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Forse si muore così

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Un racconto di Andrea Bajani

Ti hanno data per morta per cinque anni di fila, eppure io ti ho vista sempre girare per casa. Almeno una volta la settimana c’era qualcuno che diceva La nonna sta per morire, ma poi tu alla fine non morivi mai. Ti vedevo camminare in cucina, sedere in poltrona, sparire dentro la porta del bagno, accendere e spegnere la luce ogni volta che uscivi. Così avevo pensato che forse ero io che non sapevo come si muore, e che magari tu eri già morta nonostante camminassi in cucina, sparissi dentro la porta del bagno e accendessi e spegnessi la luce ogni volta che uscivi. Forse ero io che sbagliavo a darti per viva, a pensare che tra i vivi e i morti quel che cambia è l’azione. Così succedeva che ogni tanto chiedevo a qualcuno notizie di te, ti vedevo passare, aspettavo che ti allontanassi, e poi sottovoce chiedevo È già morta? Ma tutti sottovoce mi rispondevano Non ancora e poi inchinandosi verso di me aggiungevano Ma non manca poi tanto. Ma tu non morivi mai, a dispetto di tutti i pronostici, e soprattutto alla faccia di chi ti voleva già a riposare sotto le aiuole. È ostinata, avevano sempre detto tutti in famiglia ogni volta che si parlava di te. E così mi ero fatto l’idea che fosse per ostinazione, che non ti decidevi a morire. Quando non vuole fare qualcosa, dicevano, non c’è verso di fargliela fare, e tra le cose che non ti andavano a genio con ogni evidenza c’era questa di traslocare nel regno dei cieli. Io comunque per sicurezza ogni tanto chiedevo, e a domanda uguale ricevevo sempre uguale risposta. Non ancora, ma non manca poi tanto.

Una rosa nelle tenebre – prima parte

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[tempo fa una nostra assidua commentatrice, Orsola Puecher, trascrisse in un commento un brano a mio parere molto bello dal Pelléas et Mélisande, testo di Maurice Maeterlinck, musica di Claude Debussy. Le ho chiesto di tradurre e spiegare per Nazione Indiana e questa è la prima parte del lavoro che lei ha prodotto. a.s.]
 

cura e traduzioni
di Orsola Puecher

 

da PELLÉAS ET MÉLISANDE
di Maurice Maeterlinck2gardenmelisande.JPG, Claude Debussy

E’ notte. Una fanciulla esile dai lunghissimi capelli dorati quasi una bambina, si pettina affacciata alla più alta finestra della torre di un castello: cupo, all’apparenza imponente, ma che, visto dalle quinte del teatro dell’Operà-Comique di Parigi, rivelerebbe soltanto lo scheletro di cantinelle di legno che regge la tela dipinta di una scenografia d’altri tempi. E’ il 30 aprile 1902. Chi sarà questa regina adolescente? Aspetta qualcuno? E chi? E’ sola sul palcoscenico. L’avvolge e la strugge il pianissimopppdoux et calme di una musica delicata, l’onda notturna di arpeggi de les sanglots longs di viole e violoncelli, pizzicata dall’arpa, fra l’eco del flauto e dell’oboe.

 


Nella foto la cantante scozzese Mary Garden, prima interprete “ideale” di Mélisande, scelta da Debussy per il fisico diafano, il viso preraffaellita e per l’intonazione poetica e cristallina della sua voce, cui l’accento inglese aggiungeva quella nota in più di estraneità e mistero così intrinseca al personaggio. “Non posso concepire timbro più dolcemente insinuante”, disse di lei. Qui in una rara registrazione del 1904.
 

arpeggi.JPG

 
Poi la musica si spegne e nel silenzio solo la sua voce modula un impalpabile canto recitato, una prosodia lirica di versi liberi dal suono sussurrato, liquido e triste. Nelle parole, nelle assonanze morbide delle sillabe, nel rintocco ripetuto di quel tout le long… tout le longtout le long soffia una profonda malinconia, il presagio di un destino. Forse lo stesso ignoto che starà di fronte alla fanciulla sola di Campana, a bordo della nave in viaggio attraverso i suoi orizzonti vertiginosi. Un blu nuit di sangue aristocratico e malato. Una viola che trema indifesa.
 
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremolare una viola…
 
[Viaggio a Montevideo,1914, D. Campana]

ACTE 3
Scène 1
Une des tours du château
(Un chemin de ronde passe sous une fenêtre de la tour.)

MÉLISANDE
(à la fenêtre tandis qu’elle peigne ses cheveux dénoués)
Mes longs cheveux descendent jusqu’au seuil de la tour;
Mes cheveux vous attendent tout le long de la tour,
Et tout le long du jour,
Et tout le long du jour.
Saint Daniel et Saint Michel,
Saint Michel et Saint Raphaël,
Je suis née un dimanche,
Un dimanche à midi…

ATTO TERZO
Scena 1
Una delle torri del castello.
(Un ballatoio per la ronda passa sotto una finestra della torre.)

