racconta Esiodo nella Teogonia, non avesse evirato e dunque estinto la brama erotica del padre. Le «forze primordiali», dunque. E il lessico relativo al mito delle origini. Perché la Grecia, il suo sostrato magico-religioso, ciò che dà luogo a una siffatta visione del mondo, sta nel nome, nella cognizione di inizio.

Dopo il cosmo, viene l’uomo. Così dopo il mýthos viene il lógos. La parte del Lessico riguardante l’«io interiore» è un cammino tra quattro meravigliose parole: psyché, enthousiasmós, manía, óneiros. E psyché, che si può tradurre con la parola anima, richiama un celebre frammento di Eraclito: «Per quanto tu cammini per ogni via, i confini dell’anima non li troverai». L’anima allora sconfina. È la sua natura sia interiore sia esteriore che la fa essere quella che è, anima appunto. Dalla Grecia omerico-arcaica, quella studiata da Gilbert Murray ne Le origini dell’Epica greca, fino al Fedone platonico, a maturare è dunque la cognizione di «vita interiore», qualcosa che con l’anima richiama l’identità «spirituale» dell’uomo. Anzi, a leggere La cultura greca e le origini del pensiero europeo di Bruno Snell, il luogo culturale in cui lo spirito inizia a manifestarsi è la tragedia di Eschilo, il luogo di incontro di due diverse idee dell’infinito, il mitologico e la scoperta dell’interiorità. Così la parola enthousiasmós ci giunge come la reale testimonianza, l’effetto di un fenomeno che si produce propriamente a livello dell’anima. Un «dio entra nel loro corpo» scrive Guidorizzi a proposito delle baccanti del Coro nella tragedia di Euripide. Qui troviamo la radice interiore dell’enthousiasmós, un’essenza divina che viene a risvegliare l’essere, a proiettarlo nel suo stesso infinito. E così si è éntheos, si è in Dio, ciò che nella poesia occidentale durerà fino all’indiarsi di Dante nel Paradiso. L’iniziazione ai Misteri (eleusini, orfici ecc.), con l’obbligato e particolare riferimento ai Misteri dionisiaci, nella Grecia antica traccia dunque la via all’esperienza estatica dell’enthousiasmós. È la via a una condizione di divinità umana. Pure però un’incursione nelle più remote tra le terre ontologiche. La parola greca si presta così a sconfinamenti, deviazioni ed elevamenti, poiché si defila dai centri correnti del significato conquistando inediti spazi immaginari. In tale maniera, si disancora e diverge seguendo alternativi meridiani di senso.

Della «vita interiore» dell’uomo, anzi quale sua espressione perturbante, è anche la manía. Se è vero che Dioniso figura l’anello di congiunzione tra l’«annientamento» e la «rinascita», la parte più catastrofica del dionisiaco richiama l’immagine della «follia» come caduta. Nel Fedro di Platone, una particolare interpretazione della «follia» riguarda il cosiddetto «divino straniamento». La condizione folle, oltre a essere una malattia, è anche qualcosa di più, è essere appunto éntheos perché la manía, lo stato di iniziatica follia, equivale, in termini moderni, a un dérèglement de tous les sens. Non si tratta di afferrare un’idea di deragliamento verso l’astrazione. La parola qui esperisce l’universale perché esprime e rivela un’occulta profondità di mondo.

L’uomo greco, pensatore dell’origine, è anche un infaticabile indagatore del limite. Il luogo di massima attrazione, sia che l’indagine riguardi il mondo materiale o l’immateriale, richiama la forza più dirompente, più annientante della vita: il destino. E nel destino, nel Fato, è inscritto il futuro, proprio il tema del vissuto quando esso balena, come peraltro insegna Eric Dodds ne I Greci e l’irrazionale, nei sogni notturni. L’esperienza onirica greca equivale a un «oracolo personale». Esso richiama un tópos della spiritualità ellenica, la passione consapevole per ciò che viene. Così conoscere il tempo futuro è divinarlo, come si legge nella tradizione greca in Artemidoro, mentre in Aristotele il sogno notturno appare un’entità inattingibile, isolata nella sua realtà fenomenica.

La parola greca ammette una cognizione dell’aperto, anche quando la parola è pólis, la città. Con Díke e nómos, la giustizia e la legge, l’interiore conosce l’esteriore, e la città si salda al più profondo spirito greco. Díke non è la mera giustizia della legge. Un’idea interna alla civiltà greca, già presente in Omero e ancora più in Esiodo, anzitutto la interpreta come legge non scritta. Essa non rinvia solamente al qui e ora. Va al di là di sé stessa. Díke può vendicare l’ingiustizia, può esercitare un’occulta violenza quando il colpevole, l’ingiusto, si macchia di hýbris, di tracotanza. Ciò perché lo stato di colpa (anche se colpevole e colpa non sono nozioni pertinenti), volontario o involontario che esso sia, sta nel non aver addomesticato la violenza della pulsione. Il nome della trasgressione è áte:

Áte è un meccanismo autodistruttivo che opera inibendo la normale lucidità di giudizio e destrutturando gli schemi di pensiero e i codici di comportamento che rendono possibile una corretta vita di relazione. Chi è vittima di áte smarrisce la mente, e lo smarrimento è una forma provvisoria di perdita di coscienza.

L’identità etico-religiosa di áte, che dunque è un formidabile alleato della hýbris, poiché spesso l’invalicabile limite che determina la colpa di hýbris è proprio áte a infrangerlo («Áte porta a hýbris»), di áte come smarrimento della facoltà razionale, evoca, per così dire, un antidoto al suo demoniaco, incontrollabile innesco. Nel Paradiso perduto di Milton, Lucifero esemplifica la colpa di áte. Più in generale, qui si può risalire ad Anassimandro, al suo celebre frammento (nella traduzione di Giannantoni):

Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

L’idea di díke, come il suo opposto, l’adikίa, ingiustizia, si salda all’idea di thymós come luogo in cui alberga una nuova cognizione. Guidorizzi parla della «consapevolezza di un sistema pubblico di valori», qualcosa di determinato, necessario a controllare l’indeterminato. Ora il tratto comportamentale che separa l’uomo dal commettere hýbris senz’altro è il controllo, la repressione di áte. L’originario antidoto al tremendo accecamento viene proprio da díke e dalla sua coscienza culturale: nómos, la legge. A un primo grado di lettura, l’interpretazione originaria del nómos non riguarda propriamente la legge scritta ma qualcosa che somiglia ai nómina di Antigone nella tragedia sofoclea. Più che altro, esso è un tópos che richiama il sentimento di appartenenza dell’individuo alla comunità (il retroterra della politiké). È la nozione di politiké, concepita come categoria culturale, a proiettarsi nella legge, in un orizzonte in cui la grecità sembra transitare dall’umanità all’uomo, dal singolo (eroe, agonista…) all’idea di comunità democratica.

Anche nel sacro ritroviamo l’identità aperta della parola greca. La móira figura una potenza superiore, perché superiore è la stessa forza degli dèi: móira è il destino. Se essa figura la parte di ciascuno nella vita (parte di ricchezza, parte di gioia, parte di dolore…), móira è anche la parte di vita, la parte di tempo vitale. Accettarla significa compiersi in un destino terreno.

I Greci usano parole anche per fissare la forma dell’essere in azione. La parola ménos indica un semplice aumento di vitalità. Nel mondo omerico fatto di dèi ed eroi, di sovrannaturale e sovrumano, la superumanità eroica appare un tangibile effetto della volontà divina. Proprio come il kýdos, qualcosa di più del ménos. L’eroe che ne è insufflato è istantaneamente ammantato, non di una maggiore vitalità, ma addirittura di un’«aura di invincibilità». Achille, come scrive Jakob Burckhardt in Storia della civiltà greca, è il suo archetipo. E a proposito di Omero, il mondo epico-eroico esprime altri due modelli culturali: il kléos e l’aidós, la gloria e il suo contrario, la vergogna di non essere gloriosi. Una proiezione del kléos, una sua traslazione in ambito sportivo, come ricorda Burkhardt è la cultura della vittoria nell’agón olimpico. A Olimpia, attraverso la prova agonistica, l’atleta partecipa per sconfiggere l’avversario, per primeggiare come un eroe omerico. E l’agonismo olimpico è solo un aspetto di quell’umanità agonale, centrale nella poesia di Pindaro, che riguarda lo spirito greco fino alla fine del VI secolo a. C., spirito che riveste un significato esemplare nell’intera civiltà occidentale.

La parola greca incarna lo spirito greco. La sua ampiezza di significato rimanda a un’origine culturale in cui è possibile cogliere la profondità del mondo, il mondo fisico e il metafisico. E ciò sia nel reale spazio della vita umana sia nel campo della speculazione più immaginaria.

