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Meno siamo meglio stiamo

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di Elio Paoloni

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Alla fine degli anni Ottanta Renzo Arbore fece delle comparsate in DOC, la trasmissione condotta da due suoi pupilli, Gegè Telesforo e Monica Nannini. Si fingeva svanito, nostalgico, un po’ rincitrullito. Teneva in mano una girandola e nei momenti (apparentemente) più inappropriati esclamava: “Abbasso l’autoreverse. Viva la girandolina”. Non divenne un tormentone perché la trasmissione era poco seguita ma in quella frase c’era tutta la capacità di anticipazione di Arbore. La girandolina, contrapposta all’ultimo grido dell’automatismo, rappresentava non solo la tradizione (quelle rosette erano inscindibili da certe feste comandate – per me quella del pellegrinaggio a San Cosimo) ma anche l’abbandono alla casualità, al vento della vita vera.

Commenti

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Come avrete notato è di nuovo impossibile accedere ai commenti del sito. Stiamo però lavorando per arrivare a una soluzione in tempi brevi. Ci scusiamo ancora una volta per l’inconveniente. Grazie per l’attenzione.

Fravecatore

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di Lucio Lanzara

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Quando sono nato io i vecchi erano già vecchi. E lo sono stati per una decina d’anni. Fino a che ho preso chiarezza che la vecchiaia è un percorso, è strada fatta.
Enrico dice che non è una questione anagrafica, è un fatto di fatica, di lavoro di tutti i giorni. A volte pure della domenica.
Enrico è fravecatore, fa il muratore da cinquant’anni, da che le case erano equilibri di pietre. E pure ora che tiene i capelli bianchi e si muove lentamente, la mattina parte prima che venga luce, con la merenda, la bottiglietta di caffè e va sul cantiere. Enrico lavora ancora.
Meglio, dice, uno è vecchio quando finisce di lavorare.

Bella giornata

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di Piero Sorrentino

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“Ma bella giornata voleva dire bella per conto suo, come la natura che è indifferente al destino dell’uomo. Voleva dire una gioia che sembra sempre lì, a portata di mano, proclamata dall’azzurro raggiante del cielo, e che però non si può condividere. Voleva insomma dire una idea ostinata in fondo alla testa, radicata nell’animo, nel sentimento delle cose, ed è rispetto a quell’idea che tutto si misura”.

Dopo La Capria una generazione di scrittori “senza vita”

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di Filippo La Porta

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Durante una presentazione a Capua dell’ultimo libro di Raffaele la Capria, L’estro quotidiano –ariosa e malinconica meditazione sulla finitudine – c’è stato un momento di grande commozione: il “canto” della scrittura si è come distaccato dalla pagina e per un momento è divenuto autonomo. In una grande sala piena di gente – un pubblico attento, composto, perfino riservato (sarà un cliché ma non posso non pensare alla struttura di Capua, città-fortezza circondata da fossati, che si rispecchia un po’ nel carattere dei suoi abitanti, meno convenzionalmente estroverso di quello dei cugini napoletani…) lo scrittore ha cominciato a leggere alcune pagine iniziali, quelle sulla visita ai genitori al camposanto.

Terézia Mora a Torino

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Domani, 7. giugno 2005, alle 17.30 la scrittrice Terézia Mora sarà ospite del Goethe Institut di Torino. Terezia Mora è nata nel 1971 a Sopron, in Ungheria. Dal 1990 vive a Berlino. Ha tradotto in tedesco Harmonia Coelestis di Peter Eszterhazy e ha vinto vari premi, fra cui il prestigioso premio Bachmann con il suo esordio Seltsame Materie (Strana materia, Rowohlt, 1999).
Domani leggerà dal suo primo romanzo Alle Tage (Tutti i giorni, Luchterhand, 2004), che narra la discesa agli inferi e l’ambigua assunzione in cielo di Abel Nema, esule, disertore malgré soi, genio linguistico, amante rifiutato e altro ancora. Il libro è stato accolto con unanime entusiasmo dalla stampa tedesca e sta per essere tradotto anche in italiano.

Link: www.goethe.de/it/tur/itpkonf.htm#K2

Coralli

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di Giuseppe Impastato

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I miei occhi giacciono
in fondo al mare
nel cuore delle alghe
e dei coralli

(1977)

Sangue marcio

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di Antonio Manzini

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All’istituto il Natale era il momento più bello dell’anno.
Accompagnati dal professore ce ne andavamo in giro per Torino, in fila, a guardare le vetrine dei negozi e i bar. C’erano luci e macchine che suonavano senza senso. E la puzza di zolfo misto a concime mi tartassava le narici.
Io avevo un piano preciso. Facile da mettere in pratica. Rischi calcolati prossimi allo zero. Quando entri con dodici persone in un piccolo negozio fare quello che dovevo fare era uno scherzo.

