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Nove tentativi di vivere il proprio tempo

di Christian Raimo

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Nel maggio di qualche anno fa alle nove di mattina stavo sognando di passeggiare a via dei Salè a Frascati, dove all’uscita di un bar m’imbattevo in Mathias Rust, il tizio che nell’85 atterrò con un Cessna sulla Piazza Rossa. Lui mi riraccontava tutta la storia e poi si buttava ai miei piedi piangendo: mi confessava che non poteva più essere il mio eroe, perché quel gesto l’aveva compiuto soltanto per via di una scommessa segreta che Gorbaciov aveva fatto con Reagan. Che scommessa?, chiedevo, ma immediatamente nel sogno ero richiamato dal suono di una sirena da fabbrica che era nella realtà lo squillo del mio telefono di casa che mi restituiva testa e corpo al mondo. Una ragazza dell’istituto di pedagogia della Sapienza stava seguendo una ricerca statistica sulla dispersione universitaria e mi chiedeva d’amblè se ero felice di quello che facevo, che aspettative avevo per il futuro, e come mi sarebbe piaciuto riorganizzare l’università se avessi potuto. Avevo ventidue anni e mi trascinavo da mesi l’esame di Storia della Filosofia Morale, dovevo consegnare una tesina su On Liberty di Mill, che mi ero convinto di scrivere in terzine dantesche.

Ma anche quella mattina mi ero alzato troppo tardi per l’orario di ricevimento, e come ripiego mi ero risolto a smaltire un po’ di ore di una borsa di collaborazione. Quale parte eletta di quella generazione di amanuensi postmoderni che, a comodo uso degli uomini futuri, negli anni ’90 ha trasformato sesquipedali masse cartacee in infinite linee di zeri e uni, digitando ore su ore, quella mattina avevo codificato una quarantina di pagine della Luna e i falò. All’una ero uscito da quella silenziosa stanza-bunker e mi ero infilato cappella universitaria, spazio di un’afonia ancora più assoluta, e mi ero messo a pregare nell’abside. Sapevo pregare molto meglio allora perché avevo capito che l’unica condizione necessaria alla preghiera è inginocchiarsi e stare fermi almeno cinque minuti. Poi ero riemerso dalla chiesa al mondo fornito di audio, avevo preso il 310 ed ero andato a Villa Mirafiori, la sede staccata di filosofia sulla Nomentana. Avrei trascorso un altro pomeriggio a cercare qualcosa che accomunasse me e le altre facce che vedevo ogni giorno ordinare orzi in tazza grande al bar, ma una lettrice di inglese che conoscevo (una ragazza impercettibilmente strabica, con gli occhi come vibratili verso due fuochi diversi) mi aveva fermato con le dite strette a gancio sul mio polso e mi aveva chiesto: “Ma tu hai sentito ‘sta storia che hanno sparato a una tizia alla città universitaria?”

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Non puoi fare altro che guardare in alto. Verso i tetti dove la televisione ti ha detto che sono stati piazzati poliziotti in borghese per garantire la tua sicurezza. Non puoi fare altro che cercare piccole sagome nere schermandoti il sole dagli occhi. Non puoi fare altro che cercare dei volti dagli occhi abissali dietro gli scuri delle finestre, seguire con il filo dello sguardo i cornicioni fregiati di tutte le scritte fasciste che dicono che il sapere è il compito dell’uomo, e che la storia ci sovrasta. Non puoi che camminare annusando l’aria, com’è l’odore di polvere da sparo?, tastando la consistenza dell’aria, ripassando le tue poche conoscenze di fisica sulle traiettorie dei gravi, qual è la formula della parabola? Non puoi fare altro che attraversare i vialetti interni tra Giurisprudenza e Geologia, indossando il casco del motorino, come uno mascherato in fretta da Robocop per carnevale; scrutare attraverso la visiera il labiale di chi sembra non essere colpito da questo senso di esposizione devastante e totale. Non puoi evitare di andare al funerale, nonostante i volantini che i collettivi di Lettere distribuiscono contro la strumentalizzazione della morte. Non puoi che partecipare al rito collettivo, sperare di ricavarne una catarsi momentanea, quanto basta per sentirti per un pomeriggio parte di qualcosa, di un’elaborazione di un lutto, finalmente.

