di Carla Benedetti

Cosa c’è dunque di tanto terribile e castrante nel concetto di modernità?
Torniamo al nostro esempio iniziale (talmente esemplare e didascalico da parere quasi inventato ad hoc). E’ evidente che nella poetica-contenitore elaborata per la mostra di Rivoli la modernità non ritorna solo come nome ma anche come logica: o meglio come operazione formale astratta, capace cioè di proiettare la sua forma su qualsiasi contenuto e, con ciò, di valorizzarlo.
Di proiettarlo persino ricorsivamente su se stessa, reinvestendosi di nuovo valore differenziale, nonostante il discredito accumulato negli ultimi decenni.
Il revival della modernità # 2
Il revival della modernità # 1
di Carla Benedetti

Il 15 aprile 2003, al Castello di Rivoli di Torino si è aperta una mostra intitolata “I moderni”. Non presentava opere di fine Ottocento, né di inizi Novecento, ma sculture, ambienti, dipinti, suoni, video e film di artisti contemporanei di diverse parti del mondo.
Perché questi artisti sono stati definiti “moderni”?
Meditazioni barocche: la trista consapevolezza
di Sergio Beltramo

La conoscenza è tutto fuorché organica: si conoscono ormai meccanismi vertiginosamente specifici di alcuni campi del sapere, ma il bandolo della matassa, l’insieme e il suo senso ci sfugge più che mai. Eppure il livello dei saperi tradizionali ha cagionato delle trasformazioni psichiche di enorme portata. C’è una nuova “trista” consapevolezza: nell’arco dei fatti, fra i suoi estremi segnati all’infinito dall’estremamente piccolo e dall’estremamente grande, il nostro spazio di percezione è per sua natura mediano, è una minuscola frazione, quella più o meno della fisica meccanica…
IL VORTICE (note sui Viceré)
di Antonio Moresco
Ho incontrato tardi I viceré, scoraggiato da ciò che mi capitava di leggere intorno a questo romanzo nelle storie e nei dizionari della letteratura, dove viene in genere liquidato come esempio illustre del naturalismo italiano di fine Ottocento e si mette l’accento soprattutto sulla sua capacità di essere specchio dei cambiamenti storico-politici dell’Italia del tempo.
Libertà obbligata
di Luciano Coen e Achille Varzi
«Laura? Ciao, sono io. Sono appena arrivato. Ti richiamo dopo con calma, quando torni dal lavoro. Ti lascio un messaggio giusto per dirti che il viaggio è andato bene e che anche l’albergo è più che dignitoso. La camera è ampia e luminosa, e ben arredata. Peccato solo che i suoni rimbombino un po’ (sento l’eco della mia voce), ma pazienza. Ho disfatto i bagagli e adesso mi faccio una doccia, poi esco a fare due passi ed esplorare i dintorni. Nel breve percorso dalla stazione ho già avuto modo di vedere il meraviglioso Parco che si estende a Est e la spiaggia che si apre a Ovest sull’Oceano infinito. Questa Finis Terrae sembra proprio una località magica, come diceva la guida. Già pregusto le giornate di meritato riposo che mi attendono.»
Racconto espiatorio in morte del padre
di Fabio Santopietro

Da bambino si affacciava al belvedere della chiesa dedicata al patrono san Bartolomeo incantato dal panorama.
A perdita d’occhio, l’inconcepibile ma dolce distesa dei colli; sulla cima di molti di quei colli i paesi; qua e là, lungo la costa dei colli al di sotto dei paesi le cascine sparse, una vasta distesa che si spalancava davanti ai suoi occhi con l’onnipotenza di una divinità, per spingersi fino ai piedi delle montagne, ben visibili nei giorni tersi. Guardando quella distesa, che nell’estrema lontananza lasciava intuire la sua sfericità, da bambino pensava sbalordito alle dimensioni della terra, e quella che in realtà non era altro che una minuscola porzione del pianeta gli sembrava rappresentarne non solo la totalità, ma addirittura qualcosa di ancora più vasto e immenso di quella totalità impossibile da abbracciare e che a lui non era dato di vedere altrimenti che con l’immaginazione.
Appunti indiani #4
di Sergio La Chiusa
Per accedere al tempio, qui a Guruvayur, gli uomini devono sfilarsi la maglia o la camicia, mostrarsi al Dio a torso nudo. Penso al duomo di Milano, dove il controllore di turno, davanti al portone di bronzo, verifica che tutte le spalle siano ben coperte. In entrambi i casi si tratta, dicono gli amministratori del culto, di una forma di rispetto dovuta all’unico Dio.
Da “Stanze camere e vetrine”
di Marco Mantello