 

Il giovane, la manifestazione e il futuro (opinioni di un disadattato)

5

di Giorgio Mascitelli

Tra tutti gli scrittori che in Italia contribuiscono a costruire la narrazione attuale dominante, insomma quella che nel Novecento si sarebbe chiamata ideologia, il più abile e il più intelligente, spregiudicato solo per quel che serve senza cedere in nulla alla vanità, è Alessandro Baricco. Lo avevo già notato ai tempi delle vaccinazioni per il covid, quando aveva ricordato, unico tra i commentatori main stream, che criminalizzare una minoranza che non si vaccinava, per paure superstiziose o per motivi di altro genere, non era utile sul piano sanitario e in compenso avrebbe prodotto una scia di rancore, ma lo conferma con il suo intervento sulle manifestazioni per Gaza (si può leggere qui: https://www.repubblica.it/cultura/2025/10/09/news/alessandro_baricco_l_addio_al_novecento_dei_ragazzi_nelle_piazze-424900624/?ref=RHLF-BG-P1-S1-T1-s367). Infatti negli stessi giorni in cui assistiamo al linciaggio mediatico di Francesca Albanese, colpevole di lesa maestà per aver detto che le argomentazioni della senatrice Segre su Gaza sono inconsistenti, a interventi di autorevoli commentatori che, compunti con il ditino alzato, spiegano che il milione di persone che ha partecipato alla manifestazione di Roma sostiene Hamas perché dieci persone hanno gridato delle sciocchezze, e al tintinnare per i manifestanti di manette, promesse e mantenute, Baricco constata  che queste manifestazioni erano inevitabili perché su Gaza per la sensibilità giovanile si è andato oltre. Dunque queste manifestazioni non sarebbero politiche, ma rappresentano l’addio dei giovani a un modo novecentesco che sta tirando gli ultimi colpi di coda, e qui Baricco è particolarmente abile perché in realtà non è specificato esattamente in cosa consista il novecentismo di Gaza (certo le violenze israeliane, ma anche i concetti di colonialismo e imperialismo che ci servono per analizzare quelle violenze), alla fine tutto diventa novecentesco e quindi da buttare via. Si tratterebbe quindi per i giovani di buttare via definitivamente quel mondo, come se potessero decidere da soli, come se non ci fosse un potere politico economico che decide per loro, per tornare al loro mondo libero, iperconnesso e gamificato della globalizzazione, sbarazzatesi di queste scorie. Credo che in Baricco operi anche una preoccupazione specifica legata alla sua iniziativa della scuola Holden perché con sensibilità si rende conto che queste manifestazioni di Gaza sviluppano un immaginario giovanile non governabile con le narrazioni holdeniane (ed ecco perché le critiche alle narrazioni belliciste dell’apparato mediatico ufficiale).

Ora non credo che occorra l’intelligenza comunicativa di Baricco per comprendere che le narrazioni belliciste e nazionaliste sono perdenti e che sarebbe auspicabile averne una più accattivante, penso che qualsiasi operatore mediatico lo sappia. Il problema è che le narrazioni belliciste si sviluppano perché siamo in un tempo di guerra: per esempio la nuova UE a trazione polacca che si va costruendo sotto i nostri occhi non ha come epicentro l’euro, ma il riarmo e in prospettiva la guerra e, se anche la Germania vorrà riprenderne il controllo, lo farà in questa direzione. A sua volta la guerra è arrivata alle nostre porte perché quello straordinario periodo pacifico della globalizzazione, a sua volta, era un periodo in cui le guerre semplicemente avvenivano lontano (non necessariamente in senso geografico, basti pensare a quella del Kosovo, ma in senso semiotico, lambivano l’immaginario perché al massimo ci indignavano ma non ci coinvolgevano sentendoci, erroneamente, in pace) perché l’Europa stata spendendo i soldi che aveva accumulato durante il cattivo Novecento e, circolando qui ancora i soldi, non c’era ragione di guerra.

Il movimento per Gaza non ha nessuna prospettiva politica, se intendiamo questa cosa nell’accezione novecentesca: infatti il movimento non ha nessuna sponda politica con cui incidere nelle scelte. Chi dovrebbe essere questa sponda? Il centrosinistra con metà dei suoi rappresentanti che su Gaza hanno su per giù le stesse posizioni di Meloni? Non so se mi trattenga il riso o la pietà dal commentare questa prospettiva. Ma proprio questa frustrazione svilupperà consapevolezza e quindi politicizzazione. Infatti Gaza non è solo Gaza, un posto lontano che subisce un tormento inaccettabile contro cui protestare, Gaza per i giovani è l’ingiustizia assoluta che illumina e dà un nome a tutte quelle ingiustizie minori che caratterizzano la loro vita e che in una cultura gamificata non possono avere nome. Cip, cip fa il passero e il poeta traduce “quel prodigio della vostra società. Fuori cemento armato e dentro frolle ossa”.

 

 

Da “Esempi del dominio”

1

[Questi testi sono una selezione di “Esempi del Dominio”, silloge in uscita nel XVII quaderno di poesia di Marcos y Marcos.]

di Giuseppe Nibali

 

 

È in noi che cresce il male

non negli altri che passano la strada e dalla piazza

fino al tram malgrado questo vivere vivono si baciano scopano

solo in noi. E io mi vedo nel fuoco, guardo il corpo che si fa gas

e fiamma che lo irrora, il calcificarsi vedo dell’ascesso nel nero.

Nel fondo troverete il buio, nel buio troverete

gli òmeri, le tibie. Passateci sopra, rompetele

ascoltate il loro canto di coleottero.

*

 

In banchi ci muoviamo nel buio quando salgono

il primo e il secondo, il primo dietro al secondo

e questo che dice io sterza

e l’altro che dice io prosegue.

Stiamo andando verso un punto preciso

vogliamo trovare la foce, risalire verso

il tetto del dove siamo eppure quando

cambiano il primo e il secondo è la vita

nuova per tutti quelli che dicono io.

Una moltitudine ci sembra da dove

possa farsi buono il mondo

possa ricostituirsi il dominio.

*

 

Baracche e alloggi provvisori cambiano

Viale Argonne, Ronchetto, Baggio, Pero.

Dobbiamo avere una grande pazienza, legarci alla base

dobbiamo mettere per iscritto gli accordi.

Razionare: pane secco, un pezzo di piattone

conservato nella tasca del giubbotto.

Alle suole il pianeta è morto, spuntano

i cervi, due maschi adulti, le loro bocche, la pelle

spaventata dai boati si contrae.

Poi ci sono i corpi contro i marciapiedi

abbiamo risposto con quindici mila uomini,

diciassette divisioni. Dobbiamo militarizzarci

diventare indigesti, diventare i nemici,

ci chiameranno violenti e per questo

ci schiacceranno i crani. Chi sopravvive

sarà un muscolo umano senza un corpo

che lo muova. Qualche scossa elettrica.

Poche.

*

 

Ci hanno convocati per vedere il corpo

per guardare le mani la stazza

capire cosa fosse un cadavere quanta vita

quanta forza lo attraversassero.

La pallottola ha colpito l’òmero e si è bloccata

l’altra ha squarciato vetri e plastiche

ficcandosi in cuore, una femmina ha tolto

il lenzuolo ha mostrato i tagli simili a ustioni

Sembrava un pullo, era morto il giorno

prima ma è servito un lungo viaggio per trovarlo

così i viventi lì convocati abbiamo preso a oscillare

ne è nato un pianto breve poi hanno richiuso

su di lui il lenzuolo, alto fino alla fronte.

*

 

 

Cresce nel mio stomaco, si allarga, di notte lo sento

che fa i versi come di un pappagallo che in gabbia

col becco provi a rigare i ferri che lo stringono.

Ne avevo uno, Melopsittacus Undulatus un evidenziatore

azzurro sopra un trespolo e ogni notte gli accendevo

la luce della stanza perché mi pareva fosse morto

e ogni notte lui era più spaventato e io più spaventato

ancora che morisse.

*

 

Il sito è stato preso dagli animali

ne arrivano di nuovi ogni giorno:

lontre passere mattugie cardellini,

i tulipani ospitano api, vespe,

si avvicinano alle rocce nelle caverne

i chirotteri, anofeli riempiono il laghetto

oche dall’Inghilterra poi lupi alci

e più verso il sarcofago hanno avvistato i bisonti.

Controllano sotto il becco dei passeriformi,

gli uomini del parco, nessuno uguale all’altro

ogni animale qui è sempre uno soltanto

differente, distinto dalla specie.

