Il balletto degli operai flessibili

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  di Andrea Bajani

In ventotto anni Julia ha cambiato tre posti di lavoro. Dal 78 all’85 alla Fiat di Torino, dall’85 al 93 alla Sepi di Robassomero, e dal 93 a oggi alla Lear di Grugliasco. Ventotto anni, tre aziende, eppure sempre lo stesso lavoro: sellatura per le vetture Fiat. Dal 78 a oggi ha continuato a iterare un identico movimento, mantenendo un’identica postura, svolgendo un’identica mansione.

Solo, ogni tanto le hanno fatto cambiare casacca e padrone, per poi rimetterla in catena a rivestire sedili. È così che funziona,  è il diktat della flessibilità, che qui veste gli abiti dell’esternalizzazione: perché fare direttamente qualcosa che si può far fare ad altri spendendo e rischiando di meno? È il trionfo della leggerezza: perché caricarsi di tante zavorre quando è meglio avere valige snelle da tenere accanto alla porta in caso d’emergenza? Entrata in Fiat nel 78, Julia Vermena, classe 1959 e delegata Fiom, appartiene a quei 23mila parcheggiati in cassa integrazione dopo la “Marcia dei quarantamila” dell’ottobre 1980. Quella è storia tristemente nota, una delle pagine cupe del movimento operaio e della storia del sindacato italiano. Dopo l’annuncio da parte di Fiat di quindicimila licenziamenti, e i lunghi scioperi che ne seguirono, migliaia di “colletti bianchi” scesero in piazza contro il sindacato. Risultato: 23 mila cassintegrati, tra i quali Julia.

E così Julia, che aveva cominciato a rivestire sedili nel 78, per cinque anni se ne sta ai box, pronta a ripartire. Cosa che fa nel 1985: e riprende il movimento dove l’aveva lasciato, termina di rivestire il sedile che aveva abbandonato in catena. Solo, non più a Mirafiori. Fiat compra un capannone abbandonato nella campagna di Robassomero e mette in piedi un’Unità Produttiva Accessoristica (UPA). Comincia a dar fuori parte della produzione accessoria. E, tra gli accessori, a Robassomero, ci mette anche le persone non desiderate: “Li chiamavamo ‘Centri di rieducazione’, allora. Era un posto in cui mandavano sindacalizzati, invalidi, e più in generale tutti quelli che non volevano a Mirafiori”. È il diktat della flessibilità, dell’esternalizzazione: perché tenersi in casa delle teste calde quando è più conveniente metterle tutte insieme in un deposito fuori mano? Insomma, è il 1985, i livelli di sciopero all’UPA di Robassomero sono inevitabilmente alti, e Julia, lì dentro, continua a occuparsi di sedili. E il suo padrone, per dirla alla vecchia maniera, è ancora la Fiat.

Ma dura poco. Un paio d’anni, infatti, e gli operai di Robassomero, senza troppo distrarsi dalla catena, e senza smettere di sellare il sellabile, vedono due persone che si stringono la mano. Una stretta di mano, e cambia il padrone. Ma non sono cose che li riguardino, queste. Son cose che avvengono molto al di sopra delle loro teste. Loro, e tra loro Julia, devono occuparsi di rendere confortevole il sedile. E loro di questo si occupano. E tra una sellatura e l’altra, il loro padrone non si chiama più Fiat ma Sepi. È la prima delocalizzazione della Fiat, che decide di appaltare a a una ditta esterna la sellatura dei sedili. E già che c’è gli appalta pure le teste calde. Cambia l’insegna qua fuori, ma voi continuate a sorridere come prima. E così gli anni passano, gli operai sellano, e ci si abitua anche ai nuovi padroni. Sotto le loro mani, in quegli anni, passano sedili e poggiatesta della Uno e della Lancia Thema. Gli anni 80 si consumano, gli operai della Sepi continuano a sellare, e nel frattempo gli Stati Uniti, che avevano liberato l’Italia nel 45, all’inizio degli anni Novanta vengono a riprendersela. È il 1992, e in Italia si affaccia la Lear, colosso statunitense leader negli interni auto. Mette un piede in Italia e tenta di comprare tutto quanto è legato agli interni auto. Come in Italia così nel resto del mondo. Ovunque ci sia un’azienda che produce automobili, lì accanto Lear si compra un capannone e ci mette dentro della gente che produca gli interni. Che sia Fiat, che sia Volvo, che sia Wolswagen o Audi, la Lear ha capito che le aziende non ne vogliono sapere, di farsi le cose da sole. È il trionfo dell’epoca della fornitura. Non devi occuparti di nulla, ce ne occupiamo noi. Così la Lear arriva imperiosamente in Italia. È il diktat della flessibilità: prendi una multinazione americana e vendigli tutto. Che con gli americani si fan sempre dei gran begli affari. Detto fatto.

