di Sergio Garufi
Pontiggia affermò (ne L’isola volante, Mondadori) che scrivere su Borges è come scrivere su la Gioconda. L’assimilazione lo ha reso rassicurante, familiare, innocuo. “Anziché riconoscerci nell’estraneo, l’estraneo diventa noi, ossia irriconoscibile”. E’ il destino di tutti i grandi scrittori del Novecento, come Kafka e Pirandello, quelli che si neutralizzano trasformandoli in un aggettivo. A quel punto, come nel caso de la Gioconda, si crede di conoscerli anche senza averli mai visti, e ci si sente esentati dal farne esperienza diretta. Si ha insomma l’impressione che oggi i libri di Borges non siano altro che un deposito di citazioni, degli oggetti transizionali la cui sostanza è irrilevante, e in ogni caso subordinata alla loro centralità di feticcio, di certificato di buona condotta, di investimento psicologico. Sbarbaro, che aveva sempre ragione, sentenziò che “l’umanità si difende dal genio negandolo e se ne sbarazza riconoscendolo”.


