di Tommaso Giartosio

[Le pagine seguenti sono tratte dal cap. 8 del mio Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, pubblicato a giugno da Feltrinelli. Ringrazio l’editore per avere autorizzato la pubblicazione in rete.]
[…] Hai parlato del Risorgimento come di un momento importante di elaborazione dell’identità maschile, omosessualità inclusa. Ma questa è un’affermazione gravida di conseguenze. Non significa, in ultima analisi, che l’omosessualità svolge un ruolo particolare in quella che potremmo chiamare “l’identità italiana”?
Fai bene a esprimerti con cautela. I teoremi sull’identità nazionale hanno un valore limitato. Non li si può considerare né “veri” né “falsi”; non li si può mai applicare a tutti i cittadini; descrivono sempre un passato che è in parte sconfessato dal presente; disegnano come un singolo, autonomo identikit quella che forse è solo l’area di sovrapposizione di insiemi diversi; e puzzano di nazionalismo e razzismo. Con tutto ciò, “cosa significa essere italiano?” non è una domanda priva di senso.
Una domanda “debole ma non insensata”?
Esatto. E poi della dimensione sessuale, in questi anni di rinnovate riflessioni sull’”identità italiana”, non si è parlato molto (con una eccezione che poi ti dirò). Possiamo provare a farlo noi, anche se temo che come al solito avrò più da dire sul lato maschile della questione.
Io so solo che non ho mai parlato tanto di nazione e di tradizione. Mi sembra di essere uno di questi Rosmini Papini Prezzolini Mussolini Follini Frattini Fini…
Io mi terrei a Mazzini, Pertini, soprattutto Zavattini. E magari Pasolini. Ma hai ragione, è davvero poco più che un gioco.
E proviamo a giocare!






Uno sguardo azzurro, sorpreso da una foto tessera. Gli anni – diciannove – che non compaiono sul volto. Ma stanno tutti dentro, e sono molti di più.

Ormai da tre anni una coppia di pipistrelli torna ad abitare una delle finestre della mia casa nell’oltrarno fiorentino. Vivono una parte della stagione nella zona di scorrimento di persiane incassate che si sono bloccate da tempo e che io lascio fare perché si tratta di una stanza in cui non si dorme. E’ la finestra di fronte al mio tavolo da lavoro e vicina all’apparecchio televisivo.
Non sono ancora le sei di mattina, e aspetto il 105 all’altezza di Torpignattara. Ho sonno, sono come al solito un po’ scocciato per questa gestione casuale dei tempi. Vengo dalla terraferma veneziana degli anni Settanta, dove gli orari di autobus e vaporetti erano filastrocche che imparavamo da bambini (cinque-venticinque-quaranta-cinquantacinque, sei-ventuno-trentasei-cinquantuno) e che ci hanno addestrati all’idea che ci sia una correlazione tra i nostri fini (arrivare in orario) e i mezzi (pubblici) per ottenerli. Trasferitomi a Roma a metà degli anni Ottanta, ricordo lo sbigottimento irritato dell’addetto Atac cui mi rivolsi per sapere quale fosse l’orario dello zerouno: “Orario de che? Quanno ce sta, parte”.
di Federica Fracassi e Jacopo Guerriero


Hanno ucciso il giornalista collaboratore di DIARIO Enzo Baldoni. Era andato in Iraq con la Croce Rossa per aiutare una popolazione costretta allo stremo, aveva utilizzato il suo ruolo di volontario per raccontare ciò che gli uffici stampa dei Marines (quelli che i giornalisti Mediaset e RAI usano come fonte principale delle loro notizie) preferiscono tacere. Era un uomo interessato alla vita e forse questo l’ha reso pericoloso.
La riscoperta di Mauro Curradi (Pisa, 1925) è stata una piacevole nota dell’editoria italiana. Scrittore di grande qualità, Curradi è uno dei rarissimi narratori italiani ad aver analizzato e conosciuto il continente africano. In questa intervista avvenuta nella sua confortevole casa romana, Curradi passa in rassegna la sua esperienza africana ma non soltanto. Parla del mondo borghese in cui è nato, del suo rapporto con Aldo Palazzeschi, delle leggi razziali degli anni Trenta. Un affresco completo della sua vita di uomo e soprattutto un’immersione nella sua opera letteraria.