*

 

Immagine: Ettore Sottsass, da “Metafore” (1972-1979)

➨ AzioneAtzeni – Discanto Sesto: Giovanni Dettori

0
     

Che Otis sia poeta non c’è dubbio, ecco i motivi:

Se lo incontravi e dicevi: — Buongiorno rispondeva: — Mare e monti o — Città e sottoscala, a seconda se quel giorno gli eri simpatico oppure no.

  dalla poesia XXI, in Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo Il verde è il secondo    

Otis di Giovanni Dettori

    per Sergio   Atzeni  

Nao me podia a Sorte dar guarida por nao ser eu dos seus. assim vivi, assim morri, a vida, calmo sob mudos céus, fiel à palavra dada e à ideia tida. Tudo mais è com Deus !

Fernando Pessoa, Mensagem.
… la poesia a che serve  - dicevi –
ti pare
siano domande da fare   la poesia
non serve a nulla  la coperta
non la rimbocca a nessuno  e i conti
forse ignara di libretti bancari
non sa farli levitare
                                  
se  allora la poesia  in due parole
ancora meno è
strumento di scasso  aggeggio  servo
fosse anche un servosterzo che  qualche volta  serve
solo a farti perdere la strada
correggendo direzione alla domanda
ecco
la poesia cosa è   come accade

accade  per esempio  diserti
un cavaliere d’industria o che so io
certo sempre del giorno e dell’ora
giocando borsa  mercato  finanza  
a profanare le stelle                          

e può accadere  - come a certe donne -
gratuita
puttana di rispetto
si conceda  a caso  nella notte  
a un marinaio sconosciuto che scova  alla fonda
tra misure vuote e misture
fumo e carte a chiudere angoli amari
a riempire la sera 
e a volte stringa dentro bettole e trivi
lacci che durano nel tempo 
                                     
                                        …  l’uomo
s’imbarca nelle stive della notte 
riveste  
        tutti i colori della pelle del mondo … 

memoria dei valori del vento
provenienza e nodi
da dove levante e vento córso
se dopo il vento ci sarà bufera
quanto forte e dura
come nelle infanzie   avere il tempo  
di pensare il vento
ancora prima che il cielo si spalanchi
ancora prima che la brina geli
che l’albero esploda

… o pensare l’onda
forza e urto del mare …

                                           poesia è  allora  
questo accadere che non serve
nelle manovre della vita a nulla

                                         - fuori intanto leva l’ancora la notte 
                                           anici e vino                                          
                                           stazioni e porti
                                           entrare e uscire
                                           ristagnare e passare
                                           dentro muri  fumo voci gutturali … -

serve a nulla  e pure
tutte le volte che questo fare puttanesco accade 
fra trivi e angiporti
quel marinaio sconosciuto in cuore suo
celebrando
accoglie la poesia
grazia  notturna  preghiera di silenzio
nessuno che li senta

        
  serve a nulla  - ripetevi  -

Lui
soltanto Lui - il Signore! ... – che nel morire
distrusse la morte in questi luoghi
restituisce poesia a ogni giorno    
diverso  identico che muore


                                                           … e Tu
tu
cuore africano  danzatore
delle stelle  a chi mai 
sarai utile   ora
ombra distaccata dalla terra   cosa
in questo sempre mancarti
vorrai 
mai celebrare
in questo a sempre sottrarti   fratello di
passo  uccello migratore 
che fino al limite  allo scoglio  all’onda
fino a quel dato punto e mai più oltre
mai più oltre
hai potuto procedere  al mio fianco

e divisi
ora   separati     andando
per Mai-Più   Mai-Dove
vedersi in questa terra
per Mai-Oltre trovarsi

… o 
non è anche questa  - questa tua  -
poesia che servendo  a nulla  
fessura   varco   assenza    pure
tuttavia resiste
tuttavia  senza più essere  sta
come ciottolo  pietra
come solo la pietra sa stare

… nostro mai trovarsi  - pure  siamo ancora
siamo stati?   uno qua uno là forse altrimenti 
diversamente viviamo –
oltre il Momento  
oltre il Punto dello Spazio-Tempo
orizzonte dell’Evento  oltre il quale
sempre in forse 
                                   l’Ombra …
Nota dell’autore
carissimi,
sempre  un ben ritrovarsi, nonostante  le assenze che dolgono… Nessuno ha mai scritto.. inventato  ecc., se non per uscire di fatto dall’inferno (Artaud). Sergio e Marc avevano tentato questa fuga.
In allegato, vi faccio avere “Otis” , stampata da la Passe du vent e letta a Lione con Marc nel 2005. Sono scivolati vent’anni. Il titolo riprende la poesia XXI del poemetto di Sergio “mi basta saper suonare a malapena una tarantella”…Otis è pianista e cantante, come tutti sanno, eccetera. Spero che testo e traduzione rispondano a quanto desideriate.
Buona fatica,
Giovanni
Verrua s., 20 settembre 2025
     

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

Si può seguire il PODCAST su:

Youtube

SPOTIFY

PocketCasts

«La papera» – Elio Pecora riscrive Giambattista Basile

0
Giambattista Basile

Nota

Per gentile concessione dell’editore, pubblico una fiaba da Elio Pecora riscrive Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti, Bibliotheka Edizioni, 2025.

Scrive Pecora nella sua Avvertenza al volume: “Nel 2003 pubblicai, nelle edizioni Mondadori, una mia riscrizione di venticinque racconti da Lu cunto de li cunti di Giovan Battista Basile. Negli anni successivi, più volte, mi sono promesso di completare l’impresa e, nella scorsa primavera, la spinta mi è venuta dalla mia amica Daniela Marcheschi e dagli editori di Bibliotheka. Così ho trascorso l’estate e l’autunno dedicandomi interamente a quel libro mirabile che, in una lingua colma di umori e di invenzioni, attrae ed esalta, consola e atterrisce per un gioco inesauribile. Vale qui far chiaro sui limiti e le finalità che mi sono posti. Non sono poche le traduzioni-riscritture del Pentamerone: tutte più che doviziose di note e di annotazioni, tutte filologicamente accorte. Non potevo e non volevo competere con quei testi e con quelle curatele. Volevo e voglio soltanto consegnare al lettore di oggi il mio godimento per quelle straordinarie narrazioni e, di sicuro, sminuendo la straordinaria vivezza del testo originale, fidando nel piacere, peraltro illimitato, che travalica la napoletanità barocca e i dotti riferimenti, al fine di una più ampia e comune appartenenza. (…) Se ho svestito l’originale della sua forma ineguagliabile, credo e spero di averne rispettata la meravigliosa sostanza. Ho fatto, insomma, quel che vale da sempre per la fiaba che, passando di paese in paese, di secolo in secolo, ogni volta si rinnova nella lingua viva e prossima”.

Buona lettura (d.o.)

***

La papera

C’erano due sorelle così mal ridotte che campavano sputacchiandosi, da mattina a sera, le dita per fare un po’ di filato da vendere. In tutta questa vita misera non c’era possibilità che la biglia della necessità spingesse fuori quella dell’onore. Per la qualcosa il cielo, così prodigo nel remunerare il bene e così attento a castigare il male, fece sì che queste due povere figliole si recassero al mercato per vendere alcune matasse di filato e, con quel poco ricavato, comprassero una papera. Le due sorelle portarono la papera a casa e le rivolsero tanto amore: la curavano come fosse una sorella carnale e la facevano dormire nel loro letto.

Venne l’alba e portò una buona giornata, che la buona papera cominciò a cacare monete d’argento; così che, di cacata in cacata, ne riempirono un cassone. E fu tanto abbondante quel cacatorio che le due sorelle cominciarono a tenere alta la testa e si videro rilucere la pelle del volto e delle mani. Accadde che certe comari, trovandosi a chiacchierare, si dissero: «Hai visto, comare Vasta, Lilla e Lolla? L’altro ieri non avevano dove cadere morte e, oggi, si sono ripulite e sfoggiano da signore! Nelle loro finestre si vedono galline e rotoli di carne che ti saltano in faccia! Che può essere? Hanno dato mano alla botte dell’onore o hanno trovato un tesoro?».

«Io non so come! – rispose Vasta – Le vedevo piegate e ora le vedo dritte e risolute. Pare un sogno!».

Dicendo questo e altro, spinte dall’invidia, le comari scavarono dalla loro casa un buco che corrispondeva alle stanze delle due sorelle, per spiare e poter saziare la loro curiosità. Tanto fecero la spia che, una sera, quando il Sole, con la spalmata dei raggi sulle barche nel mare dell’India concede il riposo alle ore del giorno, le comari videro Lilla e Lolla mettere un lenzuolo sul pavimento e posarci sopra la papera. Quando poi videro che la papera metteva fuori mucchi di monete d’argento, a quella vista alle comari uscirono le pupille dalle orbite e il gozzo dalla gola.