Una specie di felicità

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Qualche giorno fa ho avuto il piacere di una chiaccherata con Roberto Parpaglioni, vero e proprio deus ex machina che governa le sorti di Quiritta editore. Sulla storia di questa piccola casa editrice -in catalogo autori del calibro di Mari, Pardini, La Capria-, nel prossimo supplemento domenicale di «Liberazione» uscirà un mio breve pezzo. Qui di seguito riporto un racconto di Romolo Bugaro, Una specie di felicità, tratto da un’antologia uscita di recente – Le finestre sul cortile – a cura di Stefania Scateni. Buona lettura. J.G.

American gigolò (Un inchino a un film)

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di Franz Krauspenhaar

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Avendo visto per la decima volta, forse, American Gigolò di Paul Schrader, sceneggiatore benemerito di Taxi Driver di Scorsese e regista in proprio di alcuni capolavori hollywoodiani, mi preme dire alcune cose, alcuni pensieri che mi sono venuti a trovare, come sempre a tradimento, dopo la visione.

La terra padre

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di Roberto Saviano

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ad H., al nodo che ci lega

Ci avevo passato le dita sopra. Avevo anche chiuso gli occhi. Facevo scivolare il polpastrello dell’indice sull’intera superficie. Dall’alto in basso. Poi quando passavo sul buco, mezza unghia si arenava. Lo facevo su tutte le vetrine. A volte nei fori entrava l’intero polpastrello, a volte mezzo. Poi aumentai la velocità, percorrevo la superficie liscia in modo disordinato come se il mio dito fosse una sorta di verme impazzito che entrava ed usciva dai buchi, superava gli avvallamenti, scorazzando sul vetro. Sin quando il polpastrello mi si tagliò di netto. Continuai a strisciarlo lungo la vetrina lasciando un alone acquoso rosso porpora. Aprii gli occhi. Un dolore sottile, immediato. Il buco si era riempito di sangue. Smisi di fare l’idiota ed iniziai a succhiare la ferita.

The Horror

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di Helena Janeczek

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1. genocidio remix

Mai più mai più mai più mai più mai più si ripete si ripete si ripete mentre il Lago Vittoria si copre di cadaveri, mentre i cadaveri ingrassano i pesci, mentre le televisioni filmano e i giornali scrivono, mentre le cifre aumentano ma divergono, mentre apprendiamo che trattasi delle etnie hutu e tutsi che continuano a trucidarsi con il machete, con il machete, con il machete, con il machete (con il machete? però…certo hanno ancora un fegato, sti negri), mentre l’Onu non interviene, mentre i governi occidentali non intervengono, mentre nessuno scende in piazza, mentre i persici nutriti di cadaveri diventano grandi come balene, (Oggi in offerta speciale: filetti di persico, decong., orig. laghi afric., 5 euro!), mentre il papa prega, mentre nelle chiese ruandesi vengono rinchiusi e massacrati da preti e suore uomini donne e bambini, mentre tutti si guardano bene dal pronunciare o scrivere o lanciare soltanto come ipotesi la parola genocidio.

Rimozione e integrazione del “negativo” nel film HOTEL RWANDA

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(Non era così che avrei voluto parlare dell’ultimo genocidio del secolo scorso. Prima di tutto, la ricostruzione dei fatti e la responsabilità degli attori storici. Dopo, possiamo commentare la finzione (romanzi, film) e fornire anche interpretazioni dell’accaduto. Devo invece procedere all’incontrario. Con un articolo di taglio psicoanalitico sul film “Hotel Rwanda”. Ma è un modo per iniziare. A. I.)

Di Andrea Arrighi

La vicenda del proprietario dell’albergo a quattro stelle di Kigali, nel Rwanda al tempo dello scontro Hutu-Tutsi, Paul Rusesabagina, protagonista di “Hotel Rwanda” di T. George, rappresenta la difficoltà di prendere consapevolezza degli aspetti più negativi o di quelli meno accettati dalla coscienza di ogni essere umano, in altri termini di ciò che junghianamente viene definita “Ombra”.

Quando la Resistenza non è solo il 25 aprile…

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di Liza Candidi

Può essere rischioso proporre una mostra d’arte sulla Resistenza in un contesto geografico così profondamente segnato da cicatrici belliche come quello friulano e, per giunta, nel 60° anniversario dalla Liberazione. Rischioso sia per la retorica, sia per l’abuso tematico e politico che ne può derivare. Eppure, Danilo De Marco e Gianluigi Colin sono riusciti nell’impresa di trasformare un evento commemorativo facilmente banalizzabile in un formidabile spunto di riflessione e di confronto, non solo retrospettivo ma anche attuale, estendendo il concetto di Resistenza anche ad ambiti storico-geografici diversi rispetto a quelli comunemente noti.

Problemi tecnici 2

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Avvisiamo che il sito è di nuovo funzionante anche nella colonna dei commenti. Grazie.

Editoria o letteratura?