 

MÉLISANDE
(alla finestra, mentre si pettina i capelli sciolti.)

 

I miei lunghi capelli scendono fino ai piedi della torre;
I miei capelli vi attendono lungo la torre,
E lungo tutto il giorno,
E lungo tutto il giorno.
San Daniele e San Michele,
San Michele e San Raffaele,
Sono nata una domenica,
Una domenica a mezzodì…

melisande.JPG
 
Ecco Mélisande.
 


Nome carezza, di miele ed erba melissa, μέλος, canto e suono, donna sirena, fata Melusina, la s che scivola sulla a il suo accento di grazia. Ma una grazia triste, scura. D’ombra. Una a che sta per gridare la stessa angoscia, lo stesso stupore dell’Urlo di Munch (1883).
 
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,
Golfes d’ombre, (…)
 
“A, nero corsetto vellutato di mosche lucenti
Che ronzano attorno ai fetori crudeli,
Golfi d’ombre, (…)”
[Arthur Rimbaud, Voyelles, 1871]
 
Mélisande, sfuggente nella sua duplicità, chiara e scura, dolceamara insieme, γλυκυπικρον. Glukupikron. Indefinibile.
 
For I have sworn thee fair and thought thee bright,
Who art as black as hell, as dark as night.
 
“Perché avevo giurato che eri bella e ti pensavo luminosa,
tu che sei così nera come l’inferno, così scura come la notte.”
 
[W. Shakespeare, Sonetto 147]
 
raperonzolo.GIFMélisande che in quel suo invocare la protezione di San Daniele e degli Arcangeli, proclamandosi creatura radiosa e dorata, nata quando il sole splende nel punto più alto di un giorno di festa, sembra chiedersi e chiederci: “Cosa ci faccio io qui, di notte, sola, in malinconica attesa di un futuro incerto?” Lo si immagina, attende un innamorato, come in ogni storia che si rispetti. Ma purtroppo qui nulla è quel che sembra e, come spesso capita nella vita ed a teatro, nulla andrà per il verso giusto. La luce chiama sempre le tenebre. Forse ci si aspetterebbe che, come in Rapunzel, la famosa favola dei fratelli Grimm, il Principe tanto atteso salisse lungo la torre, servendosi dei capelli come di una scala, a godersi il frutto della sua prodezza atletica, dopo aver detto le paroline giuste:

“Rapunzel, Rapunzel, lass dein Haar herunter.”

Alsbald fielen die Haare herab und der Königssohn stieg hinauf.

“Raperonzola, Raperonzola, la tua chioma spenzola.”

Subito dall’alto ricaddero i capelli e il figlio del Re salì.

[Rapunzel KHM 012, J. & W. Grimm, 1857]
 