Il mattino seguente, quando Apollo con la verga d’oro scongiura l’ombra di ritirarsi, Vasta andò a casa delle sorelle e, dopo mille giravolte di chiacchiere e tirandola alla lunga, venne al dunque: chiedeva in prestito la papera per far prendere amore alla casa da parte di certe paperelle che aveva comprato. E tanto disse e pregò che le sorelle, due sempliciotte, sia per essere bonaccione sia perché non sapevano negarsi, sia per non creare sospetti nella comare, le prestarono la papera a patto di riportargliela presto.

La comare, con le altre comari, subito stese a terra un lenzuolo e ci depose la papera che, invece di metter fuori la Zecca che nel suo ventre coniava monete, rilasciò un’intera latrina che macchiò la biancheria di quelle sciagurate con una materia gialla il cui fetore si sparse per tutto il quartiere, come succede di domenica con le zuppe di carne e verdura. A questo punto le comari pensarono che, nutrendola bene, avrebbe fatto sostanza da pietra filosofale per soddisfare le loro voglie. Perciò le diedero tanto cibo – le usciva dalla gola – e la posarono su un lenzuolo pulito. Ma, se prima la papera si era mostrata abbondante di escrementi, stavolta quel che mise fuori fu senza limiti giacché la digestione abbondante fece la sua parte. Le comari sdegnate s’incollerirono così tanto che torsero alla papera il collo e la buttarono dalla finestra nel vicolo chiuso dove si gettava l’immondizia.

Il caso, che dove nemmeno credi fa spuntare le fave, volle che passasse da quelle parti un figlio di Re che andava a caccia e, proprio lì, gli si smossero le viscere tanto da non potersi trattenere. Affidati la spada e il cavallo a un servitore, il Principe entrò nel vicolo per scaricare il ventre.

Finita la faccenda, e non trovando nelle tasche carta per pulirsi, vista per terra la papera morta di fresco se ne servì come uno straccio. Ma la papera, che non era morta, si attaccò col becco e di tale maniera alle natiche del Principe che questi cominciò a strillare.

Accorsero tutti i servitori e volevano staccare la papera dalle natiche del Principe, ma nessuno ci riuscì. La papera s’era attaccata come la ninfa Salmace a Ermafrodito. Di modo che il Principe, non potendo resistere al dolore e vedendo gli sforzi dei servi gettati al vento, si fece portare in braccio al palazzo reale dove furono chiamati tutti i medici. Questi, accorsi immediatamente, provarono in tutti i modi e ricorsero a tutti i rimedi per un tale accidente, usando e adoperando tenaglie e oli e polveri. Ma la papera era come una zecca, non si staccava nemmeno con l’argento vivo e, come una sanguisuga, non veniva via nemmeno con l’aceto.

Esasperato, il Principe fece emanare un bando, secondo il quale chi fosse riuscito a liberarlo da quella morsa al tafanario, se uomo, sarebbe stato ricompensato con la metà del regno, e, se donna, il Principe l’avrebbe presa in moglie.

Si videro fiumi di uomini e di donne venire a metterci il naso, ma più cercavano di risolvere, più la papera stringeva il becco come una tenaglia al didietro del Principe. Si ricorse all’intero ricettario di Galeno, a l’Aforismo di Ippocrate, piuttosto che al Posteriore di Aristotele, e tutto per il tormento dello sventurato Principe.

Volle il caso che fra i tanti venuti a provarci arrivò Lolla, la minore delle due sorelle. Lolla, appena vide la papera, la riconobbe e gridò: «Cicciottella mia, Cicciottella!».

La papera, udendo la voce di quella che le voleva bene, lasciò subito la presa e le corse in grembo fra mille carezze e baci, non preoccupandosi di lasciare il culo di un Principe per la bocca di una poveraccia.

Il Principe, sbalordito da quel che vedeva, volle sapere com’era andato il fatto e, saputo del comportamento delle comari, le fece frustare in piazza e le mandò in esilio. Quindi prese Lolla in moglie e per dote la papera che cacava tesori di continuo, diede marito a Lilla e furono i più contenti del mondo, a dispetto delle comari che, volendo chiudere la strada alle ricchezze mandate dal cielo, aprirono la strada che fece di Lolla una Regina; e capirono infine che:

Ogni impedimento è spesso giovamento.

Kafka nel Paese delle Meraviglie (Letteratura e diritto #5)

2

di Pasquale Vitagliano

Può essere che Franz Kafka abbia letto Alice nel Paese delle Meraviglie? La domanda non è oziosa. Se l’è posta per primo Bruno Cavallone ipotizzando che il racconto Davanti alla Legge sia stato ispirato dall’episodio della Porta e della Rana contenuto nel romanzo di Lewis Caroll e arricchito nel seguito-appendice Attraverso gli occhiali. Le coincidenze sono davvero impressionanti. In entrambi i casi c’è una porta da varcare e un guardiano, che nel racconto di Caroll è una rana-valletto. Questo ingresso è riservato esclusivamente alla persona che vorrebbe entrare, ma non osa farlo. Infine, tanto Alice quanto il contadino devono aspettare per anni prima che la porta possa finalmente aprirsi per loro (esclusivamente). “È vietato l’ingresso fino alla settimana dopo la prossima”. Kafka non conosceva l’inglese. È possibile che egli abbia letto una traduzione in tedesco che risale al 1869. Ai tempi della stesura del racconto nel 1914 esisteva anche un’edizione italiana del libro di Caroll dell’Istituto Editoriale Italiano destinato ai ragazzi. Può essere che sia stata questa la fonte occasionale, almeno nella sua versione aggiornata. Quella in tedesco, infatti, è successiva.
La sorprendente analogia tra Alice e K. introduce un altro argomento, quello della “soglia” tra mondo interno libero e mondo esterno regolato, ovvero dell’accesso al Tribunale come paradigma del giudizio e della verità. “Il Tribunale non vuole niente da te. Ti accoglie quando vieni e ti lascia andare quando vai”. È l’enigmatica frase che il Sacerdote (Guardiano) pronuncia a Josef K. ne Il Processo, nel capitolo in cui viene ripreso il racconto.
È quello che capita al rappresentante di commercio Alfred Traps ne La panne. Una storia ancora possibile di Friedrich Durrenmatt. In viaggio per lavoro, l’auto di Traps va in panne, appunto. Viene quindi ospitato per la notte dal signor Zorn, un giudice in pensione, che lo invita prima a cena e poi a partecipare con altri tre amici ad un gioco di ruolo che consiste nel simulare un processo. L’esito sarà inaspettato e tutt’altro che rassicurante. Il processo, pertanto, assume il perimetro di uno spazio ideale separato dalla vita reale. Può addirittura essere relegato dentro la testa di chi giudica e/o si sente sotto processo. In una miniatura svizzera del XVI secolo questo recinto ha forma ottagonale, come Castel del Monte, con un imprevisto ampliamento delle possibili spiegazioni della vocazione originaria di questa misteriosa architettura federiciana in Puglia.
La soglia della Legge è anche quella che separa il vero dal falso. Questo, credo, sia anche il tema del film di Giuseppe Tornatore, La migliore offerta. Il battitore d’aste Virgil Oldman se avesse fatto subito alla donna in sedia a rotelle del bar vicino alla villa su cui tutta la vicenda è incentrata la domanda che le rivolgerà alla fine non sarebbe caduto vittima dell’inganno. Il film termina simbolicamente a Praga in omaggio alla (non casuale) suggestione kafkiana.
“Noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell’inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi”, afferma il giudice di Durrenmat nel corso del gioco di ruolo. Insomma, siete proprio sicuri che senza tribunali ci sarebbero meno processi tra gli esseri umani?

 

Sui rapporti tra Gramsci e Togliatti

0

di Alessio Barettini

Francesca Chiarotto in Egemonia in movimento – tra Gramsci e Togliatti, (Mimesis, 2024, euro 15), mette in luce agilmente e approfonditamente i rapporti fra i due più grandi rappresentanti del PCI del ‘900, suggerendo una lettura che, attraverso alcuni episodi chiave delle loro storie e mettendo in luce la linea di continuità esistente fra i due grandi ideologi del comunismo, nonché grazie a un corposo apparato storiografico, riveli questa relazione abbattendo ciò che più volte è stato messo in dubbio, ieri come oggi, nel tentativo goffo e pericoloso di riscrivere la storia per fini specifici.