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Ogni volta, per settimane di un giugno e luglio che mi parevano interminabili, prendevo la fm3 e andavo fino a Monte Mario per un cazzo di ragazzino a cui dovevo dare ripetizioni per la maturità per diciottomila a ora e lui il più delle volte non si faceva trovare a casa, ricompariva con ritardi oceanici manifestamente reduce da pomeriggi di canne e sperimentazioni sessuali, e io nell’attesa dovevo parlare sempre con la madre a rassicurarla sull’intelligenza naturale di suo figlio e affrontare i casi di cronaca di cui lei era informata nei dettagli, passando la propria vita praticamente sospesa in zone-temporaneamente-autonome quali sale d’aspetto di parrucchieri, dentisti, psicologi, e cioè dover in pratica subire le sue convinzioni inscalfibili riguardo la faccenda di questi due tizi arrestati, due tizi che lei conosceva bene, non di persona beninteso, ma per la tipologia di persone che erano, perché lei, oggi no ovviamente, ma fino a qualche anno fa, frequentava un fiume di queste feste, dove si tira di coca come se si prendessero tartine, e tutti si muovono in continuazione, oscillano come metronomi, tipi che ti salutano bacieabbracci e mezzo minuto dopo sembra non riescano più nemmeno a metterti a fuoco, e scrocchiano la mandibola e tirano su col naso in maniera compulsiva, ed è per que-sto-che-io-di coca al massimo chessò una decina di volte al massimo, per il rigetto che m’hanno fatto questi scatti, e io ti dico, ascolta, io-ti-di-co: secondo me quei due ce li hanno dei tic del genere magari pure in pubblico, delle robe che c’hanno solo i cocainomani non ti puoi sbagliare, solo che non li trasmettono in televisione no, sennò li condannerebbero subito, non ci credi? perché tanto tu non lo sai come va a finire ‘sto processo, lo so io, lo so, come tutti gli altri processi in Italia, li assolvono e poi magari si candidano in qualche partito, non hai visto che c’hanno già le fan che gli scrivono le lettere, le hai viste quelle che gli andavano sotto alla finestra coi cartelli?

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Da dove è presa la frase sottolineata sull’agenda dell’imputato: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta”?

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cara vero, non succede niente di nuovo qui, d’altronde lo diceva già flaiano, come una sentenza, venti forse quaranta anni fa, chiacchierando coi suoi amici di parigi, “e allora che succede a roma?” “a roma, niente”, e cosi’ qualsiasi minima effrazione al giornale dei programmi appare come un evento macroscopico. insomma ecco, come chiedevi “quello che succede in italia”, il tuo racconto garantito come minimo sindacale di una lettera. nel giro di due giorni, come catapultati dal mio immaginario adolescenziale all’interno del mio angolo visuale ho visto due facce distanti anni luce ma che tutte e due mai avrei creduto tridimensionali. prima faccia: nell’università dello sbando e della libera iniziativa, ognuno pare organizzare corsi e moduli come cazzo gli gira, il che per una serie di casi messi uno sopra all’altro può dimostrarsi una gran trovata. e questo seminario sulla narrazione orale è strepitoso: capire come costruiscono i racconti i vecchi prendendo spunto dalla critica della ragion pura mi sembra il simbolo di tutto ciò che chiedevo invano in tutti questi anni. mentre il tipo faceva lezione hanno bussato, e la faccia che si è appunto affacciata era quella di s-i-l-v-i-a b-a-r-a-l-d-i-n-i. già. dopo un secondo nessuno ha guardato più lei, ma si sono tutti guardati a vicenda, come in cortocircuito. un istante dopo abbiamo applaudito, applaudito sì, credo al semplice fatto che lei fosse viva. era lì perché alcuni testi che usiamo li ha tradotti lei, ed era venuta perché voleva assistere a una performance di una tizia americana che si è fatta la sera. se la prima faccia mi ha fatto andare a casa con la sensazione di aver avuto una visione, la seconda non riesco ancora a capire che effetto mi fa. sono andato a fare un intervento in casa editrice dove per pagare l’affitto dell’ufficio si sono messi a fare corsi di editing. entro e tra i dodici che seguono vedo uno che non riesco a mettere a fuoco chi cazzo è, dove l’ho visto. no tra i miei amici perché lui non sembra conoscermi, in una fiction?, in un film?, dove? lo fisso come un maniaco per tutta la lezione, provo a ricavarlo da quello che dice, ma zero di evocativo: fa qualche battuta, osservazioni manco stupide sui racconti, dove l’ho visto dove l’ho visto, e niente. finisce la cosa, lo saluto, non riesco a chiederglielo. esce, e gianluca mi fa: allora come è fare lezione a un assassino, anzi manco a un assassino, a un reggipistola?, e allora collego tutto: cazzo l’ho visto a mille processi in tv!, c’ho la puntata registrata del “delitto dell’università”, ti ricordi la ricostruzione che aveva fatto augias? e invece non avevo realizzato. gli ho detto a gianluca: merda è vero, ma è completamente diverso da come l’aspettavo. pensavo fosse uno alto, sicuro di sé, fighetto, fascistello, ma che cazzo gliene frega di un corso di editing?

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Seconda traccia. Il candidato, avendo attentamente seguito la vicenda processuale attraverso l’intensa copertura giornalistica e televisiva, e alla luce della propria esperienza personale maturata nell’ultimo decennio di vita italiana, rielabori l’analisi di Pierre Bordieu sul rapporto di interpenetrazione che connette indagini e processi con la loro rappresentazione mediatica, concentrandosi in particolare sulle proiezioni e pressioni del “campo” giornalistico su quello giuridico e viceversa.