Un passo indietro, però. Gli operai della Sepi, e tra loro Julia, li avevamo lasciati a sellare sedili per la Fiat. Nuovo padrone e stessa mansione. La Sepi di Robassomero funziona bene, e in qualche modo ci si è anche un po’ dimenticati della logica della rieducazione delle teste calde. Fiat le ha date via, in ogni caso, e dunque non è più un problema che la riguardi. Adesso eventualmente sarebbe un problema di Sepi. Ma ancora per poco, perché in Italia arriva Lear. E Lear quando arriva, compra tutto quello che può. Gli americani la fanno così la liberazione: liberano gli altri del lavoro che hanno. È il 1993, e lo stabilimento della Sepi di Orbassano chiude i battenti per riaprire negli stabilimenti dell’ex Sicam di Grugliasco. Solo, nel passaggio ci perde anche il nome: la Sepi diventa Lear. Gli operai per qualche tempo restano a Orbassano. Poi vengono caricati a portati tutti a Grugliasco.

È un deja vu: si cambia di nuovo casacca. Prima dipendente Fiat, poi dipendete Sepi, Julia diventa (e come lei tutti gli altri lavoratori della Sepi) dipendente Lear. Cambia padrone, e questa volta però ci guadagna l’esotismo di un padrone a stelle e strisce. La mansione, sempre la stessa. In realtà non è esatto, dire che la mansione è sempre la stessa. Per sei anni, infatti, cambia. Nel 1993 infatti la Lear decide di abbandonare la sellatura e buttarsi sulla saldatura. Detto fatto: da sellatori, i lavoratori ex Fiat ex Sepi devono convertirsi in saldatori. Un po’ di corsi di formazione, come si conviene, e i sellatori son tutti diventati saldatori. È il diktat della flessibilità: non essere rigido, fai quello che serve che tu faccia. Prima tutti a destra, ora tutti a sinistra: il balletto degli operai flessibili. Ma ci si accorge presto che la saldatura rende poco, e così nel 99 Lear decide di tornare alla sellatura, che rende di più. Da sinistra, ora di nuovo tutti a destra. E così, con la nuova casacca d’oltreoceano, Julia ritorno a sellare sedili fino ad oggi. Pur cambiando datore di lavoro, negli anni Julia veste i sedili delle auto che hanno fatto la storia del nostro paese negli ultimi trent’anni: Fiat 127, 131, 132, 130 (1978-80), Fiat Uno e Lancia Thema (1985, 1993), Fiat Multipla, Punto, Idea, Musa, Lybra (1993-2006).

E siamo all’oggi. Che dietro ci sia Sepi, che ci sia Lear, il vero padrone resta però sempre la Fiat. E’ il trionfo della fornitura: perché mai fare le cose direttamente quando si possono far fare ad altri con minor costo e meno rischi? Dal primo anello, il diktat della fornitura, giunge fino all’ultimo, al più debole. Fiat dà da fare i sedili alla Lear, piuttosto che farseli. Ci ha già provato e ha visto che non le conviene. E questo è il primo passaggio. Alla Lear si vive alla giornata, di conseguenza, calibrando la produzione sulla base delle richieste che Fiat fa giorno per giorno. “Dal momento in cui Fiat comunica i volumi per la giornata, abbiamo tre ore di tempo per produrre”, mi dice Julia. Tutto deve filare in maniera impeccabile. Se qualcosa si inceppa alla Fiat, il tutto ricade a valanga sui fornitori: “un raffreddore alla Fiat diventa un’influenza da noi”. La rottura di un macchinario in Fiat può voler dire ore o giornate di cassaintegrazione alla Lear. È la logica della fornitura, cui non si sottrae nemmeno Lear. Secondo passaggio. Se Fiat si limita ad assemblare i pezzi dei veicoli prodotti nelle aziende satellitari, Lear non va così lontano: le aziende che concorrono a dare vita a un sedile Lear sono 58. Sono in 58 A produrre componenti per un unico sedile, dalle ossature alle spugne, dalle cinture di sicurezza alle fodere alle rondelle ai carter, etc. E dunque se si rompe un macchinario alla Fiat, la criticità diventa emergenza alla Lear e a catena su altre 58 aziende. E questo solo per restare nello stretto ambito del sedile. È il diktat della flessibilità, che consente di evitare le rigidità del sistema…