La storica gramsciana illustra il suo ragionamento attraverso sei capitoli che vogliono portare a ragionare sulle implicazioni di questa vicinanza all’interno del problema del lascito di Gramsci e della storia del Partito Comunista Italiano, specificamente negli anni del dopoguerra, con particolare attenzione al ruolo degli intellettuali italiani.

Il punto di partenza, il nodo essenziale da cui prende forma questo libro, è quello dell’eredità gramsciana e del ruolo di Togliatti, che, sin dai tempi iniziali della storia delle varie pubblicazioni gramsciane, è stato accusato di aver tradito il fondatore del Partito Comunista, tendenza fattasi ancora più marcata a partire dal 1991. La studiosa si rifà a due lettere in particolare. La prima, del 1926, relativa alla discussione intorno alla posizione ufficiale da tenere davanti alla divisione nel PCUS fra Stalin e i suoi oppositori, Trockij su tutti. Qui Gramsci prendeva nettamente le distanze dal partito sovietico e Togliatti ne fermava l’invio, come rappresentante dello stesso organismo che rappresentava lo stesso Gramsci, per ragioni diplomatiche, politiche, strategiche. Non per una ragione personale, quindi, come fu detto a più riprese, ma una differenza di punti di vista, un dissenso. La seconda lettera è del 1928, e fu inviata da Ruggero Grieco ai dirigenti del Partito. «scritta peraltro con toni piuttosto “lievi” e disinvolti, conteneva informazioni sullo scontro politico Stalin-Trockij, e sulla situazione politica internazionale.» La lettera aveva reso Gramsci, allora già in carcere, più diffidente nei confronti dei compagni di partito, e fu via via definita “leggera” (Spriano) e addirittura falsa (Canfora), ma soprattutto fu usata in senso antitogliattiano per dare adito all’idea che Togliatti avrebbe voluto sabotare la sua liberazione, tesi che ha trovato spazio anche in tempi recenti, nel 2012, quando il premio Viareggio è stato vinto da Franco Lo Piparo, con un libro che mira ad appropriarsi di Gramsci al di fuori del suo legame con il comunismo.

Del resto qualunque tentativo di screditare in chiave populista un certo tipo di personaggi storici, non fa i conti, come fa giustamente osservare l’autrice, con l’idea blochiana di storia che qui si rivela lasciando ampio spazio a tutti i passaggi storici che hanno determinato l’andamento dell’eredità gramsciana. Così, il secondo e il terzo capitolo si fermano a raccontare la storia dei Quaderni, ovvero in che modo essi sono stati portati fuori dal carcere, salvati prima e poi resi noti, e il Premio Viareggio del 1946, quindi nel primissimo dopoguerra, attribuito agli stessi quaderni gramsciani, decisione che, se da un lato contribuì alla diffusione ulteriore dell’opera di Gramsci, dall’altro accese ancor di più le temperie di una guerra fredda che, culturalmente, cominciava allora a definirsi in campi netti. In entrambi i casi Togliatti ha un ruolo non secondario, anche se ugualmente mistificato da più parti, sulle quali Chiarotto fa luce, affermando del resto «Era chiaro che nelle pesanti polemiche sul Premio, affiorava il clima politico che fin dall’inizio dell’anno si stava surriscaldando (…) Gli ambienti conservatori, laici e cattolici, premevano per una rottura dell’unità antifascista e per una esclusione delle sinistre dal governo del Paese, mentre cominciavano vere e proprie persecuzioni, licenziamenti, processi nei confronti dei partigiani», anche se «la stragrande maggioranza degli scrittori e dei critici italiani espresse un giudizio largamente favorevole all’assegnazione del Premio».

Togliatti ha indubbiamente avuto un ruolo centrale nella diffusione del pensiero di Gramsci, operazione rientrata in quella più ampia della costruzione di un partito moderno, di massa, che tenesse conto tanto della dottrina marxista quanto della situazione politica attuale, nell’idea che un partito marxista avrebbe dovuto disporre di una politica culturale che tenesse conto della crescita dei gruppi sociali mai abituati prima alla lettura, e gli intellettuali, a cui Togliatti stesso chiese maggiore attenzione per lo studio del marxismo e le sue applicazioni.

Nella seconda parte del libro Chiarotto pone l’accento sul concetto che dà il titolo il libro, ovvero i modo con cui Togliatti ha costruito il PCI negli anni della Repubblica, già ampiamente teorizzato come “democrazia progressiva”, per l’ottenimento della quale fu fondamentale il rapporto con gli intelettuali, necessari alla formazione della coscienza di classe (capitoli 4 e 5). La scelta si appoggia proprio sul pensiero di Gramsci, necessario per dare credito a un partito altrimenti sospeso fra le contraddizioni delle democrazie occidentali e la guerra fredda, e ancor più durante il periodo controverso che ruota intorno al 1956, nell’ultimo capitolo, quando, per non perdere elettorato e fiducia Togliatti si appoggiò molto a nuove strutture associative di riferimento al Partito, oltreché ancora una volta agli intellettuali dell’epoca e all’eredità di cui si è detto.

Il 1956 (così come la destalinizzazione) fu un anno complesso per la storia del PCI, e più in generale di tutto ciò che può essere accomunato nella sfera dell’antifascismo. In quel periodo le scissioni, le discussioni, com’è noto, furono molte. L’idea di un partito unico, con un’ideologia ortodossa, vacillava enormemente. Egemonia in movimento mostra perciò un paradosso. Il concetto di pensiero unico, di egemonia culturale, spesso usato come atto di accusa contro gli ideologi e gli intellettuali della sinistra, è diventato il tratto distintivo della destra, ormai abituata a tenersi stretti baluardi dei quali spesso non conosce neppure le basi. D’altra parte una costante discussione animata dalla molteplicità dei punti di vista, in mancanza di una “verità unica”, è proprio ciò che oggi andrebbe auspicato, conclude l’autrice, «in chiave autocritica», come antidoto contro certa leggerezza culturale, un approccio marxista alla storia che oggi tendiamo a sottovalutare, nell’interrogarci su spazi culturali di costruzione attiva in un mondo omologato, liquido e complesso come il nostro.

Dove finisce questo teatro inizia forse il mare: su “Il mare nascosto” di Luca Calvetta

0

 

di Ornella Tajani

Se è vero che il sud è una regione dell’anima – così splendidamente diceva Ettore Scola –, Il mare nascosto si configura come un viaggio in una Calabria dai tratti sfumati, che per sineddoche diventa uno dei tanti sud del mondo, sintonizzati su una medesima frequenza. Una frequenza che si riconosce, ad esempio, dal contrasto violento tra meraviglie naturali o artistiche e architetture obbrobriose – scendendo lungo la Salerno-Reggio Calabria, così come viaggiando in Puglia o nella Sicilia dell’entroterra, il minimo comune denominatore sono le costruzioni sventrate, gli scheletri di edifici mai portati a termine; paesaggi che restituiscono a chi guarda un sentimento del tempo molto peculiare.

È un sentimento ben articolato in questo primo lungometraggio di Luca Calvetta, liberamente ispirato al Petit prince di Saint-Exupéry; il dialogo fra l’aviatore e il piccolo principe diventa qui uno scambio di battute fra Ascanio Celestini e il giovane protagonista «venuto da lontano»: avatar di un migrante e al contempo incarnazione di molti «senza voce», o di molti «penultimi» (come titola una bellissima raccolta poetica di Francesco Forlani), cioè di personaggi che vivono sulle sponde della storia e che sfilano nel film uno dopo l’altro, offrendo i loro racconti al ragazzo che li incontra. «Non è una vita semplice, la mia. È la vita intera. È tutta la vita possibile», dice uno di loro: bellissima frase, che si potrebbe applicare a qualsiasi vita a patto di riconoscerne il valore, la preziosità che sta proprio nel suo essere paradigmatica.

Il mare nascosto gioca con i generi, mescolando cinema, documentario e teatro (Celestini è spesso ripreso come il cantore su un palcoscenico), mescolando riferimenti letterari (Pasolini ad esempio è citato in maniera diretta e indiretta) e risonanze poetiche, sia nella scrittura cinematografica, sia nella costruzione filmica. La giustapposizione di sequenze pur evocative provoca talvolta delle smarginature nel tessuto complessivo dell’opera, in cui si rileva qualche disorganicità: ma sono smarginature dettate da un’autenticità di fondo, da un regista al suo esordio col lungometraggio che ha voluto seguire senza distrazioni il desiderio di raccontare una storia così come l’aveva immaginata. C’è da augurarsi che anche per lui, come recita Celestini alla fine, «dove finisce questo teatro inizia forse il mare, e il mare non finisce».

