di Sergio Garufi
Fra i molti meriti ascrivibili a Occidente per principianti, il bel romanzo di Nicola Lagioia, vi è anche quello, non irrilevante, di una sapiente maestria nella resa dei dialoghi. Più di mezzo secolo fa, in un brano famoso di una missiva a Milton Hindus (in Lettere dall’esilio), Céline chiarì molto efficacemente in cosa consistessero i problemi inerenti la mimesi dell’oralità. Per illustrare questo concetto, lo scrittore francese si servì dell’icastica immagine di un bastone spezzato e immerso per metà nell’acqua. Solo rompendolo, e tenendo le due parti leggermente disgiunte, era possibile, per un effetto ottico, dare l’impressione che il bastone fosse integro. Allo stesso modo, la trasposizione del parlato nello scritto non è mai una semplice operazione meccanica – come se bastasse stenografare una conversazione e poi trasferirne il contenuto sulla pagina per ottenere il sapore dell’oralità -, bensì un adattamento fra ambiti diversi che richiedono perciò forme espressive specifiche. In questo senso, Céline ci spiega che per conseguire un effetto di spontaneità e verosimiglianza del parlato nel testo occorre manipolare la realtà, ricorrere a un artificio, “imprimere alle frasi e ai periodi una certa deformazione”, una torsione che traduca “la lingua in puro ritmo”.