Ma non finisce qui, la catena delle forniture. Perché la Lear, oltre a dare all’esterno la produzione di alcuni componenti dei sedili, dà in appalto anche dei servizi interni. Alla Tnt affida parte della movimentazione interna, e la Tnt e sua volta la subappalta alla Marvig, una cooperativa specializzata. Lear appalta a Tnt che subappalta a Marvig. Perché fare direttamente le cose quando si possono delegare ad altri con costi inferiori e minori rischi? Risultato: “un carrellista dipendente della Lear può guadagnare 8 euro all’ora – mi dice Julia -, contro i 5,20 di un carrellista della Marvig. Che per di più non è un dipendente, ma un socio lavoratore della sua cooperativa, quindi sindacalmente poco difendibile. Questa catena mette in evidenza un metodo ben preciso: fare  costante manutenzione della precarietà altrui. È questo, uno dei miracoli della flessibilità. Solo organizzando la precarietà altrui, si possono dettare i prezzi. In italiano corrente, si chiama sistema ricattatorio. Che è come dire “Prima tutti a destra, ora tutti a sinistra” a persone che non possono fare altro che ballare, in barba al senso del ridicolo.

[ Pubblicato su l’Unità il 12 novembre 2006 ]

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6 Commenti

  1. bello perché non generico e attento all’avvicendarsi dei meccanismi secondo i quali si è fatto e si fa profitto usando la nuda vita altrui.
    oggi la “notizia” che da noi ci sono 100 morti al mese per incidenti sul lavoro: più o meno quanti ne fa il terrorismo in Irak.
    sembra incredibile, ma è così.
    se lo sguardo della sinistra si volge altrove, in cerca di consensi nel Grande Ripieno, la ferocia silenziosa e implicita del profitto riprende lena e fa le sue vittime nell’indifferenza di tutti.

  2. @tash
    Nel senso delle Badr Army guidate da Lord Marchionne? Mi sembra che alla grande conferenza di pace markettaro-sindacale, il Lord ha ottenuto un bel po’ di grano, per sé e i suoi famigli. Detto per scherzo, ma Julia a un certo punto non poteva cambiare lavoro?

  3. purtroppo la sinistra in realtà non esiste, è completamente assente dal discorso della difesa dei lavoratori. vi rendete conto che i partiti nati dal pci sono diventati o piccoli partiti elitari, con base borghese, o grandi partiti in cerca di una fottutta identità.
    si spendono tutte le energie politiche nel cercare di acaparrare consensi, dimenticando che un tempo erano l’espressione di un popolo, erano la speranza per chi viveva una vita difficile. è inutile che tentano di farci credere che le cose sono cambiate e che tutto veda meglio e che quindi è scomparso il proletariato, semplicemente sono scomparsi i suoi rappresentanti e oggi è più solo, più sfruttato e più sofferente di preima.

  4. @LC

    La sinistra ha perso, se intendiamo per sinistra l’intento di mettere gli interessi di tutti gli ultimi al centro dell’azione politica. Ciò è evidentemente impossibile alle nostre latitudini, mancando interessi di massa (o quantomeno la loro percezione) a che quanto sopra possa avvenire. Purtroppo (?) dalla propria storia non si esce con una capriola e la buona volontà rimane una (meritevole) patetica nicchia d’impotenza. Nessuno ha tradito, ma per ora la battaglia è perduta. Per la guerra non si può dire, ma noi non ci saremo.

  5. A proposito, Capezzone lunedì sera spiegava come si potrebbe aprire un’officina in una settimana. Oggi serve qualche mese, per far campare timbri, carte e papocchi.
    @Treno a Vapore
    Giusto quello che dici sulla “mancanza di percezione” degli interessi di massa della sinistra. Soprattutto quella con partita Iva.

  6. Leggiamo tutto, capiamo tutto, sappiamo tutto, cambiamo niente!
    > Treno a Vapore
    E’ possibile, legittima, una rilettura del marxismo ? O la “nostra storia” necessita assolutamente di una nuova visione economico-filosofica ?

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