Mots-clés__Visitatori

0

 

Visitatori
di Federico Spagnoli

Radiohead, The Tourist -> play

___

___

Da: Stella Maris, Cormac McCarthy, trad. Maurizia Balmelli, Einaudi (2023), pag. 15.

Interessante. I suoi visitatori. Chiunque essi siano. Cosa mi può dire di loro? A questa domanda non so mai cosa rispondere. Che cosa vuole sapere? Hanno un nome?
Nessuno ha un nome. Glielo dai tu per poterli ritrovare al buio.

____
[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a:  ornellatajani@hotmail.it Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Il gatto di Olivia Wilson

0

di Angelo Di Fonzo

Olivia Wilson è italoamericana e da quando è morto suo padre non esce di casa senza pistola. Olivia Wilson porta sempre i tacchi a spillo, anche per buttare la spazzatura. Olivia Wilson ti smonta la mandibola se la guardi sbavando.

Quando l’ho incontrata per la prima volta, ero in gioielleria per comprare un paio di orecchini per il compleanno di mia sorella, e avevo smesso di amare da tempo. Dell’amore ci si dimentica tutto, in fretta, ma per gradi: ci si scorda prima del dolore, di tutto il male, poi dei grandi gesti; finché non rimangono solo le piccole cose e i rimpianti.

La prima interazione con Olivia Wilson fu la sua pistola puntata alla tempia. Ero il suo ostaggio, mi aveva scelto tra tanti: un manipolo di timorosi; io ero insolitamente calmo. Subivo il suo magnetismo, ne ero affascinato. Non aveva senso. Era vestita di nero e indossava un basco alla francese; come tornasse da un vernissage un po’ brilla e avesse deciso di prelevare un po’ di soldi alla vecchia maniera. Aveva con sé un gatto color buio, con gli occhi diafani, che zampettava sul pavimento e faceva le fusa a un ragazzino impaurito, prossimo a un attacco di panico.

Lei si fece riempire un borsone di contanti dalla cassiera. A quel punto notai lui, che mi assomigliava così tanto da causarmi la vertigine dello specchio: il viso livido, scolpito dal gelo nei tratti facciali; lo sguardo assopito, inerte. Tutto il male che portavo dentro riflesso all’esterno. Non eravamo così distanti. Il gatto di Olivia Wilson ci passò di fianco con qualche strusciata ognuno, come trasmettendoci l’un l’altro: riunendoci.

Olivia Wilson mi guardò ancora un po’ mentre puntava la pistola alla mia testa. Non riuscivo a decifrare la sua espressione: un mistero. Intorno c’era chi piangeva, chi soffocava grida di terrore. Olivia Wilson lanciò il borsone pieno di contanti sul pavimento in uno svolazzo di filigrana multicolore e mi disse di uscire con lei. Ero un ostaggio? Così sembrava. Qualcuno avrebbe chiamato i carabinieri, ma aveva restituito i soldi. Quindi che fare? Cosa sarebbe successo? Nessuno sembrava saperlo, la cassiera era interdetta. Nessuno intervenne.

Mi disse di salire in macchina: una Mustang GT nera. Aveva ancora la pistola puntata su di me, al petto. Obbedii: posto del passeggero. Lei salì a bordo, chiuse l’auto e partì. Mi raccontò la sua storia: eventi sparsi della sua vita rocambolesca; senza una logica ben precisa. Il nostro appuntamento al buio. Ne ricavai un quadro astratto. Poi mi disse di suo zio che era andato in Australia a fare il minatore perché era arrabbiato e si era ripromesso che avrebbe picconato giorno e notte nelle cave finché non gli fosse passata la rabbia. Era tornato anni dopo in Italia con la barba bianca e il volto solcato dalle rughe: era ancora arrabbiato.

Non riuscivo a smettere di guardarla, ipnotizzato. Lei non riusciva a smettere di puntarmi la pistola. Dolce Olivia. Sarei morto in pace, con un buco in fronte come terzo occhio per contemplarla ancora. Mi portò in giro per la città e quando sentì le sirene, accelerò facendo un sorpasso dopo l’altro. Rientrava in carreggiata a un millimetro dall’incidente, dal muso dell’utilitaria sul senso di marcia opposto. Una maga al volante, Olivia Wilson. Mi chiese dove abitavo. Esitai un momento prima di rispondere, poi le dettai l’indirizzo. Incespicai sul civico. Si fermò sotto casa mia, mi salutò con un bacio e un morso sulla spalla e abbassò la pistola appena prima che io scendessi dall’auto.

Passai tutta la giornata e anche quella seguente come ubriaco. Mi perdevo nel vuoto, mi distraevo di continuo. In ufficio non riuscivo a concentrarmi e chiedevo di ripetere almeno cinque volte nel corso di una conversazione lunga. A differenza del mio solito, non ero molto loquace. Ero stranito, come intrappolato in un sogno sbagliato. Volevo ritornare lì, da lei; da Olivia Wilson. Rimediai con un buono in libreria per il compleanno di mia sorella, lei ne fu contenta. Non le raccontai dell’accaduto. Non lo raccontai a nessuno. Camminavo per la città, portando a spasso il cane, e la cercavo in tutti i volti, in tutte le strade mi figuravo la sua Mustang GT nera.

Vivevo da solo in un monolocale. Quel giorno rientrando trovai la mia sola finestra blindata da un ponteggio: lavori in corso, murato vivo da ogni visuale esterna. Chiesi al muratore che passava lo stucco sulla facciata del palazzo quanto sarebbero durati. Fece spallucce. Il tempo non esiste. Forse era così da sempre e non me n’ero accorto. Forse mi ero scordato del mondo fuori senza nemmeno saperlo. Così vivevo a parte. Ero separato da tutto, del tutto. Da quando avevo incontrato Olivia Wilson lo squarcio si era fatto più grande, più profondo. Quando andai in bagno per lavarmi le mani, notai che lo specchio era andato in frantumi, senza però perdere il riflesso, che non mancava di tormentarmi, ovunque, dal giorno della rapina. E pensavo e pensavo a Olivia Wilson e a come rincontrarla e dove: dove?

Olivia…

Tutto quel sole. Camminavo per la città come in un deserto di luce, armato di una lanterna che non serviva a nulla in quel bagno luminescente: neon, schermi, colori, forme, multicolore, a ciecare ogni prospettiva; ogni visione di complessità. Mi ritrovai a desiderare il buio per ritrovarmi nel chiaroscuro dei contrasti. Cercavo riparo in un pertugio umido, al fresco, e lo trovai quasi al tramonto in un bar senza insegna dalle parti del molo, scostando una porta di legno scassata e mangiucchiata dai tarli. Un bar in penombra: il proprietario muto nello sguardo, cieco a parole. Ordinai del vino per schiarirmi le idee, o per confonderle meglio, e mentre mi reggevo al bicchiere come al baricentro dell’universo, notai in un cantuccio più buio che c’era anche lui, come al solito imboscato, sempre di sfuggita. Mi aveva lasciato la sua impronta di vuoto, svuotandomi, e non riuscivo a scrollarmela di dosso. La musica era dozzinale, martellante nelle casse. Lui era incollato alla sua birra smunta, con il capo chino e il volto per metà in ombra. Alzai una mano per cercare la sua attenzione, ma non mi vide. Azzardai un saluto a voce, di qualche tono sopra le solite note. Nessuna risposta. Troppa musica. Distolsi lo sguardo da lui, prendendo il filo di un pensiero e perdendo la matassa, e quando tornai a guardarlo non c’era più. Sparito. Mi aveva inquinato ormai. Non c’era verso. Presi posto al suo cantuccio, al tavolinetto umido di birra, e portai il vino smorto con me. Il mio volto si confondeva con il suo nelle lame d’ombra degli angoli storti, quasi a mescolarsi. Lì notai il gatto di Olivia Wilson che si lavava a piccoli colpi di lingua. Mi alzai in piedi e gli feci qualche carezza per farmi guidare, tra le fusa. Il gatto di Olivia Wilson, con il suo pelo di buio e gli occhi diafani, si lanciò a zampate rapide verso il seminterrato del bar e io lo seguii, abbandonando il vino e l’immagine di lui (io) (noi), per le scale cigolanti, nel vuoto dei gradini, per raggiungere una sala da concerto dopo una discesa infinita.

Non c’era più la musica del bar come fosse evaporata di colpo, tra uno scalino e l’altro. Il pubblico era immobile come un esercito di statue. Sul palco c’era Olivia Wilson che suonava il violino e cantava con una voce ipnotica, una melodia distorta che dissociava il corpo e la mente. Di nero sempre, bella più che mai. Persi il senso del tempo, come se il tempo avesse un senso; unico. Cullato da quell’ipnosi collettiva in musica, aspettai la fine del concerto in un limbo, sospeso. Attesi che il pubblico di statue si disgregasse come polvere di gesso e imboccai la scaletta che portava ai camerini.