Candido 1984
Mi sono rotto, fratellone
di essere una Bburago o una Ferrari
che la devi caricare con lo spago
perché prenda la sua direzione.
Appunti indiani #3
di Sergio La Chiusa
Il Kerala è uno strano paese. Qui ridondanti templi indù convivono con moschee islamiche e con esili chiese cattoliche dai colori pastello, in disaccordo con la rigogliosa vegetazione tropicale. Qui si trovano perfino rare sinagoghe. Qui le immagini di Shiva nelle sue diverse forme si alternano a quelle di un dolente Gesù Cristo, e non è raro trovarli l’uno accanto all’altro, Shiva e Gesù Cristo, a contendersi la sovrintendenza di una stanza d’albergo. Qui, di tanto in tanto, si vedono perfino sventolare bandiere rosse con falce e martello. Qui la modernità sembra avere spazzato via un po’ di miseria. Qui l’India sembra essere scesa a patti con il mondo.
Appunti indiani #2
di Sergio La Chiusa
In India dobbiamo mettere da parte il nostro linguaggio verbale e corporeo. Il nostro codice di segni qui non ha significato. Sono altri i gesti e altri i significati ad essi correlati. Basta pensare a quel dondolio della testa comune a tutti gli indiani, tanto a quelli del nord come a quelli del sud. Si direbbe che le teste degli indiani non siano ben avvitate sul collo, a vederle dondolare a quel modo, docilmente, da destra a sinistra e viceversa, con quel movimento ondulatorio e un po’ enigmatico, da bambole eternamente sorridenti, che è un segno d’assenso e un benvenuto e una dimostrazione di gratitudine e molte altre cose ancora. Un gesto dolce e impensabile per noi.
Appunti indiani #1
(note da un viaggio nell’India del sud)
di Sergio La Chiusa
L’India mi dà il benvenuto con la sua moltitudine che afferra la gola. Fuori dall’aeroporto di Chennai si è accalcata una folla immensa, compressa sotto la pensilina al riparo dall’acquazzone. Sono quasi tutti immobili; impediti nei movimenti, attendono che spiova con una pazienza così naturale che – mi pare – potrebbe trattenerli lì per l’intera stagione monsonica. Sulla strada, sotto il diluvio, un ingorgo di taxi ammaccati, di autorisciò giallo neri che danno fiato ai clacson, cercano clienti. Mi insinuo in un varco che si è creato tra due corpi e qui, in una nicchia d’aria, occupo il mio posto di statua avventizia, esotica, in questa architettura vivente. Respiro per la prima volta l’aria dell’India; la sento anzi appiccicarsi alla faccia, una specie di ragnatela invisibile, che non capisco se è polvere o il volo inebetito di migliaia di microscopici insetti.
In appoggio al gesto di Agamben
di Carla Benedetti

“Vi sono soglie nel controllo e nella manipolazione dei corpi, il cui oltrepassamento segna una nuova condizione biopolitica globale” –
scrive Giorgio Agamben in un articolo uscito su “Repubblica” dell’8 gennaio.
Gli alfabeti dello spazio
di Giorgio Vasta
Falso inizio
Dal treno, rallentando, oltre il finestrino rigato del mio scompartimento, entrando nella stazione di Zugo, attraverso la parete di vetro di una palazzina moderna (ricorderebbe – ed è probabile che sia una sua diretta discendente, nella concezione vetro-cemento-metallo – la Heidi Weber Haus di Le Corbusier, che sta poco più in là, a Zurigo), vedo, frammentati, scomposti dalle lame strette orizzontali delle tapparelle, ognuno vestito di colori diversi (riconosco il verde, del rosso, del blu), un gruppo di sei sette persone. Sono disposte in un cerchio allungato, un’ellisse, sono leggermente sollevati dalle sedie (tranne che per queste sedie la stanza appare vuota), come si stessero alzando lentamente (proprio al ralenti), tutti insieme. Tengono le braccia sollevate come fossero ali, inarcandosi (questo movimento di inarcamento di spalle e braccia, oltre ad alludere al volo ha anche qualcosa dell’immergersi – sembra di assistere a un tuffo pensoso). Più alto degli altri un uomo biondo, con i baffetti e una lieve peluria sul viso, bionda anch’essa, magro ma solido, si inarca e si innalza sopra i suoi allievi (suppongo siano i suoi allievi, per come guardano, per come restano, nella riproduzione del gesto, qualche millimetro indietro rispetto al maestro), con maggiore compenetrazione, con gli occhi socchiusi, e guarda in alto, estatico: probabilmente è il capostormo di questa nidiata di svizzeri volanti.
L’ARTISTA PENSATORE (lettura della “Macchina mondiale” di Volponi)
di Antonio Moresco