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Sì me la sono cercata la verità, vagliata e disaminata senza tregua di sguardo in sguardo, sono un lombrosiano è vero ma degli occhi, ho fissato in incanti da idiota quelli marroni e larghi del giudice, quelli centripeti dei condannati che chiedono indiscutibilmente qualcosa, forse solo credito, forse addirittura comunione, e di ogni movimento oculare ho studiato la frequenza del tremore, e poi ho considerato tutte cose che anche nello schermo più spudorato non trovano spazio, la camminata coi piedi allargati, le gengive accentuate che coprono parte dei denti, la densità del cuoio capelluto, mi sono assorbito, come fossi la valvola di sfogo del fumo della cronaca, le bibliografie ridondanti, le immagini al ralenti dei filmati in cd-rom, trascrizioni millimetriche degli interrogatori, perché avevo fame, perché non pensavo che a guardare in faccia qualcuno si avesse paura di perdersi invece di trovare un appoggio, perché non avevo immaginato che la profondità della terra non è che un’infinità di superfici, e alla fine che cosa ho ricavato? ci credo o no che sono stati loro? giuro, come è ovvio, che non ho altri fondamenti che l’innocenza presunta e il dimostrabile peccato di chiunque.

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selezioniamo la canzone che ci interessa imparare a suonare e spingiamo questo tasto.. quello che inizia male di solito finisce bene, per cui devi immaginarti una vita con me.. se vuoi ricevere il mio calendario con dedica.. l’uso tra virgolette della tecnica non è un uso strumentale fine a se stesso.. com’è buffa la vita, l’ultima volta che ti ho vista speravo tanto che fosse un sogno, e ora spero tanto che non lo sia.. rispettivamente ad anni sei per omicidio colposo, e a quattro e due per favoreggiamento, pene che gli imputati hanno già scontato in presofferto.. gli sfidanti per l’acquisizione della coppa America, a Aukland sono arrivati da tutte le parti del mondo..

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Questa mia non è una deposizione spontanea,
così come il piombo non si deposita di propria sponte
alla base della scatola del cranio.
Lei che è in buona fede continua ad affermare
che “bisognerebbe usare il beneficio d’inventario su questo tipo di vicende”,
dice, “indipendentemente da crederli colpevoli o innocenti”:
e sono cose esatte, ritagliate, ma, mi spiace,
non mi guarisce affatto.
Perché all’interno stesso di quel fragile equilibrio
tra paradosso e resa che è stata la scansione
dell’istante decisivo per quelli che ha di fronte,
c’era come inesimibile attrattiva
quella di un conflitto con due fronti definiti
tra cui scegliersi la patria, la donna e gli animali.
Ma siccome è il tempo che scardina ogni mano
per quanto sia serrata, e la ripone su un’arma senza carica
o una pistola troppo usata, il lavorio operato dall’attrito della storia
è stato elidere ogni traccia di ragione
dal colpo che ha lasciato intatto il cuore,
e ha freddato l’aria stessa.
E allora io le chiederei semplicemente:
secondo lei, come ci si sente
a guardare un cielo in cerca di movente?

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Precedentemente pubblicato su Accattone – Cronache Romane

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3 Commenti

  1. Ah, ecco. sono passati anni e io ancora non riesco a rimuovere quel fatto rimosso. c’eri pure tu, nella stanzetta calda della minimum, altre undici persone, il gran capo e quel tizio, quello che non poteva, no, non era vero che era lui. che tristezza infinita tra le tristezze sapere che quei giorni sono serviti a pagare un affitto, per pagare un affitto siamo dovuti stare in compagnia di un tale che non potevi neppure dire che non fosse intelligente, acuto. poi c’era il tuo racconto, quello su un vecchio con un nome biblico, che forse non hai mai cambiato. e mai abbiamo saputo se te lo avessero pubblicato, con i nostri suggerimenti irritanti o senza. mi ricordo che faceva un caldo schifoso, c’erano delle bambine reduci da un campionato di nuoto al ristorante dove mangiammo delle penne annegate nel sugo, tu avevi una faccia tipo : ma vedi te che si deve fare nella vita, stare al tavolo a parlare con delle tizie che fanno delle domande del cavolo. che strano ricordo. bah. mi ha fatto piacere leggere queste tue note, perchè l’avvenimento mi era rimasto dentro e si era inserito come una spina di quelle che non le estrai e poi ti resta nella carne e non sapresti dire che giro ha fatto. da allora ho letto certi tuoi articoli, recensioni, e i tuoi racconti, e la tua scrittura non mi è antipatica come mi fosti antipatico tu. sei bravo, scrivi bene. è interessante leggerti. ciao.

  2. daniela, anche questo che ho scritto è fiction e non fiction mischiato. il senso del mio sguardo su quella vicenda così mediatica era proprio cercare un cortocircuito. quello che dico sui corsi, gli affitti, e sul tale gianluca (che non esiste) è inventato. era una voce sprezzante, o quantomeno disincantata che mi interessava. il libro (e con tutti i vostri suggerimenti) c’è da oggi pare in libreria.
    ti dico questa cosa: sottoporre qualcosa al giudizio attento di dieci persone è una cosa che a me da un gusto quasi come le attenzioni di mia madre da bambino.
    per il resto, mi sa che non sono così antipatico né così intelligente. ciao, stai bene, christian

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