Pronunciai il suo nome. Quando si voltò non era sorpresa di vedermi. Mi avvicinai a lei con tutta la brama di amarla, ma l’impronta dell’altro (lui) mi spegneva ogni desiderio. Olivia mi sorrise estatica come una santa apocrifa, con estrema grazia, e mi disse che non ero lì per quello. Ma come? Ogni illusione domata dal tempo. E cosa allora? Che senso aveva tutto? Mi disse che c’era qualcosa di importante che dovevo fare. Cosa Olivia? Cosa devo fare?

Ucciderlo: lui, l’altro, (tu).

Diedi un’ultima carezza al gatto di Olivia Wilson prima di andarmene e di dirle addio per sempre. Addio, dolce Olivia Wilson.

Tornai a casa perché sapevo che non l’avrei trovato. Dovevo pareggiare, dare sostanza alla mia ritorsione. La sua impronta mi stava spogliando di ogni forza. Feci i gradini a due a due boccheggiando, con i polmoni scarichi.

Bussai.

Poi ancora, più forte.

Rispose soltanto il vuoto dell’androne, il suo eco. Non c’era, come avevo previsto. Così fu proprio lui ad aprirmi. Gli tremava il viso, quel viso smunto e maligno. Lo uccisi per quel viso, per liberarmene. Era stato incauto. Se si fosse trovato a casa non mi avrebbe aperto o mi avrebbe buttato giù dalle scale. Mi avrebbe salvato comunque.

Non lo avrei (non mi sarei) accoltellato.

Dopo aver finito, con la lama di sangue di un nuovo parto, uscii in terrazza per fumare e vidi un mondo nuovo dispiegarsi davanti ai miei occhi. Mi colpì un raggio di luce e mi scoprii irrorato d’amore e con me tutti: fragole macerate al sole.

Definiamo “bambino”?

0

di Alberto Costa

 

Martedì 16 settembre è andato in onda un accesissimo scontro tra Enzo Iacchetti e il presidente della Federazione Amici di Israele Eyal Mizrahi durante il talk show settimanale Cartabianca. Dinanzi a quello che poteva sembrare un banale copione visto ormai mille volte, è però emersa una dimensione eccezionale e terribile del dibattito. A colpirmi è stata non tanto la reazione naïve di Iacchetti – che, non lo nascondo, è stata una boccata d’aria fresca in questo circo di burocrati della comunicazione, dell’incasso e del massacro –, quanto piuttosto la dimensione così sfacciata e pretestuosa dell’argomentare del suo interlocutore. Iacchetti, infatti, pur cercando di trattenere l’emozione e la furia che gli annodavano le parole, tentava di distinguere una dinamica di guerra che si compie tra due eserciti dalla violenza messa in atto da un esercito contro donne e bambini: “…anche i bambini? Avevano il kalashnikov i bambini?” ha gridato infine Iacchetti e Mizrahi lo ha incalzato: “definisci bambino!” Di qui la reazione di Iacchetti che molti hanno visto.

Dunque, se anche volessimo dire che la frase gli è uscita male, che Mizrahi voleva soltanto vincere la contesa e così via, non credo sia eccessivo dire che questa è una frase da cui è difficile tornare indietro e che forse segna lo spirito dei tempi, al di là delle intenzioni di chi l’ha pronunciata. Fermiamoci a riflettere.

L’orizzonte aperto da una richiesta del genere è talmente fosco che si è tentati di considerare quanto udito come l’ennesimo rumore emesso dalla tv, come un ulteriore ronzio che domani sarà fortunatamente dimenticato. Dinanzi a questa richiesta di definizione, invece, sono stato immediatamente risucchiato dalla libreria del mio soggiorno e mi sono messo a sfogliare nuovamente i volumi francofortesi riguardanti il regresso della ragione e la dimensione della vita offesa, come Dialettica dell’Illuminismo e Minima Moralia. Viene la tentazione di imitare Horkheimer e Adorno e cercare di comprendere una frase così terribilmente unheimlich.

Il suo carattere così estraneo, ma intimamente perturbante per un qualsiasi lettore anche occasionale di un libro di filosofia, credo derivi da una similarità. La richiesta “definisci bambino” ricalca infatti la forma della classica domanda socratica “ti esti” o della sua traduzione latina “quid est”. Certo, la reazione filosofica contro la richiesta di definizione ridotta a procedura capziosa è vecchia come la filosofia stessa. Torna qui in mente la pratica venatoria di Socrate nei confronti del sofista nell’omonimo dialogo di Platone, assieme all’esito così problematico e mille volte ridiscusso di quello stesso dialogo. In fondo, il filosofo e il sofista non possono che eternamente trovarsi legati assieme, l’uno come immagine perturbante dell’altro, in una caccia e in una lotta mai concluse. Di fronte alla richiesta “definisci bambino” ci si può di conseguenza sentir chiamare in causa, come un contemporaneo attore chiamato a interpretare la propria parte in questa eterna rappresentazione teatrale.

La mente rumina e, mi scuso per la banalità, ma non ho potuto non pensare che a Gaza e in Cisgiordania si stia palesando un altro vecchio motivo della nostra tradizione, ossia l’ennesima espressione del cuore di tenebra del sistema occidentale-europeo, che ancora una volta presenta le proprie specialità. Per citare solo le principali: occupazione militare territoriale, massacro di popolazioni inermi, delirio del businessman della ricostruzione futura e sadismo attuale del businessman dell’apparato industriale bellico. Forse esagero, ma mi sembra che nell’uscita di Mizrahi si lascino intravvedere, come in una sozza metonimia, i modi di funzionamento dell’attuale sistema produttivo e delle sue articolazioni nel sistema di governance, oltre che nel sistema mediatico. Dinnanzi alle violenze israeliane non possiamo non pensare a quanto dice Conrad, quando mette in bocca a Marlow il rilievo: “tutta l’Europa aveva contribuito a formare Kurtz”[1].

Quello che però non vorrei andasse perduto di questa tremenda uscita del presidente della Federazione Amici di Israele è l’occasione di una reazione razionale. Davanti alla sozzeria rappresentata da questa richiesta di definizione credo sia possibile rimettere al proprio posto il “quid est” (“che cos’è?”) assieme al fratello “cur est” (“perché è così?”). Voglio dire che questo è più che in altri tempi il momento di mettersi a pensare, di riattivare il nesso tra pensiero e prassi e di non farsi meramente investire dall’angoscia trasmessa da quella frase. Allo stesso modo in cui Marlow tenta un bilancio dopo le ultime terribili parole di Kurtz (“l’orrore! l’orrore!”[2]), credo sia necessario per lo meno iniziare a sviluppare non certo un bilancio, ma almeno un’interrogazione.

Comincerei col chiedermi, forse elaborando in più forme la stessa domanda: a) perché ora, rispetto per esempio a dieci anni fa, il dibattito pubblico e la comunicazione delle classi dirigenti occidentali (siano queste capitalistico-finanziarie o legate alle strutture tradizionali della politica) non solo ammettono, ma sembrano costretti dai fatti a utilizzare toni sempre più violenti e inumani? b) Perché proprio ora Israele mostra il suo volto più sanguinario e (anche retroattivamente) si permette di rompere il velo che storicamente ha coperto la sua natura coloniale? c) Perché ora sono la sconcezza e la mancanza (almeno apparente) di buon senso a giustificare e supportare con efficacia il sistema di governance, assieme alla dinamica di accumulazione dell’apparato produttivo in cui siamo immersi? d) A che fine e per scongiurare quale alternativa la violenza e la falsità ora governano, travolgendo qualsiasi vecchia ipocrisia assieme a qualsiasi sede e procedura di mediazione in uso fino a poco tempo fa?

Sia chiaro, non cerco risposte facili del tipo “Trump e Netanyahu sono fascisti”, “i principali partiti di opposizione hanno storicamente agito allo stesso modo”, “vogliono solo più potenza” ecc. Queste sono risposte epidermiche e banali. Riassumendo, direi che il nocciolo dell’interrogazione riguarda piuttosto il motivo per cui questo modo di governare e questa modalità di accumulazione di risorse si impongono proprio ora e in questa specifica modalità. La domanda si evolve inoltre in quella riguardante quale sia il fine e contro quali soggetti queste stesse strategie di comando si dimostrano essere le più efficaci, almeno al momento. Rispondere a queste domande che dal piano morale si spostano su quello del disvelamento tattico e del realismo politico, credo sia urgente.