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di Florinda Fusco

Essendosi ricreato un po’ di spazio nella memoria di NI, ripropongo il testo di Florinda Fusco che ero stato costretto a cancellare alcuni giorni fa. Da un lato, per un’elementare forma di correttezza nei confronti dell’autrice; dall’altro, perché lo considero di assoluta rilevanza rispetto agli ultimi accadimenti interni a Nazione Indiana (era peraltro questo il motivo per cui l’avevo postato la prima volta). L’ultimo paragrafo, in particolare, esprime meglio di quanto saprei farlo io stesso cosa è stata per me, sino ad oggi, Nazione Indiana.
Si sta cercando di organizzare una riunione per discutere di quanto è accaduto. Rispondendo a quanto dice Carla Benedetti nel suo post, spero vivamente che lei, come tutti gli altri fuorusciti, vorranno parteciparvi. Lo ritengo anzi essenziale.
In attesa di questo incontro, non postero’ più nulla su questo sito.

Saluto e ringrazio, con tutto il cuore, le lettrici e i lettori che hanno seguito con generosità ed attenzione il mio (il nostro) lavoro.

Andrea Raos

Oggi si è arrivati ad un punto d’incontro-scontro tra due potenzialità coesistenti nella realtà letteraria contemporanea. Da un lato, le cosiddette “morti” della modernità, il superato antagonismo tra avanguardia e tradizione, la crisi delle poetiche e della critica, portano gli scrittori ad un’estrema libertà di movimento, che significa poter disporre di un patrimonio enorme di esperienze da poter guardare con occhi nuovi, liberi dalle costrizioni di ogni tradizione o criterio imposti. Dall’altro, l’industria culturale impone nuove invisibili mura: regala una libertà illusoria a chi si muove tra le pareti di una ristrettissima stanza. Questa ristrettissima stanza è figura di quello che Hannah Arendt avrebbe definito l’assenza di pensiero. I tempi e i cliché della grande Fabbrica dell’editoria letteraria minacciano ogni spazio di possibile meditazione, nel senso di dialogo silenzioso con se stessi, momento essenziale e indispensabile per il vero dialogo con l’altro. Ecco l’incontro-scontro tra la possibile estrema libertà di pensiero e di scrittura e l’impossibile libertà culturale all’interno della macchina della produzione.

Slanci frenati

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di Carla Benedetti

Cari indiani,

la lettera di commiato di Antonio Moresco non mi sorprende. Chi era presente all’ultima riunione di Nazione Indiana sa che anch’io in quella occasione ho detto cose analoghe. E ora provo a ridirle qui, con la maggiore serenità possibile.

Il “no” francese

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(Il no ha vinto nel referendum francese sulla ratificazione del trattato costituzionale europeo. E subito è iniziata, o ha continuato con maggiore veemenza, la campagna di disinformazione. Si fa di tutto per deformare il significato politico più ampio di questo risultato. Ciò vale per la Francia, ma varrà anche per l’Italia e per gli altri paesi d’Europa. Di certo questo no non è senza ambiguità. Ma in esso si è espressa innanzitutto una critica della sinistra radicale alla politica economica liberista inglobata nella costituzione europea. L’appello che qui pubblico mi sembra sintetizzare nel modo più chiaro l’obiettivo politico della sinistra francese che ha votato “no”. A. I.)

Problemi tecnici

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Da ieri nel sito ci sono problemi tecnici che impediscono di entrare nelle colonne dei commenti, presenti negli “archivi del mese”. Faremo il possibile per sbloccare la situazione quanto prima.
Oltre a questo, in seguito alle uscite da NI verificatesi di recente, è in corso una discussione fra i membri sull’opportunità, i tempi e i modi del continuare l’esperienza.
Ce ne scusiamo sinceramente con i lettori e commentatori di Nazione Indiana.
Grazie molte per l’attenzione.

Allora ce ne andiamo prima noi

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di Raul Montanari

O meglio, me ne vado io, e spero che non sarò il solo. Concordo con Biondillo: Nazione Indiana senza Antonio Moresco e Tiziano Scarpa non esiste più.

Mi sembra stravagante e involontariamente comico che i puri e i fondatori escano da quella che mi ostino a chiamare una casa, e che i conciliati, i mediocri, gli asserviti al potere, gli introiettivi delle logiche dominanti, o semplicemente quelli che hanno “altre aspirazioni” stiano qui dentro a consumare quello che c’è rimasto in frigorifero. Poi cosa succederà? I fondatori fonderanno qualcosa di diverso? E’ molto più logico che usciamo noi e lasciamo la casa Nazione Indiana a chi ha meritato, francamente, di assumerne l’identità. Usciamo noi, io per primo.

In uscita

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Condivido in pieno il messaggio di Antonio. Anch’io ho deciso di uscire da Nazione Indiana. Non descriverò qui le tappe che mi hanno portato a questa decisione. Dico solo questo: nel corso di questi due anni e due mesi, Nazione Indiana ha elaborato molte analisi, visioni, proposte. A qualcuno sono sembrate un poco manchevoli, ad altri troppo agguerrite. Ma in ogni caso, mi aspettavo che fossero occasioni per formare un coagulo di forze, dentro e fuori di qui, non certo per creare altre separazioni e nuove incomprensioni.
Saluto tutti ringraziandovi dell’impegno e dell’attenzione appassionata che avete dedicato a questa bella avventura.
Tiziano Scarpa