Non sarà così. Non è più tempo di favole. Ma lasciamola per qualche istante ancora, lassù, sospesa. La principessa sulla torre non lo sa, ma piano piano, sottovoce ci sta portando da qualche parte. Altrove. Lontano. Lontano da un’epoca. Insieme all’autore del testo, Maurice Maeterlinck (1862-1949, belga, avvocato rubato al Foro dalla poesia), e al compositore della musica, Claude Debussy (1862-1918, francese, “Claude de France”, poeta delle note) la fragile Mélisande sta traghettando l’opera lirica ottocentesca, il melodramma gonfio di enfasi, le soprano corpulente che si sgolano alla ribalta in virtuosismi e grandi sentimenti, verso il nuovo secolo: quel ‘900, turbato da guerre e tragedie, già in cammino verso un’inedita estetica del silenzio e del sussurro incomprensibile. Verso il non detto, la disarmonia, l’atonale, il turbamento interiore inspiegabile, incontro a quell’inerzia umana di fronte al proprio destino che attraverserà la scena culturale europea come un lungo brivido verso il nulla. Usciti da teatro, chiuso il sipario, spento l’eco dell’ultima nota, il riverbero dell’ultima luce, da quest’opera si torna a casa senza alcuna benefica catarsi, senza sentirsi migliori o peggiori dei personaggi, senza aver visto trionfare l’amore, od anche l’ingiustizia a scapito dei buoni, o vendicati i torti. Nulla di tutto ciò. Si riesce a stento raccontare la trama, la sottile tela di ragno dei fatti appare inessenziale, vaga. Enigmatica. Si cammina per le strade della città deserta, con il programma di sala stropicciato fra le mani, pieni di un senso di vuoto, d’impotenza, di una commozione che non trova speranza e consolazione. Con la sensazione di un ripetersi ciclico dell’anello delle sventure cui non si può più sfuggire, creature ormai sole, sotto un cielo muto di miracoli e deserto di dei ed angeli salvatori. Ed anche la nostra casa forse, dopo aver girato la chiave nella toppa, prima di accendere le luci delle cose consuete, ci sembrerà piena di quello stesso mistero indefinibile ed angoscioso, senza neppure la consolazione di riuscire a ricantare con voce stentorea la melodia di una qualche aria, un frammento musicale qualsiasi. Tutto si confonde in un cerchio che mormora chiuso in se stesso. Ci troviamo di fronte ad un nuovo modo di scrivere opere, ad una musica profondamente diversa da quella della tradizione precedente nello sviluppare e combinare i toni, la struttura armonica, melodica e ritmica; ad un uso del testo letterario tout court, senza adattamenti e facili semplificazioni, cosa che spesso avveniva con risultati assai ridicoli nelle improbabili rime baciate che costringevano le parole e i concetti nella metrica forzata e riduttiva di un libretto. Debussy usa il testo così come è scritto, con solo qualche piccolo taglio di alcune scene, inaugurando una diversa maniera di concepire il teatro musicale. La Literaturoper. Seguito da Richard Strauss che nel 1905 farà la stessa operazione con Salomè di Oscar Wilde, poi con Elektra di Hugo von Hofmannsthal, 1909, da Alban Berg con Wozzeck da Woyzeck di Georg Büchner, 1925, e Lulu di Franz Wedekind, 1927. La fedeltà al testo si traduce in una specie di declamato lirico che rispetta la linea poetica originale, dando al parlato un’intonazione musicale cui non sfugga nemmeno una sillaba. Del resto Debussy già si era ispirato a testi poetici con Mallarmé, il famoso Prélude à l’après-midi d’un faune, o mettendo in musica poesie di Verlaine, Baudelaire, Louys. Proprio ne La chevelure de Les Chansons de Bilitis di Louys si trova una Mélisande in nuce alle prese con i suoi sensuali capelli.
 
La chevelure
 

 
da Les chansons de Bilitis
 
di Pierre Louys
 
[…]
 
Il m’a dit: “Cette nuit, j’ai rêvé. J’avais
ta chevelure autour de mon cou. J’avais tes
cheveux comme un collier noir autour de ma
nuque et sur ma poitrine.
 
Je les caressais, et c’étaient les miens; et
nous étions lies pour toujours ainsi, par la
même chevelure la bouche sur la bouche, ainsi
que deux lauriers n’ont qu’une
racine.”

 
[…]
 
“Lui m’ha detto:”Stanotte, ho sognato. Avevo
la tua chioma attorno al mio collo. Avevo i tuoi
capelli come una collana nera attorno alla mia
nuca e sul mio petto.
 
Io li carezzavo, ed erano i miei; e
noi eravamo legati per sempre così, dalla
stessa chioma, la bocca sulla bocca, così
come due allori che non hanno che una sola
radice.”
 
La musica accompagna le parole senza mai soverchiarle ed ha il compito di svelare il loro sottotesto nascosto, il non dicibile, attraverso la melodia, affidata agli strumenti e non al canto. Agli interludi musicali fra una scena e l’altra la descrizione emotiva del clima interiore dei personaggi e della vicenda.In quell’epoca felix il clima di scambio e di comunicazione fra le varie arti, musica, poesia, teatro, letteratura, pittura era molto intenso. Le muse non se ne restavano inerti e compiaciute nel loro hortus conclusus, ma fecondavano a vicenda i loro campi, producendo veri e propri irripetibili capolavori. L’atmosfera culturale europea era ben più intersecata di quanto avvenga oggi, nonostante non fossero ancora stati inventati i veloci mezzi di scambio delle comunicazioni e men che meno quelli simultanei della rete. Una lettera per arrivare da Milano a Roma impiegava giorni e giorni, un viaggio da Mosca a Parigi era un’avventura di settimane. Eppure il vento della cultura soffiava forte e proficuo. I drammi teatrali di Maeterlinck viaggeranno su di una slitta a sonagli per le steppe gelate fino al Teatro d’Arte di Mosca dove contribuiranno, in storiche messe in scena, alla nascita del moderno teatro di regia ad opera di Stanislavskij, L’uccellino azzurro, 1909 e di Mejerchol’d, La morte di Tintagiles, 1905, poi a San Pietroburgo con Suor Beatrice, Il miracolo di Sant’Antonio, 1906-1907. Pelléas et Mélisande stesso ispirerà Fauré, il compositore preferito del salotto di Madame Verdurin di Proust, che ne scriverà, certo con minor piglio innovativo, le commoventi musiche di scena


per una rappresentazione londinese del 1998, poi Schoenberg, il cui poema sinfonico Pelleas und Melisande, 1902, composto senza nemmeno sapere della concomitante trasposizione di Debussy, unisce la novità musicale ad una bellezza struggente.