Trascrivo qui alcuni appunti, sviluppati poi a braccio in un incontro su Paolo Volponi che si è tenuto a Cagli il 28 novembre del 2003.
Vi ringrazio per avermi dato il pretesto di andarmi a rileggere dopo molti anni “La macchina mondiale”, che avevo incontrato per la prima volta a 18 anni e di cui ho ancora in casa il volume Garzanti comperato allora. C’è scritto: “Prima edizione, marzo 1965”. Perciò non a 18 anni ma a 17, dato che sono nato alla fine di ottobre. Prezzo: 1800 lire. Meno di 1 Euro di adesso.
Riforme – Riformismo
di Bruno Bongiovanni
Il concetto di riforma non è esente da ambiguità che sono forse accentuate dal monismo lessicale che c’è, in questo caso, nella lingua italiana. In altre lingue vi sono due diversi termini (in inglese reform e reformation, in francese réforme e réformation, in tedesco Reform e Reformation). Sono termini intercambiabili quando vengono utilizzati nel significato ampio e generale di “miglioramento”. Più in particolare, però, in inglese, reform designa il tentativo di correggere pratiche corrotte, eliminare abusi e promuovere cambiamenti in primo luogo sul piano politico e legislativo, mentre reformation viene preferito in ambito morale e religioso (e usato, soprattutto, per indicare la Riforma protestante). Con il termine “rivoluzione”, sorto in ambito religioso e diffusosi in ambito astronomico, “riforma” ha dunque in comune il significato originario, e paradossale se si pensa all’uso corrente, di ritorno al punto di partenza. Vi è però una differenza. Con la “rivoluzione” si torna al punto di partenza per vie “naturali” e prefissate – la creatura che torna al creatore, un corpo celeste che compie un’orbita per ritrovarsi là dov’era – mentre la “riforma” è artificiale e volontaria: viene cioè effettuata dai riformatori per cancellare i deragliamenti subìti dalle istituzioni civili ed ecclesiastiche.
Traiettorie dell’anticomunismo
di Bruno Bongiovanni
L’anticomunismo è un fenomeno che ha certo un cuore antico. Ha tuttavia avuto tante anime. Ed è stato declinato, nel corso del tempo, in modi storicamente e concettualmente diversi. Non va d’altronde passato sotto silenzio il fatto che, allo stato attuale delle conoscenze, il termine comunismo è comparso per la prima volta nel 1569, in ambito religioso, e in lingua latina, come atto d’accusa, e quindi con significato negativo, contro la setta protestante dei fratelli moravi. Questi ultimi, a quel che sosteneva l’anonimo anabattista anticomunitario che per primo produsse, proprio contro di loro, il termine “comunisti”, pretendevano, mettendo in comune i beni, di trasformare la vita quotidiana in vita conventuale. Annullavano così, a suo dire, la necessaria distanza tra esistenza laicale ed esistenza monastica. Alle origini della sua accidentatissima vicenda semantica, il comunismo germinò dunque da un’evidente intenzionalità anticomunista. Si può così quasi dire che il sospettoso anticomunismo sia nato prima del paventato comunismo.
Il poema del disoccupato
di Gianluca Gigliozzi