Infine, nel farmi queste domande non posso non provare anche la vergogna di chi si trova a vivere in pace (almeno al momento) e si sente di poter fare molto poco per tutti coloro che stanno soffrendo in Palestina oggi, così come soffrivano ieri, allo stesso modo in cui si viene a soffrire in decine di altri luoghi al Mondo. Assieme al senso di impotenza però non posso ignorare anche il richiamo che in questo momento storico di tragedia e di pericolo ci può venire da queste righe di Walter Benjamin: “in ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”[3].

Queste righe ci possono suggerire che forse dobbiamo prendere sul serio Eyal Mizrahi: bisogna strappare al conformismo i giudizi, le calunnie, quelli che sinora sono i punti fermi del dominio e impegnarci, teoricamente e praticamente, per definire e dar ragione di che cosa sia un bambino, di descrivere cioè che cosa sia oggi una vittima. Cercare di definire nuovamente chi sia oggetto di violenza e di sfruttamento al giorno d’oggi, di delineare quali siano i limiti, di scoprire come dar voce al soggetto contro cui si scaricano oggi tanti sforzi di dominio e tanto livore e, su questa base, dar ragione delle sofferenze di chi patisce e muore, oggi come ieri. Insomma, reagire, perché, anche se una resistenza democratica e non oscurantista si intravede, il nemico non ha smesso di vincere.

*

[1] J. Conrad, Cuore di tenebra, ed. Einaudi, Torino 2016, p. 77.

[2] ivi, p. 108 e ss.

[3] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, n° VI, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 2014, p. 78.

 

*

Immagine: Otto Dix, der Krieg

Dietro il vaso

0
[ la mia adesione allo sciopero generale di oggi 3 ottobre 2025 è non fermare le parole, non è il silenzio, non il vuoto, ma continuare a parlare, a tenere questo spazio aperto e vivo – o.p. ]

Francesco Hayez Vaso di fiori sulla finestra di un harem [1881]
Georges Bizet[1838-1875] Intermezzo da CARMEN
[Barenboim · Berliner Philharmoniker]

di Giuliano Tosi

Non si può guardare un quadro senza immaginarlo in frantumi.

Nella densa nebbia milanese dei suoi novant’anni, a Francesco Hayez erano rimasti solo due ricordi chiari e distinti della sua infanzia veneziana.

Il primo era popolato di maschere scure e candide scollature.

Dopo Austerlitz, i francesi erano tornati padroni di Venezia e la città si era riempita di sfrenata allegria: teatri e feste, balli e concerti invitavano la popolazione a godere della libertà. Francesco aveva forse tredici anni e, una sera, gli zii, presso i quali viveva, lo portarono a vedere le maschere nel Ridotto teatrale vicino a Piazza San Marco.

Il Ridotto era un turbine di risate e grida, di oro e cipria, verdi rossi e gialli da far girare la testa. Lo sguardo del ragazzo riconobbe i lugubri contorni della baùta, il chiarore osseo della larva, la gnaga miagolante, ma a catturare il suo sguardo fu il nero velluto delle morete, mute e seducenti. Gli occhi di quello che sarebbe stato il più grande pittore di nudo del suo tempo si persero lungo le linee morbide dei corpi femminili discinti, tornarono poi ad accarezzare il velluto nero di quelle guance e si fermarono a cercare negli occhi bui della maschera la promessa di uno sguardo che ricambiasse lo sguardo.

Quando la zia si accorse di quanto stava accadendo, ruppe l’incanto e lo trascinò fuori dal Ridotto. Ma il turbamento del ragazzo era stato profondo. Non solo lo spinse a una fallimentare fuga da casa per tornare di nascosto a spiare quella visione che dava le vertigini, ma addirittura non lasciò la sua anima fino all’episodio che costituiva il suo secondo e più importante ricordo. Poche settimane dopo, Francesco passeggiava solo per le calli in un mattino spesso di umidità. Come gli accadeva di continuo da quella sera, era inquieto e nervoso, come se si aspettasse di veder comparire ad ogni finestra o sotto ogni balcone, sopra ogni ponte o al centro d’ogni campo, dentro ogni barchino di passaggio e perfino sulla superficie verde delle acque, una donna discinta e mascherata dallo sguardo profondo e buio.

D’un tratto una voce alta sopra la sua testa gridò: – Attento!

Guardò in alto e vide un vaso oscillare per un attimo su un davanzale, e due bellissime mani che si sporgevano bianche dal buio e afferravano il vaso.

Tutto si fermò, un’immagine perfetta si compose: il vaso pieno di fiori luminosi, il gesto delicato e forte delle mani, il volto della ragazza che, affondato nel buio, si intuiva appena.

Francesco rimase a bocca aperta, senza respirare. Poi le mani della ragazza scomparvero nel buio e tutto si placò. Al ragazzo scese in corpo un calore quasi amoroso che lo fece pittore.

Nel corso della sua lunga vita, quella visione lo aveva accompagnato, a volte inseguito, forse addirittura ossessionato. Di tanto in tanto l’aveva perfino sognata. E tutte le volte il sogno si concludeva con il vaso che cadeva dalla finestra – vittima di sbadataggine? maliziosamente spinto? – e andava in frantumi. E tutte le volte il pittore si svegliava prima di poter vedere il volto della ragazza incorniciato dalla finestra.

E ora, raggiunti i novant’anni, quella visione è così lontana da dubitare di averla mai vista con gli occhi, da sospettare che sia stata sempre e solo un sogno. Ora, a novant’anni, è giunto il momento di fermare su una tela quel miraggio lontano che gli ha indicato la via.

In pochi giorni febbrili organizza dettagliatamente tutto quanto occorre. Fa costruire nel bel mezzo del suo studio milanese la finestra come la ricorda nella sua immaginazione. Sceglie con cura esasperante il vaso. Riempie ogni angolo con decine di mazzi di fiori diversi. Allestisce un vero e proprio palcoscenico, in cui le luci e le ombre sono perfettamente dosate. Infine costringe la nipote Giuseppina, dalle bellissime mani, a decine e decine di sedute.

Nel quadro che nasce da questo travaglio, le linee della finestra e del vaso sono avvolgenti ed eleganti, i fiori esultanti di luce e di colore, il gesto delle mani delicato e forte come quel giorno.

Ma, se solo lo spettatore si prende il tempo, dopo essersi fatto incantare dal turbine di colori e di luci e di linee sinuose e seducenti, gli accadrà di affondare lo sguardo nel buio dietro il vaso, laddove un volto emerge appena. E lì si perderà.

Quando il dipinto fu concluso, Hayez fu assai reticente nello spiegare perché, senza alcuna commissione, avesse dipinto quel soggetto. Si decise, allora, di proporlo come un quadro esotico, e il titolo, Vaso di fiori sulla finestra di un harem, venne scelto con questa intenzione. Nessuno aveva capito che i tratti orientali dell’opera erano, in realtà, quelli di una città poco lontana, appoggiata sulle acque di una laguna come una ninfea.

L’opera venne accolta assai freddamente e non trovò acquirenti. Hayez, solitamente così sensibile al giudizio altrui, rispose questa volta con un

sorriso e si tenne il dipinto. Negli ultimi mesi di vita lo contemplò ogni singolo giorno, ma a nessuno rivelò mai che lo riteneva la sua opera più importante.

In quella ragazza, che non possiamo vedere e non possiamo non scrutare, Hayez trovava quel che aveva cercato per tutta la sua lunga vita. Per quel pittore, che costringeva i suoi soggetti a sedute estenuanti per rendere tutto scrupolosamente dal vero, ma che al tempo stesso riteneva il verismo un pericolo insito in tutte le arti, quella visione conteneva l’intuizione che il vero non si può vedere, ma solo immaginare, che il vero lampeggia appena in fondo agli occhi vuoti e bui di una moreta.

Si racconta che Hayez, negli ultimi giorni di vita, scaraventasse dalla finestra ogni vaso che gli capitasse a tiro. E rimanesse a rimirare i cocci sul selciato, ignorando beatamente le imprecazioni dei passanti.

NOTA

La storia è nata da una vera e propria visione suscitata dal quadro conservato presso la Pinacoteca di Brera. I due episodi biografici narrati, relativi il primo all’infanzia veneziana e il secondo agli ultimi giorni milanesi, non sono episodi reali, ma scene germogliate dalla visione iniziale. Eppure, strada facendo, leggendo i documenti relativi alla vita del pittore, sono emersi dettagli che hanno reso sempre più “reale” quanto immaginato. Il fatto più sorprendente è che il racconto, seguendo più il suo spontaneo sviluppo vitale che le intenzioni di chi lo stava scrivendo, è giunto alla fine a corrispondere pienamente all’idea sottile e raffinata che Hayez aveva del realismo.