Di questo Maeterlinck, seme dimenticato di trasformazioni culturali essenziali, Antonin Artaud dirà nell’introduzione alla sua raccolta di versi Douze chansons (1923):
 
Maeterlinck a été tenté de donner la vie à des formes, à des états de la pensée pure. Pelléas, Tintagiles, Mélisande sont comme les figures visibles de tels spécieux sentiments. Une philosophie se dégage de ces rencontres à laquelle Maeterlinck essaiera plus tard de donner un verbe, une forme dans la théorie centrale du tragique quotidien. Ici le destin déchaîne ses caprices; le rythme est raréfié, spirituel, nous sommes à la source même de la tempête, aux cercles immobiles comme la vie. Maeterlinck a introduit le premier dans la littérature la richesse multiple de la subconscience.(…) Il est apparu dans la littérature au moment qu’il devait venir. Symboliste il l’était par nature, par définition. Ses poèmes, ses essais, son théâtre, sont comme les états, les figures diverses d’une identique pensée. L’intense sentiment qu’il avait de la signification symbolique des choses, de leurs échanges secrets, de leurs interférences, lui a donné par la suite le goût de les faire revivre en les systématisant. C’est ainsi que Maeterlinck se commente avec les images mêmes qui lui servent d’aliment.
 
“Maeterlinck ha tentato di dar vita a delle forme, a degli stati del pensiero puro. Pelléas, Tintagiles, Mélisande sono come le figure visibili di tali sfuggenti sentimenti. Da questo incontro/scontro emerge una visione filosofica cui Maeterlinck cercherà più tardi di dar voce e forma nella teoria centrale del tragico quotidiano. Qui il destino scatena i suoi capricci; il ritmo è rarefatto, spirituale, siamo alla sorgente stessa della tempesta, ai cerchi immobili come la vita. Maeterlinck ha introdotto per primo nella letteratura la ricchezza molteplice del subcosciente.(…) È apparso nella letteratura al momento in cui doveva arrivare. Simbolista lo era per natura, per definizione. Le sue poesie, i suoi saggi, il suo teatro, sono come gli stati, le figure diverse di un identico pensiero. L’intenso sentimento che aveva del significato simbolico delle cose, dei loro scambi segreti, delle loro interferenze, gli hanno dato in seguito il gusto di farli rivivere sistematizzandoli. E’ così che Maeterlinck si interpreta con le immagini stesse che gli servono da alimento.”
 
Debussy, dunque, acquista il testo di Pelléas et Mélisande appena uscito, nel 1892, lo vede poi rappresentato alla Buffes Parisienne il 17 maggio 1893, e resta subito affascinato da questo dramma che così decisamente si allontana dagli stilemi del tetro allora in voga. Niente a che vedere con Sardou, autore di Tosca, cui si ispirerà Puccini, dove la cornice storica è solo il decor superficiale di melodrammi borghesi a forti tinte, con Augier e le sue commedie di costume, o con Dumas fils della straziante Signora delle camelie, dove tutto è detto sciorinato, lacrime, colpi di scena, colpi di tosse e sputi di sangue tisico sul fazzoletto inclusi. Qui domina una specie di emozione sotterranea, di inspiegabile turbamento, un’ansia che non trova sfogo. Un amore che non trova soluzione, che non riesce mai a consumare la sua passione Nulla è razionale, composto, socialmente identificabile. Il vago medioevo che, insieme all’isola dominata dal castello, ne costituisce l’ambientazione esteriore, sembrano un tempo e un luogo dello spirito. Questo regno d’Allemonde è all, tutto, monde, il mondo. Tutto e nulla. Luoghi ed anime sono in una continua reciproca influenza emotiva, come ne La rovina della casa degli Usher di Poe, che tanto Debussy amava, e di cui restano spezzoni musicali per un’altra opera che avrebbe voluto comporre.
 
Non so come ma, ma appena l’ebbi guardata, una sensazione di insopportabile tristezza mi prese l’anima.
 
[…]
 
La mia fantasia era così eccitata che credetti di notare intorno alla proprietà un’atmosfera particolare, “sua” e degli immediati dintorni, un’atmosfera diversa da quella del cielo, ma che esalavano gli alberi intristiti, e la muraglia grigia e la silenziosa palude, una vaporosità pestilenziale e mistica appena visibile ma fosca, inerte e color di piombo.
 
[Edgar Allan Poe, OPERE SCELTE, La rovina della casa degli Usher, I Meridiani, ed. Mondadori, trad di Elio Vittorini, pag. 263, 265-266.]
 