Gli ultimi studi, sociologici o in forma d’inchiesta giornalistica, circa la vita quotidiana del disoccupato italiano in questo scorcio di millennio, nonostante la scrupolosità delle osservazioni e l’attendibilità delle statistiche, forniscono un quadro o troppo grigio o troppo nero della situazione, indugiando eccessivamente, a nostro modesto avviso, su una sequenza significativa di dati reali, quali potrebbero elencarsi come: aumento dell’apatia, innalzamento del coefficiente di irritabilità individuale, ora tarda del risveglio, aumento del numero medio giornaliero di sbadigli, in taluni casi aumento dell’attività sportiva e delle letture manualistiche (specie le guide alla Pesca e al Giardinaggio), ma anche indebolimento progressivo del sistema immunitario; ancora, in taluni casi diminuzione sensibile della volontà di vivere relazioni sociali mature, in talaltri casi, in sensibile incremento, diminuzione della volontà di vivere;
L’idea di equilibrio
di Andrea Falegnami
{Sangue dal naso, cavatappi, catastrofi, adolescenza. Gente prima non c’è e un attimo dopo c’è, gente che manca da un momento all’altro, gentaccia che mena le mani, persone che ti danno una lezione, lezioni che vengono impartite da nessuno…}
Dopo tutto è pur sempre una storia…
[Da dove comincio? Be’ vediamo alcune tipologie d’incipit:
a. Immissione in media res; vi spiattello là per là una frase, tipo: “A Marco cominciò a sanguinare il naso solo al terzo pugno ricevuto” che voi sicuro già vi figurate Marco che fissa lo Zenith, coi tamponi emostatici nelle froge, a loro volta premute dalle sue mani incapaci di difenderlo ed io comodamente vi ho portato dentro la storia, sta a me poi farvici rimanere;
b. Presentazione immediata d’un personaggio: “Marco ha quindici anni e gli occhi neri e almeno fino ad oggi, non ha mai avuto bisogno di menare le mani in vita sua”;
tuttavia la mia preferita resta sempre la:
c. Presentazione d’una situazione banale e tranquilla, il che lascia supporre che di lì a poco si verificherà l’evento perturbatore, la Catastrofe.
Una catastrofe, nel senso più ampio che René Thom [[il fondatore della teoria delle catastrofi]] attribuisce a questo termine, è una transizione discontinua qualsiasi che si verifica quando un sistema dispone di più di uno stato stabile, o può seguire più di un cammino stabile di trasformazione. Chiaro, no?
Capodanno in piazza
di Diego de Silva
Il presentatore arrivò che stavano ancora montando il palcoscenico. Nella piazza deserta, il vento aveva rovesciato un cassonetto della spazzatura. I rifiuti più pesanti rotolavano. Il presentatore veniva a piedi dalla stazione con il trolley, offeso per non aver trovato nessuno dell’organizzazione ad aspettarlo. Eppure aveva comunicato l’ora esatta del suo arrivo. Avrebbe rinfacciato questa grave mancanza, di sicuro.
Uno solo si voltò, e trovandosi il vento in faccia contrasse le labbra in una smorfia che sembrò un sorriso. Il presentatore allora pensò che l’avesse riconosciuto, e si tirò su nelle spalle.
Andò fin sotto il palco, schiacciandosi i capelli radi con la mano. Parcheggiò il trolley accanto a sè e alzò la testa in direzione di due operai che in quel momento stavano inchiodando una moquette rossastra sulle assi di legno.
– Scusate – disse alzando un po’ la voce per farsi sentire, – c’è qualcuno dell’organizzazione?
Contro Carver
Appunti per un requiem sul post-minimalismo
di Alberto Bogo
Sono allergico a Carver. Non tanto ai suoi libri (o ai libri del “prodotto Carver”, visto l´apporto consistente del suo editor), ma dei suoi figli illegittimi. Dello svarione che hanno preso tanti “giovani scrittori”. Carver è un prodotto semplice, non tanto nell’imitazione pedissequa, ma nelle sue infinite declinazioni, delle sue varianti parziali, delle parodie involontarie.
Ci sono una serie di piccoli editori che rovinano schiere di potenziali scrittori dandogli in pasto il kit del bravo minimalista. Il kit comprende una lista di scrittori con in cima Carver, storie superficiali di periferia, racconti di formazione senza epica, il nulla impacchettato a modernità. Nascono così contraffattori della letteratura, taiwanesi della parola, cinesi della narrativa.
Dante vs Carver. Una parodia
di Alberto Bogo

Mi trovavo a metà strada, circa verso i quaranta. Avevo appena divorziato da Linda Bully, mi stavo recando dal mio amico Jimmy Wait. Mi sono accorto che mi ero perso. Il vialetto era lì in fondo, ne ero sicuro. Vedevo la luce di un televisore, era estate. Intorno adesso avevo solo alberi e buio, non so cosa avessi in testa in quel periodo. Forse ero semplicemente fuori rotta, certo che quella strada era davvero brutta. Mi vengono i brividi solo a pensarci, mi sembrava di stare in un cimitero. Andare da Jimmy altre volte non mi era sembrato poi così male.