A Pelléas et Mélisande ed alla sua atmosfera turbata e sfuggente Debussy dedicherà quasi dieci lunghi anni di tormentato lavoro.
 
J’ai passé des journées à la poursuite de ce “rien” dont elle est faite (Mélisande) et je manquais parfois de courage pour vous raconter tout cela, ce sont d’ailleurs des luttes que vous connaissez, mais je ne sais pas si vous êtes couché comme moi, avec une vague envie de pleurer, un peu comme si on n’avait pas pu voir dans la journée quelqu’un de très aimé. Maintenant c’est Arkel qui me tourmente. Celui-là, il est d’outre-tombe, et il a cette tendresse désintéressée et prophétique de ceux qui vont bientôt disparaître, et il faut dire tout cela avec do, ré, mi, fa, sol, la, si, do!! Quel métier?
 
“Ho passato giornate intere all’inseguimento di questo “niente” di cui lei è fatta (Mélisande) e mi mancava talvolta il coraggio di raccontarvi tutto ciò, sono delle lotte che conoscete del resto, ma non so se vi è mai capitato di andare a letto come me, con una vaga voglia di piangere, un po’ come se non si fosse potuto vedere nella giornata qualcuno di molto amato. Adesso è Arkel che mi tormenta. Quello là, è d’oltretomba, ed ha la tenerezza disinteressata e profetica di quelli che se ne andranno presto, ed occorre dire tutto ciò con do, re, mi, fa, sol, la, si, do!! Che mestiere?”
 
[Claude Debussy, «Deux lettres de Debussy à Ernest Chausson», Revue musicale (numéro spécial: La jeunesse de Claude Debussy), t. III, nº 7 (1er mai 1926), p. 87-88 (183-184)]
 
Ne risulterà una musica fluttuante, fioca, con sonorità d’eco, piena di sfumature, di dissonanze che colpiscono la parte inconscia dell’ascoltatore, catturandolo nel suo flusso continuo, innocente e sensuale, semplice e complesso insieme, con la sua malinconica luminosa bellezza fatta di suoni leggeri e preziosi. Ben lontano dall’enfasi eroica wagneriana, al golfo mistico di Bayreuth, straboccante di orchestrali che strapazzano i loro strumenti come un mare in tempesta, Debussy contrappone l’organico della piccola orchestra da camera di Mozart, che solo raramente dispiega la sua potenza sonora nei fortissimo. In una conversazione avuta nel 1889 con il suo insegnante al Conservatorio Ernest Guiraud, riportata da Maurice Emmanuel, autore di un saggio sul Pelléas, uscito nel 1926, Debussy confrontando la sua opera con il dramma wagneriano dirà:
 
Je [n’]imite pas. Autre forme dramatique à mon sens: musique où finit la parole. Musique pour inexprimable. Elle doit sortir de l’ombre. Etre discrète. “Io non imito. E’ un’altra forma drammatica a mio avviso: la musica dove finisce la parola. Musica per l’inesprimibile. Deve uscire dell’ombra. Essere discreta.”
E quando Guiraud gli chiederà:
 
Mais alors où est votre poète?
 
“Ma allora dov’è la vostra poetica?”
 
Debussy risponderà:
 
Celui des choses dites à demi. Deux rêves associés: voilà l’idéal. Pas de pays, ni de date. Pas de scène à faire. Aucune pression sur le musicien qui parachève. Musique prédomine insolemment au théâtre lyrique. On chante trop. Habillage musical trop lourd. Chanter quand ça vaut la peine. Camaïeu. Grisaille. Pas de développements musicaux pour “développer”. Fautes! Un développement prolongé ne colle pas, ne peut pas coller avec les mots. Je rêve poèmes courts: scènes mobiles. Me f… des 3 unités! Scènes diverses par lieux et caractère; personnages ne discutant pas; subissant vie, sort, etc.
 
“Quella delle cose dette a metà. Due sogni uno nell’altro [n.d.t.: “A dream within a dream” direbbe Poe]: ecco l’ideale. Non un paese, né una data. Non una scena imposta. Nessuna pressione sul musicista che sta rifinendo. La musica predomina insolentemente nel teatro lirico. Si canta troppo. Un “abbigliamento” musicale troppo pesante. Cantare quando ne vale la pena. Chiaroscuro. Monocromo. Non sviluppi musicali tanto per “sviluppare.” Che errori! Uno sviluppo prolungato non collima, non può collimare con le parole. Sogno poemi corti: scene mobili. Io me ne f… delle 3 unità! [n.d.t.: la famosa Sacra Trinità della Musica: Melodia, Armonia e Ritmo] Scene diverse per luoghi e carattere; i personaggi non discutono; subendo la vita, il destino, etc. “.
 
[A. Hoéré, «Entretiens inédits d’Ernest Guiraud et de Claude Debussy notés par Maurice Emmanuel (1889-1890)», Inédits sur Claude Debussy, Paris, Les Publications techniques, galerie Charpentier, p. 28-29.]
 
Ed, infatti, la musica di Debussy armonicamente non obbedisce ad alcuna legge conosciuta, consonanze e dissonanze sono mescolate, fuse, richiamate, senza il minimo riguardo per le regole delle relazioni tonali stabilite dalla tradizione – Me f… des 3 unités! – non si riconosce alcun limite di qualsiasi genere fra le differenti chiavi, c’è un flusso costante ed un cambiamento continuo e la stessa tonalità è raramente mantenuta oltre il singolo spazio di una battuta. Tutto è mescolato, intrecciato liberamente.
 
Ma ora un po’ di silence. Ecco là Mélisande. L’abbiamo lasciata troppo sola a tormentarsi. Ecco che qualcuno arriva ai piedi della torre.
 
[Pelléas et Mélisande
Orchestre de la Suisse Romande
Diretta da
Ernest Ansermet

C. Maurane, E. Spoorenberg, G. Hoekman, J. Verasey, R. Brédy, J. Shirley-Quiek, G. Kubrack]

[1. continua nella seconda parte dove si trovano anche i riferimenti discografici completi]

Il tuffo

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falling-man.jpgdi Sergio Garufi
L’11 settembre 2001 più di 200 persone si lanciarono nel vuoto per sfuggire alle fiamme e al fumo che avvolgevano il World Trade Center . Alcuni adoperarono una tovaglia come fosse un paracadute, altri si buttarono in coppia, tenendosi per mano. Furono chiamati jumpers, saltatori, ed esistono innumerevoli fotografie che li ritraggono sospesi nel vuoto in quei tragici istanti. L’immagine che più ha colpito l’immaginario collettivo ritrae una posa composta, armoniosa, da tuffatore.

Il clan dei Casalesi conquista il centro di Milano

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di Roberto Saviano

Bin Laden è riuscito a mettere le mani su uno dei territori più ambiti, il centro di Milano, nella cerchia dei Navigli. Via Santa Lucia è una di quelle stradine signorili, tranquille, quasi invisibili che però stanno a due passi dai locali più di moda e dagli imponenti palazzi storici dove avvocati e notai hanno i loro studi e dove gli imprenditori cercano appartamenti e showroom per vivere accanto alle vecchie famiglie milanesi. Proprio lì si trova l’ultima preda urbanistica di una città che prevalentemente vede espandere i suoi fianchi, e nelle periferie duplicare e triplicare persino il proprio nome. Invece aveva un cuore intatto, un territorio illibato su cui poter ancora edificare e vendere a 15mila euro al metro quadro. Proprio lì è riuscito ad entrare Bin Laden, nel grande affare immobiliare milanese.

Complementarità e dintorni 8

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di Antonio Sparzani

Arnold Sommerfeld, a sinistra, con Wolfgang Pauli
Riprendo – certo già pensavate di esserne ormai risparmiati – la saga della complementarità, interrotta in questi ormai quasi tre mesi per ragioni che con la complementarità nulla hanno a che fare, naturalmente.
Peccato interromperla, perché, veramente, eravamo in prossimità di una meta, così almeno sembrava. L’ultima frase detta era: “Parallelamente a questo è arrivata una nuova e sconvolgente teoria che ha giustificato questo quadro dei livelli energetici almeno per gli atomi più semplici (idrogeno, elio, litio).”
Bene come si fa a dire questa nuova teoria senza inondare le nitide pagine di Nazione Indiana di simboli matematici che produrrebbero, non ho dubbi, uno shock definitivo nelle mie affezionate lettrici e nei miei affezionati lettori ? Quello che si può fare, secondo lo stile seguito fin qui, è cercare di raccontare i concetti, chiedendo a chi legge di credere che questi concetti sono stati quelli che si è ritenuto possibile inquadrare all’interno di una teoria anche formalmente consistente di tutta la questione. Se qualcuno vuole dettagli formali, me li chieda nei commenti.

La voce del cuore

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di Rossano Lo Mele

L’estate del 2003. Oggi si suona alla Festa de «l’Unità». Tutti hanno suonato alla Festa de «l’Unità». Se sei un gruppo ska, diciamo che suoni sempre lì. Se sei Battiato forse suoni anche altrove (va difatti precisato che nel recente brano I’m That, ripreso da un anonimo del ‘700, Battiato canta: “Non sono mussulmano né induista / né cristiano né buddista / non sono per il martello / né per la falce / né tanto meno per la fiamma tricolore / perché sono un musicista”; per amore di precisione va altresì aggiunto che la canzone è inclusa nel disco Dieci stratagemmi, uscito sul finire del 2004: che porta impresso la scritta “promo ticket”, fenomeno che si pensava ormai abrogato da un decennio: ossia, nella fattispecie, l’acquirente paga di tasca sua il costo aggiuntivo che la casa discografica ha speso per reclamizzare il disco in radio e tv).

La strega dell’ovest

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di Stefano Jorio

La letteratura è visione. Quando è realista mostra le cose come non le avevamo mai viste pur avendole sempre davanti agli occhi. Quando rifiuta il realismo mostra le cose come potrebbero essere, o come sono davvero sotto i giochi di specchi. Quando affrettatamente prende nota di ciò che da sempre vediamo, o lo descrive senza essere capace di andare oltre lo specchio, non è più visione: è uno scadente prodotto editoriale che può essere insulso o dannoso. Come dio comanda (Mondadori) è insulso. Ci fa vedere un universo di periferia fatto di neonazisti dal cranio rasato, violenti e alcolizzati. Vite spezzate dalla perdita di una figlia e dall’abbandono della moglie. Assistenti sociali di formazione cattolica pieni di rimorsi perché vanno a letto con la moglie del loro migliore amico. Scemi del villaggio che inseguono una ragazzina, la stuprano e le spaccano la testa con una pietra. Com’è noto, i matti sono pericolosi perché violentano e uccidono le persone. Insulso è ciò che procede senza mai aprire tragedie vere né spiragli di vita insospettata, attingendo con spensierata mancanza di ogni dubbio a un rassicurante serbatoio mentale dal quale finge di voler prendere le distanze.

In memoria di Altamante, maestro

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di Marco Rovelli

Quando muore un uomo, la perdita è, sempre, incommensurabile. Quando muoiono gli artisti, uomini che sono riusciti a dare una forma di sé singolarmente espressiva, la perdita sembra ancor più irrimediabile. Ma la morte di un uomo come Altamante Logli sembra incommensurabilmente irrimediabile. Perché pare davvero la morte definitiva di un’epoca, il suo congedo assoluto, il segno di un trapasso.

Juke box / Triangolo

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di Renato Zero

L’indirizzo ce l’ho!
Rintracciarti non è un problema.
Ti telefonerò,
Ti offrirò una serata strana!!!

Milano da morire

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mdm.jpg di Gianni Biondillo

Luigi Offeddu – Ferruccio Sansa, Milano da morire, bur, 2007, 556 pag.

Per chi come me ha scritto e scrive di Milano e della sua assenza nell’immaginario collettivo nazionale, un libro quale Milano da morire, di Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa, colma quel vuoto incomprensibile che si è andato colpevolmente formando negli anni. La Milano post tangentopoli pare non abbia avuto più nessuno (se si escludono i romanzieri, spesso noir) pronto a descriverla col suo vero volto di città in ginocchio, disfatta, piegata dal peso dei suoi stessi miti della moda o del design.

Da “Quello che si vede”

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di Andrea Inglese

Je ne vois personne, je ne vois rien, je n’ai jamais rien vu. Plus j’y réfléchis, moins je vois des choses, et moins je vois des choses, plus elles me font frémir.
Ghérasim Luca

1.

Quello che si vede, poco,
è sempre di nuovo sotto gli occhi,
come ripetendosi, ma non è
lo stesso, non tornerà mai
così, radente, evasivo,
come ora, non sarà quindi
mai visto, anche se
ci metterai anni a leggerlo,
anni per capirlo
qualunque cosa fosse,
anche solo da vicino,
in prossimità, un labbro,
i solchi della pelle, un’iride,

Trasloco

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Testo di Francesca Matteoni   Foto di Cristina Babino
*

Le incandescenze scorrono tra i bulbi
sospendono in una mappa smossa
le reti stradali, le luminarie
sfiorite come un cancro sugli oblò.
Un codice pulsante di girini
appiccicati ai vetri, pari ai nervi.
Quando sono partita non sapevo
stillarmi a poco a poco in un passato
mi ci escoriavo intera, denudata.
Tornare è dissolvenza, emersione –
gli alveoli inturgiditi come bolle.
 
*

Da “Giovanni Attanasio e la costruzione del battello di polistirolo”

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dscf0797.JPG di Michelangelo Zizzi

Il demone del giudizio

‘Per il resto non ho nulla da dichiarare.’
Anonimo meridionale, a mezzogiorno, anni fa, a Fasano.

Prologo

La scena nel romanzo è questa: Giovanni adulto è di ritorno dal paese delle cernie, il battello è stato perduto. Invischiato in fatti di cronaca viene condotto a giudizio; proprio allora invece di rispondere divaga e ricorda della scoperta strepitosa, dello specchio moltiplicante, dell’assenza di luce nella cavità gastrica della cernia.

Carne marcia

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di Franz Krauspenhaar

UNO.“El mostafa ermili observer fallon deux amplaquo cal vacation”, urla il basso nel vuoto acustico completo.
Jefferson Giovanni Tancredis III, direttore d’orchestra, fa segno ai tromboni di intonare la Trauermarsch del Concerto & Opera Breve Nr. 23 per orchestra e rombo automobilistico Mc Laren Ford & Ferrari Gran Premio di Montecarlo 1985  del maestro Franz Joseph Albano. Le due soprano iniziano a cantare: “Arrivano mail scontrose in lingue misteriose, in ufficio mi scontro contro cose che mi fanno girare la testa web-sospettosa.”

Lo Zen e il cursore del mouse

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di Marco Rovelli 

La popolazione del web, e tra loro i frequentatori di Nazione Indiana, ha stabilito un rapporto necessariamente intimo con oggetti divenuti protensioni del proprio Io nel mondo. Il principale tra essi è il mouse.

Juke-box : Skiantos

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Mi piaccion le sbarbine
Artist: Skiantos
Album: Kinotto Year: 1979

Gioia, l’ultimo lebbrosario

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di Mario Desiati

Quando ancora erano disseminati per il nostro paese i sanatori e i lebbrosari accadeva spesso che fra i due nosocomi l’autorità cittadina preferisse tenersi i tisici e allontanare i lebbrosi. La lebbra deturpava, mangiava i volti e le espressioni, scavava le sue piaghe e le piaghe erano sempre due, una era quella esterna e l’altra, la più dolorosa, quella interna, ossia la solitudine. Il male sottile era invece un batterio più subdolo, non deturpava, ma affilava i tratti e spesso abbelliva le giovani ragazze che diventavano tisiche. Eppure paradossalmente era molto più pericolosa e contagiosa della lebbra. Chissà se il vecchio lebbrosario di Acquaviva delle Fonti fu portato nelle campagne per queste ragioni. La sede distaccata dell’Ospedale Miulli è oggi l’ultimo centro specializzato e il più all’avanguardia del mezzogiorno.

Bacheca di luglio 2007

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Caro nonno presidente

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di Christian Raimo

Sono cresciuto in un mondo politicamente secolarizzato. Imparai a leggere che ero molto piccolo e c’era una scritta rossa sul muro proprio sotto casa nostra che diceva: Aldo Moro è vivo e rubba. Mia madre la usava per insegnarmi che non bisogna raddoppiare tutte le b come fanno i romani. Si dice abito e non abbito, abete e non abbete. Oppure, sentendo parlare tanto di brigate rosse, le cercavo in giro, per strada, dovunque. Un giorno, dal sedile posteriore della macchina, le indicai a mio padre: “Papà, guarda, le brigate rosse”. Erano carabinieri con la striscia rossa in rilievo sui pantaloni.

Magliani, il Jack London ligure

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di Franz Krauspenhaar

Marino Magliani è uno scrittore che viene dal fare e dall’avventura. Dalla pratica che diventa grammatica. Un  Jack London ligure, che nella prima parte della sua vita s’è imbarcato sulle navi come mozzo dopo aver girato i collegi di mezza Italia, ha  peregrinato per mezza Europa per qualche anno, e  poi ha inseguito e trovato l’America: quella del sud, per altri anni, visitandone metà dei paesi, vivendoci, impregnandosi fino all’osso di esperienze. Come un autore americano self made  (Magliani non viene dalle università, ma dal pulsare secco e spesso cattivo della vita avventurosa, dal marciapiede) ha fatto di tutto: il lavapiatti, il magazziniere, il traduttore di menù dallo spagnolo all’italiano per i ristoranti della Costa Brava; e ancora, l’olivicoltore nella sua Liguria di ponente, il rappresentante, il portiere di discoteche, lo scaricatore di porto sulle banchine olandesi –; e da  anni lo scrittore in Olanda s’è sistemato, in pianta più o meno stabile,  trovando una moglie e allevando con lei un figlio, un marcantonio diciassettenne di nome Mike.

El boligrafo boliviano 7

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di Silvio Mignano

Sabato 24 marzo 2007

A mezz’ora di automobile dal Cerro Rico, scendendo di due o trecento metri, ci si trova in una valle lunga e stretta ed è come passare dall’inferno al Paradiso. Un fiumicello si snoda a coda di serpente tra i prati, fiancheggiato da salici piangenti e perfino da cipressi toscaneggianti. Vacche da latte al pascolo, piccole fattorie, un pastore che spinge a bordo strada un gregge di lama.